[Pagina precedente]...nto per un andriè, madama;
Ma questo è un passatempo, lavorier non si chiama.
A casa i miei fratelli non mi fan stare in ozio;
Mi fan copiar le lettere di casa e del negozio.
E quando avrò imparato ben bene la scrittura,
Mi pagheranno, io spero, almen la mia fattura.
MAR.
Così pratiche in tutto le giovani diventano.
GIU.
Lo so che so far poco, ma in casa si contentano.
MAR.
Siete una maraviglia.
GIU.
Oh, cosa dite mai?
MAR.
Brava; le figlie savie non si lodano mai.
Lo senti, Carolina, che giovani son queste?
CAR.
Giovani virtuose e giovani modeste.
Io, che son forestiera, quando son qui arrivata,
Subito di tal cosa mi son maravigliata.
L'Olanda per le donne certo è una gran nazione;
Ma questo in lor deriva da buona educazione.
Questo non è paese, che spenda allegramente;
Ma per l'educazione non risparmia niente.
Piacemi assai quest'uso, che il genitor destina
I figli all'esercizio, cui la natura inclina;
E se un figliuolo maschio il discolo vuol fare,
Subito in una nave, a far giudizio in mare.
GIU.
Voi della nazion nostra buona opinione avete.
Ditemi, Carolina, di qual paese siete?
CAR.
Riflettendo, madama, al stil del mio paese,
Ho vergogna di dirlo. Ora sono olandese,
E in grazia ai buoni esempi della padrona amata,
In Leiden posso dire di essere rinata.
MAR.
Via, taci, Carolina; non mi far arrossire.
CAR.
Oh il vero, mia signora, certo lo voglio dire.
MAR.
Amiche, vorrei darvi qualche divertimento,
Proporzionato in parte al bel vostro talento.
Oggi in qualche maniera procurerò ingegnarmi,
Spero che a desinare starete ad onorarmi.
ELI.
Non so che dir, madama; le grazie accetterò.
FED.
A madama Marianna non si può dir di no.
MAR.
Madama vostra madre sarà contenta, io spero. (a madama Giuseppina)
GIU.
Lo sa che da voi sono; non si prende pensiero.
Oggi non ci son lettere da registrar; si sa
Che anche per me ci vuole un dì di libertà .
MAR.
Oh davver, mi contenta sì bella compagnia.
Ora proprio mi sento il core in allegria.
Qualcheduna di voi racconti qualche cosa,
Qualche bel dubbio o qualche novelletta graziosa.
ELI.
Vo' proporvi un enigma.
MAR.
Oh sì, madama, dite.
FED.
Ditelo, che ho piacere.
GIU.
Lo goderò.
ELI.
Sentite.
CAR.
Perdonate, madama, il mio grosso cervello:
Che vuol dire un enigma.
ELI.
Vuol dire indovinello.
"Nacquer gemelli al mondo da poveri parenti
Due figli di costume, di genio differenti:
Uno buono, un cattivo, e quando uniti sono,
Spesso fa bene il tristo, e fa del male il buono.
Muoiono tutti due, poi tutti due rinati,
Con quei che li alimentano, son per usanza ingrati;
Volete voi conoscerli? Van sempre ad uno ad uno;
Son tutti due per tutto, e non li vede alcuno".
MAR.
Oh, madama, è impossibile ch'io giunga ad ispiegarlo.
FED.
Io non l'ho inteso bene.
ELI.
Tornerò a replicarlo. (torna a dire l'enigma)
GIU.
Tante cose contrarie confondono la mente.
ELI.
Se non fosse difficile, non valeria niente.
MAR.
Zitto, zitto, mi pare aver dato nel segno.
Sarebbero, per sorte, e l'amore e lo sdegno?
ELI.
No, madama; per altro ammiro che pensiate
Essere i due gemelli due cose inanimate.
FED.
Spiegatelo, madama.
