IL FANCIULLINO, di Giovanni Pascoli - pagina 5
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Affermiamo che progredisce, che decade, che nasce, che muore, che risorge, che rimuore.
In verità la poesia è tal maraviglia che se voi fate ora una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono.
Come mai? Così: l'uomo impara a parlare tanto diverso o tanto meglio, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio; ma comincia con far gli stessi vagiti e guaiti in tutti i tempi e luoghi.
La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli.
Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto.
E quindi, né c'è poesia arcadica, romantica, classica, né poesia italiana, greca, sanscrita; ma poesia soltanto, soltanto poesia, e...non poesia.
Sì: c'è la contraffazione, la sofisticazione, l'imitazione della poesia, e codesta ha tanti nomi.
Ci sono persone che fanno il verso agli uccelli, e al fischio sembrano uccelli; e non sono uccelli, sì uccellatori.
Ora io non so dire quanta vanità sia la storia di codesti ozi.
Eccola in due parole.
Un poeta emette un dolce canto.
Per un secolo, o giù di lì, mille altri lo ripetono fiorettandolo e guastandolo; finché viene a noia.
E allora un altro poeta fa risonare un altro bel canto.
E per un secolo, o più o meno, mille altri ci fanno su le loro variazioni.
Qualche volta il canto iniziale non è né bello né dolce; e allora peggio che mai! Ma in Italia, e altrove, non stiamo paghi a questo compendio.
Ragioniamo e distinguiamo troppo.
Quella scuola era migliore, questa peggiore.
A quella bisogna tornare, a questa rinunziare.
No: le scuole di poesia sono tutte peggio, e a nessuna bisogna addirsi.
Non c'è poesia che la poesia.
Quando poi gli intendenti, perché uno fa, ad esempio, una vera poesia su un gregge di pecore, pronunziano che quel vero poeta è un arcade; e perché un altro, in una vera poesia, ingrandisce straordinariamente una parvenza, proclamano che quell'altro vero poeta pecca di secentismo; ecco gl'intendenti scioccheggiano e pedanteggiano nello stesso tempo.
Qualunque soggetto può essere contemplato, dagli occhi profondi del fanciullo interiore: qualunque tenue cosa può a quelli occhi parere grandissima.
Voi dovete soltanto giudicare (se avete questa mania di giudicare) se furono quelli occhi che videro; e lasciar da parte secento e Arcadia.
La poesia non si evolve e involve, non cresce o diminuisce; è una luce o un fuoco che è sempre quella luce e quel fuoco: i quali, quando appariscono, illuminano e scaldano ora come una volta, e in quel modo stesso.
Solamente s'ha a dire che raramente appariscono.
Sì: la poesia, detta e scritta, è rara.
Proprio rara la poesia pura.
Ma c'è la poesia "applicata".
La poesia "applicata" è dei grandi poemi, dei grandi drammi, dei grandi romanzi.
Ora molto ci corre che questi siano tutta poesia.
Immaginate che siano un gran mare, ognuno.
Nel mare sono le perle; ma quante? Ben poche; però in quale più, in quale meno.
Occorre anche dire che in essi poemi, drammi, romanzi, la poesia pura di rado si trova pura.
Faccio un esempio.
Una di queste perle, nel grande oceano perlifero che è la divina Comedia, diremo la campana della sera:
Era già l'ora che volge il disio
ai naviganti, e intenerisce il core
lo dì ch'han detto ai dolci amici addio;
e che lo nuovo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si muore.
In questa rappresentazione, che di più poetiche non se ne può trovare (Dante ci rappresenta l'ora in cui ridiveniamo per un momento fanciulli!), il tocco più poetico è l'ultimo.
È l'ultimo; sebbene la squilla lontana che piange il giorno che muore, sia di quei tocchi che noi verseggiatori abbiamo fatti tornare a noia, a forza di ripeterli.
E così quel suono di squilla può essere stinto e fioco per alcuno, assordato da tanti doppi.
Ma tant'è.
Orbene: il poeta ha dovuto mettere, per la necessità dell'arte, un pochino di lega nel suo oro puro.
Quale? Quel "paia".
L'ha dovuto mettere, perché egli racconta un sentimento poetico altrui, sebbene anche di sé.
E allora ha detto che la squilla pare piangere, non piange veramente.
A un tratto il fanciullo (qui un poco, e molto altrove, molto presso altri), il fanciullo a mezza via si riscuote, e par che si vergogni d'essere fanciullo e di parlar fanciullesco, e si corregge.
"Pare, non è, intendiamoci".
Ma caro bimbo, lo sapevamo da noi, che la campana non piange, ma par che pianga: anche però il giorno par che muoia, e non muore (29).
XIII.
La poesia benefica di per sé, la poesia che di per sé ci fa meglio amare la patria, la famiglia, l'umanità, è, dunque, la poesia pura, la quale di rado si trova.
In Italia poi, che è la mia patria (non la tua, o fanciullo: tu sei del mondo, non sei d'ora ma di sempre), in Italia è più rara che altrove.
Invero non mai da noi fu amata la poesia elementare e spontanea.
Come in genere la nostra letteratura, così in ispecie la nostra poesia ha avuto innanzi sé dei modelli.
Noi abbiamo specchiato il nostro stile nell'arte latina, come i latini avevano fatto coi greci.
