TUTTE LE NOVELLE, di Giovanni Verga - pagina 97
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Accidenti al servizio! La povera signora mi sfuggì di mano come un'anguilla, e non volle più saperne di ripigliare il duetto, proprio quando avevo tante altre cose da dirle, quando il suo viso pallido e i suoi occhi stralunati mi davano le vertigini, mentre respingevami colle mani tremanti, balbettando: - Andatevene! andatevene!...
-
Soltanto mi dava del voi; mi dava le mani tremanti e gli occhi che si smarrivano nei miei, bramosi e spaventati...
Nient'altro, amici miei...
Una donna che ha paura, capite...
La paura me l'aveva data un momento e la paura me la ritolse.
GIURAMENTI DI MARINAIO
- Giuratemi!...
giurami! -
Chi non avrebbe giurato, al vederla così pallida sotto i nastri rossi del cappellino, al vedere i begli occhi lucenti e il sorriso triste che mi cercava come un bacio? - povera e cara Ginevra, innamorata sino ai capelli, in un fiat, da un momento all'altro, dacché le avevo confessato d'amarla, in segreto, senza speranza, da circa due mesi! - Anch'essa! anch'essa! Peccato che avessimo aspettato l'ultimo momento a dircelo! - Almeno voleva lasciarmi negli occhi, nel sangue, nell'anima, la sua immagine, il suo profumo, le ultime sue parole.
- Lì, lì, e lì! in tutto voi, fin nel vostro vestito, dovunque sarete, sempre! - Era venuta per questo alla Villa, a quell'ora.
- Non sapete quel che ci è voluto! - In ogni suo accento, nel suono della voce, nel muovere delle labbra, c'erano tali carezze che penetravano in me come una gran dolcezza, e come altrettante punture anche, di tratto in tratto, allorché pensavo ad Alvise che dicevano suo amante.
- È gelosa, sapete!...
di tutte!...
di tutte le donne che avete conosciuto...
La Seraffini, dite?...
o la Maio...
a costei le facevate la corte! Non negate.
V'ho conosciuto in casa sua.
Il guaio è che l'avrete compagna di viaggio sino a Genova! Giuratemi!...
Neanche una parola!...
almeno a lei...
almeno a quelle che conosco!...
Pensate a me, d'Arce! Pensate che vi veggo, laggiù, dovunque sarete, che vi seguo col pensiero, dal momento che metterete il piede sul battello, nella cabina, a tavola...
Colei ci verrà pure, a tavola, dovesse rendere l'anima a Dio, per farvi ammirare le sue smorfie e il suo vestito da viaggio...
-
Ella guardava tristamente il bel mare azzurro che doveva separarci per tanto tempo, fra poche ore, e aveva gli occhi gonfi di lagrime, e mi abbandonava la mano, senza curarsi della gente che poteva vederci - per altro erano delle coppie mattutine che venivano a cercare le ombre discrete della Villa, e avevano altro pel capo anche loro - senza pensare al pericolo che correva, senza pensare a quell'orco di suo marito...
senza pensare ad altri.
E mi si abbandonava tutta, con quella manina tremante di cui parevami di sentire le carezze e la febbre attraverso il guanto di Svezia; e intrecciava le sue dita alle mie, e si attaccava a me, voleva legarsi a me, per sempre - l'una dell'altro - col cuore gonfio ambedue di amore eterno, di costanza e di fedeltà - io a dispetto dei miei venticinque anni - ella col marito sulle spalle...
ed Alvise, e tutti gli spergiuri latenti in una bella donna che ride volentieri, e ama sentirsi dire che il suo sorriso fa perdere la testa al prossimo...
Allora balbettai:
- Anche voi!...
anche tu...
giurami!...
-
Ella non rispose, colle mani nelle mie, gli occhi negli occhi, e una fiamma rapida le salì al viso: - Che posso farci? che posso farci? - voleva dirmi, povera donna.
Ma a un tratto mi lesse in viso il nome di un altro, l'immagine odiosa del mio amico Alvise che tornava a mettersi fra di noi.
- Oh! - mormorò, scolorandosi rapidamente.
- Oh, d'Arce! -
Chinò il capo, passandosi le mani sul volto, e non disse altro.
Aveva una peluria bionda che moriva dolcemente sulla bianchezza immacolata della nuca.
Le dolci parole, il delirio, la frenesia che mi si gonfiarono in cuore allora per chiederle perdono! Come avrei voluto buttarmi a' suoi piedi e abbracciare i suoi ginocchi, i ginocchi che si accennavano vagamente fra le molli pieghe del vestito bigio!...
Essa continuava a scuotere il capo, con un sorriso dolce e malinconico, e riprese:
- Quanti orrori vi avranno narrato sul conto mio...
le mie buone amiche...
lui stesso, fors'anche! Non negate...
è inutile.
Voglio che sappiate tutto...
oramai, sul punto di lasciarci forse per sempre!...
Come a un fratello...
come in punto di morte...
Mi crederete, d'Arce? mi crederete?...
Sono stata un po' leggiera...
un po' civetta anche, mettiamo...
Ecco, vi dico tutto! In casa mia poi, bisogna sapere quante noie! Che scene e che musi lunghi per un misero ballonzolo, fra quattro gatti...
per andare una sera a teatro...
Non sono né vecchia né gobba infine.
Mio marito invece vorrebbe tenermi sotto chiave nella santabarbara della sua nave.
Pedante, sospettoso, uggioso! Una cosa tremenda, caro mio! Allora, capite bene...
se bisogna nascondergli le cose più innocenti...
la colpa è tutta sua...
E una povera donna...
a meno di finir tisica...
Sì, parola d'onore, tante volte ho sputato sangue.
Chi sa se mi troverete ancora quando tornerete in Italia, povero d'Arce!...
Vi ricorderete sempre di me, dite? Verrete a trovarmi al camposanto? -
Trasse pure il fazzolettino dalla tasca del petto, e se lo recò alla bocca, tossendo un po', con certe piccole scosse che facevano sollevare gli omeri delicati sotto la giacchetta attillata, e le inumidivano gli occhi di un languore sorridente, e le facevano il viso tutto color di rosa.
No, no, non volevo sentirla parlare così! L'avrei difesa da quelle malinconie, fra le mie braccia, stretta stretta.
Ella schermivasi gaiamente; minacciava pure col fazzolettino...
- Badate!...
Che matto!...
Siamo due matti!...
Avete sempre quel brutto sospetto? No, sentite, voglio dirvi tutto.
È meglio che sappiate tutto da me stessa...
pel caso che egli vi abbia fatto le sue confidenze...
quell'altro...
giacché siete suo amico...
Sì, lo so...
voialtri uomini siete discreti...
Lasciamola lì! È vero che mi ha fatto un po' di corte...
come tanti altri...
più degli altri anche...
E me la son lasciata fare.
Mio marito...
me lo ha messo fra i piedi lui stesso, il vostro amico, col pretesto di farne il suo ufficiale d'ordinanza...
E gli ha attaccato il suo male pure...
le sue esigenze e le sue gelosie.
Dite la verità, vi avrà fatto delle scene anche a voi, Alvise? Un bel divertimento, quei musi lunghi! E senza averne il diritto, vi giuro! Mi credete, d'Arce! mi credete? Vedete adesso come sono venuta a voi!...
Lo sapete...
da due mesi...
i miei occhi che vi dicevano...
- Poi, a voce più bassa, accostando il viso al mio, figgendomi gli occhi nell'anima, con un sospiro: - Tua! Soltanto tua!...
Mi credi? -
Li avessi visti ai suoi piedi, in quel momento, il marito, e quell'altro, mi avessero detto che anche loro...
Avrei giurato che mentivano.
Mi turbava però il rimorso delle infedeltà che le avevo fatto...
prima di conoscerla...
e anche dopo...
Sì, delle vertigini...
qualche momento di oblio...
Ero arrivato a farle di queste confessioni, in quel punto, nel caldo della passione...
Volevo dirle tutto, per ispirarle la mia fede, perché non avesse a dubitare anch'essa, mentre saremmo stati tanto lontani!...
- Ah, sentite, è una cosa terribile! Volersi tanto bene...
proprio all'ultimo momento...
volersi così!...
E neanche la punta di un dito!...
Non mi guardate a quel modo, per l'amor di Dio!...
Proprio un amore senza macchia e senza paura, questo nostro!...
Ah! quel sorriso che mi fiorirà sempre in cuore! Quella fossetta che fate sulla guancia, ridendo!...
Un amore siffatto non deve aver paura di nulla...
e di nessuno...
del tempo che passa...
- Che ora sarà adesso? - chiese a un tratto lei.
Erano circa le due.
Essa s'alzò in piedi sgomenta.
- Dio mio! così tardi! Ah, povera me! - Poi mi stese la mano e volle pure cavarsi un po' il guanto, buona e cara Ginevra, perché le baciassi il polso sulla nuda carne, lì, dove la piccola vena azzurra avrebbe voluto portarmi su su pel braccio, e le labbra volevano struggersi.
- Addio! addio! - Per ricordo strappò una foglia dal cespuglio, dandomene la metà; l'altra se la nascose dentro il guanto, proprio dove si era posata la mia bocca.
E nel viso affilato, negli occhi, nella voce, la poveretta aveva il medesimo struggimento che sentiva, pareva che non potesse staccarsi da me.
