IL FANCIULLINO, di Giovanni Pascoli - pagina 7
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Forse giuri in quel momento di non andare più da altri, e godere o piangere tra te, un'altra volta.
Ma sei fanciullo, e torni sempre da capo, trovando però ogni volta che per i fanciulli non c'è più luogo in questo mondo! Il fatto è che, oltre la noia di quel sentirti sempre paragonato, come se tu facessi un esercizio scolastico, puoi provare anche l'amarezza d'essere posposto, con giudizio spiccio o maligno, e anche d'essere preposto, a tali che tu non ti sogni nemmeno di emulare, a tali a cui tu non pensavi nemmeno, a cui non dovevi, non potevi pensare, assorto come eri nel tuo piacere o nel tuo dolore.
Ti paragoneranno con gli altri e anche con te stesso.
Ti conteranno gli anni e le rughe agli occhi, e i capelli bianchi, e non vedono l'ora di dirti che decadi, che rimbecillisci, che muori.
Bella carità! E un bel giorno ti butteranno in un canto, dimenticandosi di te, e a torto.
A torto sempre, perché ciò che hai fatto di buono, non deve essere annullato da ciò che poi faccia di men buono; e perché non può nascere mai un portento tale da far dimenticare quelli che prima di lui trovarono pur una mica di poesia.
Sia grande quanto si voglia il poeta che si aggiunge al canone, egli deve sedere su una seggiola, o vogliam dire trono, sola: non ha bisogno di due o di tutte, e che un altro o tutti gli altri si rizzino e se ne vadano.
La gloriola non è per te fanciullo! La poesia pura, quando si legge, fa che il lettore volgare dica: Come si potrebbe far meglio e più! È vero che codesta è illusione d'ornatista...
E io penso ai panforti fiorati che sono tanto più belli, e si contemplano così a lungo; ma finalmente gli ornati si gettano e si mangia il panforte solo.
Tuttavia ricordati, anche per via di questo esempio fanciullesco del panforte fiorato, che generalmente si ammira e loda quel che sta sopra, non quello ch'è sotto.
XVIII.
Dunque...Ma intendo.
Tu non aspiri alla gloriola, ma alla gloria; e così distingui, come se la gloriola fosse tra i vivi, e la gloria dopo morte.
Non voglio dirti (le tue illusioni mi sono care), non voglio dirti che dopo morte non sentiremo nulla, di ciò che si dice di noi.
Sentirò o almeno sentirai: non rabbuiarti.
Ma sentirai belle cose? Qui sta il punto.
Prima di tutto: diranno nulla? Si ha fretta, ai nostri giorni, di vivere; e le visite ai camposanti fanno perder tempo.
Ci si assorda, ai nostri giorni, con la nostra vita; e non è possibile udire lo stridio leggiero delle ombre.
I morti, ai nostri giorni, non contano più.
Un poeta disse che il dì della morte era il dì della lode; ma il detto, pochi anni dopo che fu detto, non era più vero; e il Prati stesso lo sa, se nel sepolcro qualcosa si sa! E questo oblio che preme subito i morti, non è, quanto ai letterati, senza ragione e senza giustizia.
Noi letterati vogliamo in vita occupar troppo il mondo di noi.
Se stessimo nel nostro angolo, se non ci sbracciassimo tanto nel mezzo della gente, se non vociassimo tanto, non avverrebbe questo compenso di silenzio dopo morte.
Dunque, diranno nulla di te? E se mai, diranno bene e giusto? O credi che allora sarà cessata la mania della classificazione, l'artifizio della suggestione, la cecità del partito e della setta?
Vedi: spesso i morti sono disturbati nel loro riposo, e tratti fuori per dare addosso ai vivi.
Spessissimo.
L'invidia sai in che forma si esercita per lo più.
Tu dài a uno la debita lode in presenza d'alcuno.
Questi conferma breve: poi a lungo si volta a lodare un altro, il quale può essere inferiore o superiore al tuo lodato, ma quasi sempre è morto.
Ora tu, fanciullo, vorresti essere disseppellito a questo fine? Poiché sarai un'ombra, avresti piacere d'essere adoperato a far ombra a qualche buon fanciullo saldo, che viva e canti? Questo non ti piacerebbe: meglio dormire dimenticato.
