IL FANCIULLINO, di Giovanni Pascoli - pagina 3
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Per me tu non ari, o poeta,
né vigne sassose, né grasse
maggesi; ma dimmi se più
di vigne e maggesi s'allieta
quel cupo signore, od il passero
garrulo e tu!
Non fragili coppe di Cina,
la lampada d'oro t'irradia;
ma tu la tua scabra cucina
tu ami e la provvida madia;
la fiamma che lustra, tu ami,
sui nitidi rami.
Non hai che dal ciglio ti penda,
né paggio né florida ancella;
ma lieta, ma grata sfaccenda
per te la tua dolce sorella;
che cinge il grembiule, e sorride;
lo scinge e s'asside
con te...E per letto di morte,
che a tutti è sì duro e sì grave,
che cosa ti serbo, sai tu?
Oh! Rose per letto di morte,
cadute dal pruno: il soave
dolore che fu!
VIII.
Bene! Tu hai cantato e detto: hai cantato strofe e detto verità.
E mi viene in mente che oltre codeste verità, diremo così, usuali, di cui io ti sono testimone, ci sia sotto il tuo dire una verità più riposta e meno comune, a cui però la coscienza di tutti risponda con subito assenso.Quale? Questa: che la poesia, in quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale.
E tu non hai mica ragionato, per rivelare a me il tuo fine.
Tu hai detto quel che vedi e senti.
E dicendo questo, hai forse espresso quale è il fine proprio della poesia.
Ora tocca a me ragionarci sopra, Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobigliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza; e vai dicendo.
O è il contrario? E il pastore che, parando le pecore, sogna una bottega da avviare nel borgo vicino, e il borghesuccio che fantastica d'un palazzo in città grande e rumoreggiante, sono, essi sì, poeti fantasiosi e sognatori, e gli altri no? Già, per me, altro è sentimento poetico, altro è fantasia; la quale può essere bensì mossa e animata da quel sentimento, ma può anche non essere.
Poesia è trovare nelle cose, come ho da dire? Il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima.
A volte, non ravvisando essi nulla di luminoso e di bello nelle cose che li circondano, si chiudono a sognare e a cercare lontano.
Ma pur nelle cose vicine era quello che cercavano, e non avervelo trovato, fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi.
Direte voi (non parlo a te, ora, o fanciullo, ma a cotali fanciulloni), direte voi che il sentimento poetico abbondi più in chi, torcendo o alzando gli occhi dalla realtà presente, trovi solo belli e degni del suo canto i fiori delle agavi americane, o in chi ammiri e faccia ammirare anche le minime nappine, color gridellino, della pimpinella, sul greppo in cui siede? E non voglio dire che non abbondi nel primo, quel sentimento, e non si trovi anzi unito ad altre virtù di scienza e di fantasia che lo facciano giustamente ammirabile; sebbene, come più agevolmente muove, così più presto annoia il suo lettore, e, a ogni modo, poiché le cose assenti, o non viste mai, sono sempre a tutti meravigliose, egli fa come l'uomo che pretende d'aver rallegrato con sue novellette l'uditore che, pure ascoltando, abbia bevuto largamente del vino letificante.
Egli è stato, forse, arguto e festevole; ma chi rallegra con la parola sua schietta, senza bisogno di calici, ha maggior merito.
Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove.
E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggiero freno all'instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità.
Oh! chi sapesse rafforzarlo in quelli che l'hanno, fermarlo in quelli che sono per perderlo, insinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque più ingegnoso trovatore di comodità e medicine? E non so dire quanto la comunione degli uomini ne sarebbe avvantaggiata; specialmente in questi tempi in cui la corsa verso l'impossibile felicità è con tanto fulmineo disprezzo in chi va avanti, con tanta disperata invidia in chi resta addietro.
Già in altri tempi vide un Poeta (io non sono degno nemmeno di pronunziare il tuo santo nome, o Parthenias!), vide rotolare per il vano circolo della passione le quadriglie vertiginose; e quei tempi erano simili a questi, e balenava all'orizzonte la conflagrazione del mondo in una guerra di tutti contro tutti e d'ognuno contro ognuno; e quel Poeta sentì che sopra le fiere e i mostri aveva ancor più potere la cetra di Orfeo che la clava d'Ercole.