Dovette fare uno sforzo - come uno strappo, nell'ultima stretta di mano - e se ne andò frettolosa, pensando ch'era tardi.
Ho ancora nelle orecchie il fruscìo della sua sottana di raso.
Povera Ginevra, come doveva avere il cuore gonfio anche lei! E le sarebbe toccato dissimulare poi col marito e con tutti gli altri! Almeno io...
Io mi posi a sedere dove essa era stata, andai a rintracciare il ramoscello dal quale aveva strappato la fogliolina.
Feci insomma tutto ciò che fanno gl'innamorati in casi simili.
Infine dovetti accorgermi che si faceva tardi e che avevo ancora la valigia da terminare.
La prima persona che vidi sul battello, al momento d'imbarcarmi, fu Alvise, il buon Alvise che era venuto a salutarmi, e mi stendeva la mano, a mia confusione.
Gliela strinsi con un po' di rossore al viso, ma grato e commosso, quasi mi avesse recato qualcosa della donna che amavamo entrambi.
Non c'era nulla di male, se l'amava anch'esso, giacché lei non poteva soffrirlo, e mi preferiva a lui, e si lasciava rubare a lui.
Per nascondere il mio imbarazzo gli domandai se ci fossero già dei passeggeri a bordo.
- No, non molti - rispose lui.
- La signora Maio, una simpatica compagna di viaggio -.
La signora Maio risaliva sul ponte in quel momento; c'incontrammo insieme alla scaletta.
- Oh, d'Arce! - Colei è un vero demonio, poiché al vedermi quella faccia i suoi occhi si misero a ridere da soli sotto il velo blu; e non la finiva più colle domande: - Dove andavo - se mi era toccata una buona destinazione - se sarei stato un pezzo laggiù - se mi rincresceva di lasciare l'Italia - il bel cielo di Napoli - gli amici...
- Ah, Ginevra! Buona Ginevra! Che pensiero gentile!...
che piacere mi hai fatto!...
-
Era proprio lei, la buona Ginevra, che inaspettatamente veniva a dare il buon viaggio alla cara amica che odiava, come Alvise era venuto per me.
- Per voi! per vedervi ancora un'ultima volta! - dicevano i suoi occhi nel rapido sguardo che mi rivolse.
E bastò per farmi rizzare le orecchie sul vero motivo che aveva condotto Alvise a bordo, e farmi allungare tanto di muso.
Però essa era meno imbarazzata di me, che dovevo esser pallido in modo ridicolo.
Filava imperturbabile il cinguettìo delle donne che non vogliono dir nulla, con la sua amica, con Alvise - a me rivolse appena qualche parola.
- Ah, va via anche lei? Partono tutti! Cosa hanno al Ministero che vi mandano tutti via? - Poi fu colta d'ammirazione pel berrettino da viaggio della signora Maio, un cosino di stoffa eguale al vestito, ch'era un amore, posato bravamente sui bei capelli castani, avvolti nella garza che dava una straordinaria finezza al bel visetto ardito e al mento spiritoso.
Si mise ad accomodare le pieghe con un buffetto che sembrava una carezza, dietro le spalle della sua amica, e intanto mi lanciò pure un'occhiata tremenda.
- L'amica prestavasi discretamente alla manovra, col tatto di una donna che sa vivere e lasciar vivere, tutta per lei, affabilissima anche con Alvise, dimenticando quasi che io fossi lì, come un intruso in quel terzetto spensierato che lasciava suonare la campana della partenza senza badarci.
Infine la ragazza che andava in giro col piattello a raccogliere i soldi pei virtuosi che ci avevano strimpellato l'augurio di buon viaggio, il cameriere che spingeva verso la scaletta i venditori di cannocchiali e di pettini di tartaruga, fecero capire ch'era il momento di separarci.
Le due amiche si buttarono le braccia al collo.
Alvise s'ebbe pure la sua stretta di mano all'inglese dalla signora Maio, la quale trovò un mondo di saluti da lasciargli, per lui, pei suoi amici, per tutto il genere umano, occupandolo, impadronendosene, pigliandoselo tutto per sé, tenendolo sempre per mano, mentre Ginevra stringeva la mia forte forte - fu l'unico segno - e le labbra che tremavano, il sorriso che spasimava, e l'occhiata lunga...
Poi la rivolse sull'amica, scintillante, e quasi minacciosa.
- Buona Ginevra! - osservò la Maio, rispondendo al saluto che essa continuava a mandare dalla barchetta, mentre si allontanava in compagnia di Alvise.
- E pensare che le toccherà pigliarsi delle osservazioni da quell'orso del Comandante, se egli arriva a sapere...
-
La gentile signora volle ancora restar lì, appoggiata al parapetto, perché la nostra amica potesse continuare a salutarci, rispondendo al saluto col fazzoletto anche lei, di tanto in tanto, sbadatamente e guardando altrove.
Poi mi lasciò solo, e scese nella cabina, allorché il fazzolettino della barchetta poté seguitare a sventolare da lontano senza compromettersi.
Caro fazzolettino che tremava nella brezza, e palpitava verso di me, e moriva nella caligine della sera, sul fondo già scuro del bel lido che cominciava a formicolare di lumi, a destra verso Portici, a sinistra per la Riviera.
Quante volte avevo colà cercato i nastri rossi del tuo cappellino, amor mio, e i tuoi occhi bramosi mi avevano detto: - Sì, sì, lo so!...
Io pure!...
- Tu pure pensi a me in questo momento, e cerchi il lume del mio bastimento fra gli altri lumi che si allontanano dal porto, mentre Alvise ti dà la mano per aiutarti a scendere a terra, seccatore! Egli può ancora udire lo scricchiolìo delle tue scarpette che si affrettano verso una carrozzella, e vedere il tuo piedino che si posa sul montatoio.
Qual via farai per andare a casa? San Ferdinando...
Chiaia...
Le vetrine scintillanti del Caffè d'Europa, dinanzi a cui tu passi come una visione...
Gli oziosi che stanno a vederti dal marciapiedi! Quante volte ti ho aspettata anch'io, lì...
Lo sai che ti vedo...
e ti accompagno cogli occhi, io pure...
passo passo, come tu promettesti di pensare a me?...
Come ero felice di sentirti parlare, di sentirti dire che volevi seguirmi col pensiero, col cuore, ogni momento, dacché avrei messo il piede sul ponte, nella cabina, a tavola!...
Povera e cara Ginevra! ti seccava che ci dovesse venire quell'altra, a tavola! Ti seccava, come mi secca che Alvise ti abbia accompagnata...
Eri gelosa...
E senza motivo, credi! Colei ha capito subito che son ben preso, sino ai capelli, tutto tuo!...
Non è mica una sciocca la signora Maio!...
E a tavola non vorrà perdere il tempo a farmi ammirare le sue smorfie, come le chiami, cattiva! Non vorrà che io rida di lei sotto i baffi...
Ed io non voglio ch'essa rida di me, se non mi vede a pranzo, se le lascio immaginare che io stia qui a pascermi di lai...
com'ella suol dire quando il suo musetto sardonico vi mette tutti i diavoli in corpo.
La signora Maio però non era scesa a tavola.
Il posto di lei rimaneva vuoto, a destra del capitano.
Ma l'udivo muoversi nella cabina, dietro le mie spalle, con un fruscìo d'abiti che mi turbava, a volte sommesso, quasi timido e pudibondo, a volte alto e brusco, come agitato da un'improvvisa fantasia.
Che diavolo faceva la bella signora? Si sentiva male? Stava per coricarsi? Non la finiva più di sgusciare delle sottane e di sfibbiare dei ganci?...
Il vestito, no...
Quello non era il frù-frù vivo della seta...
Era piuttosto il fruscìo molle della biancheria più intima.
Pareva di sentirne il profumo all'ireos.
Il fatto è che mi guastava il pranzo, mi dava delle distrazioni, una tensione d'udito in cui sembravami di vedere ogni parte del suo vestiario, a misura che le passava per le mani, di vederla nelle bottiglie e negli specchi dirimpetto, colle braccia nude, pettinandosi per la notte.
- Buona notte che avrei passato con quella cabina attaccata alla mia! - Povera Ginevra, le parlava il cuore! - Talché non volli aspettare neppure il caffè, e andai sul ponte a fumare un sigaro...
e pensare a lei...
- Bravo, d'Arce! Venite a farmi compagnia, - udii una voce che mi chiamava da poppa.
Proprio la Maio, che desinava tranquillamente, al lume della bussola, col piatto sulle ginocchia.
- Come...
voi qui! - mi scappò detto.
- Grazie! Credevo che aveste già notata la mia presenza a bordo, ingrato! - rispose sorridendo e mordendo una fetta di pera.
- Mi era parso di sentire...
Chi c'è dunque nella vostra cabina?
- La cameriera, credo.
Starà mettendo in ordine la mia roba.
Pensate che devo starci quattro o cinque giorni in quella gabbia!
- Tanto meglio!
- Tanto meglio, sia pure, giacché siete in vena d'amabilità.
Intanto mi tocca far penitenza, come vedete...
- L'avrei fatta anch'io volentieri con voi, se avessi saputo...
- Oh, voi...
è un'altra cosa.