Ciò può aver giovato a dare concretezza e maestà alle nostre scritture; ma quanto a poesia, ciò l'ha soffocata; la poesia non si fa sui libri.
Poi amiamo troppo l'ornamentazione; e questo gusto lo dimostriamo specialmente in ciò che meno lo comporta: nella poesia.
Il fanciullino italico non ruzza che ben vestito e ben pettinato: le noci con le quali fa a filetto, devono essere coperte di carta d'oro e d'argento.
Noi vogliamo farci sempre onore: invece di badare al giuoco, badiamo a noi: ci stiamo a sentire e ammicchiamo alla nostra ombra.
E anche più che a noi, badiamo al pubblico: guardiamo con la coda dell'occhio i grandi che stanno a vederci; e così facciamo tutto senza garbo e senza scioltezza.
E siccome, particolarmente ai nostri giorni, tutto da noi si fa a concorso e tutto si dà all'asta e tutto si conclude con la aggiudicazione e la premiazione, così ci proponiamo, più che altro, di sopraffare l'un l'altro e di conquistarci con qualche grazietta il favore dei giudici.
Nei giochi dei nostri fanciulli, c'entra per molta parte la gherminella che è cosa da attempati.
Sono troppo scaltriti, i nostri fanciulli, e cercano meglio di essere primi, che di esser loro.
Perciò la nostra poesia (per chiamarla così) è per lo più d'imitazione, anzi di collezione, e sa di lucerna, non di guazza e d'erba fresca.
Noi studiamo troppo, per poetare; ed è superfluo aggiungere che, per sapere, studiamo troppo poco.
Mettiamo lo studio ove non c'entra.
O come? Non c'entra nel poetare lo studio? Sì, ma diretto al fine, che Dante mostrò.
Virgilio, che è lo studio, conduce Dante a Matelda che è l'arte; l'arte in genere e in ispecie.
L'arte di Dante è appunto la poesia.
Dunque lo studio condusse Dante alla poesia.
Ebbene, Matelda, o la poesia, è nel giardino dell'innocenza, sceglie cantando fior da fiore, ha gli occhi luminosi, purifica nei fiumi dell'oblio e della buona volontà.
Ossia, il poeta, mercé lo studio, è riuscito a ritrovare la sua fanciullezza, e puro come è, vede bene e sceglie senza alcuna fatica, sceglie cantando, i fiori che pare spuntino avanti i suoi piedi.
Io, senza insistere sul valore morale del mito tanto esatto e bello, dico, interpretando il poeta per il rispetto artistico, che lo studio deve essere diretto a togliere più che ad aggiungere: a togliere la tanta ruggine che il tempo ha depositata sulla nostra anima, in modo che torniamo a specchiarci nella limpidezza di prima; ed essere soli tra noi e noi.
Lo studio deve togliere le scorie al puro cristallo che noi troviamo quasi casualmente; e quel cristallo pur con le scorie val più d'un vetro che noi dilatiamo e formiamo soffiando.
Lo studio deve rifarci ingenui, insomma, tal quale Dante figura sé come avanti Beatrice così rispetto a Matelda; che se dall'una è sgridato e fatto piangere e vergognare come fanciullo battuto, dall'altra è, come bambino che non vuole o non può fare da sé, preso e tuffato nell'acqua e menato a bere alla fonte.
Lo studio deve togliere gli artifizi, e renderci la natura.
Così dice Dante.
La sua arte è impersonata in Matelda, che è la natura umana primordialmente libera, felice, innocente.
XIV.
Ma noi italiani siamo, in fondo, troppo seri e furbi, per essere poeti.
Noi imitiamo troppo.
E sì, che studiando si deve imparare a far diverso, non lo stesso.
Ma noi vogliamo far lo stesso e dare a credere o darci a credere di fare meglio.
Perciò sovente ci pare che, incastonando la gemma altrui in un anello nostro, noi abbiamo trovata e magari fatta la gemma; e più sovente ci imaginiamo che, dorando la statua di bronzo, quella statua non solo sia più bella, ma diventi opera nostra.
Noi non gettiamo più il martello contro i blocchi di marmo: ci accontentiamo di pulire e lustrare le statue belle e fatte.
Al più al più, noi facciamo l'arte di Giovanni da Udine: eleganti stucchi: ma non ricordiamo quel che Giovanni disse, mi pare, a Pietro Aretino che ne lo ammirava: Bambocci vogliono essere!
E le scuole ci legano.
Le scuole sono fili sottili di ferro, tesi tra i verdi mai della foresta di Matelda: noi, facendo i fiori, temiamo a ogni tratto d'inciampare e cadere.
L'ho già detto: se uno si abbandona alle delizie della campagna, teme che lo chiamino arcade; se un altro si vede avanti un'antitesi, sta un pezzo tra il sì e il no, temendo d'essere chiamato secentista.
Mentre la mandra degli imitatori si butta alla rinfusa dietro qualche ariete maggiore, e tutti si mettono a belare o mugliare a un modo; sì che in certi tempi pare che gl'italiani (giudicandoli da quelli che scrivono in versi) non abbiano che l'amica, in certi altri non abbiano che la mamma; i poeti veri sono pieni del contrario affetto: vogliono cioè non essere imbrancati né nel verismo né nell'idealismo né nel simbolismo.