È meglio esser morto tutto, che continuare a comparire avanti i tribunali ad essere giudicato e classificato: tanto più, che i giudici si trasmettono, cursori che stanno eternamente fermi, le fiaccole de' loro giudizi.
Tu non vuoi giudizi: vuoi commozione, vuoi assenso, vuoi amore; e non per te, ma per la tua poesia.
Ebbene morto che tu sia, se la tua voce fu pura, se fu la voce dell'anima e delle cose, non l'eco, o più fioca o più forte, d'altrui voce; ebbene codesta voce sarà inavvertita, quando non sia dimenticata.
In vero se è spesso ripetuta, come forse è ragione, si fonderà col tempo, non so se nel silenzio o rumore circostante: come il cinguettio delle rondini sotto la tua grondaia, che quando è un pezzo che lo senti, non lo senti più...
Tu vuoi parlare? Aspetta: non ho finito.
A ogni modo perché dovrebbe essere altrimenti? Che cosa fai tu, veramente, che sia degno di lode e di gloria? Tu ridi, tu piangi: che merito in ciò? Se credi d'averci merito, è segno che ridi e piangi apposta: se lo fai apposta, non è poesia la tua: se non è poesia, non hai diritto a lode.
Tu scopri, s'è detto; non inventi; e ciò che scopri, c'era prima di te e ci sarà senza te.
Vorresti scriverci il tuo nome su? Ti adiri, che ti vogliano giudicare e anche premiare per quello che non è se non la tua natura e la tua manifestazione di vita.
Dunque che importa a te del nome?
XIX.
IL FANCIULLO
Il nome? Il nome? L'anima io semino,
ciò ch'è di bianco dentro il nocciolo,
che in terra si perde,
ma nasce il bell'albero verde.
Non lauro e bronzo voglio; ma vivere;
e vita è il sangue, fiume che fluttua
senz'altro rumore,
che un battito, appena, del cuore.
Nei cuori, io voglio, resti un mio palpito,
senz'altro vanto che qual d'un brivido
che trema su l'acque,
fa il sasso che in fondo vi giacque.
Nell'aria, io voglio, resti un mio gemito:
se l'assiuolo geme voglio essere
tra i salci del rio
anch'io, nelle tenebre, anch'io.
Se le campane piangono piangono,
io nelle opache sere invisibile
voglio essere accanto
di quella che piange a quel pianto.
Io poco voglio; pur, molto: accendere
io su le tombe mute la lampada
che irraggi e conforti
la veglia dei poveri morti.
Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea,
nel cielo infinito;
dar nuova dolcezza al vagito.
Voglio la vita mia lasciar; pendula
ad ogni stelo, sopra ogni petalo,
come una rugiada
ch'esali dal sonno, e ricada
nella nostr'alba breve.
Con l'iridi
di mille stille sue nel sole unico
s'annulla e sublima...
lasciando più vita di prima.
XX.
Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono.
La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz'essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società.
Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo.
I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l'amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome.
Ché i nomi che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d'epigoni, d'ingegnosi ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto.
Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l'attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia.
E fu male.
E il male ingrossa sempre più.
I poeti dei nostri tempi sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che è la loro persona.
Non codesta quei primi.
E tu, o fanciullo, vorresti fare quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi (32).
È così?
Sì.
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Avvertenza
Delle opere di Pascoli non esiste un'edizione filologicamente sicura né, tanto meno (fatta eccezione per le Myricae), un'edizione critica.
Il testo del Fanciullino che qui riproduciamo è quello contenuto in Giovanni Pascoli: Pensieri e discorsi, MDCCCXCV-MCMVI, Bologna 1907, pp.
1-55 (l'ultimo pubblicato in vita del poeta).
Una nota dell'autore, in fine del volume, informa che "i primi capitoli di questo dialogo furono pubblicati dieci anni fa, nel Marzocco del 17 gennaio, 7 marzo, 11 aprile, del 1897".
Il fanciullino era stato raccolto una prima volta in volume in Giovanni Pascoli, Miei pensieri di varia umanità, Messina 1903 (presso Vincenzo Muglia, lo stesso editore degli scritti danteschi di Pascoli).