E fece poesia, senza pensare ad altro, senza darsi arie di consigliatore, di ammonitore, di profeta del buono e del mal augurio: cantò, per cantare.
E io non so misurare qual fosse l'effetto del suo canto; ma grande fu certo, se dura sino ad oggidì, vibrando con dolcezza nelle nostre anime irrequiete.
O rimatori di frasi tribunizie, o verseggiatori di teoriche sociali, che escludete dall'ora presente ogni poesia che non sia la vostra, vale a dire, escludete la POESIA, ditemi: Era o non era al suo posto, nel secolo d'Augusto, il cantore delle Georgiche? Sì, non è vero? Egli insegnava ad amare la vita in cui non fosse lo spettacolo né doloroso della miseria né invidioso della ricchezza: egli voleva abolire la lotta tra le classi e la guerra tra i popoli.
Che volete voi, o poeti socialisti, che dite cose tanto diverse e le dite tanto diversamente da lui?
IX.
Dei due fraterni poeti Augustei (ché non si può parlare di Virgilio senza soggiungere Orazio) voi direte che fu la filosofia che li addusse a quella ragione sana e pia di considerare la società e la vita.
E no: fu il fanciullino che li portò per mano, dicendo: Vi dirò io dove è nel tempo stesso la poesia e la virtù.
Fu il fanciullino che, se mai, fece che trascegliessero tra le opinioni dei filosofi quelle che confermavano il loro sentimento.
Considerate.Catone e Varrone scrissero di agricoltura prima di Virgilio.
Erano uomini di molto giudizio e sapere, essi.
Per esempio, Catone, suggerendo al pater familias che cosa deve dire e fare, quando si reca alla villa, conclude: "Venda l'olio, se si vende bene; il vino, il frumento che avanzi, lo venda.
I buoi incaschiti, le fattrici non più buone, così le pecore, la lana, le pelli, un barroccio vecchio, ferramenti vecchi, uno schiavo attempato, uno schiavo ammalazzito, e altra roba che ci sia di troppo, la venda.
Un padre di famiglia deve tirare a vendere, non a comprare" (10) .
Quegli schiavi, tra la ferraglia vecchia e l'altra roba d'avanzo, a noi fanno un certo senso; eppure era naturale che si nominassero a quel punto.
Varrone in fatti riferisce questa elegante distinzione delle cose con le quali si coltivano i campi: "Altri le dividono in tre generi: strumento vocale, semivocale e muto; vocale in cui sono gli schiavi, semivocale in cui sono i bovi, muto in cui sono i carri" (11) .
È naturale, s'intende, che Virgilio scrivendo di proposito sull'agricoltura, in versi bensì ma non a fantasia, in versi ma dopo aver studiato l'argomento anche sui libri degli altri, parlasse a ogni momento, oltre che dei plaustri e dei bovi, di quello strumento precipuo della coltivazione che erano gli schiavi.
Noi, per esempio, dobbiamo aspettarci che come insegna quale profenda dare, erbe in fiore e biada, al polledro da razza (12) , e ai manzi in tanto che si domano, non sola erba a frasche di salcio e paleo di palude, ma anche piantine di grano appena nato (13); così ammaestri il buon massaio sul pane e companatico, vino e vestimenta, da fornirsi alla familia.
Parlando di olive, è certo che egli penserà al pulmentarium familiae.
Catone, gran maestro, dice pure (14): "Indolcisci quanto più puoi, di olive caschereccie.
Quindi le olive anche buone, da cui non possa uscire che poco olio, indolciscile: e fanne grande risparmio, perché durino il più possibile.
Quando le olive saranno mangiate, dà allec e aceto" .
Tornava bene, mi pare, discorrere di codeste olive da riporre per gli schiavi, e così anche dei vestimenti; ché poteva cadere in taglio, a proposito della lana, fare per esempio un'osservazione di tal genere: "quando a uno schiavo dài una tunica o un pastrano nuovo, prima ritira il vecchio, per farne casacche a toppe (centones)" .
Insomma queste e simili provvidenze erano buone a mettersi in bei versi con quel tanto garbo del poeta che sa parlare con solennità e gravità di umili cose.
Oh! Sì! Non ci sono schiavi per Virgilio.
Nei suoi poemi non c'è mai nemmeno la parola servus; c'è serva due volte, e a proposito di altri tempi e di altri costumi (15) : tempi e costumi in cui il poeta vede bensì i re serviti da molti schiavi; eppur chiama questi famuli e ministri non servi (16) .