GIU.
Via, fateci il favore.
ELI.
Sono, amiche carissime, la speranza e il timore.
Nacquer gemelli al mondo. Tosto che l'uom è giunto
All'uso di ragione, teme e spera in un punto.
E nacquero gemelli il timor, la speranza,
Tosto che il mondo antico corruppe la baldanza.
Da poveri parenti. La speranza e il timore
Conoscono il bisogno per loro genitore;
E l'uom quantunque ricco, alle passion ricovero
Dando dal proprio seno, sempre è meschino e povero.
Due figli di costume, di genio differenti.
Si sa che la speranza volar ci fa contenti,
E che il timor procura sempre abbassar le piume;
Onde son differenti di genio e di costume.
Uno buono, un cattivo. Accorderà ogni cuore,
Che la speranza è buona, che pessimo è il timore;
Ma soggiunge l'enigma: e quando uniti sono,
Spesso fa bene il tristo, e fa del male il buono.
E vuol dir, dal timore siamo tenuti in freno,
E la speranza allarga agli appetiti il seno;
Onde procede poi, che più della speranza,
Il provvido timore ci tiene in vigilanza.
Muoiono tutti due. Questo si vede spesso:
Finisce la speranza, ed il timore anch'esso.
Poi tutti due rinati. Con ciò spiegar s'intende
Di timor, di speranza, le solite vicende.
Con quei che li alimentano, son per usanza ingrati.
Questo vuol dir, che gli uomini si trovano ingannati.
Dopo il timor taluno a trionfar si vede,
E dopo la speranza il piangere succede.
Volete voi conoscerli? Van sempre ad uno ad uno.
Sperar, temere a un tratto mai si è sentito alcuno.
Ora teme, ora spera, fan le passioni un gioco,
E quando una s'avanza, l'altra le cede il loco.
Son tutti due per tutto. Dove si troverÃ
Un uomo che non speri, un che timor non ha?
E non li vede alcuno. Si può per spiegazione
Dir che non son corporei, ma v'è un'altra ragione:
Che temendo e sperando ogni mortal s'affanna,
Ma non conosce il vero, perché l'amor l'inganna.
Ecco, spiegar l'enigma tentai, donna qual sono;
Se malamente il feci, domandovi perdono.
MAR.
Bello, bello davvero.
FED.
Bella composizione.
GIU.
Vo' che me l'insegniate, ma colla spiegazione.
ELI.
Vi servirò, madama.
CAR.
Sinora sono stata,
Madama, ad ascoltarvi colla bocca incantata.
Me ne consolo tanto; lasciate che vi dia
Su questa mano un bacio.
ELI.
Oh no, figliuola mia. (la bacia in viso)
CAR.
Che umiltà , che dolcezza! oh, che trattar cortese!
Oh, dove son le donne tutte del mio paese?
Mi comanda? la servo. (verso la scena)
MAR.
Dimmi, chi ti ha chiamato? (a Carolina)
CAR.
Con licenza, signore. (alle donne) Quel giovane ammalato. (piano a Marianna)
MAR.
(Guarda se mai avesse necessitade alcuna). (piano a Carolina)
CAR.
Sì, signora. (parte, e a suo tempo ritorna)
MAR.
(Infelice! merta miglior fortuna). (da sé)
ELI.
Via, diteci, madama, qualcosa di curioso. (a madama Marianna)
MAR.
Pensava in questo punto a un caso doloroso.
Un povero signore polacco di nazione,
Venuto da mio zio per la sua guarigione,
In età giovanile ha una melanconia
Sì tetra, che di peggio credo che non si dia.
ELI.
Monsieur Bainer che dice?
MAR.
Procura consolarlo.
FED.
Capperi! monsieur Bainer saprà ben risanarlo.
CAR.
Madama, poverino! vorrebbe un po' venire. (piano a madama Marianna)
MAR.
(Che dicesti?)
CAR.
