IL FANCIULLINO, di Giovanni Pascoli - pagina 2
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IV.
Se è in tutti, è anche in me.
E io, perché da quando s'era fanciulli insieme, non ho vissuto una vita cui almeno il dolore, che fu tanto, desse rilievo, non l'ho perduto quasi mai di vista e di udita.
Anzi, non avendo io mutato quei primi miei affetti, chiedo talvolta se io abbia vissuto o no.
E io dico sì, perché ivi è più vita dove è meno morte, e altri dice no, perché crede il contrario.
Oh! Non credo io che da te vengano, semplice fanciullo, certe filze di sillogismi, sebbene siano esposte in un linguaggio che somiglia al tuo, e disposte secondo ritmi che sono i tuoi! Forse quei ritmi ce le fanno meglio seguire, quelle filze, e quel linguaggio ce lo fa meglio capire, quel ragionamento; o forse no, ché l'uno, abbagliando, ci distrae, e gli altri, cullando, ci astraggono; sì che il fine del ragionatore non è ottenuto come sarebbe senza quelle immagini e senza quella cadenza.
Ma mettiamo che sia: ora il tuo fine non è, credo, mai questo, che si dica: Tu mi hai convinto di cosa che non era nel mio pensiero.
E nemmeno quest'altro: Tu mi hai persuaso a cosa che non era nella mia volontà.
Tu non pretendi tanto, o fanciullo.
Tu dici che in un tuo modo schietto e semplice cose che vedi e senti in un tuo modo limpido e immediato, e sei pago del tuo dire, quando chi ti ode esclama: anch'io vedo ora, ora sento ciò che tu dici e che era, certo, anche prima, fuori e dentro di me, e non lo sapeva io affatto o non così bene come ora!
Soltanto questo tu vuoi, seppure qualche cosa vuoi dal diletto in fuori che tu stesso ricavi da quella visione e da quel sentimento.
E come potresti aspirare ad operazioni così grandi tu con così piccoli strumenti? Perché tu non devi lasciarti sedurre da una certa somiglianza che è, per esempio, tra il tuo linguaggio e quello degli oratori.
Sì: anch'essi, gli oratori, ingrandiscono e impiccioliscono ciò che loro piaccia, e adoperano, quando loro piace, una parola che dipinga invece di un'altra che indichi.
Ma la differenza è che essi fanno ciò appunto quando loro piace e di quello che loro piaccia.
Tu no, fanciullo: tu dici sempre quello che vedi come lo vedi.
Essi lo fanno a malizia! Tu non sapresti come dire altrimenti; ed essi dicono altrimenti da quello che sanno che si dice.
Tu illumini la cosa, essi abbagliano gli occhi.
Tu vuoi che si veda meglio, essi vogliono che non si veda più.
Il loro insomma è il linguaggio artifiziato d'uomini scaltriti, che si propongono di rubare la volontà ad altri uomini non meno scaltriti; il tuo è il linguaggio nativo di fanciullo ingenuo, che tripudiando o lamentando parli ad altri ingenui fanciulli.
Non è così?...
Fanciullo, dunque, che non ragioni se non a modo tuo, dicendo di quando in quando le sentenze più comuni e più sublimi, più chiare e più inaspettate, tu puoi per altro, in ciò che ti riguarda più da presso, e intendere la mia e dire la tua ragione.
Per questo ti parlo con più gravità che io non soglia, e vorrei avere da te una risposta meno...come ho da dire? Infantile?...
poetica, che tu non costumi.
V.
Tu sai che io ti amo, o mio intimo benefattore, o invisibile coppiere del farmaco nepenthès e ácholon, contro il dolore e l'ira, o trovatore e custode d'un segreto tesoro di lagrime e sorrisi!.
E sai ancora che io non ti credo, come fanciullo, così irragionevole, né stimo un perditempo l'ascoltarti quando detti dentro.
Oh! No, molto ci corre.
Sebbene qualche volta, a vedere le tiritere isosillabiche e omeoteleute (non ti spaventare! è come dire "versi rimati") con le quali certi orecchianti vogliono far credere di far l'arte tua, anch'io rischio di pensare, come molti, che codesto parlare cadenzato e sonoro non sia naturale né ragionevole.