Queste preoccupazioni li rendono troppo circospetti, troppo irresoluti, troppo sforzati.
E Matelda si allontana da loro, facendo echeggiare sempre più lungi il suo dolce salmo che finisce per confondersi con lo stormir delle foglie e col gorgoglio del ruscello, e morire.
Ma poi per la poesia vera e propria, a noi manca, o sembra mancare, la lingua.
La poesia consiste nella visione d'un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi.
Guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri.
Voi vedete che hanno sempre alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interessano soltanto loro e che perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline, ossiccioli, sassetti.
Il poeta fa il medesimo.
Ma come chiamare questi lapilli ideali, questi cervi volanti della sua anima? Il nome loro non è fatto, o non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione o a tutte le classi del popolo.
Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de' fanciulli la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S'ha sempre a dire uccelli, sì di quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori o fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi?
Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di Linneo non va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c'è, da regione a regione, anzi da contado a contado.
Se il popolo italiano badasse a queste tali cose, fiori, piante, uccelli, insetti, rettili, che formano per gran parte la poesia della campagna, il nome che esse hanno in una terra, avrebbe finito per prevalere su quello dominante in altre.
Ma gl'italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorio dell'elmo di Scipio, non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule.
E così il poeta, se vuol poetare, bisogna che si lasci ogni tanto dire: "E questo che è? Che vuol dire? O poeta saccente e seccante!" E tuttavia così il poeta deve fare, e lasciar dire così, sperando, se non altro, che se ne avvantaggino i poeti futuri, i quali troveranno divulgati tanti nomi prima ignoti e perciò chiamati oscuri.
In verità non è egli l'Adamo che per primo mette i nomi? Così deve operare, facendo a ogni momento qualche rinunzia d'amor proprio.
Perché l'arte del poeta è sempre una rinunzia.
Ho detto che deve togliere, non aggiungere: e ciò è rinunzia.
Deve fare a meno di tanti ghirigori, così facili a farsi, di tante bellurie, così piacevoli alla vista, di tante dorature, che danno tanta idea della propria ricchezza: e questa è rinunzia.
Deve lasciar molto greggio e molto imperfetto.
Oh! Come è necessaria l'imperfezione per essere perfetti! Lo sapeva anche Marziale che derideva quel Matone che voleva dir tutto belle.
Di', egli esclama, qualche volta soltanto bene, anche né ben né male, magari male! La continua eleganza è sommamente stucchevole.
È come quel pranzo descritto dal De Amicis nel Marocco, che tutto vi sapeva di pomata.
Questa bellezza in tutto e per tutto è totalmente antipoetica; ché la poesia è ingenuità; e quel fanciullo, che ogni cosa che fa e dice, la fa con una moina e con una smorfietta, e la dice con parolucce smaccate e dolciate; che scapaccioni chiama quel fanciullo consapevole della sua fanciulleria!
XV.
Con tutto questo, che speri tu? Che fine hai? Ritorno, come vedi, al primo detto.
Essere utile a me? No, s'è detto.
Recar utile agli altri? S'è detto che, se mai, non lo fai apposta: dunque non è il fine tuo, codesto.
Dilettar te stesso? Ecco: se questo fosse il tuo fine, tu chiuderesti dentro te la tua visione, e te la godresti tra te e me, senza quei tanti struggimenti che ci sono per comunicare la visione agli altri.
O dunque?
La gloriola...
O povero fanciullo!
Pensa, o fanciullo, quante altre cose potrei fare con maggiore rispondenza a codesto fine.
Da condurre un esercito a volare sulla bicicletta, tutto, o quasi tutto, meglio porta alla meta della vittoria e della gloria.
Ma poniamo che ci si arrivi anche "sulle ali del canto".
Qual disgrazia sarebbe mettersi in questa via, e per te e per me! Prima di tutto, ne andrebbe molto tempo.
La gloriola vuole mutui uffici.
Io devo conversare, e per lettere e a voce, sì con quelli che coltivano medesimi campi, e chieder loro e averne notizie sull'efficacia d'un concime che usiamo, e dar loro e riceverne auguri e rallegramenti per un buon raccolto che speriamo d'avere o abbiamo avuto; sì con quelli che professano soltanto di fornir le pianticelle, i semi, i concimi chimici, gli strumenti agricoli, a mano e a vapore.
Quanto studio, quanta diligenza e pazienza si richiede per siffatta coltivazione! Bisogna raccattare tutti i cocci, come fanno i contadini, per seminarci e trapiantarci le tante pianticelle; anche i caldani rotti raccattiamo; anche quei vasi, dove cresceva il garofano di Geva contadinella.
E star sempre lì ad annaffiare, a mondare, a potare; e sbirciare i vasi del vicino, e struggerci ch'egli abbia papaveri più grandi e girasoli più vistosi, e buttare a lui il malocchio, e contro il malocchio di lui tener molta ruta, e guardare che non ci si secchi.
Ma tu dirai: Anche il tempo si raccatta! Bene: parliamo d'altro.
Non miete, chi non s'inchina.
Ora, per la gloriola, ci s'inchina troppo, tanto umile sovente è la pianticella, e ci s'inchina troppo spesso, tante sono.
Voglio dire che la nostra anima (l'anima, intendi!) si deforma, si fa gobba, come è la schiena dei poveri contadini che s'inchinano per il grano.