Nel primo volume della recente antologia pascoliana da lui curata per la ricciardiana (Giovanni Pascoli, Opere, I, Milano-Napoli 1980), M.
Perugi annuncia, in particolare per le fonti del Fanciullino, rilevanti risultati da uno spoglio della biblioteca di Castelvecchio (la "principalissima fonte" anticipata sono le Études sur l'enfance di James Sully).
G.
A.
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NOTE
1).
PLATONE, Fedro, 77 E.
E Cebes con un sorriso, "Come fossimo spauriti", disse, "o Socrate, prova di persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c'è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d'orchi."
2).
Che Femio sia vecchio, non si dichiara da Omero con parola espressa, ma indirettamente con l'epiteto periclytós (Odissea, 1, 325) comune all'altro aedo Demodoco (ibidem 8, 521 e al.), e specialmente con ciò che Femio stesso afferma di sé (ibidem 22, 347):
Sono maestro a me io, ché un dio piantommi nel cuore
Ogni ragione di canti...
Il che consuona con ciò che di lui dice Penelope (ibidem 1, 337 sg.):
Femio, poi che sai molt'altre malie de le genti,
Opere d'uomini e dei...
E il vecchio Femio con la canzone più nuova o più giovane (ibidem, 351 sg.):
Poi che gli uomini pregiano ed amano più quel canto
che il più nuovo all'intorno de li ascoltanti risuoni.
Quanto a Väinämöinen, ricordo da quel meraviglioso frammento di versione dovuto al mio P.
E.
Pavolini (Sul limitare, pp.
75 sg.):
L'antico e verace Väinämöinen
..............................
Quindi l'antico Väinämöinen
..............................
quando udirono il nuovo canto,
sentirono il dolce suono.
3).
OMERO, Odissea, 8, 499; phaîne d'aoidén.
Badiamo che io non intendo affermare l'etimo di aeidein da a privativo e vid- vedere.
No: intendo asseverare che codesto etimo era presente agli antichi cantori.
Si confrontino i due versi di Odissea, 1, 337 sg.
che terminano il primo con oîdas e il secondo con aoidoì.
Si mediti il 64 di 8: Degli occhi, sì, lo privò, ma gli dava la soave aoidén.
Si ripensi l'espressione su riferita: mostrava l'aoidén.
Persino, oso dire, giova osservare, riguardo l'accecamento di Polifemo, mangiator d'uomini e bevitor di vino, che polyphemos, oltre a essere il nome del terribile Ciclope, è epiteto dell'aoidós Femio (22, 376), Phémios il cui nome somiglia del resto a quello di Polyphemos.
E il Ciclope che mostra nella Odissea la sua musicalità solo quando (9, 315):
egli con sufolo molto parava le pecore al monte,
musicalità che del resto è nel suo nome, se esso vale, come in 2, 150, "pieno di sussurri o di voci", il Ciclope è presso Teocrito un dolce cantor d'amore, e nessuno dei Ciclopi sa sonar la piva come lui (Teocrito, Id., 11).
4).
Ricordo che tutto porta a credere che la Comedia sia stata cominciata dal poeta nell'anno quadragesimo ottavo della sua età, o dopo.
E quello è il poema della contemplazione, opposta alla vita attiva.
5).
Così in vero lo rappresentò il Manzoni con le Muse (bastava una) che l'accompagnano "la mal fida Con le destre vocali orma reggendo".
6).
Non solo i poeti moderni, così assolutamente fissati sull'amore e sulla donna, ma anche gli antichi poeti tragici e persino i poeti corali immediatamente successi alla poesia epica, si diedero a colorire l'elemento femminile ed erotico dei poemi omerici.
E le donne designate e mentovate in essi poemi, non bastarono, e se ne crearono di nuove.
Ciò accrebbe l'interesse drammatico del ciclo, ma segna in esso la diminuzione di essenza poetica.
Così Orlando innamorato e furioso per amore è più drammatico ma meno poetico di Rolando nella Canzone.
7).
Augusto Conti narra di una sua bambina: "Quando mirava la luna o le stelle, metteva voci di gioia, e me le additava, e chiamavale come cose viventi; offrendo loro quel che avesse in mano, anche le vesti." Rivado col pensiero a tutte le poesie che ho lette: non ne trovo una più poesia di questa!