Ma è un momento.
Dimentico quelle tiritere, e dico a te che per quel momento mi fissi tra spaurito e malcontento con codesti occhi che vedono con maraviglia; dico a te:
No no: non temere.
Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta.
L'uomo le cose interne ed esterne, non le vede come le vedi tu: egli sa tanti particolari che tu non sai.
Egli ha studiato e ha fatto suo pro degli studi degli altri.
Sì che l'uomo dei nostri tempi sa più che quello dei tempi scorsi, e, a mano a mano che si risale, molto più e sempre più.
I primi uomini non sapevano niente; sapevano quello che sai tu, fanciullo.
Certo ti assomigliavano, perché in loro il fanciullo intimo si fondeva, per così dire, con tutto l'uomo quanto egli era.
Maravigliavano essi, con tutto il loro essere indistinto, di tutto; ché era veramente allora nuovo tutto, né solo per il fanciullo, ma per l'uomo.
Maravigliavano con sentimento misto ora di gioia ora di tristezza ora di speranza ora di timore.
Se poi tale commovimento volevano esprimere a sé e ad altri, essi traevano fuori dalla faretra, per dirla con te, certi preziosi e numerosi strali di cui non si doveva far gettito.
Pronunziavano essi, i primi uomini, con lentezza uniforme, con misurata gravità, la difficile parola che stupivano volasse e splendesse e sonasse, e fosse loro e diventasse d'altri, e recasse attorno l'anima di chi la emetteva dopo la lunga silenziosa meditazione.
Oh! non le gettavano essi come cose vili che soprabbondano, le parole pur mo nate, legate coi più sottili nodi, segnate con le più vive impronte, lavorate coi più ingegnosi nielli! Ne vedevano essi tutti i pregi, e il peso e il timbro del loro metallo, e il suono col quale in principio rompevano dalle labbra schiudentisi, e quello col quale in fine ronzavano nelle orecchie aperte.
Or tu, fanciullo, fai come loro, perché sei come loro.
Fai come tutti i bambini i quali non solo, quando sono un po' sollevati, giocano e saltano con certe loro cantilene ben ritmate, ma quando sono ancora poppanti, e fanno la boschereccia, con misura e cadenza balbettano tra sé e sé le loro file di pa pa e ma ma.
E in ciò è ragione perché è natura.
Tu sei ancora in presenza del mondo novello, e adoperi a significarlo la novella parola.
Il mondo nasce per ognun che nasce al mondo.
E in ciò è il mistero della tua essenza e della tua funzione.
Tu sei antichissimo, o fanciullo! E vecchissimo è il mondo che tu vedi nuovamente! E primitivo il ritmo (non questo o quello, ma il ritmo in generale) col quale tu, in certo modo, lo culli o lo danzi! Come sono stolti quelli che vogliono ribellarsi o all'una o all'altra di queste due necessità, che paiono cozzare tra loro: veder nuovo e veder da antico, e dire ciò che non s'è mai detto e dirlo come sempre si è detto e si dirà!
E si ribellano, gli uni con gli schifi gesti di pedanti: Questa metafora non è in...(e qui il nome d'un poeta a mano a mano più recente) ; gli altri con pugnaci atteggiamenti di novatori: Questo non è assai inaudito e inaudibile! Quelli sono in generale vecchi che nella vecchiaia credono riposta ogni autorità; e questi, giovani che nella giovinezza imaginano insita ogni forza; più noiosi questi di quelli, perché l'un vanto è sempre con impertinenza, e l'altro non è mai senza tristezza, e perché se gli uni non intendono più, per senile sordità, l'arguto chiacchiericcio del fanciullo, gli altri non lo intendono ancora, per quello schiamazzare che fanno, miseramente orgoglioso, intorno al loro io giovane.
E, in verità, giovani non sono, ché d'essere, se fossero, non si accorgerebbero.
D'essere vecchio uno si accorge sì, qualche volta, e allora si veste, si tinge, grida a giovane.
È forse il caso di voi, vecchiastri?
A ogni modo, pace.