E tu devi essere dritta,serena, semplice, o anima mia!
Non c'è forse sentimento al mondo, nemmeno l'avidità del guadagno, che sia tanto contrario all'ingenuità del poeta, quanto questa gola di gloriola, che si risolve in un desiderio di sopraffazione! Quanto sei preso da questo morbo, tu (ma tu non c'entri, allora), io, non cerco il poetico, il buono e il bello, ma il sonante e l'abbagliante.
Oh! non cerco allora i lapilli, i nicchi, i fiori per la mia via, ma veglio inquieto spiando i quaderni altrui, magari leggendo di sulle spalle dello scrittore ciò che egli scrive.
Allora io smetto il mio verso, e mi metto a far quello d'altri: come un merlo noioso che canta, in questo mentre, non le sue arie mattinali di bosco, ma la ritirata: perché, se non per voglia di gloriola, nel suo padrone e forse in lui? O merlo dal becco giallo, tu hai voluto esser troppo furbo! Come puoi credere che il tuo "Io ti vedo!" che risonava tra il cader della guazza, sia peggio di codesto insopportabile "Ritirati cappellon!"?
Ma è pur vero che "merlo" vuol dire sì furbo e sì il contrario! O anche, insistiamo troppo su un nostro verso o motivo o vezzo o genere, che sia una volta piaciuto; e riusciamo stucchevoli; non basta; diventiamo falsi.
Imitiamo da noi medesimi, col vetro d'un bicchiere, il diamante puro che una volta trovammo.
E sempre, pensando o scrivendo, siamo distratti dalla preoccupazione dell'effetto: che ne diranno? Vincerò, con questo, il tale o il tal altro? E la tua grazia, che non è grazia se non è spontanea, si perde per sempre.
Tu non vedi più giusto e limpido; anzi non guardi più; seppure, ciò che sarebbe peggio, non guardi, come ho detto, negli altri, e non baratti le vesti e magari l'anima con altri, che tu veda o creda più pregiati di te!
XVI.
Non pensare alla gloriola, fanciullo: non è cosa da te.
Ella è troppo difficile, o facile, a raggiungersi.
Difficile: non ho già detto quanto è raro che t'intendano? Tu non fai se non scoprire il nuovo nel vecchio.
Gli altri, ossia i tuoi lettori e uditori, che non dovrebbero dire o pensare se non: "Come è vero! E io non ci avevo pensato".
Ma questo assentimento non ti vien sempre e nemmeno spesso.
Gli occhi della gente sono oggi così fissi nell'ombelico della propria persona, che non hanno visto, si può dire, altro.
E perché hanno le luci velate dalla catalessi del loro egoismo, dicono che sei tu oscuro.
Puoi, quanto tu voglia, descrivere un mattino, per esempio, in campagna: chi non l'ha mai veduto sorgere, il sole, né in campagna né in città, non capisce e non approva nulla di ciò che dici.
Sei inoltre oscuro, sovente per un'altra ragione: perché sei chiaro.
Sono tanto avvezzi i lettori oggi alle girandole, agli andirivieni, ai viluppi dei pensieri e sentimenti; perché gli autori, attingendo questi e quelli di sui libri, s'ingegnano con gli stucchi e gli ori a dar loro un aspetto nuovo, o fanno come le lepri, le quali, per nascondere al cacciatore le loro tracce, si mettono a girare e pestare su esse; sono i lettori tanto abituati ai misteri o gherminelle degli autori, i quali, troppo comodi, vogliono perpetuamente che s'intenda dagli altri meglio che da lor si ragioni; che quando tu dici nel tuo semplice modo le tue semplici cose, ecco che non ti capiscono più.
Essi cercano in te quello che non c'è, e perché non lo trovano, ci rimangono male.
E se anche ti capiscono, vale a dire se capiscono che non vuoi dire se non quel che dici, e non sottintendi nulla, e non hai la pretesa, assurda e comune, che il senso, nelle tue cose, ce lo mettano i lettori, allora i più non ti apprezzano.
Ai più pare che il bello sia nei fregi e che il poetico sia nella foga oratoria, E infine, quasi tutti, come vuoi che ascoltino lo stormire delle foglie o il gorgoglio del ruscello o il canto dell'usignuolo o il suono della tua avena, se lì presso la banda del villaggio assorda la campagna coi tromboni e i colpi di gran cassa?
No no, fanciullo.
La gloria o gloriola si forma con l'assenso di molti, e tu non sei udito, ascoltato, approvato, che dai pochi.
È vero che tu ti rivolgi a tutti, ma ricordati: non agli uomini proprio, ma ai fanciulli, come te, che sono negli uomini.
Ora codesti fanciulli, dato che in nessuno manchino, in pochi però prestano ascolto.
E sai quali sono questi pochi? Sono generalmente poeti.
Cioè il loro fanciullo, o ti sta a sentire solo perché anch'esso canta e vuol sapere se tu canti meglio o peggio di lui, o standoti a sentire finisce con cantare anche lui.
E che succede? Succede che un giorno o l'altro comincia a fare il tuo verso.
Prima fa solo qualche nota, poi qualche battuta, infine tutta la tua canzone.
E allora? Allora diventa tuo imitatore.
Ebbene? Ebbene l'imitatore è un debitore; e il debitore, presto o tardi, parlerà male del creditore.