Ma i suoi campi, quelli che esso insegnava a coltivare, quelli che arava e seminava con i suoi dolci versi, quelli non hanno gente incatenata e compedita.
Il poeta che nella prima delle ecloghe pastorali mette sé in persona d'uno schiavo liberato, ha proclamato nelle compagne italiche quella parola che con tanta enfasi suona dalla sua bocca di Titiro: LIBERTAS (17) .
Gli agricoli di Virgilio né sono schiavi né mercenari.
Essi sono di quelli di cui parla Varrone (18) , che coltivano la terra da sé, come tanti possidentucci con la loro figliolanza.
Questi ha in mente Virgilio, quando esclama che sarebbero tanto felici, se conoscessero la loro felicità, con tanta pace, con tanto fruttato, tra tanto bello, senza il rodio o della miseria o della soverchianza altrui, lavorando alla sua stagione, godendosi la famiglia in casa e le care feste fuori (19) .
Di gente che lavori per altri, nemmeno una traccia.
L'ideale del poeta è quel vecchiettino Cilice, trapiantato dalla sua patria nei dintorni di Taranto.
Aveva avuto pochi iugeri di terra non buona né a grano né a prato né a vigna: una grillaia, uno scopiccio.
Ebbene il bravo vecchiettino ne aveva fatto un orto, con non solo i suoi cavoli, ma anche gigli e rose, e alberi da frutta, e bugni d'api, e vivai di piante (20) .
Sì: il poco e il piccolo era il sogno dei due grandi fraterni poeti.
Virgilio diceva: Loda la campagna grande, e tienti alla piccina (21).
E Orazio: Questo era il mio voto: un campicello non tanto grande, con l'orto, con una fonte, e per giunta un po' di selvetta (22).
Chi non dovrebbe preferire la campagna grande alla piccola, quando non toccasse di coltivarla a lui? Ma ai due poeti, quando erano poeti, non si presentava al pensiero questa considerazione così semplice.
A dir meglio, il fanciullo che era in loro, preferiva, come tutti i fanciulli, ciò che è piccolo: il cavallino, la carrozzina, l'aiolina.
Oh! c'è chi ha rimproverato a Orazio quest'amor della mediocrità! Ma esser poeta della mediocrità, non vuol dire davvero essere poeta mediocre.
Il contrario, anzi, è vero.
Non ama, chi dice di amare un serraglio di donne.
Non è poeta, chi non si fissa in una visione che i suoi occhi possano misurare.
E le cose grandi, le cose ricche, le cose sublimi non riescono poetiche, se non sono sentite e dette in persona di chi stupisce avanti loro, perché appunto esso è piccolo, è povero, è umile.
Il poeta è il poverello dell'umanità, spesso anche cieco e vecchio.
E se tale non sembra, se anzi è gran signore e giovane e felice, ebbene vuol dire che se è ricco lui, è pauperculus però il fanciullino che è in lui; cioè si è conservato povero, come a dire fanciullo.
Perché poverino è sempre il bimbo, sia pur nato in una culla d'oro, e tende sempre la mano a tutto e a tutti, come non avesse niente e desidera il boccon di pan duro del suo compagno trito, e vorresse fare il duro lavoro del suo compagno tribolato.
Per questo non Virgilio proprio, ma il fanciullo che egli aveva in cuore, non voleva gli schiavi nei campi.
Diremo noi che Virgilio attingesse dai libri di qualche filosofo o di qualche profeta questa legge di libertà? No: egli stesso ne era forse inconsapevole, di questa libertà che proclamava.
Era la sua poesia che aboliva la servitù, perché la servitù non era poetica.
Non era poetica, e il divino fanciullo che non vede se non ciò che è poetico, non la vedeva.
Tanto che noi, se non avessimo dei tempi di Virgilio altro testimone che Virgilio, dovremmo credere che non esistesse allora più questa miseria e vergogna che non è cessata nemmeno ai nostri, di tempi.
Oh! Dovremmo credere che il Cristo non anco nato ispirasse al poeta contadino dell'Esperia, come il vaticinio del suo avvento, così il presentimento della grande fratellanza umana! Non c'è la schiavitù nell'Italia Virgiliana: nemmeno c'è il salariato, nemmeno il mezzadro!
X.
Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza andarsene, portando, per dirla con Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si avrebbe a dire, umano.
Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l'umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l'impoetico.
Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l'estetica proclama brutto.
Ma di ciò che è cattivo e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato filosofo.
È il fanciullo interiore che ne ha schifo.
Il quale come narrando le imprese dei suoi eroi, e dicendo tutto di loro, e, oltre le battaglie e i discorsi, anche i pasti e i sonni, e figurando a noi, per esempio, i loro cavalli, e ridicendo che brucavano e sudavano e spumavano, pur non dice mai (tu vedi che procuro quanto posso, che tu non torca il niffolo) non dice mai che stallavano; così della nostra anima non racconta che il buono e della nostra visione non ricorda che il bello.
Ché per cantare il male bisogna fare uno sforzo continuo su se stesso, a meno che non si tratti di pazzia.
E in questo caso, la pazzia sta appunto in questo, di pensar da buoni e cantar da cattivi.
Così, caro fanciullo, hanno gran torto coloro che attribuiscono, per ciò che tu non vedi se non il buono, qualche merito di bontà a colui che ti ospita.
Il quale può essere anche un masnadiero, e aver dentro sé un fanciullo che gli canti le delizie della pace e dell'innocenza, e la casa dove non deve più riposare, e la chiesa dove non sa più pregare.
XI.
Il poeta,se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d'amor patrio e familiare e umano.
Quindi la credenza e il fatto, che il suon della cetra adunasse le pietre a far le mura della città, e animasse le piante e ammansasse le fiere della selva primordiale; e che i cantori guidassero e educassero i popoli.
Le pietre, le piante, le fiere, i popoli primi, seguivano la voce dell'eterno fanciullo, d'un dio giovinetto, del più piccolo e tenero che fosse nella tribù d'uomini salvatici.
I quali, in verità, s'ingentilivano contemplando e ascoltando la loro infanzia.
Così Omero, in tempi feroci, a noi presenta nel più feroce degli eroi, cioè nel più vero e poetico, in Achille, un tipo di tal perfezione morale, che poté servire di modello a Socrate, quando preferiva al male la morte.
Così Virgilio, in tempi più gentili, avendo la mira soltanto al poetico, ci mostra lo spettacolo tanto anticipato, ahimè! , d'un'umanità buona, felice, tutta al lavoro e alle pure gioie dei figli, senza guerre e senza schiavi.
Gli uomini, al suo tempo, parrebbe che avessero impetrato, ciò che è ancora il desiderio inadempiuto de' nostri operai, le otto ore di lavoro per ogni otto di sonno e altre otto di svago.
- Oh! qualche volta presso lui il contadino aggiunge la notte al giorno! - Sì : ma che dolcezza di lavoro, quella, tra l'uomo che col pennato fa il capo a spiga a suoi rami di pino, che hanno a essere fiaccole, e la donna che o tesse la tela o schiuma il paiolo cantando (23) .
E nell'Eneide Virgilio canta guerre e battaglie; eppure tutto il senso della mirabile epopea è in quel cinguettio mattutino di rondini o passeri, che sveglia Evandro nella sua capanna, là dove avevano da sorgere i palazzi imperiali di Roma! (24)
Ma Omero, ma Virgilio, non lo facevano apposta.
Ma il poeta non deve farlo apposta.
Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte.
E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga.
A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra.
Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello.
Del pubblico, non pare che si accorga.
Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui.
È, per usare imagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori.
Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette.
Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell'anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali?
Senza accorgersene, se mai.
Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe.
Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l'ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro.
Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera.
Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta.
Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare.
Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso.
Perché pensi alla patria e alla società, bisogna proprio che sia un momento che tutti intorno a lui ci pensino.
Se no, è un guaio serio.
Quello per la mamma, è il più soave degli affetti.
Ma che direste voi d'uno che facesse la cronaca, giorno per giorno, di sua mamma? Stamane s'è levata, cara mamma! Io l'ho guardata, povera mamma! M'ha dato il caffè e latte, povera cara mamma! Costui è un imbecille, quando non è uno che finga e abbia bisogno di darsi l'aria di amare quella che è così facile amare! Oh! la madre è malata, la madre è lontana, la madre è morta! Ecco che allora ci si pensa, alla mamma, e ci si strugge.
Oppure la mamma ha una gran consolazione; e noi siamo più che consolati, e ci sentiamo invasi da un impeto di canto.