Sappiate che per la poesia la giovinezza non basta: la fanciullezza ci vuole!
VI.
Tu sei savio e mi contento.
Non vuoi né ripetere il già detto né trovare l'indicibile; non vuoi essere né un'inutilità né una vanità.
Vuoi il nuovo, ma sai che nelle cose è il nuovo, per chi sa vederlo, e non t'indurrai a trovarlo, affatturando e sofisticando.
Il nuovo non s'inventa: si scopre.
Mi contento dunque, a dirla tra noi, vale a dire, tra me...Ma intendiamoci subito: di ciò non ti attribuisco gran lode, perché non ci vedo gran merito.
Come? Aspetta e sii paziente, ché mi conviene andar per le lunghe.
E prima vorrei farti una domanda.
Un fine, l'hai tu? Fuori, s'intende, di quello appunto di dire o dittare? E puoi dirmi, quale? Ho bisogno di saperlo.
Non rispondi? Pensi? esiti? dubiti? Imagino che codesto fine non sia, per esempio, quello di dare un po' d'aiuto, di fornire un poco d'oro al tuo vecchio ospite, che ne ha tanto bisogno.
Imagino, anzi so che tu non conosci altro oro che metaforico, cioè che non si spende.
Ridi? Intendiamoci.
So per certo che tu non credi di procacciarmi direttamente un utile materiale, ma sospetto che ti figuri di procacciarmelo indirettamente, aggiungendo non saprei che favore alla mia povera persona e che pregio alle mie umili virtù, sì che l'industria che sai che esercito, mi profitti qualche cosa più.
Ebbene, ti inganneresti.
Sappi che è il contrario; e che è ragionevole che sia il contrario.
Tu sei un fanciullo: ora non tutti sanno distinguere te fanciullo da me vecchio, e perché mi sentono e vedono bamboleggiare qualche volta, credono volentieri che io bamboleggi sempre, anche quando lavoro sul serio, per guadagnarmi la vita.
Per ciò essi meno apprezzano quei lavori serii, e io minor utile ne ricavo.
E hanno torto.
Sempre?
Sappi che non hanno torto sempre.
Hanno, per esempio, ragione (né parlo soltanto di me, ma di molti altri), quando tra i miei ragionamenti, che non dovrebbero essere se non giusti e chiari, vedono comparire i tuoi sorrisi e le tue grida.
Vedi: i passeri sono graziosi uccelli (anch'essi: perché no?); ma nei seminati i contadini non ce li vogliono, per graziosi che siano.
Le spadacciole sono bellissimi fiori; ma tra il grano sarebbe molto meglio che non ce ne fosse.
Ma fanno così bel vedere! Non nego che possano dilettare qualcuno: non dilettano però colui che spera l'utile di quel grano.
Capisci? Se anche c'è qualcuno a cui piacciono i tuoi frulli e i tuoi lampeggiamenti in mezzo a un ragionare che avrebbe a essere serio, ai più non può essere che non dispiaccia.
E sai che cosa succede? Questi, trovandoti così fuori di posto, non pensano che tu sia il fanciullo dalla voce argentina, ma credono sentire in te l'uomo roco, l'uomo che parla per ingannare: e gridano Retorica! Ora per evitare tale scambio a te e tale danno a me, non sarebbe male che quando io bado ai fatti miei, tu te ne andassi lontano e dormissi nei profondi boschi d'Idalia e tra l'odoroso cespuglio dell'amaraco.
Se tu conoscessi Platone, ti direi che come egli ha ragione nel volere che i poeti facciano mythous e non logous, favole e non ragionamenti, così non ho torto io nel pretendere che i ragionatori facciano logous e non mythous (9).
Ma pur troppo è difficile trovare chi si contenti di far solo quello che deve.
E Platone stesso...Ma egli era Platone.
Tornando a noi, dunque, nessun utile né diretto né indiretto mi viene da te, o fanciullo.
Checché tu possa dire, nessuno.
Quale invero sarebbe? Parla!
VII.
IL FANCIULLO
A te né le gemme né gli ori
fornisco, o dolce ospite: è vero;
ma fo che ti bastino i fiori
che cogli nel verde sentiero,
nel muro, su le umide crepe,
su l'ispida siepe.