E così, anche di quei pochi, molti si sottrarranno dal dir le tue lodi, per assicurar le loro.
E la tua gloriola o non nascerà o intisicherà appena nata.
XVII.
Ma poi ti sentiresti d'accettarla codesta gloriola? Sai com'ella nasce.
Nasce in generale dalla affermazione tua stessa.
È pensiero giustissimo del nostro Leopardi: "La via forse più diretta di acquistar fama, è di affermare e con sicurezza e pertinacia, e in quanti più modi è possibile, di averla acquistata (30)." E altrove: "Rara è nel nostro secolo quella persona lodata generalmente, le cui lodi non siano cominciate dalla propria bocca...Chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando alla modestia (31)." E tu, fanciullo, vorresti che io da una seggiola o da un palco mi mettessi a gridar le tue lodi o affermare la tua fama? "Questo ragazzo è un ragazzo miracoloso...noto in tutto il mondo..." In questo modo la gloriola sarebbe facile.
Ma tu no, non vorresti.
Eppure gli uomini non crederanno mai che sia grande un merito che non sia tanto grande da vincere persino la modestia di colui che l'ha.
Se la tua modestia è grande, contentati d'una grandezza assai modesta.
Sarai considerato un poeta mediocre, e poiché mediocre non deve essere il poeta, sarai proclamato non poeta.
Ovvero tu, non credendo all'amara considerazione del Leopardi, aspetterai che la tua lode cominci dalle bocche altrui? Perché questa lode sia tale da crearti una vera fama occorre ch'ella possa propagarsi per gran numero di persone; le quali ti loderanno poi a lor volta senza conoscerti, senza averti udito, senza averti letto! Ti loderanno per "suggestione".
Oh! il pessimo fatto che sarebbe allora il tuo! Tutto quel che tu facessi, sarebbe ugualmente lodato: ciò che tu sentissi d'aver fatto di meglio, sarebbe pareggiato a ciò che tu conoscessi d'aver fatto di peggio.
Persino cosa che non avessi fatto tu, ma comparisse col tuo nome, sarebbe levata alle stelle, e così preferita a quelle che proprio tu avessi fatto e credessi buone e belle! E che ne faresti di tale gloriola?
Tanto più che bisogna vedere da che ti venne quella lode iniziale, che avviò tutte quell'altre lodi.
Da che? Da qualche cosa più atta delle altre ad accecare, ad inebriare, a far delirare la gente.
Dalla politica, per esempio: dal partito o dalla setta.
Badaci, ragazzo.
È il fatto di qualcuno che vuol procacciarsi la popolarità mettendo la cannella a una botte, e che tutti bevano.
La gran botte è la politica, il vino che ognuno ne beve, è il proprio sentimento che si riscalda alla botte comune: la sbornia generale è la tua gloria!
O gloriola indegna del tuo desiderio! E poi è amara.
Sai che siamo al tempo dei concorsi; al tempo delle classificazioni e premiazioni.
Il divertimento più grande che si diano gli uomini, è quello di giudicare.
In Atene fu in altri tempi una consimile mania di seder nell'Eliéa e deporre le sue pietruzze.
Oggi non c'è più solo qualche pazzo, ma molti; e non giudicano, in mancanza d altro, i cani e i gatti di casa, ma gli scrittori e i poeti di casa e fuori.
Giudicano e classificano: questo è il primo, quello il secondo, l'altro il terzo, e vai dicendo.
Ahimè! tu fanciullo, fai il tuo discorsino, esprimi un tuo sentimento, esponi il tuo pensiero, mostri un tuo sorriso, versi una tua lagrima, senza riguardarti, senza saperlo, si può dire, senza perché; al primo venuto, sfogando il cuore, quasi fuori di te: a mezzo le tue parole, al tuo riso, al tuo pianto, ecco senti che il tuo uditore piglia appunti, pesa le frasi che dici, disegna, col pollice, in aria la linea del tuo sorriso, esamina l'acqua e il cristallo della tua lagrima; e mormora: "Non c'è male! Benino! Bene! Benissimo! Peggio però del tale! Anche meglio del tal altro! Primo! Secondo! Terzo! Poeta maggiore! Poeta minore!"
Certo tu, se non sei un vanarello o un frignone, cancelli il sorriso, ribevi la lagrima, e te ne vai.
Forse giuri in quel momento di non andare più da altri, e godere o piangere tra te, un'altra volta.
Ma sei fanciullo, e torni sempre da capo, trovando però ogni volta che per i fanciulli non c'è più luogo in questo mondo! Il fatto è che, oltre la noia di quel sentirti sempre paragonato, come se tu facessi un esercizio scolastico, puoi provare anche l'amarezza d'essere posposto, con giudizio spiccio o maligno, e anche d'essere preposto, a tali che tu non ti sogni nemmeno di emulare, a tali a cui tu non pensavi nemmeno, a cui non dovevi, non potevi pensare, assorto come eri nel tuo piacere o nel tuo dolore.
Ti paragoneranno con gli altri e anche con te stesso.
Ti conteranno gli anni e le rughe agli occhi, e i capelli bianchi, e non vedono l'ora di dirti che decadi, che rimbecillisci, che muori.
Bella carità! E un bel giorno ti butteranno in un canto, dimenticandosi di te, e a torto.