Prima di tutto siete corazzato...
sul mare; e poi vi sono i regolamenti, che so io, tutti quegli ostacoli che avete immaginato voialtri...
a bordo.
Mentre io...
povera donna...
Mi è riuscito di intenerire il cameriere...
con un po' di buona volontà...
È una vergogna! In tanti anni che ho l'onore di appartenere alla marina di Sua Maestà...
per via di mio marito, non sono arrivata a farmi il piede marino, come dite voialtri; e se non voglio morir di fame bisogna prendere delle precauzioni.
Volete prenderne anche voi? Lì, in quel sacchetto, c'è della menta di VanPol eccellente.
Fumate pure, sapete che la sigaretta non mi dà noia.
Non ci conosciamo da oggi, mi pare! Anzi, se volete darmene una anche a me...
-
Mentre allungava il musetto color di rosa per accenderla, quasi volesse baciarmi, mi parve di vedere un altro punto luminoso nei suoi occhi, un balenìo che diceva: - Traditore! - Ma si tirò subito indietro, per farmi un po' di posto nel seggiolino pieghevole al quale aveva appoggiato i piedi, avvolgendosi nel suo mantellone da viaggio.
Invece, come attratto, mi accostai a lei, guardandola dal basso, col sorriso sincero di quei momenti, dicendole colla voce un po' roca:
- Sapete che mi hanno dato la cabina accanto alla vostra?
- Tanto meglio.
- Per voi forse...
Ma per un povero diavolo...
- Ah, la tentazione? Beveteci sopra un bicchier d'acqua.
Del resto vi prometto che passerò la notte sopra coperta.
Laggiù si soffoca...
Il faro di Napoli! - interruppe a un tratto, additando un punto luminoso in fondo.
Sembrava un occhio che ci spiasse dall'orizzonte buio, ora tremulo, come velato di lacrime, ora raggiante all'improvviso.
Sembrava che giungesse sino a noi, col mormorìo vasto e profondo del mare, l'eco della città, coi sospiri soffocati, con voci misteriose, con canzoni malinconiche.
La Maio s'alzò, vacillante pel rollìo del bastimento, e prese il mio braccio, appoggiandovi anche il petto nel fare qualche passo, sfiorandomi col vestito, col mantello grave che mi si avvolgeva alle gambe e mi legava.
- Non mi reggo, no caro d'Arce! A momenti vi casco nelle braccia! - balbettò fra due scoppi di risa soffocati che risuonavano come una musica.
Infine si fermò presso la sponda, senza lasciare il mio braccio, col gomito sulla ringhiera, e il bel mento delicato sulla mano nuda, guardando sempre laggiù, verso il punto luminoso.
- Cara Napoli! A quest'ora i nostri amici saranno tutti allo Châlet.
Vi rammentate le belle serate allegre?...
Quando il marito di Ginevra non era di cattivo umore, povera Ginevra...
Come è stata buona venendo a salutarmi sino a bordo!...
Tutta cuore...
si farebbe in quattro pe' suoi amici...
È per questo che ne ha molti...
e devoti...
voi, Alvise...
Mi sembra di vederlo quel diavolo di Alvise, a combinare il giochetto per nascondere a quell'orso di marito l'innocente scappata d'oggi...
d'accordo con Ginevra...
Il solito giuoco di bussolotti...
là, là, e là!...
-
Questa volta essa aveva il sorriso diabolico in bocca, mentre picchiava sul parapetto colla mano nuda.
Era sempre stata la mia passione quella mano un po' lunga, un po' magra, che diceva tante cose e faceva perdere la testa.
Mi chinai su di essa e la baciai.
Ritirò la mano, lentamente, senza dir nulla; ma il sorriso le morì sulle labbra che parvero tremare e scolorirsi.
- Ecco come siete, tutti quanti!...
- mormorò dopo un momento, guardandosi intorno, e passandosi la mano sul viso.
Eravamo soli, nascosti dalla parete della scala; la presi per forza e la baciai sulla bocca avidamente, felice di sentire che già si abbandonava, come fosse la prima volta.
- Dite la verità - mi chiese poi.
- Ve la siete fatta dare apposta la cabina accanto alla mia? -
Alvise aveva ragione di dire che era una simpatica compagna di viaggio: allegra, graziosa, riboccante di spirito, e senza malinconie.
Se qualche momento ne avevo io, delle malinconie, ripensando alle ultime parole della mia Ginevra, ai suoi begli occhi lagrimosi che mi chiedevano di esserle fedele, quest'altra metteva la miglior grazia a farmi tosto spergiuro...
e contento.
Una di quelle donne che non passano la pelle, ma che sanno accarezzarla.
Discreta poi! Mai una allusione o una parola.
Sapeva forse che il mio cuore era preso, e si contentava del resto.
Talché continuai a trovarla anche dopo che fummo arrivati a Genova, mentre aspettavo l'imbarco per Montevideo.
- Sapete, povera Ginevra...
- mi disse un bel giorno, leggendo una lettera che le era giunta allora da Napoli.
- Pare che abbia avuto dei guai laggiù, per quello scapato di Alvise...
S'è lasciata cogliere dal marito, la sera stessa che partimmo, vi rammentate? -
A quella notizia dovetti fare un viso molto sciocco, poiché ella soggiunse, col suo ghignetto malizioso, stavolta:
- Ve l'aveva fatto anche lei, il giuramento del marinaio? -
COMMEDIA DA SALOTTO
- Badate! Egli sa tutto! -
La signora Ginevra era pallidissima lasciando cadere quelle parole a fior di labbra, rapidamente, mentre fingeva di rispondere con un sorriso al profondo inchino di Alvise Casalengo, allungandogli, nel passare, una stretta di mano breve e confidenziale.
Egli, inquieto, cercò cogli occhi il marito di lei nell'altra sala.
Ma non poté chiederle altro.
La folla li separò tosto.
Ella, sorridente sempre, scollacciata sino al dorso, scintillante di gioie, aggiravasi fra i tavolinetti preparati per la cena, chinandosi a odorare i fiori, ad ammirare tutte quelle graziose ventoline colorate; rispondeva gaiamente ai saluti, agli auguri, alle strette di mano.
In fondo alla sala, nel gran specchio inclinato sul caminetto, si mirò un istante ad assicurare la stella di brillanti che le tremolava fra i capelli, pallidissima, quasi la sfumatura livida che le accerchiava i begli occhi si fosse allargata a un tratto per tutto il viso delicato.
- Sola? - esclamò la contessa Maio.
- Libera e sola? Che miracolo!
- Sì - rispose Ginevra collo stesso tono allegro.
- Una volta ogni fin d'anno almeno!...
Ho lasciato Silverio in anticamera...
coll'ammiraglio...
Sono fuggita...
-
Le parole e le labbra ridevano.
Ma gli sguardi erravano inquieti, come cercando ancor essi.
Alvise, sempre vicino all'uscio, stava a discorrere col suo amico Gustavo, tranquillamente, lisciandosi i baffi tratto tratto per dissimulare una ruga sottile che gli si contraeva di tanto in tanto all'angolo della bocca, e l'ansietà acuta che balenava suo malgrado negli occhi, i quali volgevansi spesso verso il salotto d'ingresso.
Dietro a un vecchietto calvo, dinanzi a cui tutti s'inchinavano, entrò il marito della bella Ginevra, col fiore all'occhiello, salutando gli amici, baciando la mano alle signore, solamente un po' duro e un po' rigido nel vestito nero, con un lieve aggrottar di sopracciglia appena incontrò lo sguardo fermo e rispettoso di Casalengo, il quale lo aspettava sull'uscio, piantandosi militarmente.
- Ah, lei, tenente?...
Ha terminato quel rapporto? -
Casalengo stava per rispondere, quando la signora Gemma, ad una parola dettale rapidamente sottovoce dalla sua amica Ginevra, la quale aveva seguìto ansiosa quell'incontro, con occhi che luccicavano intensi, quasi tutti i suoi lineamenti si alterassero all'improvviso, mentre passava macchinalmente il fazzolettino sulle labbra, attraversò la sala rapidamente, per andare a impadronirsi del Comandante.
Poscia tornando trionfante al braccio di lui, le chiese:
- Ha caldo?
- No...
Sì, veramente...
Un po'...
- Sei pallida.
Fa troppo caldo qui, cara Ginevra.
- No, no...
Non importa...
-
La buona Gemma, intanto, aveva sequestrato il Comandante nel vano di una finestra, tenendolo a bada con delle chiacchiere, interrompendosi con delle risate argentine che squillavano in mezzo al brusìo della sala, facendo di tutto per sedurre quell'orso, saettando di tempo in tempo alla Ginevra un'occhiata lucente che voleva dire: - Che diavolo è successo? - Indi prese il braccio dell'Ammiraglio e lo condusse verso il canapè, stordendo anche lui col suo cicaleccio allegro, continuando a guardar come distratta, come a caso, la sua amica e il marito di lei ch'era preso adesso nel circolo della contessa, voltandosi più guardinga verso il salotto dov'era andato a cacciarsi Casalengo insieme al suo camerata Gustavo.
Infine Gemma abbandonò l'Ammiraglio alle altre signore, e passò nel salotto anche lei.
Ginevra li vide che discorrevano animatamente con Casalengo.