Così per la patria.
Non ci accorgiamo di lei, se non nelle sue feste e nelle sue - nostre! - disgrazie.
E allora prorompe anche dal cuore del fanciullo il grido di gioia e il grido di dolore; ed è grido che ha subito mille echi.
Ma il bambino non è un bambino che s'impanchi a far lezione quotidiana d'amor patrio o d'amor paterno e materno ai suoi fratellini, e anzi ai suoi zii e nonni.
Chi pretende che faccia questo, vuole che il vispo fanciullo sia un vecchio noioso; vuole, insomma, che non esista la poesia.
Perché la poesia, costretta a essere poesia sociale, poesia civile, poesia patriottica, intristisce sui libri, avvizzisce nell'aria chiusa della scuola, e finalmente ammala di retorica, e muore.
E noi di questa pseudopoesia ne abbiamo tanta, sin da quando, morto Virgilio, invecchiando Orazio, chiusa la grande rivoluzione che cominciò, si può dire, e finì con la morte di due donne, di Giulia e di Cleopatra, la figlia e l'amante di Cesare; ebbene i corvi, quali Pindaro li avrebbe chiamati, si gettarono gracchiando sull'immenso campo di battaglia, per beccare non occhi di uccisi, ma semi di poesia.
E che facevano essi? Raccontavano un fatto storico, di quelli ultimi: lo condivano con declamazioni, esclamazioni, maledizioni; e lo mettevano in esametri.
Ma anch'essi capivano che non bastano i versi a far poesia: e perciò incorniciavano la loro storia verseggiata e declamata con una descrizione di alba e un'altra di tramonto; e il poema era fatto (25).
Ecco Giulio Montano.
Questi era un poeta come tant'altri.
A ogni tratto inseriva albe e tramonti.
Pertanto, poiché un tale s'era seccato ch'egli avesse recitato per tutto un giorno, e diceva che non si doveva andare alle sue recite; Natta Pinario esclamò: "O che io posso essere più condiscendente con lui? Io sono pronto a starlo a sentire da un'alba a un tramonto!" Voleva dire, il buon Natta, che la seccaggine sarebbe durata poco, e che dopo due o tre versi esso poteva andare pei fatti suoi (26).È inutile.
Già Orazio ammoniva che non bastavano le descrizioncelle, le digressioncelle, le belle toppe rosse e gialle, per far di prosa poesia (27).
Bisogna che il fatto storico, se vuol divenir poetico, filtri attraverso la maraviglia e l'ingenuità della nostra anima fanciulla, se la conserviamo ancora.
Bisogna allontanare il fatto vicino allontanandocene noi (28).
Volete una prova a cui distinguere la poesia dalla pseudopoesia, in siffatto genere storico?
Se la narrazione, che il verseggiatore vi fa, vi commuove meno che la stessa, fatta in prosa, dallo storico e dal cronista, dite pure che il verseggiatore ha tradotto, e male; non ha poetato.
E ha perduto il suo tempo e ha fatto perdere a noi il nostro.
XII.
Ma in Italia la pseudopoesia si desidera, si domanda, s'ingiunge.
In Italia noi siamo vittime della storia letteraria! Per vero, né in Italia soltanto, mi pare che delle lettere si sia ingenerato un concetto falso.
Le lettere sono gli strumenti delle idee, e le idee fanno di sé tanti gruppi che si chiamano scienze.
Ma noi, fissati sugli strumenti, abbiamo finalmente dimenticato i fini.
Siamo agricoltori che non pensano se non alle vanghe e non parlano se non di aratri, e più delle loro bellurie che delle loro utilità.
Delle semente, della terra, dei concimi, non ci curiamo più.
Quindi avviene che abbiamo, come fisici, filosofi, storici, matematici, così letterati; modo di dire, come coltivatori di canapa, di viti, di grano e d'ulivi, così periti di vanghe e d'aratri, i quali non s'occupano di altro, e credono che non ci si debba occupar d'altro, e stimano, io vedo, che la loro sia la più nobile delle occupazioni.
E almeno li facessero essi, codesti strumenti: no, li "giudicano" e li "collezionano".
Codest'ozio noi chiamiamo ora critica e storia letteraria.
E ognuno può vedere che ci sono cose molto più utili e belle da fare: cioè coltivare e seminare.