A torto sempre, perché ciò che hai fatto di buono, non deve essere annullato da ciò che poi faccia di men buono; e perché non può nascere mai un portento tale da far dimenticare quelli che prima di lui trovarono pur una mica di poesia.
Sia grande quanto si voglia il poeta che si aggiunge al canone, egli deve sedere su una seggiola, o vogliam dire trono, sola: non ha bisogno di due o di tutte, e che un altro o tutti gli altri si rizzino e se ne vadano.
La gloriola non è per te fanciullo! La poesia pura, quando si legge, fa che il lettore volgare dica: Come si potrebbe far meglio e più! È vero che codesta è illusione d'ornatista...
E io penso ai panforti fiorati che sono tanto più belli, e si contemplano così a lungo; ma finalmente gli ornati si gettano e si mangia il panforte solo.
Tuttavia ricordati, anche per via di questo esempio fanciullesco del panforte fiorato, che generalmente si ammira e loda quel che sta sopra, non quello ch'è sotto.
Ricordati che la poesia vera fa battere, se mai, il cuore, non mai le mani.
XVIII.
Dunque...Ma intendo.
Tu non aspiri alla gloriola, ma alla gloria; e così distingui, come se la gloriola fosse tra i vivi, e la gloria dopo morte.
Non voglio dirti (le tue illusioni mi sono care), non voglio dirti che dopo morte non sentiremo nulla, di ciò che si dice di noi.
Sentirò o almeno sentirai: non rabbuiarti.
Ma sentirai belle cose? Qui sta il punto.
Prima di tutto: diranno nulla? Si ha fretta, ai nostri giorni, di vivere; e le visite ai camposanti fanno perder tempo.
Ci si assorda, ai nostri giorni, con la nostra vita; e non è possibile udire lo stridio leggiero delle ombre.
I morti, ai nostri giorni, non contano più.
Un poeta disse che il dì della morte era il dì della lode; ma il detto, pochi anni dopo che fu detto, non era più vero; e il Prati stesso lo sa, se nel sepolcro qualcosa si sa! E questo oblio che preme subito i morti, non è, quanto ai letterati, senza ragione e senza giustizia.
Noi letterati vogliamo in vita occupar troppo il mondo di noi.
Se stessimo nel nostro angolo, se non ci sbracciassimo tanto nel mezzo della gente, se non vociassimo tanto, non avverrebbe questo compenso di silenzio dopo morte.
Dunque, diranno nulla di te? E se mai, diranno bene e giusto? O credi che allora sarà cessata la mania della classificazione, l'artifizio della suggestione, la cecità del partito e della setta?
Vedi: spesso i morti sono disturbati nel loro riposo, e tratti fuori per dare addosso ai vivi.
Spessissimo.
L'invidia sai in che forma si esercita per lo più.
Tu dài a uno la debita lode in presenza d'alcuno.
Questi conferma breve: poi a lungo si volta a lodare un altro, il quale può essere inferiore o superiore al tuo lodato, ma quasi sempre è morto.
Ora tu, fanciullo, vorresti essere disseppellito a questo fine? Poiché sarai un'ombra, avresti piacere d'essere adoperato a far ombra a qualche buon fanciullo saldo, che viva e canti? Questo non ti piacerebbe: meglio dormire dimenticato.
È meglio esser morto tutto, che continuare a comparire avanti i tribunali ad essere giudicato e classificato: tanto più, che i giudici si trasmettono, cursori che stanno eternamente fermi, le fiaccole de' loro giudizi.
Tu non vuoi giudizi: vuoi commozione, vuoi assenso, vuoi amore; e non per te, ma per la tua poesia.
Ebbene morto che tu sia, se la tua voce fu pura, se fu la voce dell'anima e delle cose, non l'eco, o più fioca o più forte, d'altrui voce; ebbene codesta voce sarà inavvertita, quando non sia dimenticata.
In vero se è spesso ripetuta, come forse è ragione, si fonderà col tempo, non so se nel silenzio o rumore circostante: come il cinguettio delle rondini sotto la tua grondaia, che quando è un pezzo che lo senti, non lo senti più...
Tu vuoi parlare? Aspetta: non ho finito.
A ogni modo perché dovrebbe essere altrimenti? Che cosa fai tu, veramente, che sia degno di lode e di gloria? Tu ridi, tu piangi: che merito in ciò? Se credi d'averci merito, è segno che ridi e piangi apposta: se lo fai apposta, non è poesia la tua: se non è poesia, non hai diritto a lode.
Tu scopri, s'è detto; non inventi; e ciò che scopri, c'era prima di te e ci sarà senza te.
Vorresti scriverci il tuo nome su? Ti adiri, che ti vogliano giudicare e anche premiare per quello che non è se non la tua natura e la tua manifestazione di vita.
Dunque che importa a te del nome?
XIX.
IL FANCIULLO
Il nome? Il nome? L'anima io semino,
ciò ch'è di bianco dentro il nocciolo,
che in terra si perde,
ma nasce il bell'albero verde.
Non lauro e bronzo voglio; ma vivere;
e vita è il sangue, fiume che fluttua
senz'altro rumore,
che un battito, appena, del cuore.
Nei cuori, io voglio, resti un mio palpito,
senz'altro vanto che qual d'un brivido
che trema su l'acque,
fa il sasso che in fondo vi giacque.