Non reco al tuo desco lo spicchio
fumante di pingue vitella;
ma fo che ti piaccia il radicchio
non senza la tua selvastrella,
con l'ovo che a te mattutina
cantò la gallina.
Per me tu non ari, o poeta,
né vigne sassose, né grasse
maggesi; ma dimmi se più
di vigne e maggesi s'allieta
quel cupo signore, od il passero
garrulo e tu!
Non fragili coppe di Cina,
la lampada d'oro t'irradia;
ma tu la tua scabra cucina
tu ami e la provvida madia;
la fiamma che lustra, tu ami,
sui nitidi rami.
Non hai che dal ciglio ti penda,
né paggio né florida ancella;
ma lieta, ma grata sfaccenda
per te la tua dolce sorella;
che cinge il grembiule, e sorride;
lo scinge e s'asside
con te...E per letto di morte,
che a tutti è sì duro e sì grave,
che cosa ti serbo, sai tu?
Oh! Rose per letto di morte,
cadute dal pruno: il soave
dolore che fu!
VIII.
Bene! Tu hai cantato e detto: hai cantato strofe e detto verità.
E mi viene in mente che oltre codeste verità, diremo così, usuali, di cui io ti sono testimone, ci sia sotto il tuo dire una verità più riposta e meno comune, a cui però la coscienza di tutti risponda con subito assenso.Quale? Questa: che la poesia, in quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale.
E tu non hai mica ragionato, per rivelare a me il tuo fine.
Tu hai detto quel che vedi e senti.
E dicendo questo, hai forse espresso quale è il fine proprio della poesia.
Ora tocca a me ragionarci sopra, Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobigliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza; e vai dicendo.
O è il contrario? E il pastore che, parando le pecore, sogna una bottega da avviare nel borgo vicino, e il borghesuccio che fantastica d'un palazzo in città grande e rumoreggiante, sono, essi sì, poeti fantasiosi e sognatori, e gli altri no? Già, per me, altro è sentimento poetico, altro è fantasia; la quale può essere bensì mossa e animata da quel sentimento, ma può anche non essere.
Poesia è trovare nelle cose, come ho da dire? Il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima.
A volte, non ravvisando essi nulla di luminoso e di bello nelle cose che li circondano, si chiudono a sognare e a cercare lontano.
Ma pur nelle cose vicine era quello che cercavano, e non avervelo trovato, fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi.
Direte voi (non parlo a te, ora, o fanciullo, ma a cotali fanciulloni), direte voi che il sentimento poetico abbondi più in chi, torcendo o alzando gli occhi dalla realtà presente, trovi solo belli e degni del suo canto i fiori delle agavi americane, o in chi ammiri e faccia ammirare anche le minime nappine, color gridellino, della pimpinella, sul greppo in cui siede? E non voglio dire che non abbondi nel primo, quel sentimento, e non si trovi anzi unito ad altre virtù di scienza e di fantasia che lo facciano giustamente ammirabile; sebbene, come più agevolmente muove, così più presto annoia il suo lettore, e, a ogni modo, poiché le cose assenti, o non viste mai, sono sempre a tutti meravigliose, egli fa come l'uomo che pretende d'aver rallegrato con sue novellette l'uditore che, pure ascoltando, abbia bevuto largamente del vino letificante.
Egli è stato, forse, arguto e festevole; ma chi rallegra con la parola sua schietta, senza bisogno di calici, ha maggior merito.
Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove.
E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggiero freno all'instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità.
Oh! chi sapesse rafforzarlo in quelli che l'hanno, fermarlo in quelli che sono per perderlo, insinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque più ingegnoso trovatore di comodità e medicine? E non so dire quanto la comunione degli uomini ne sarebbe avvantaggiata; specialmente in questi tempi in cui la corsa verso l'impossibile felicità è con tanto fulmineo disprezzo in chi va avanti, con tanta disperata invidia in chi resta addietro.