Egli coll'aria grave, rispondendo a monosillabi, Gemma diventata seria, con un interesse che tradivasi dai minimi gesti, per quanto fosse abituata a padroneggiarsi in pubblico.
Gustavo s'era dileguato al par di un'ombra.
Una domanda a lei rivolta la fece trasalire in quel punto: Serravalle che le chiedeva un valzer e insisteva per averne la promessa: - Le fo paura? Non vuol vedermi neppure? È ancora in collera, dopo tanto tempo? -
Essa lo guardò un istante come trasognata, battendo le palpebre, col bel sorriso pallido che stentava a rifiorire sui lineamenti disfatti: - Ah, lei?...
No! Mai più...
Del resto non si ballerà...
- Sì, sì, dopo cena, me l'ha detto la contessa...
per cominciare l'anno nuovo...
Cominci l'anno con una buona azione, lei!...
Non ce n'è un'altra che balli il valzer come lei!...
Dica di sì! dica di sì!...
un giro solo!...
l'ultimo...
- Mai più! mai più!...
Sarebbe il primo dell'anno nuovo, se mai...
Non voglio passare tutto l'anno a svenirmi nelle sue braccia...
Sul serio, lei gira troppo in furia...
Mi fa girare il capo...
Si rammenta?
- Ah! per l'amor di Dio...
Non me lo rammenti, piuttosto! Non me lo faccia perdere il capo, lei!...
Ha detto di sì!...
Consegno qui la sua promessa!...
-
Ella rideva tutta quanta, come una bambina, a scatti, con una fossetta sulla gota, con certi movimenti che facevano sbocciare gli omeri delicati dalla scollatura del vestito.
Altri giovanotti le fecero ressa intorno, mentre Serravalle se ne scappava segnando nel taccuino il valzer che le aveva quasi strappato a forza.
Ciascuno la supplicava d'accordargli un posto al suo tavolinetto, nel va e vieni degli invitati che sedevano a cena a piccoli gruppi di tre o quattro, con delle esclamazioni giulive, degli scrosci di risa, dei nomi barattati da un tavolino all'altro, un fruscìo di seta, un luccicare di gemme, delle spalle nude che si chinavano con movimenti graziosi.
Ella tenendo testa a tutti quanti, schermendosi col ventaglio, ribattendo i frizzi e le galanterie, spiava sottecchi ogni atto, ogni gesto di suo marito e di Casalengo, il quale stava cercando il suo posto anche lui.
I loro sguardi si evitarono d'accordo, non appena s'incontrarono, per caso.
Il Comandante, dando il braccio alla contessa, le parlava nel viso, allegro e disinvolto anche lui.
La signora Ginevra, ritta dinanzi al posto dove aveva letto il suo nome sul cartoncino litografato, cavava adagio adagio le mani scintillanti di anelli dall'apertura del guanto che le saliva sino al gomito, avvolgendoli mezzi intorno al polso...
Gemma, che aveva potuto raggiungerla finalmente senza dar nell'occhio, le chiese sottovoce, brevemente:
- Cos'è stato?
- Nulla...
Ti dirò poi...
-
Ella così dicendo s'era chinata a leggere i nomi dei suoi compagni di tavola.
Ma scorgendo quello di Alvise di faccia a lei, un'attenzione delicata della contessa, che studiavasi di mettere insieme bene i suoi invitati, non seppe reprimere un moto come di sgomento.
- No, no...
per carità...
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Gemma colse a volo il significato di quelle poche sillabe: - Casalengo, faccia il piacere...
venga qui, con me...
Mi liberi da Sansiro, che è una vera persecuzione...
-
Sansiro, il quale dovette prendere il posto di Alvise Casalengo, di faccia alla signora Ginevra, fece un inchino troppo profondo, che gli valse un'occhiata fulminante di lei.
Però in mezzo all'allegria generale lui solo rimaneva straordinariamente grave e taciturno, senza la più piccola freddura, senza permettersi con la bella Ginevra una sola delle spiritosaggini che facevano scappare le signore, quasi avesse voluto protestare col suo contegno contro l'accusa della signora Gemma.
Affettava di volgere le spalle a Casalengo; chinava gli occhi sul piatto se la signora Ginevra volgeva i suoi verso il tavolinetto vicino.
Mostravasi servizievole e premuroso; ma discretamente, con un certo sussiego, parlando poco e di cose serie.
Bruni, che era il terzo, faceva lui per tutti e tre.
Nondimeno la festa languiva in quell'angolo della sala, malgrado gli sforzi di Casalengo che stuzzicava e tormentava peggio di Sansiro la signora Gemma.
La povera Ginevra s'era fatta seria, quasi sentisse pesare di tanto in tanto sulla sua graziosa testolina gli sguardi acuti del marito, il quale dal canto suo battevasi i fianchi per tener desta l'allegria nel crocchio della contessa.
Gli uomini fingevano di essere occupatissimi nel fare onore alla cena, le signore sfioravano appena un'ala di fagiano o accostavano il bicchiere alle labbra.
Sembrava che un'invincibile musoneria si propagasse da quel cantuccio per tutta la sala, senza che una parola fosse stata detta, senza che un'indiscrezione fosse sfuggita, senza che un gesto avesse tradito il segreto, quasi l'istinto di tutti quei complici mondani li avesse avvertiti insieme del dramma che celavasi sotto il sorriso.
Il Comandante, vuotando l'uno dopo l'altro dei gran bicchieri d'acqua, animava però da solo il circolo della padrona di casa, la quale coll'occhio vigile intorno, col sorriso amabile per tutti quanti, guardava di tratto in tratto l'orologio posto di faccia a lei sul caminetto.
A un dato momento, quand'essa toccò il bicchiere del Comandante con un dito di champagne spumante in fondo al suo, gli invitati si alzarono frettolosi.
Degli auguri, dei baci, degli accenni, dei saluti s'incrociarono da un punto all'altro, da un tavolino all'altro.
Un muovere di seggiole, uno scomporsi di gruppi, una cordialità generale e un po' chiassosa che voleva essere sincera.
Dei sorrisi che si cercavano, e degli sguardi che si spiavano a vicenda.
La signora Ginevra aveva chinato i suoi per tornare ad infilarsi i guanti.
Gemma, nello scambiare con lei il bacio d'augurio, le disse all'orecchio:
- Bada, Ginevra! Non ti far scorgere.
Hai tutti gli occhi addosso!
- Ah, Dio mio! Dio mio! -
Poscia mentre s'avviavano a braccetto verso il pianoforte, dove una folla di signore assediava l'Ammiraglio che sorbiva lentamente il caffè, essa balbettò:
- Tieni a bada mio marito...
per carità..
due minuti soli...
-
E siccome Gemma insisteva per sapere cosa fosse avvenuto, infine, aggiunse:
- Ti dirò poi...
ti dirò poi...
-
L'Ammiraglio narrava una storiella allegra, con tutti i punti e le virgole, senza lasciarsi intimidire dal coro delle proteste, dalle esclamazioni di rimprovero, dai ventagli che lo minacciavano.
Gemma facendo coro alle sue amiche, coll'indignazione anch'essa nella bocca sorridente, era riuscita ad insinuarsi fra il Comandante e l'uscio del salottino dove si fumava: - Che orrore!...
Siete un orrore!...
tutti quanti! Anche lei, Silverio! Sì, anche lei che trova da ridere a coteste infamie! - Col busto inarcato, volgendo indietro la testolina accesa, ella seguiva colla coda dell'occhio la sua amica che aveva l'aria di fuggire lei pure Gustavo e Serravalle troppo insistenti dietro di lei.
- No, no, Ginevra! non stare ad ascoltarli!...
Sono diventati impossibili!...
tutti quanti! -
Così dicendo tornò a prendere il braccio dell'amica, giusto sull'uscio del salotto in fondo al quale Casalengo stava fumando una sigaretta, appoggiato alla spalliera della poltrona.
- Che vuoi fare, Ginevra? No, per l'amor di Dio! Sta' attenta! Tuo marito ha un certo viso questa sera!
- Bisogna ch'io gli parli...
assolutamente!...
Non ho avuto tempo d'avvertirlo...
Se mio marito riesce a trovarsi solo con lui prima che io l'abbia prevenuto nascerà qualche disgrazia!...
-
La poveretta era convulsa mentre balbettava quelle parole, sottovoce, coll'aria più indifferente che poteva, nello stesso tempo che accostava il capo ad ammirare la bella croce di brillanti sul petto dell'amica.
- Ah, Dio!...
-
Suo marito entrava in quel momento nel salottino, diritto, calmo, arrotolando fra le dita una sigaretta.
Poi si chinò per accenderla a quella di Casalengo, mentre la moglie in fondo alla sala, sentivasi venir meno, colla visione di quei due uomini che si trovavano faccia a faccia negli occhi stralunati.
La contessa, che vedeva ogni cosa dal suo posto, si mosse subito, e passò immediatamente nella stanza dove fumavasi.
- Ah, Dio mio! - balbettò la povera Ginevra.
- Via, mia cara!...
Vedi!...
È lì la contessa.
Non c'è pericolo pel momento...
-
Essa, interrottamente, con un soffio di voce, le labbra smorte e convulse, gli sguardi erranti qua e là, disse cosa era stato.
- L'ordinanza l'ha visto venire ieri sera...
tardi...