Nell'aria, io voglio, resti un mio gemito:
se l'assiuolo geme voglio essere
tra i salci del rio
anch'io, nelle tenebre, anch'io.
Se le campane piangono piangono,
io nelle opache sere invisibile
voglio essere accanto
di quella che piange a quel pianto.
Io poco voglio; pur, molto: accendere
io su le tombe mute la lampada
che irraggi e conforti
la veglia dei poveri morti.
Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea,
nel cielo infinito;
dar nuova dolcezza al vagito.
Voglio la vita mia lasciar; pendula
ad ogni stelo, sopra ogni petalo,
come una rugiada
ch'esali dal sonno, e ricada
nella nostr'alba breve.
Con l'iridi
di mille stille sue nel sole unico
s'annulla e sublima...
lasciando più vita di prima.
XX.
Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono.
La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz'essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società.
Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo.
I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l'amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome.
Ché i nomi che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d'epigoni, d'ingegnosi ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto.
Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s'inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto.
Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l'attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia.
E fu male.
E il male ingrossa sempre più.
I poeti dei nostri tempi sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che è la loro persona.
Non codesta quei primi.
E tu, o fanciullo, vorresti fare quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi (32).
È così?
Sì.
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Avvertenza
Delle opere di Pascoli non esiste un'edizione filologicamente sicura né, tanto meno (fatta eccezione per le Myricae), un'edizione critica.
Il testo del Fanciullino che qui riproduciamo è quello contenuto in Giovanni Pascoli: Pensieri e discorsi, MDCCCXCV-MCMVI, Bologna 1907, pp.
1-55 (l'ultimo pubblicato in vita del poeta).
Una nota dell'autore, in fine del volume, informa che "i primi capitoli di questo dialogo furono pubblicati dieci anni fa, nel Marzocco del 17 gennaio, 7 marzo, 11 aprile, del 1897".
Il fanciullino era stato raccolto una prima volta in volume in Giovanni Pascoli, Miei pensieri di varia umanità, Messina 1903 (presso Vincenzo Muglia, lo stesso editore degli scritti danteschi di Pascoli).
Nel primo volume della recente antologia pascoliana da lui curata per la ricciardiana (Giovanni Pascoli, Opere, I, Milano-Napoli 1980), M.
Perugi annuncia, in particolare per le fonti del Fanciullino, rilevanti risultati da uno spoglio della biblioteca di Castelvecchio (la "principalissima fonte" anticipata sono le Études sur l'enfance di James Sully).
G.
A.
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NOTE
1).
PLATONE, Fedro, 77 E.
E Cebes con un sorriso, "Come fossimo spauriti", disse, "o Socrate, prova di persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c'è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d'orchi."
2).
Che Femio sia vecchio, non si dichiara da Omero con parola espressa, ma indirettamente con l'epiteto periclytós (Odissea, 1, 325) comune all'altro aedo Demodoco (ibidem 8, 521 e al.), e specialmente con ciò che Femio stesso afferma di sé (ibidem 22, 347):
Sono maestro a me io, ché un dio piantommi nel cuore
Ogni ragione di canti...
Il che consuona con ciò che di lui dice Penelope (ibidem 1, 337 sg.):
Femio, poi che sai molt'altre malie de le genti,
Opere d'uomini e dei...
E il vecchio Femio con la canzone più nuova o più giovane (ibidem, 351 sg.):
Poi che gli uomini pregiano ed amano più quel canto
che il più nuovo all'intorno de li ascoltanti risuoni.
Quanto a Väinämöinen, ricordo da quel meraviglioso frammento di versione dovuto al mio P.
E.
Pavolini (Sul limitare, pp.
75 sg.):
L'antico e verace Väinämöinen
..............................
Quindi l'antico Väinämöinen
..............................
quando udirono il nuovo canto,
sentirono il dolce suono.
3).
OMERO, Odissea, 8, 499; phaîne d'aoidén.
Badiamo che io non intendo affermare l'etimo di aeidein da a privativo e vid- vedere.
No: intendo asseverare che codesto etimo era presente agli antichi cantori.
Si confrontino i due versi di Odissea, 1, 337 sg.
che terminano il primo con oîdas e il secondo con aoidoì.
Si mediti il 64 di 8: Degli occhi, sì, lo privò, ma gli dava la soave aoidén.
Si ripensi l'espressione su riferita: mostrava l'aoidén.
Persino, oso dire, giova osservare, riguardo l'accecamento di Polifemo, mangiator d'uomini e bevitor di vino, che polyphemos, oltre a essere il nome del terribile Ciclope, è epiteto dell'aoidós Femio (22, 376), Phémios il cui nome somiglia del resto a quello di Polyphemos.
E il Ciclope che mostra nella Odissea la sua musicalità solo quando (9, 315):
egli con sufolo molto parava le pecore al monte,
musicalità che del resto è nel suo nome, se esso vale, come in 2, 150, "pieno di sussurri o di voci", il Ciclope è presso Teocrito un dolce cantor d'amore, e nessuno dei Ciclopi sa sonar la piva come lui (Teocrito, Id., 11).
4).
Ricordo che tutto porta a credere che la Comedia sia stata cominciata dal poeta nell'anno quadragesimo ottavo della sua età, o dopo.