(Nïente).
MAR.
(Non sai quel ch'hai da dire?
Siamo qui tra di noi. Non vorran soggezione).
Compatite. (alle donne)
ELI.
Servitevi.
CAR.
(Gliel'ha detto il padrone).
MAR.
(Mio zio?)
CAR.
(Così mi disse).
MAR.
(Farà per ricrearlo.
Nel stato in cui si trova, non vo' mortificarlo).
Amiche, l'ammalato di cui parlammo adesso,
Vorria venir innanzi, se fossegli permesso.
Che dite? non è tale da recar soggezione.
ELI.
Io per me non mi oppongo.
FED.
Venga pure.
GIU.
È padrone.
MAR.
Digli che non si pratica; procura d'avvertirlo,
che in grazia del suo incomodo si fa per divertirlo.
CAR.
Gliel dirò, sì signora. (Proprio anch'io ci ho piacere.
Gli uomini appassionati non li posso vedere). (parte)
MAR.
È un forestier, si vede, assai civile, onesto.
Si può, ch'egli s'avanzi, permettergli per questo.
SCENA QUARTA
Monsieur GUDEN e le suddette.
GUD.
Madame. (tutte s'alzano e gli fanno riverenza)
MAR.
Favorite. Come si sta, signore? (lo fa avanzare)
GUD.
Ah, non saprei che dirvi, sempre in angustie il core.
MAR.
Sedete qui con noi. Vedete? in casa mia
Vien tutta gioventù, non vi è melanconia.
GUD.
La gioventù è un gran bene; lo spirito è migliore.
Ma non può stare allegro, chi non ha quieto il core.
MAR.
Sempre col cuore in bocca; siete un grand'uom sincero.
GUD.
Voi scherzate, madama, ed io vi dico il vero.
MAR.
Amiche, lo risvegli un po' del vostro brio.
ELI.
Signore, il vostro nome?
GUD.
Guden è il nome mio.
MAR.
Monsieur Guden, adesso so anch'io qual vi chiamate.
GUD.
Ch'io sono un vostro servo di già lo sapevate.
ELI.
Di Polonia, mi pare.
GUD.
Sì, madama.
ELI.
Lasciata
Avete per il Reno la Vistola gelata?
GUD.
Della Vistola il freddo alle mie fiamme è poco.
ELI.
Anche da noi vi è il gelo, anche da noi vi è il foco.
GIU.
Sol per trovar un medico venir sì da lontano?
GUD.
Qui sperai la salute, ma l'ho sperata invano.
FED.
Vicino a monsieur Bainer dovete esser contento.
GUD.
Sperai alle mie piaghe miglior medicamento.
MAR.
Ditemi, monsieur Guden, in questo quarto mio
Sariavi quel rimedio, che ha suggerito il zio?
GUD.
Sì, madama.
ELI.
Rimedio forse di nuova usanza,
Raccolto dalle mura d'intorno a questa stanza? (tutte dimostrano l'ironia giocosa)
MAR.
L'aria delle finestre.
FED.
Meglio è quella di fuori.
GIU.
Perché non va nel fiume a spegnere gli ardori?
GUD.
Si burlano a ragione di un povero ammalato.
ELI.
Poverino! si vede ch'è in un misero stato.
Pallido, smunto e secco.
FED.
Non ha più carne indosso.
GIU.
Il mal dev'esser grande, se l'ammalato è grosso.
GUD.
Mi beffano. Pazienza.
MAR.
Non le crediate offese.
Scherzar con dello spirito è il costume olandese:
Amiche, con licenza. Accostatevi a me. (a monsieur Guden)
(Quale vi piacerebbe, signor, di queste tre?)
GUD.
(Madama, compatite; meglio sarà ch'io taccia).
MAR.
(Possibil non vi sia qualcuna che vi piaccia?)
GUD.
(Vi è pur troppo).
MAR.