Ha detto ogni cosa a mio marito...
io non ho avuto tempo di suggerire una scusa a lui...
-
Intanto davano mano a sgombrar la sala per far quattro salti.
I giovani aiutavano, allo scopo di impietosire la padrona di casa e strapparle un sì.
Ma la contessa tappavasi le orecchie per non lasciarsi sedurre, ostinata, inflessibile, tossendo in mezzo al fumo delle sigarette, diceva sempre di no, ridendo e colle lagrime agli occhi.
- No, no...
Dite anche di no, voialtri signori mariti!...
Aiutatemi!...
Lo faccio per voialtri...
È tardi...
Me ne dispiace, miei cari giovinotti, ma questo non era nel programma...
Non voglio farmi tanti nemici...
- Il Comandante Silverio l'appoggiava ridendo.
Anzi, si avvicinò alla moglie, per farle osservare dolcemente ch'erano circa le due, che essa aveva l'aria un po' stanca, che si sarebbe affaticata troppo e sarebbe stata una vera imprudenza per lei così delicata...
così cagionevole...
Invano Gemma frapponeva le sue preghiere, il suo ventaglio, l'impegno con Serravalle.
La sua amica, in un momento che nessuno poteva udirla, l'aveva supplicata:
- Non mi lasciare andare!...
Ho paura!...
-
I giovanotti muovevano cielo e terra.
Infine, come la vinsero, appena risuonarono le prime battute festanti del valzer, la bella peccatrice si lasciò prendere dal ballo, tutta, diventata tutt'altra donna da un momento all'altro, col viso acceso, gli occhi ebbri, il seno palpitante, spensierata, gaia, una bambina, dimenticando ogni cosa, passando da un ballerino all'altro senza un'esitazione o una preferenza.
Quando incontrò la mano di Alvise, febbrile e parlante, nella contraddanza, essa gli porse due dita inguantate, come a tutti gli altri.
Casalengo ballava anche lui disperatamente, senza riposarsi un minuto, senza lasciare il tempo a un pensiero o ad una parola molesta di intromettersi fra lui e le ballerine che andava invitando una dopo l'altra, quasi indovinando e obbedendo a una parola d'ordine.
A un dato punto, nel bel mezzo d'uno sfrenato galoppo, la signora Gemma gli buttò sul viso poche parole rapide.
Le signore s'accomiatavano infine, ancora anelanti, un po' rosse, coll'allegria e l'eccitazione nelle parole e nel gesto.
Alvise Casalengo, che era venuto a salutare fino in anticamera la signora Ginevra, disse tranquillamente al marito di lei che l'aiutava ad infilare la pelliccia:
- Comandante, per terminare quel rapporto che mi ha ordinato mi occorrono alcuni schiarimenti...
Ero venuto a chiederglieli...
ieri sera...
- Ah! - rispose Silverio piantandogli gli occhi in faccia.
- Va bene.
Mi spiegherà poi...
-
Alvise vide biancheggiare fugacemente le sottane di lei che montava in carrozza senza neppure osare di volgere il capo, e rimase inquieto sulla porta, lasciando spegnere il sigaro, colpito dallo sguardo del marito, il quale esprimeva chiaramente di non credere alle sue parole, e dal tono brusco di quella risposta che gli faceva immaginare ciò che sarebbe accaduto più tardi in casa Silverio.
Accadde che a quattr'occhi, nel disordine profumato dello spogliatoio, dove la Ginevra, poveretta, s'era lasciata prendere dalle convulsioni, discinta, coi bei capelli sciolti, fra le lagrime calde e le calde parole, e il dottore per giunta, chiamato in fretta e in furia, e ch'era lì sempre fra i piedi, a tastarle polso e ordinare calmanti, il marito dovette convincersi che Casalengo era proprio venuto a cercarlo per un motivo innocentissimo, e il giorno dopo, quando Alvise venne a prendere gli ordini come al solito, in tenuta bianca, un po' pallido soltanto per la stanchezza della notte, gli disse battendogli sulla spalla:
- Quel benedetto rapporto ci ha dato un gran da fare, a lei e a me! Se ne sbrighi in due parole, e mi dica subito quali schiarimenti le occorrono, senza bisogno di tornare a incomodarsi stasera -.
NÉ MAI, NÉ SEMPRE!
Se un angelo del cielo fosse disceso a promettere sul serio la dolce lusinga che Casalengo credevasi obbligato di tubare tratto tratto all'orecchio roseo della signora Silverio, nei momenti buoni: - Per sempre uniti! - L'uno dell'altro! - Sempre! - lei, no.
Lei non ne diceva delle sciocchezze, neanche in quei momenti...
Ora poi, da che aveva corso il pericolo di vedersi cascare fra capo e collo tanta felicità, per l'imprudenza di un domestico - da che suo marito stava in guardia e minacciava una catastrofe, era diventata prudente, in modo da far disperare Casalengo, l'imprudente! - Ah, no, mio caro! Se sapeste, che paura! -
La bomba scoppiò all'improvviso, quando meno la povera signora sentivasi disposta a dar fuoco alle polveri: uno di quei colpi di vento o di follìa che vi fanno perdere la bussola.
E Casalengo l'aveva persa davvero dietro a quella donna che rassegnavasi docilmente al supplizio di non riceverlo più da solo a solo - specie quando la incontrava al ballo o in teatro, e non poteva neppure metterle un bacio sull'omero nudo.
Qualcosa gli diceva: - Bada, essa non è più quella di prima.
C'è qualcosa, un pensiero fisso, un segreto, un altro, negli occhi che ti guardano, nelle labbra che ti sorridono, nel gesto, nel suono della voce.
Proprio! il vostro peccato, che vi si rivolta contro, e vi punisce...
- Ginevra! È impossibile durarla così...
quando si ama...
se mi amate ancora...
- Ingrato! - ribatté lei, fermandosi un minuto solo, sull'uscio della sala da giuoco.
- Perdonatemi...
Avete ragione...
sempre.
Ma mettetevi nei miei panni, s'è vero che mi amate...
- Lasciatemi! Lui s'è voltato a guardarci...
Avete visto? -
Aveva ragione, sempre, lei; anche quando rideva e civettava in mezzo a una folla di cicisbei per sviare i sospetti; mentre lui doveva tenersi in corpo il dubbio, la febbre, la gelosia, in fino! la smania di sapere e di toccare con mano la sua disgrazia, di stringersela fra le braccia, e di conficcarsela ben bene nel cuore - costretto a mostrarsi disinvolto anche lui, onde evitare il ridicolo, allorché finalmente ella volle offrirgli una tazza di thè, nel vano di una finestra.
- Grazie.
Me la son meritata.
È vero.
- Ma...
secondo.
Lasciatemi guardarvi in viso...
- Ah no! Non facciamo imprudenze! Io, per esempio, potrei vedere nel vostro qualcos'altro...
- Che cosa?
- Lui...
- Lui, chi?
- Lui, quell'altro...
Vedete se sono buono! -
Il poveretto arrivava a bruciarle sotto il naso il granellino d'incenso della gelosia amabile.
Una cosa deliziosa.
Ella, ridendo, diceva di no, di no, col sì negli occhi.
- Un altro, chi? Siete matto?
- Che so io...
il sogno di stanotte, il chiaro di luna, la canzone che passa, l'ultima parola che vi è rimasta nell'orecchio, fra tante...
forse senza che ve ne siate accorta voi stessa...
-
Casalengo si batteva i fianchi, non potendo combattere il rivale incognito ch'era inutile cercare, ch'ella non avrebbe confessato giammai, e che non osava forse confessare a se stessa, ancora.
Una voce gli diceva all'orecchio, a lui pure: - È inutile, tutto ciò che farai aggraverà i tuoi torti di geloso che ha dei diritti, ed è diventato un ostacolo.
Non potrai essere con lei né magnanimo, né dispotico, e neanche innamorato, quasi.
Se minacci t'avvilisci, e se piangi sei ridicolo.
L'ultimo di cotesti imbecilli che le fanno la corte ha un gran vantaggio su di te.
Non puoi mostrarti a lei né umile, né minaccioso, né indifferente, né sospettoso.
Comunque ella ti risponda, sdegnosa, o docile, o tranquilla, o timida, ti butterà egualmente in faccia un rimprovero, un'accusa, una di quelle parole che rompono braccia e gambe, e fanno chinare il capo: "Seccatore!" Bisogna umiliarti colle finzioni, scendere alle indagini tortuose, rassegnarti al supplizio stesso che hai inflitto al marito di lei: la pena del taglione, il castigo di Dio, poiché c'è giustizia lassù anche per queste cose: e diventare odioso come un marito, peggio ancora, perché tu sei legato a lei soltanto da quel vincolo ch'essa vorrebbe mettersi sotto i piedi.
Tu non hai la scusa della Famiglia e dello scandalo da evitare, quando non hai il coraggio di rompere quella catena; non hai il diritto e la legge, per costringere e dominare la donna di cui sei geloso; non puoi averla sotto gli occhi a tutte le ore per spiarla; non hai l'interesse per difenderti, né la scelta del momento per riconquistarla.
Le stesse armi con le quali hai combattuto ti si ritorcono contro: le astuzie, i ripieghi inesauribili che ella sapeva trovare, il sangue freddo nei momenti difficili che ammiravi in lei, e il candore delle bugie che ti sembravano deliziose nella sua bocca...