E quello è il poema della contemplazione, opposta alla vita attiva.
5).
Così in vero lo rappresentò il Manzoni con le Muse (bastava una) che l'accompagnano "la mal fida Con le destre vocali orma reggendo".
6).
Non solo i poeti moderni, così assolutamente fissati sull'amore e sulla donna, ma anche gli antichi poeti tragici e persino i poeti corali immediatamente successi alla poesia epica, si diedero a colorire l'elemento femminile ed erotico dei poemi omerici.
E le donne designate e mentovate in essi poemi, non bastarono, e se ne crearono di nuove.
Ciò accrebbe l'interesse drammatico del ciclo, ma segna in esso la diminuzione di essenza poetica.
Così Orlando innamorato e furioso per amore è più drammatico ma meno poetico di Rolando nella Canzone.
7).
Augusto Conti narra di una sua bambina: "Quando mirava la luna o le stelle, metteva voci di gioia, e me le additava, e chiamavale come cose viventi; offrendo loro quel che avesse in mano, anche le vesti." Rivado col pensiero a tutte le poesie che ho lette: non ne trovo una più poesia di questa!
8).
Tale, p.
es., è quello di Andromaca che piange su Ettore (II, 22, 510):
Nudo, e sì che di vesti ce n'hai ne la casa riposte,
Morbide e graziose, lavoro di mani di donne!
9).
PLATONE, Fedro, III B.
10).
CATONE, Agricoltura, 2, 7.
Armenta delicula, oves deliculas.
Traduco così, scostandomi dal Keil.
Cfr.
per il significato di armenta VIRGILIO, Georgiche, 3, 129.
11).
VARRONE, Rerum Rusticarum, 1, 17.
12).
VIRGILIO, ibidem, 3, 126 sgg.
13).
VIRGILIO, ibidem, 174 sgg.
14).
CATONE, Agricoltura, 58, e leggi 56 e 59.
15).
VIRGILIO, Eneide, 5, 284; è data, come premio a Sergesto, Foloe, una cretese, esperta nel tessere, con due gemellini alla poppa.
Ed è imitazione di OMERO, Iliade, 23, 263.
Anche è serva, in 9, 546, Licinna che diede al re dei Lidi un figlio, Eleonore.
E anche questo è Omerico.
Inoltre Andromaca partorisce servitio: Eneide, 3 327.
E c'è l'idea e la parola di servitium a proposito di giovenchi in Georgiche, 3, 168, e di se stesso, cioè di Titiro, in Ecloghe, 1, 41.
16).
VIRGILIO, Eneide, 1 701 sgg.
705; 5, 391; 8, 411, 584.
17).
VIRGILIO, Ecloghe, 1, 28.
18).
VARRONE, Rerum Rusticarum, 1, 17 ipsi colunt, ut plerique pauperculi cum sua progenie.
19).
VIRGILIO, Georgiche, 2, 458 sgg.; 1, 300 sgg.
e altrove.
20).
VIRGILIO, ibidem, 4, 125 sgg.
21).
VIRGILIO, ibidem, 2, 412 sgg.
22).
ORAZIO, Sermones, 2, 6, 1 sgg.
23).
PLATONE, Apologia di Socrate, 28 B.
sgg.
VIRGILIO, Georgiche, 1, 291 sgg.
24).
VIRGILIO, Eneide, 8, 155 sgg.
25).
SENECA, Ep., 122, II: cfr.Apoc.
2
26).
SENECA, Ep., 122, II.
E continua a leggere il fattarello che segue.
Montano avendo subito cominciato con un'alba: "Febo comincia a metter fuori le ardenti fiamme, e il dì rosseggiante a spargersi per la terra; e già la rondine triste comincia a recare ai garruli nidi il cibo, con assiduo va e vieni, e a somministrarlo bene scompartito col molle becco"; un tal Varo esclama: "È l'ora che Buta va a letto.
Perché Buta era un fuggi-luce, un vivi-al-lume-di-lucerna, uno insomma, che faceva di notte giorno." Di lì a poco, Montano declamava "Già i pastori ricoverarono nella stalla i loro armenti; già la notte cominciava a dare il nero silenzio alle terre assopite." E Varo: "Che dice? È già notte.
Andrò a fare la salutazione mattinale a Buta."
27).
ORAZIO, Arte poetica, 15 sgg.
28).
Avete un binocolo? Puntatelo verso una campagna, verso una casa, verso un borgo.
Guardate per il suo verso: ecco la prosa.
Guardate al contrario: ecco la poesia.
Più particolari nella prima e meglio distinti.
Più visione nella seconda e più...
poesia.
Provate!
29).
È superfluo aggiungere che per quanto non tutto nella Comedia sia poesia, e non tutta la poesia che v'è, sia pura, per altro quel poema è nella sua concezione generale il più "poetico" dei poemi che al mondo sono e saranno.
Nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell'invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti.
30).
LEOPARDI, GIACOMO, Pensiero LX.
31).
LEOPARDI, GIACOMO, Pensiero XXIV.
32).
Il lettore ha già veduto da sé, né tuttavia è inutile che glielo faccia meglio notare io, che questi pensieri sulla poesia, più che una confessione, che a volte sarebbe orgogliosa e vanitosa, sono veri e propri moniti a me stesso, che sono ben lontano dal fare ciò che pur credo sia da fare!
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