(Ma quale di quelle tre?)
GUD.
(Nessuna:
Finché non dite quattro, non ne ritrovo alcuna).
MAR.
Carolina.
SCENA QUINTA
CAROLINA e detti.
CAR.
Madama.
MAR.
(Ecco, son quattro adesso).
GUD.
(Ditemi fra le cinque, o per me fia lo stesso).
MAR.
(Basta, basta, ho capito. Ah, non vorrei ch'or ora...)
Levami questa rocca; ne ho abbastanza per ora. (a Carolina)
GUD.
Queste signore amabili non crederei d'offendere,
Chiedendo se son spose.
MAR.
Siamo tutte da vendere.
ELI.
E non è così facile trovare il compratore.
FED.
Han le robe che mangiano pochissimo valore.
GIU.
Oh, io poi non mi curo di essere comprata.
GUD.
E madama Marianna?
MAR.
Ed io son destinata,
Finché vive lo zio, starmi con esso unita;
Egli ha per me, signore, una bontà infinita.
GUD.
Troppa bontà , madama; scusate, io non l'approvo.
MAR.
Dove potrei star meglio del luogo ove mi trovo?
GUD.
(Eccomi sempre al peggio. Perduta ho la speranza). (da sé)
MAR.
(L'Olanda e la Polonia sono in troppa distanza). (da sé)
GUD.
(Le mie stolide brame godo che siano ignote.
Meglio è che non le sappia né il zio, né la nipote). (da sé)
GIU.
Ora siam tutti mutoli. Voi che avete viaggiato,
Diteci qualche cosa...
GUD.
Oimè! (s'alza)
GIU.
Che cosa è stato?
GUD.
Uno de' miei assalti perfidi, micidiali.
Perdonate, vi prego; son vapori fatali.
Spero non sia niente... ma... di grazia, scusate.
Necessario è ch'io parta. Madama... (Oh stelle ingrate!) (parte)
SCENA SESTA
Le cinque donne suddette.
GIU.
Fa compassion, meschino.
FED.
La salute è un tesoro.
GIU.
Sento pietà di lui.
MAR.
(La sento io più di loro). (da sé)
Va presto, Carolina, vedi se gli occor nulla.
CAR.
(Lo so quel che gli occorre; ma sono anch'io fanciulla). (da sé, e parte)
MAR.
Non vorrei ch'egli fosse... Vedo tal stravaganza...
SCENA SETTIMA
Il MARCHESE CROCCANTE e le suddette.
CRO.
Bella conversazione, che trovo in questa stanza!
MAR.
Che volete, signore? (si alza adirata)
CRO.
Adagio, madamina.
Il medico cercava; trovai la medicina. (guardando le donne)
MAR.
Le stanze dello zio, signor, son più rimote.
Qui non abita.
CRO.
E bene, starò colla nipote;
Starò con questa bella compagnia graziosa:
È questa una giornata per me calamitosa.
Bainer non vuol ch'io beva. Con questa legge austera,
Se un po' non mi diverto, io muoio innanzi sera.
MAR.
Chi siete voi, signore?
CRO.
Il marchese Croccante,
Gran partigian del vino, e delle donne amante.
MAR.
Vorrei, signor Marchese, saper con sua licenza:
Con donne al suo paese si usa tal confidenza?
CRO.
Soggezion non abbiate; son uomo di buon cuore.
Ragazze, chi di voi vuol far meco all'amore?
ELI.
Signor, mal conoscete l'onor delle donzelle.
FED.
Le Olandesi, signore non fan le pazzerelle.
CRO.
Via, via. Ragazza bella. (a madama Giuseppina)
GIU.
Che vuol da' fatti miei?
MAR.
Orsù, signor Marchese, qui non vi è pan per lei.
Favorite, madame, passar nell'altra stanza. (accennando un'altra camera)
ELI.
Signor, più assai de' titoli noi stimiam la creanza....
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