E l'ebbrezza della vittoria, poi! il ricordo di certi momenti che ti si ficca nelle carni col sospetto di un rivale latente fra te e lei...
-
Proprio un affare serio, anche per un uomo meno innamorato di Casalengo - giacché l'immagine di un rivale passato, presente o futuro c'entra un po' in tutti i romanzi del cuore.
Una tentazione da farvi perdere il lume degli occhi.
- Sentite, Ginevra!...
È assurdo...
quando si ama...
se si ama...
non cercare...
non trovare in tutta Napoli un cantuccio, un momento per ritrovarsi, come prima...
fosse anche per cinque minuti soli...
A meno che...
- A meno che, nulla! Lo sapete e avete torto -.
Pure gli aveva accordato quell'appuntamento, proprio perché non ne aveva voglia, per lealtà, perché era un'imprudenza e un pericolo serio in quel momento, col marito che le stava alle costole, e sembrava fiutasse in aria qualcosa anche lui.
Giel'aveva accordato fors'anche perché indovinava i sospetti di lui, e sentivasi colpevole, in fondo in fondo.
Le donne hanno di coteste delicatezze che noi uomini non arriveremo mai a comprendere.
- Ebbene, - gli disse, - giacché lo volete assolutamente...
Sia pure.
Ditemi quando e dove...
Non importa.
Cercate voi -.
Casalengo aveva trovato: un alberguccio losco che essendo brutto assai sembravagli non potesse essere scoperto da altri.
Essa ripeté:
- Sia pure...
dove volete.
Non importa -.
Prese a due mani il suo coraggio e le sue sottane, e salì in punta di piedi quella scaletta sudicia, sfidando alteramente gli sguardi avidi e indiscreti del servitore bisunto, appena velata da un pezzetto di trina che si era cacciata in tasca, come non s'era curata del viso che aveva fatto la cameriera vedendola uscire a quell'ora e vestita così dimessamente, come s'era rassegnata all'insolenza del lazzarone che l'aveva scarrozzata sino ai vicoletto oscuro, dopo mille andirivieni sospetti, ghignando ed ammiccando alla gente che incontrava, per accusare il soffietto traballante sotto il quale tentava di nascondersi la povera signora messa così alla berlina, rinfacciandole al termine della corsa: - Cinque lire? A chi le date? Un servizio come questo! -
Casalengo aspettava dietro la finestra, colle tendine calate, il cuore in sussulto, innamorato sino ai capelli, dopo tanto tempo che non si erano più visti...
o quasi.
Essa entrò senza esitare, pallidissima, premendosi il petto anche lei.
Ritirò la mano che egli le aveva presa, e cavò dal manicotto una boccettina che fiutò a lungo, senza rispondergli, senza muovere un passo, guardandosi intorno cogli occhi lucenti: degli occhi in cui erano tante cose, all'infuori dello smarrimento e dell'abbandono che aspettava lui.
Però, in quel momento Alvise vide soltanto lei, bella, bianca, bionda, odorosa, sola con lui.
E la ringraziava colla voce tremante, col cuore traboccante di riconoscenza e d'ardore, col viso acceso, colle mani tremanti.
Accarezzava il manicotto e i guanti di lei; le faceva dolce violenza per attirarla vicino a lui, sul canapè a grandi fiori gialli e rossi: - Cara Ginevra...
Bella e buona tanto!...
Finalmente!...
Povera bimba...
come le batte il cuore!...
Qui, qui sul mio!...
- Ditemi, - rispose invece lei, sempre colla boccetta sotto il naso.
- Non potreste aprire quella finestra?
- Ah! - esclamò Casalengo, lasciandosi cadere le braccia.
- Ah! -
Ella si pentì subito d'essersi lasciata sfuggire quelle parole che erano state una fitta al cuore del povero innamorato, e sedette rassegnata, scusandosi col dire:
- Ma si soffoca qui!...
- Perdonatemi...
C'è un mondo di gente alla finestra dirimpetto...
Non ho potuto trovare di meglio...
per la vostra sicurezza...
- Vi ringrazio.
Avete ragione -.
Adesso rimanevano in silenzio l'uno rimpetto all'altra, imbarazzati e quasi cerimoniosi.
Talché lei, buona in fondo, se ne avvide, e volle togliersi i guanti e la veletta, per compiacenza, cercando ove posarli.
Poi, a buon conto, cacciò ogni cosa nel manicotto, che si tenne in grembo.
- Scusatemi, Alvise...
Vi sembrerò strana...
Sono tutta...
così...
-
Alvise continuava a tacere, seduto di faccia a lei, guardandola fissamente, tristamente.
E nei suoi occhi un sentimento nuovo, una grande amarezza balenava.
Infine, con voce mutata, nella quale tradivasi suo malgrado quell'angoscia, le disse:
- Ahimè, Ginevra...
siete come una che non ama più! -
Anch'essa allora alzò gli occhi splendenti, guardandolo fisso, con un sorriso amaro all'angolo della bocca.
- Avete ragione a dirmi ciò...
adesso...
e qui!...
- Ah! Non vedete quanto soffro? Non sentite che vi amo come un pazzo? Non avete indovinato tutte le torture?...
-
Vinto dalla commozione, dal desiderio, dalla passione, si lasciò trascinare a dirle tutto: le angosce, i palpiti, il dubbio, le notti passate sotto le sue finestre, la febbre che gli metteva addosso solamente quella breve striscia del suo polso nudo, i castelli in aria, i sogni, le follie...
tutto, tutto, proprio come un bambino: l'abbandono intero che tanto piace alle donne.
Essa gli posò infatti le mani sui capelli, quasi per accarezzarlo, commossa di vedersi ai piedi la forte giovinezza di quel fanciullo di trent'anni, come abbandonandosi anche lei, per riconoscenza.
Soltanto, vedendogli luccicare le lagrime negli occhi, tornò fredda come prima.
- No...
ecco...
Ho avuto una gran paura...
Ecco cos'è...
- Paura di che, povera bimba?...
- Ma di lui, mio caro.
Si fa presto a dire...
Vorrei vedervici voi! -
E anch'essa sciorinò allora tutto ciò che aveva patito e temuto, dal giorno che suo marito era entrato in sospetto.
Non si riconosceva più quell'uomo.
Un Otello addirittura! Dormiva col revolver sotto il guanciale.
Una paura atroce, un batticuore continuo...
Se incontrava lui, Casalengo...
se non lo vedeva...
temendo che un gesto o una parola lo tradisse...
trasalendo a ogni lettera che portava la posta...
se udiva il campanello...
Ogni cosa che la metteva sottosopra...
l'umore del marito, il contegno dei domestici...
- Insomma una cosa da far venire i capelli bianchi, amico mio!
- Ebbene! - esclamò Casalengo raggiante, stringendole le mani da farle male, seduto ai piedi di lei, supplicandola cogli occhi innamorati, accarezzandola col sorriso ebbro.
- Ebbene!...
- Ebbene! che cosa?
- Fuggiamo insieme!...
lontano da Napoli!...
in capo al mondo!...
Troveremo pure un nido dove nascondere la nostra felicità!...
-
Ella spalancò gli occhi, attonita, quasi le avessero proposto di condurla alla luna in pallone, d'andare a un ballo in veste da camera, di camminare a testa in giù.
Sicché il lirismo e l'entusiasmo del povero innamorato caddero a un tratto.
Ma lei, vedendolo così mortificato, ripigliò immediatamente, mettendogli la mano sulla bocca:
- Zitto!...
zitto!...
per carità...
-
Cercò di fargli intendere ragione, di farlo rientrare in se stesso, quel gran fanciullone, proprio colle buone, con dolcezza, abbandonandogli le mani anche, purché non ne parlasse più...
Egli non ne parlava più infatti, baciava e ribaciava quell'epidermide fine e profumata, risalendo lungo il braccio, sollevandosi sulle ginocchia.
Allora la bella Ginevra tornò ad avere la paura di prima.
- Badate, Alvise!...
Siete proprio sicuro che nessuno m'abbia vista?...
Voglio dire che nessuno abbia potuto vedermi...
mentre venivo?...
- Ma...
certamente...
- Perché...
m'è sembrato che qualcuno mi seguisse...
una carrozzella, sì...
dalla Villa sino a Foria...
E anche nel salir la scala...
Lui non pareva risolversi ad uscire.
M'ha chiesto se andavo al concerto...
Siete sicuro della gente di questa casa?
- Sicurissimo...
Chi volete...
Nessuno vi conosce...
-
Alvise non connetteva più, dal momento che quella manina gli si era posata sulla bocca.
Cercava le parole, balbettava, tentava di rifarsi al punto di prima e di riguadagnare il tempo perso, indispettito di vederselo fuggire a quel modo, stupidamente, dopo tanti ostacoli e tante difficoltà per trovarsi un'ora insieme!...
Ma lei però aveva il coraggio di pensare a tante altre cose in quel momento; badava a difendere la sua veletta e il manicotto!...
- No...
davvero...
Alvise...
Ho paura!...
- Ah, sì!...
la carrozzella...
Foria...
la scala!...
- Ecco! - rispose lei corrucciata.
- Ecco come siete!
- Ma io sono come uno che ama, cara mia! Non ho i vostri ma e i vostri se...