Già in altri tempi vide un Poeta (io non sono degno nemmeno di pronunziare il tuo santo nome, o Parthenias!), vide rotolare per il vano circolo della passione le quadriglie vertiginose; e quei tempi erano simili a questi, e balenava all'orizzonte la conflagrazione del mondo in una guerra di tutti contro tutti e d'ognuno contro ognuno; e quel Poeta sentì che sopra le fiere e i mostri aveva ancor più potere la cetra di Orfeo che la clava d'Ercole.
E fece poesia, senza pensare ad altro, senza darsi arie di consigliatore, di ammonitore, di profeta del buono e del mal augurio: cantò, per cantare.
E io non so misurare qual fosse l'effetto del suo canto; ma grande fu certo, se dura sino ad oggidì, vibrando con dolcezza nelle nostre anime irrequiete.
O rimatori di frasi tribunizie, o verseggiatori di teoriche sociali, che escludete dall'ora presente ogni poesia che non sia la vostra, vale a dire, escludete la POESIA, ditemi: Era o non era al suo posto, nel secolo d'Augusto, il cantore delle Georgiche? Sì, non è vero? Egli insegnava ad amare la vita in cui non fosse lo spettacolo né doloroso della miseria né invidioso della ricchezza: egli voleva abolire la lotta tra le classi e la guerra tra i popoli.
Che volete voi, o poeti socialisti, che dite cose tanto diverse e le dite tanto diversamente da lui?
IX.
Dei due fraterni poeti Augustei (ché non si può parlare di Virgilio senza soggiungere Orazio) voi direte che fu la filosofia che li addusse a quella ragione sana e pia di considerare la società e la vita.
E no: fu il fanciullino che li portò per mano, dicendo: Vi dirò io dove è nel tempo stesso la poesia e la virtù.
Fu il fanciullino che, se mai, fece che trascegliessero tra le opinioni dei filosofi quelle che confermavano il loro sentimento.
Considerate.Catone e Varrone scrissero di agricoltura prima di Virgilio.
Erano uomini di molto giudizio e sapere, essi.
Per esempio, Catone, suggerendo al pater familias che cosa deve dire e fare, quando si reca alla villa, conclude: "Venda l'olio, se si vende bene; il vino, il frumento che avanzi, lo venda.
I buoi incaschiti, le fattrici non più buone, così le pecore, la lana, le pelli, un barroccio vecchio, ferramenti vecchi, uno schiavo attempato, uno schiavo ammalazzito, e altra roba che ci sia di troppo, la venda.
Un padre di famiglia deve tirare a vendere, non a comprare" (10) .
Quegli schiavi, tra la ferraglia vecchia e l'altra roba d'avanzo, a noi fanno un certo senso; eppure era naturale che si nominassero a quel punto.
Varrone in fatti riferisce questa elegante distinzione delle cose con le quali si coltivano i campi: "Altri le dividono in tre generi: strumento vocale, semivocale e muto; vocale in cui sono gli schiavi, semivocale in cui sono i bovi, muto in cui sono i carri" (11) .
È naturale, s'intende, che Virgilio scrivendo di proposito sull'agricoltura, in versi bensì ma non a fantasia, in versi ma dopo aver studiato l'argomento anche sui libri degli altri, parlasse a ogni momento, oltre che dei plaustri e dei bovi, di quello strumento precipuo della coltivazione che erano gli schiavi.
Noi, per esempio, dobbiamo aspettarci che come insegna quale profenda dare, erbe in fiore e biada, al polledro da razza (12) , e ai manzi in tanto che si domano, non sola erba a frasche di salcio e paleo di palude, ma anche piantine di grano appena nato (13); così ammaestri il buon massaio sul pane e companatico, vino e vestimenta, da fornirsi alla familia.
Parlando di olive, è certo che egli penserà al pulmentarium familiae.
Catone, gran maestro, dice pure (14): "Indolcisci quanto più puoi, di olive caschereccie.
Quindi le olive anche buone, da cui non possa uscire che poco olio, indolciscile: e fanne grande risparmio, perché durino il più possibile.
Quando le olive saranno mangiate, dà allec e aceto" .