Ma c'è pure, tra le tante branche della letteratura, la poesia che sta a sé, la poesia che comprende in sé tutto ciò che si dice e scrive per diletto, amaro o dolce, suo o altrui.
Questa non è rispetto alle scienze quello che lo strumento rispetto al fine.
È una coltivazione, poniamo, anch'essa, ma d'altro ordine e specie.
È, poniamo, la coltivazione, affatto nativa, della psiche primordiale e perenne.
Ma noi la mettiamo insieme con l'altra letteratura "strumentale", e ne ragioniamo allo stesso modo.
La dividiamo per secoli e scuole, la chiamiamo arcadica, romantica, classica, veristica, naturalistica, idealistica, e via dicendo.
Affermiamo che progredisce, che decade, che nasce, che muore, che risorge, che rimuore.
In verità la poesia è tal maraviglia che se voi fate ora una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono.
Come mai? Così: l'uomo impara a parlare tanto diverso o tanto meglio, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio; ma comincia con far gli stessi vagiti e guaiti in tutti i tempi e luoghi.
La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli.
Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto.
E quindi, né c'è poesia arcadica, romantica, classica, né poesia italiana, greca, sanscrita; ma poesia soltanto, soltanto poesia, e...non poesia.
Sì: c'è la contraffazione, la sofisticazione, l'imitazione della poesia, e codesta ha tanti nomi.
Ci sono persone che fanno il verso agli uccelli, e al fischio sembrano uccelli; e non sono uccelli, sì uccellatori.
Ora io non so dire quanta vanità sia la storia di codesti ozi.
Eccola in due parole.
Un poeta emette un dolce canto.
Per un secolo, o giù di lì, mille altri lo ripetono fiorettandolo e guastandolo; finché viene a noia.
E allora un altro poeta fa risonare un altro bel canto.
E per un secolo, o più o meno, mille altri ci fanno su le loro variazioni.
Qualche volta il canto iniziale non è né bello né dolce; e allora peggio che mai! Ma in Italia, e altrove, non stiamo paghi a questo compendio.
Ragioniamo e distinguiamo troppo.
Quella scuola era migliore, questa peggiore.
A quella bisogna tornare, a questa rinunziare.
No: le scuole di poesia sono tutte peggio, e a nessuna bisogna addirsi.
Non c'è poesia che la poesia.
Quando poi gli intendenti, perché uno fa, ad esempio, una vera poesia su un gregge di pecore, pronunziano che quel vero poeta è un arcade; e perché un altro, in una vera poesia, ingrandisce straordinariamente una parvenza, proclamano che quell'altro vero poeta pecca di secentismo; ecco gl'intendenti scioccheggiano e pedanteggiano nello stesso tempo.
Qualunque soggetto può essere contemplato, dagli occhi profondi del fanciullo interiore: qualunque tenue cosa può a quelli occhi parere grandissima.
Voi dovete soltanto giudicare (se avete questa mania di giudicare) se furono quelli occhi che videro; e lasciar da parte secento e Arcadia.
La poesia non si evolve e involve, non cresce o diminuisce; è una luce o un fuoco che è sempre quella luce e quel fuoco: i quali, quando appariscono, illuminano e scaldano ora come una volta, e in quel modo stesso.
Solamente s'ha a dire che raramente appariscono.
Sì: la poesia, detta e scritta, è rara.
Proprio rara la poesia pura.
Ma c'è la poesia "applicata".
La poesia "applicata" è dei grandi poemi, dei grandi drammi, dei grandi romanzi.
Ora molto ci corre che questi siano tutta poesia.
Immaginate che siano un gran mare, ognuno.
Nel mare sono le perle; ma quante? Ben poche; però in quale più, in quale meno.
Occorre anche dire che in essi poemi, drammi, romanzi, la poesia pura di rado si trova pura.
Faccio un esempio.
Una di queste perle, nel grande oceano perlifero che è la divina Comedia, diremo la campana della sera:
Era già l'ora che volge il disio
ai naviganti, e intenerisce il core
lo dì ch'han detto ai dolci amici addio;
e che lo nuovo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si muore.
In questa rappresentazione, che di più poetiche non se ne può trovare (Dante ci rappresenta l'ora in cui ridiveniamo per un momento fanciulli!), il tocco più poetico è l'ultimo.