E neanche voi li avevate, prima...
- Ecco! ecco! Me lo merito!
- Oh, Ginevra!...
oh!...
-
Ella si era messo il fazzoletto agli occhi: un'altra gran tentazione, il profumo di quel fazzoletto, e le lagrime di quegli occhi! Alvise le afferrò di nuovo le mani, baciandole, baciando il fazzoletto, gli occhi, il vestito, fuori di sé, delirante, chiedendole se l'amava ancora, proprio, tutta tutta, se sentiva anche lei quello struggimento e quella frenesia.
Essa diceva di sì, di sì coi cenni del capo, col rossore del viso, col tremito delle mani, abbandonandoglisi a poco a poco, mutandosi in viso, fissandolo col turbamento delizioso negli occhi, balbettando anche lei, vinta alla fine:
- Non vedete...
Non vedi...
Sarei qui forse?...
Vi pare che sia una cosa da nulla?...
- Sì, è vero! Perdonatemi, povera bimba! Bimbetta bella e cara!...
Come batte quel cuoricino!...
Anch'io, sai!...
Ma è un'altra cosa...
Non è vero?...
Guardami! Sorridimi! È stato un gran affare, eh, questa scappata?...
Un colpo di testa?...
Non siam fatti per le tempeste grosse dell'amore! Preferiamo la maretta che ci culla e ci accarezza!...
Non è vero? di', confessalo! Siamo un po' civettuole anche! Ci piace di vederci corteggiare e di far perdere la testa al nostro prossimo, eh?...
Di'! di'!...
Tutti coloro che ti corrono dietro e sospirano alla luna!...
Confessalo! Confessati! Dimmi, chi è l'amante della luna adesso? colui che sospira di più per la mia Ginevra? Lo sai? te ne sei accorta? ti piace, di'...
ti piace far disperare il prossimo tuo?...
-
Ella sorrideva proprio come una bimba, stordita, commossa, riconoscente di quella nuova adulazione, dicendo di no, di no, che amava il suo Alvise, lui solo! E gli buttò anche le braccia al collo.
Tanto che lui non disse più nulla e ricominciò a parlare soltanto coi baci, dei baci che se la mangiavano viva, e le facevano mettere dei piccoli gridi soffocati:
- No!...
no!...
Davvero!...
Zitto!...
Sento proprio rumore.
Lì...
nella scala, dietro l'uscio!...
sentite?...
- Ah!...
quella scala maledetta!...
-
Ma Alvise s'arrestò lui pure a un tratto, udendo realmente il rumore di un alterco sul pianerottolo, poiché il cameriere voleva guadagnarsi coscienziosamente la sua mancia, e difendeva energicamente l'ingresso del santuario.
Una voce li fece allibire entrambi, la voce di Silverio.
L'uscio sgangherato si spalancò a un tratto, e apparve lui, il marito, Otello, cieco di rabbia e di gelosia - e stavolta poi con ragione, almeno all'apparenza.
- Il cuore le parlava, a lei!
Ciò che allora accadde può bene immaginarsi; perché anche dei gentiluomini, in certe occasioni, perdono il lume degli occhi tale e quale come dei semplici facchini.
Una scena terribile e tale da guarire in un momento di ogni tentazione passata e futura la povera donna che faceva sforzi disperati per svenirsi.
Mai più, mai più poté levarsi dagli occhi il gesto di Alvise che aggiustavasi la cravatta, cercando il cappello per uscire insieme al suo nemico mortale, e andare a tagliarsi la gola d'amore e d'accordo.
Fuori di sé, derelitta, andò un'ora dopo a bussare alla porta di lui.
Alvise parve stupefatto.
- Voi!...
qui!
- Oramai...
- balbettò ella smarrita.
- Oramai...
siete il mio amante...
- Ma no, amor mio!...
è impossibile!...
- E dove volete che vada adesso?
- A casa vostra.
Non temete.
Vostro marito è un gentiluomo.
Tutto si è accomodato.
- Accomodato, in che modo?
- Non sarà fatta parola di voi nella questione fra me e vostro marito...
Ci sarà di mezzo un'altra donna...
una che non avrà nulla da perdere.
- Nessuno vi crederà.
- Non importa che credano.
Ma bisogna che sia così.
Vostro marito partirà immediatamente per un lungo viaggio...
Voi sarete libera...
- Ah!...
- Credetemi!...
- diss'egli stringendole forte le mani, quasi colle lagrime agli occhi.
- Credetemi che darei tutto il mio sangue perché non fosse avvenuto tutto ciò! -
Ella gli si buttò fra le braccia, piangendo tutte le sue lagrime, abbandonandosi interamente all'uomo che un'ora prima cercava un nido in capo al mondo per andare a nascondervi il loro amore e la loro felicità.
Adesso invece cercava di calmare la povera Ginevra, preoccupato dei riguardi che doveva alla riputazione di lei, ai ma e ai se che le aveva rimproverato poco prima, cercando di farle comprendere le esigenze mondane che un'ora avanti voleva farle mettere sotto i piedi, un po' pallido, malgrado il suo coraggio provato, tutto un altr'uomo, imbarazzato, esitante, guardando l'uscio e l'orologio ogni momento, rispettoso e delicato, uomo di mondo sino ai capelli, è vero, ma un uomo di mondo cui sia caduta una tegola sul capo, e gli sia rimasta fra le braccia una gatta da pelare, per usare la frase gentile che nessuno dice e tutti pensano in casi simili.
- Infine...
- proruppe, - cara Ginevra...
aspetto qualcuno...
Non potete farvi trovare qui da questo qualcuno...
-
Il senso morale è industrioso in tanti modi.
E non è a dire che Casalengo ne fosse peggio dotato degli altri.
Quando il suo rivale se lo vide sotto la mira della pistola, con quella faccia, disse piano agli amici che l'assistevano: - Ecco un uomo morto -.
Certo non mancò per lui, che gli piantò due pollici di ferro fra le costole, e lo mise a letto per un pezzetto.
La signora viaggiò tutto quel tempo, almeno si disse.
E se pure andò a trovare il suo amico, di nascosto, proprio da suora di carità, non se ne seppe mai nulla ufficialmente.
Le lettere, per andare da lei a lui, facevano un lungo giro, coll'aiuto di un'amica fidata.
Talché quando la signora Ginevra riaprì il suo appartamento in via Partenope, libera e sola, più bella e più elegante che mai, fu una gara fra le signore e gli uomini in voga a darvisi ritrovo.
Alvise vi andò cogli altri, all'ora del thè, un giorno che il salotto era pieno di gente, e la bella Silverio faceva gran festa a tutti.
- Ah, Casalengo! Bravo! Temevo che fosse partito, o che mi avesse dimenticata -.
Egli vi ritornò altre volte, nei giorni di ricevimento e anche dopo.
Si fermava allo sportello della sua carrozza, al passeggio; e andava a salutarla nel palchetto, al San Carlo.
Era sempre uno degli intimi, come prima, il cavalier servente dell'elegante mondana, mentre il marito di lei viaggiava lontano, talché non c'era persona che sapesse vivere la quale invitando la signora Ginevra dimenticasse di invitare Casalengo, e viceversa.
Proprio il nido d'amore, tappezzato da Levera, e col terrazzino sul golfo di Napoli per contemplare le stelle, e la luna di miele.
Erano liberi, soli e senza alcun sospetto.
Ma non era più la stessa cosa, o almeno non era più la stessa cosa di prima.
Nella loro felicità aprivasi una lacuna, una crepa in cui s'abbarbicavano delle male piante che aduggiavano il bel sole d'amore e facevano impaccio alle parole e alle cose gentili.
Lei, infine, non sapeva perdonare a Casalengo l'inchino profondo, l'aria troppo rispettosa con la quale veniva a salutarla, in teatro, al ballo, fra i suoi amici.
Lui aggrottava le ciglia suo malgrado, tal quale come Silverio, se qualcheduno di essi mostravasi più appiccichino degli altri, più assiduo e premuroso degli altri verso di lei - tacendole le sue pene, oppure stordendola col cinguettarle alle orecchie delle sciocchezze che la facessero ridere.
- Le conosceva anche lui le arti di cotesti seccatori...
e anche lei un po' civettuola lo era stata sempre...
per incoraggiare ogni sciocchezza che le tubassero all'orecchio.
- Una noia, cara Ginevra!...
Non capisco come certuni si buttino addosso a una signora e le facciano gli occhi dolci per dirle magari: buona sera!
- Quello che facevate voi, mio caro...
allora...
nei bei tempi...
Quando vi dicevo: "Né mai, né sempre...." -.
CARMEN
- No, non mi tentate, Casalengo! Sapete che mi chiamano Carmen! Il vostro amico è "biondo e bello e di gentile aspetto"; e ingenuo, timido e cavalleresco...; ritorna adesso dagli antipodi...
Insomma, mi piace assai.
Non voglio conoscerlo -.
Essa gliel'aveva detto!
Invece Casalengo credeva che scherzasse: leggerezza, vanità, orgoglio d'amante che fosse stato in lui; cecità di stolto che Dio voglia perdere; incanto di quelle labbra che avrebbero fatto commettere qualsiasi sciocchezza per vederle sorridere ancora in siffatta maniera; distrazione procuratagli dai monili serpentini che tintinnavano scorrendo giù pel braccio, nudo, il quale levavasi minaccioso, col dito rivolto al cielo: - Guardate, Casalengo! C'è un Dio lassù per queste cose!...