Tornava bene, mi pare, discorrere di codeste olive da riporre per gli schiavi, e così anche dei vestimenti; ché poteva cadere in taglio, a proposito della lana, fare per esempio un'osservazione di tal genere: "quando a uno schiavo dài una tunica o un pastrano nuovo, prima ritira il vecchio, per farne casacche a toppe (centones)" .
Insomma queste e simili provvidenze erano buone a mettersi in bei versi con quel tanto garbo del poeta che sa parlare con solennità e gravità di umili cose.
Oh! Sì! Non ci sono schiavi per Virgilio.
Nei suoi poemi non c'è mai nemmeno la parola servus; c'è serva due volte, e a proposito di altri tempi e di altri costumi (15) : tempi e costumi in cui il poeta vede bensì i re serviti da molti schiavi; eppur chiama questi famuli e ministri non servi (16) .
Ma i suoi campi, quelli che esso insegnava a coltivare, quelli che arava e seminava con i suoi dolci versi, quelli non hanno gente incatenata e compedita.
Il poeta che nella prima delle ecloghe pastorali mette sé in persona d'uno schiavo liberato, ha proclamato nelle compagne italiche quella parola che con tanta enfasi suona dalla sua bocca di Titiro: LIBERTAS (17) .
Gli agricoli di Virgilio né sono schiavi né mercenari.
Essi sono di quelli di cui parla Varrone (18) , che coltivano la terra da sé, come tanti possidentucci con la loro figliolanza.
Questi ha in mente Virgilio, quando esclama che sarebbero tanto felici, se conoscessero la loro felicità, con tanta pace, con tanto fruttato, tra tanto bello, senza il rodio o della miseria o della soverchianza altrui, lavorando alla sua stagione, godendosi la famiglia in casa e le care feste fuori (19) .
Di gente che lavori per altri, nemmeno una traccia.
L'ideale del poeta è quel vecchiettino Cilice, trapiantato dalla sua patria nei dintorni di Taranto.
Aveva avuto pochi iugeri di terra non buona né a grano né a prato né a vigna: una grillaia, uno scopiccio.
Ebbene il bravo vecchiettino ne aveva fatto un orto, con non solo i suoi cavoli, ma anche gigli e rose, e alberi da frutta, e bugni d'api, e vivai di piante (20) .
Sì: il poco e il piccolo era il sogno dei due grandi fraterni poeti.
Virgilio diceva: Loda la campagna grande, e tienti alla piccina (21).
E Orazio: Questo era il mio voto: un campicello non tanto grande, con l'orto, con una fonte, e per giunta un po' di selvetta (22).
Chi non dovrebbe preferire la campagna grande alla piccola, quando non toccasse di coltivarla a lui? Ma ai due poeti, quando erano poeti, non si presentava al pensiero questa considerazione così semplice.
A dir meglio, il fanciullo che era in loro, preferiva, come tutti i fanciulli, ciò che è piccolo: il cavallino, la carrozzina, l'aiolina.
Oh! c'è chi ha rimproverato a Orazio quest'amor della mediocrità! Ma esser poeta della mediocrità, non vuol dire davvero essere poeta mediocre.
Il contrario, anzi, è vero.
Non ama, chi dice di amare un serraglio di donne.
Non è poeta, chi non si fissa in una visione che i suoi occhi possano misurare.
E le cose grandi, le cose ricche, le cose sublimi non riescono poetiche, se non sono sentite e dette in persona di chi stupisce avanti loro, perché appunto esso è piccolo, è povero, è umile.
Il poeta è il poverello dell'umanità, spesso anche cieco e vecchio.
E se tale non sembra, se anzi è gran signore e giovane e felice, ebbene vuol dire che se è ricco lui, è pauperculus però il fanciullino che è in lui; cioè si è conservato povero, come a dire fanciullo.
Perché poverino è sempre il bimbo, sia pur nato in una culla d'oro, e tende sempre la mano a tutto e a tutti, come non avesse niente e desidera il boccon di pan duro del suo compagno trito, e vorresse fare il duro lavoro del suo compagno tribolato.
Per questo non Virgilio proprio, ma il fanciullo che egli aveva in cuore, non voleva gli schiavi nei campi.
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