IL FANCIULLINO, di Giovanni Pascoli - pagina 1
Giovanni Pascoli
I.
L'usignuolo è piccolo, e il mare è grande; e l'uno è giovane, e l'altro è vecchio.
Vecchio è l'aedo, e giovane la sua ode.
Chi può imaginare, se non vecchio l'aedo e il bardo? Vyàsa è invecchiato nella penitenza e sa tutte le cose sacre e profane.
Vecchio è Ossian, vecchi molti degli skaldi.
Da un fanciullino o da una fanciulla: dal dio o dall'iddia: dal dio che sementò nei precordi di Femio quelle tante canzoni, o dell'iddia cui si rivolge il cieco aedo di Achille e di Odisseo (5) .
II.
E la sua fanciullezza parlava per ciò più di Achille che d'Elena, e s'intratteneva col Ciclope meglio che con Calipso.
Così codeste cose narrava al vecchio Omero il suo fanciullino, piuttosto che le bellezze della Tindaride e le voluttà della dea della notte e della figlia del sole (6) .
E le narrava col suo proprio linguaggio infantile.
La parola "bello" e "grande" ricorreva a ogni momento nel suo novellare, e sempre egli incastrava nel discorso una nota a cui riconoscere la cosa.
I guerrieri? Portavano i capelli lunghi.
I loro caschi? Avevano creste che si movevano al passo.
Le loro aste? Facevano una lunga ombra.
Per non essere frainteso ripeteva il medesimo pensiero con altra forma: diceva "un pochino, mica tanto!", "vivere, mica morire!", e anche "parlò e disse", "si adunarono e furono tutti in un luogo".
Non mancava di quelle spiegazioni che chiudono la bocca: "ubbidite, perché ubbidire...è meglio" "solo devo rimanermene senza dono? Non sta bene".
La chiarezza non è mai troppa: "I pulcini erano otto, e nove con la madre, che aveva fatti i pulcini", "Aias, quello più piccolo, non grande come l'altro, ma molto più piccolo: era piccino...".
Un divino arciere tirava l'arco "e per tutto si vedevano cataste accese per bruciare i morti".
Il dio supremo mosse il sopracciglio e scosse i capelli, "e scrollò l'Olimpo che è così grande".
Sopra tutto, per far capire tutto il suo pensiero, in qualche fatto o spettacolo più nuovo e strano, s'ingegnava con paragoni tolti da ciò che esso e i suoi uditori avevano più sott'occhio o nell'orecchio.
E in ciò teneva due modi contrari: ora ricordava un fatto piccolo per farne intendere uno grande, ora uno maggiore per farne vedere uno minore.
Così rappresentava un mare agitato che con le grosse onde spumeggianti si getta contro la spiaggia, e strepita e tuona, per dar l'idea d'una moltitudine d'uomini che accorre in un luogo; e descriveva uno sciame di mosche intorno ai secchielli pieni colmi di latte, per esprimere il confuso e vasto agglomerarsi d'un esercito di guerrieri.
Questo era il suo solo artifizio, se pure si può chiamare artifizio ciò ch'egli faceva così ingenuamente che spesso la cosa, mediante il suo paragone, riusciva più piccola, sebbene sempre paresse più chiara; come quando confrontava il fluido parlare di alcuni vecchi savi all'incessante frinire delle cicale, o la resistenza d'un grande eroe all'indifferenza d'un asino che seguita a empirsi d'erba nel prato donde i bimbi vogliono cacciarlo a suon di bastonate.
No no: il fanciullino del cieco non tanto voleva farsi onore, quanto farsi capire: non esagerava; perché i fatti che raccontava, gli parevano già assai mirabili così come erano.
Ed egli sapeva, né per altro argomento se non perché parevano anche a lui, che mirabili dovevano parere anche agli altri bambini come lui, che erano nell'anima di tutti i suoi uditori.
E non sarebbe ragionevole, di cose che dopo trenta secoli non si credono più verosimili.
Ma dopo pur trenta secoli gli uomini non nascono di trent'anni, e anche dopo i trent'anni restano per qualche parte fanciulli.
III.
Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine.
Egli non avrebbe dentro sé quel seno concavo da cui risonare le voci degli altri uomini; e nulla dell'anima sua giungerebbe all'anima dei suoi vicini.
Egli non sarebbe unito all'umanità se non per le catene della legge, le quali o squassasse gravi o portasse leggiere, come uno schiavo o ribelle per la novità o indifferente per la consuetudine.
Eppure è chi dice che veramente di generi umani ve ne ha due, e non si scorge che siano due, e che l'uno attraversa l'altro, sempre diviso ma sempre indistinto, come una corrente dolce il mare amaro.
Ora se questo è vero, non può avvenire se non per una causa: che gli uni hanno dentro sé l'eterno fanciullo, e gli altri no, infelici!
Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché con le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia.
Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili.
Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo.
Egli fa umano l'amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve) , accarezza e consola la bambina che è nella donna.
Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora.
Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.
Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose.
E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare.
Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola.
E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta.
Ma in tutti è, voglio credere.
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