È l'ultimo; sebbene la squilla lontana che piange il giorno che muore, sia di quei tocchi che noi verseggiatori abbiamo fatti tornare a noia, a forza di ripeterli.
E così quel suono di squilla può essere stinto e fioco per alcuno, assordato da tanti doppi.
Ma tant'è.
Orbene: il poeta ha dovuto mettere, per la necessità dell'arte, un pochino di lega nel suo oro puro.
Quale? Quel "paia".
L'ha dovuto mettere, perché egli racconta un sentimento poetico altrui, sebbene anche di sé.
E allora ha detto che la squilla pare piangere, non piange veramente.
A un tratto il fanciullo (qui un poco, e molto altrove, molto presso altri), il fanciullo a mezza via si riscuote, e par che si vergogni d'essere fanciullo e di parlar fanciullesco, e si corregge.
"Pare, non è, intendiamoci".
Ma caro bimbo, lo sapevamo da noi, che la campana non piange, ma par che pianga: anche però il giorno par che muoia, e non muore (29).
XIII.
La poesia benefica di per sé, la poesia che di per sé ci fa meglio amare la patria, la famiglia, l'umanità, è, dunque, la poesia pura, la quale di rado si trova.
In Italia poi, che è la mia patria (non la tua, o fanciullo: tu sei del mondo, non sei d'ora ma di sempre), in Italia è più rara che altrove.
Invero non mai da noi fu amata la poesia elementare e spontanea.
Come in genere la nostra letteratura, così in ispecie la nostra poesia ha avuto innanzi sé dei modelli.
Noi abbiamo specchiato il nostro stile nell'arte latina, come i latini avevano fatto coi greci.
Ciò può aver giovato a dare concretezza e maestà alle nostre scritture; ma quanto a poesia, ciò l'ha soffocata; la poesia non si fa sui libri.
Poi amiamo troppo l'ornamentazione; e questo gusto lo dimostriamo specialmente in ciò che meno lo comporta: nella poesia.
Il fanciullino italico non ruzza che ben vestito e ben pettinato: le noci con le quali fa a filetto, devono essere coperte di carta d'oro e d'argento.
Noi vogliamo farci sempre onore: invece di badare al giuoco, badiamo a noi: ci stiamo a sentire e ammicchiamo alla nostra ombra.
E anche più che a noi, badiamo al pubblico: guardiamo con la coda dell'occhio i grandi che stanno a vederci; e così facciamo tutto senza garbo e senza scioltezza.
E siccome, particolarmente ai nostri giorni, tutto da noi si fa a concorso e tutto si dà all'asta e tutto si conclude con la aggiudicazione e la premiazione, così ci proponiamo, più che altro, di sopraffare l'un l'altro e di conquistarci con qualche grazietta il favore dei giudici.
Nei giochi dei nostri fanciulli, c'entra per molta parte la gherminella che è cosa da attempati.
Sono troppo scaltriti, i nostri fanciulli, e cercano meglio di essere primi, che di esser loro.
Perciò la nostra poesia (per chiamarla così) è per lo più d'imitazione, anzi di collezione, e sa di lucerna, non di guazza e d'erba fresca.
Noi studiamo troppo, per poetare; ed è superfluo aggiungere che, per sapere, studiamo troppo poco.
Mettiamo lo studio ove non c'entra.
O come? Non c'entra nel poetare lo studio? Sì, ma diretto al fine, che Dante mostrò.
Virgilio, che è lo studio, conduce Dante a Matelda che è l'arte; l'arte in genere e in ispecie.
L'arte di Dante è appunto la poesia.
Dunque lo studio condusse Dante alla poesia.
Ebbene, Matelda, o la poesia, è nel giardino dell'innocenza, sceglie cantando fior da fiore, ha gli occhi luminosi, purifica nei fiumi dell'oblio e della buona volontà.
Ossia, il poeta, mercé lo studio, è riuscito a ritrovare la sua fanciullezza, e puro come è, vede bene e sceglie senza alcuna fatica, sceglie cantando, i fiori che pare spuntino avanti i suoi piedi.
Io, senza insistere sul valore morale del mito tanto esatto e bello, dico, interpretando il poeta per il rispetto artistico, che lo studio deve essere diretto a togliere più che ad aggiungere: a togliere la tanta ruggine che il tempo ha depositata sulla nostra anima, in modo che torniamo a specchiarci nella limpidezza di prima; ed essere soli tra noi e noi.