8).
Tale, p.
es., è quello di Andromaca che piange su Ettore (II, 22, 510):
Nudo, e sì che di vesti ce n'hai ne la casa riposte,
Morbide e graziose, lavoro di mani di donne!
9).
PLATONE, Fedro, III B.
10).
CATONE, Agricoltura, 2, 7.
Armenta delicula, oves deliculas.
Traduco così, scostandomi dal Keil.
Cfr.
per il significato di armenta VIRGILIO, Georgiche, 3, 129.
11).
VARRONE, Rerum Rusticarum, 1, 17.
12).
13).
VIRGILIO, ibidem, 174 sgg.
14).
CATONE, Agricoltura, 58, e leggi 56 e 59.
15).
VIRGILIO, Eneide, 5, 284; è data, come premio a Sergesto, Foloe, una cretese, esperta nel tessere, con due gemellini alla poppa.
Ed è imitazione di OMERO, Iliade, 23, 263.
Anche è serva, in 9, 546, Licinna che diede al re dei Lidi un figlio, Eleonore.
E anche questo è Omerico.
Inoltre Andromaca partorisce servitio: Eneide, 3 327.
E c'è l'idea e la parola di servitium a proposito di giovenchi in Georgiche, 3, 168, e di se stesso, cioè di Titiro, in Ecloghe, 1, 41.
16).
VIRGILIO, Eneide, 1 701 sgg.
705; 5, 391; 8, 411, 584.
17).
VIRGILIO, Ecloghe, 1, 28.
18).
VARRONE, Rerum Rusticarum, 1, 17 ipsi colunt, ut plerique pauperculi cum sua progenie.
19).
VIRGILIO, Georgiche, 2, 458 sgg.; 1, 300 sgg.
e altrove.
20).
VIRGILIO, ibidem, 4, 125 sgg.
21).
VIRGILIO, ibidem, 2, 412 sgg.
22).
ORAZIO, Sermones, 2, 6, 1 sgg.
23).
PLATONE, Apologia di Socrate, 28 B.
sgg.
VIRGILIO, Georgiche, 1, 291 sgg.
24).
VIRGILIO, Eneide, 8, 155 sgg.
25).
SENECA, Ep., 122, II: cfr.Apoc.
2
26).
SENECA, Ep., 122, II.
E continua a leggere il fattarello che segue.
Montano avendo subito cominciato con un'alba: "Febo comincia a metter fuori le ardenti fiamme, e il dì rosseggiante a spargersi per la terra; e già la rondine triste comincia a recare ai garruli nidi il cibo, con assiduo va e vieni, e a somministrarlo bene scompartito col molle becco"; un tal Varo esclama: "È l'ora che Buta va a letto.
Perché Buta era un fuggi-luce, un vivi-al-lume-di-lucerna, uno insomma, che faceva di notte giorno." Di lì a poco, Montano declamava "Già i pastori ricoverarono nella stalla i loro armenti; già la notte cominciava a dare il nero silenzio alle terre assopite." E Varo: "Che dice? È già notte.
Andrò a fare la salutazione mattinale a Buta."
27).
ORAZIO, Arte poetica, 15 sgg.
28).
Avete un binocolo? Puntatelo verso una campagna, verso una casa, verso un borgo.
Guardate per il suo verso: ecco la prosa.
Guardate al contrario: ecco la poesia.
Più particolari nella prima e meglio distinti.
Più visione nella seconda e più...
poesia.
Provate!
29).
È superfluo aggiungere che per quanto non tutto nella Comedia sia poesia, e non tutta la poesia che v'è, sia pura, per altro quel poema è nella sua concezione generale il più "poetico" dei poemi che al mondo sono e saranno.
30).
LEOPARDI, GIACOMO, Pensiero LX.
31).
LEOPARDI, GIACOMO, Pensiero XXIV.
32).
Il lettore ha già veduto da sé, né tuttavia è inutile che glielo faccia meglio notare io, che questi pensieri sulla poesia, più che una confessione, che a volte sarebbe orgogliosa e vanitosa, sono veri e propri moniti a me stesso, che sono ben lontano dal fare ciò che pur credo sia da fare!
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