Lo studio deve togliere le scorie al puro cristallo che noi troviamo quasi casualmente; e quel cristallo pur con le scorie val più d'un vetro che noi dilatiamo e formiamo soffiando.
Lo studio deve rifarci ingenui, insomma, tal quale Dante figura sé come avanti Beatrice così rispetto a Matelda; che se dall'una è sgridato e fatto piangere e vergognare come fanciullo battuto, dall'altra è, come bambino che non vuole o non può fare da sé, preso e tuffato nell'acqua e menato a bere alla fonte.
Lo studio deve togliere gli artifizi, e renderci la natura.
Così dice Dante.
La sua arte è impersonata in Matelda, che è la natura umana primordialmente libera, felice, innocente.
XIV.
Ma noi italiani siamo, in fondo, troppo seri e furbi, per essere poeti.
Noi imitiamo troppo.
E sì, che studiando si deve imparare a far diverso, non lo stesso.
Ma noi vogliamo far lo stesso e dare a credere o darci a credere di fare meglio.
Perciò sovente ci pare che, incastonando la gemma altrui in un anello nostro, noi abbiamo trovata e magari fatta la gemma; e più sovente ci imaginiamo che, dorando la statua di bronzo, quella statua non solo sia più bella, ma diventi opera nostra.
Noi non gettiamo più il martello contro i blocchi di marmo: ci accontentiamo di pulire e lustrare le statue belle e fatte.
Al più al più, noi facciamo l'arte di Giovanni da Udine: eleganti stucchi: ma non ricordiamo quel che Giovanni disse, mi pare, a Pietro Aretino che ne lo ammirava: Bambocci vogliono essere!
E le scuole ci legano.
Le scuole sono fili sottili di ferro, tesi tra i verdi mai della foresta di Matelda: noi, facendo i fiori, temiamo a ogni tratto d'inciampare e cadere.
L'ho già detto: se uno si abbandona alle delizie della campagna, teme che lo chiamino arcade; se un altro si vede avanti un'antitesi, sta un pezzo tra il sì e il no, temendo d'essere chiamato secentista.
Mentre la mandra degli imitatori si butta alla rinfusa dietro qualche ariete maggiore, e tutti si mettono a belare o mugliare a un modo; sì che in certi tempi pare che gl'italiani (giudicandoli da quelli che scrivono in versi) non abbiano che l'amica, in certi altri non abbiano che la mamma; i poeti veri sono pieni del contrario affetto: vogliono cioè non essere imbrancati né nel verismo né nell'idealismo né nel simbolismo.
Queste preoccupazioni li rendono troppo circospetti, troppo irresoluti, troppo sforzati.
E Matelda si allontana da loro, facendo echeggiare sempre più lungi il suo dolce salmo che finisce per confondersi con lo stormir delle foglie e col gorgoglio del ruscello, e morire.
Ma poi per la poesia vera e propria, a noi manca, o sembra mancare, la lingua.
La poesia consiste nella visione d'un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi.
Guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri.
Voi vedete che hanno sempre alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interessano soltanto loro e che perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline, ossiccioli, sassetti.
Il poeta fa il medesimo.
Ma come chiamare questi lapilli ideali, questi cervi volanti della sua anima? Il nome loro non è fatto, o non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione o a tutte le classi del popolo.
Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de' fanciulli la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S'ha sempre a dire uccelli, sì di quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori o fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi?
Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di Linneo non va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c'è, da regione a regione, anzi da contado a contado.
Se il popolo italiano badasse a queste tali cose, fiori, piante, uccelli, insetti, rettili, che formano per gran parte la poesia della campagna, il nome che esse hanno in una terra, avrebbe finito per prevalere su quello dominante in altre.
Ma gl'italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorio dell'elmo di Scipio, non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule.
E così il poeta, se vuol poetare, bisogna che si lasci ogni tanto dire: "E questo che è? Che vuol dire? O poeta saccente e seccante!" E tuttavia così il poeta deve fare, e lasciar dire così, sperando, se non altro, che se ne avvantaggino i poeti futuri, i quali troveranno divulgati tanti nomi prima ignoti e perciò chiamati oscuri.
In verità non è egli l'Adamo che per primo mette i nomi? Così deve operare, facendo a ogni momento qualche rinunzia d'amor proprio.
Perché l'arte de
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