-
Ma quando lui, col sorriso fatuo che gli segnava già le prime rughe sottili accanto agli occhi, s'ostinò a fare la presentazione: - Il mio amico Aldini...
- Essa rispose semplicemente: - Gli amici dei nostri amici...
- E stese la mano al nuovo arrivato con tanta cordialità, così lieta di scorgere nel giovanetto l'omaggio di un grande imbarazzo, che volle pure ringraziarne Casalengo con un'occhiata rapida: un'occhiata in cui era il sorriso del diavolo.
Aldini, che aveva sentito parlare sino a Zanzibar della gran passione per cui il suo amico Casalengo s'era giuocate le spalline di comandante, provava adesso una certa sorpresa dinanzi a quella donna che non aveva poi nulla d'estraordinario.
Un viso delicato e pallido, come appassito precocemente, come velato da un'ombra, dei grandi occhi parlanti, in cui era della febbre, dei capelli morbidi e folti, posati mollemente in un grosso nodo sulla nuca, e il bel fiore carnoso della bocca - la bocca terribile - come dicevano amici e gelosi.
Ma lo turbava il profumo mondano, la carne mortificata dalla gran vita, che traspariva fra le trine preziose, il segno che il braccialetto le lasciava sulla pelle delicata - e gli dava un gran da fare per non mangiarsela cogli occhi.
Ella se ne avvide, e mise cinque minuti buoni a infilarsi il guanto, in premio dell'ammirazione muta che le tributavano gli occhi sinceri del giovinetto, i rossori fugaci, le parole mozze...
Da abbracciarlo, lì, dinanzi a tutti quanti! E gli lasciò in pegno il ventaglio, tornando a ballare il valzer - un legame, lo scettro della sultana.
- Eccoti comandato...
servizio particolare! - gli disse Casalengo ridendo.
- Se avevi qualche impegno, ti scuserò io, caro Riccardo...
- No! Oh no! - esclamò Aldini, stringendo forte il ventaglio colle due mani.
Adesso osservava alla sfuggita, con una curiosità inquieta e rispettosa, il suo amico Casalengo, la forte giovinezza di lui come curva sotto un giogo, il sorriso distratto sulle labbra riarse, le frasi stonate, il pensiero fisso, l'ardore segreto, la ruga impercettibile e quasi nascosta fra le ciglia, gli sguardi erranti, suo malgrado, attratti dalla donna amata che gli fuggiva dinanzi nelle braccia di un altro, raggiante, e gli buttava in faccia il sorriso, il profumo, il vento dell'abito, la nudità delle spalle, tutte le seduzioni, i fantasmi dell'amore e della donna, quali erano passati dinanzi agli occhi a lui pure, Aldini, nelle calde fantasticherie dell'adolescenza, discorrendo laggiù della maliarda la quale prendeva lui pure adesso, con una parola, con un nulla, legandolo, incatenandolo a sé con quel ninnolo che gli aveva messo fra le mani, come un fanciullo che si voglia tenere a bada.
- Ah, ma sapete! È proprio carino il vostro amico Aldini!
- Ve l'avevo detto, - rispose Casalengo un po' ironico.
Ella si strinse nelle spalle con un movimento che gli mise sotto il naso i begli omeri nudi.
- Badate però.
È un ragazzo...
un ragazzo pericoloso.
- Ah, così? - disse lei.
E Carmen volle farne l'esperimento, povero Aldini.
Tanti altri, ora vinti e intossicati per tutta la vita, l'avevano chiamata con quel soprannome di guerra e di malaugurio, ch'era la punzecchiatura delle sue amiche gelose, e la carezza o la maledizione degli incauti che si lasciavano prendere al fascino del suo sorriso dolce e buono - la più strana cosa, su quella bocca di vampiro.
Poich'essa faceva il male con una incoscienza ch'era la sua maggiore attrattiva; vi metteva una sincerità, quasi una lealtà che le faceva perdonare i suoi errori, come il gran nome che portava le faceva aprire tutte le porte.
E una squisita eleganza, una grazia innata fin nelle bizzarrie, un'ingenuità provocante fin nella stessa civetteria, l'aria di gran dama anche in un veglione, avida di piaceri e di feste, quasi divorata da una febbre continua di emozioni e di sensazioni diverse, una febbre che la consumava senza ravvivare il suo bel pallore diafano, né le sue labbra dolorose, ma che però la lasciava spesso in una prostrazione desolata, le dava delle ore di stanchezza e di uggia, di cui i suoi adoratori pagavano la pena: ore tremende - in cui non c'era altro da fare che prendere il cappello e andarsene - dicevano i forti, quelli che avevano pianto poi dietro l'uscio di lei.
Gli altri, coloro che cercavano di spiegare le sue follìe, se non di scusarle, dicevano ch'era ammalata, ch'era matta - tutti i d'Altona erano morti tisici o dementi - che aveva provato dei gran dolori e dei gran disinganni, ch'era ferita a morte, condannata senza speranza, e voleva vivere vent'anni in venti mesi.
- Gliel'ha detto anche a lei, il mio amico Casalengo, che mi chiamano Carmen? - chiese ella ad Aldini, col sorriso mordente, la prima volta che un'ondata di folla glielo mise di nuovo faccia a faccia, all'uscire dal Sannazzaro.
Ma gli stese la mano senza rancore.
Poscia, mentre aspettava la carrozza, stretta nella pelliccia, e con quell'aria di stanchezza e di noia che faceva scappare la gente, soggiunse:
- M'accompagni.
Servirà ad insegnarle la strada...
quando vorrà venire a farmi una visita.
Troveremo qualche amico a casa...
degli amici suoi e miei, per prendere il thè insieme....
se non ha paura che l'avveleni come la Lucrezia Borgia di stasera...
una Lucrezia tremenda, da morir di noia!...
-
Fu in tal modo che lo prese, - come, per fargli posto nel legnetto, aveva preso e raccolto a due mani il suo vestito, - e lo avvolse fra le pieghe di esso, e lo stordì col suo profumo, allorché la pelliccia, scivolandole giù per le spalle, gli buttò al viso e alla testa la trasparenza di quegli omeri rosei - senza volerlo, quasi senza avvedersene, in quell'ora di uggia, e d'umor nero che l'avrebbe fatta dar della testa nell'imbottitura del coupé, e che egli le leggeva sul viso smorto, mentre guardava distrattamente attraverso il cristallo, ai bagliori fugaci che gettavano le vetrine scintillanti dentro la carrozza che correva su per Toledo - senza dirgli una parola, né rivolgergli un'occhiata, quasi non pensasse più a lui, o subisse ancor essa lo strano imbarazzo di quell'incontro, di quel silenzio, dell'oscurità che li avvolse tutti e due a un tratto nello stesso mistero e nella stessa tentazione, appena il legno svoltò pel corso Vittorio Emanuele - o sapesse che ciò doveva bastare a mettergli nel cuore, a lui, nelle carni, incancellabile, la febbre di quell'occasione che fuggiva rapida, la sete di quelle labbra di donna che si celavano nell'ombra, il turbamento di quella sfinge che rimaneva per lui impenetrabile nello stesso tempo che gli palpitava allato.
- Degli angeli godono così di sfiorare la colpa colle loro ali candide - ed essa non era un angelo, no, povera signora! Talché quando lo presentò ai suoi amici che l'accoglievano festanti: - Il tenente Aldini! - con un'aria di trionfo quasi avesse detto: - Ecco il Figliuol Prodigo! - era così pallido e stralunato, il povero Figliuol Prodigo, e come abbagliato dalla piena luce del salotto, o dalla fiamma ch'essa gli aveva accesa in cuore! Ed essa aveva davvero qualcosa dello spirito del male, in quel momento, nel sorriso ironico, nell'aria strana, nel pallore marmoreo del volto, nell'allegria forzata colla quale davasi tutta ai suoi ospiti, lottando di brio e d'arguzia, servendo il thè, dimenticando completamente Aldini in un cantuccio, faccia a faccia con un album di ritratti nel quale cercava di nascondere il suo imbarazzo.
- Che cosa vi ha fatto quel povero giovine? - le chiese sottovoce Casalengo, mentre inchinavasi a prendere una tazza di thè dalle sue mani.
- Tutti m'avete fatto! - rispose lei nel medesimo tono di scherzo.
Ed era forse la verità, il grido di rivolta del suo cuore ulcerato, il senso di disgusto che aveva trovato in fondo al bicchiere, l'amarezza che l'aveva colta allo svegliarsi dai sogni d'oro - quando aveva visto il pentimento mal dissimulato dell'uomo a cui aveva tutto sacrificato - quando era stata ferita dall'insulto che nascondevasi sotto il madrigale di galanti resi audaci dalla sua caduta - quando l'era mancata sin l'alterezza e l'illusione del sentimento puro, della fede giurata, pel tradimento altrui, ed anche pel proprio.
- Non valeva di meglio, no, essa ch'era stata debole nell'ora stessa in cui un altro le era infedele.
Tanto peggio! Tanto peggio per tutti, anche per lei, che sentiva rifiorire il bel fiore azzurro dentro di sé.
Non le avevano detto che i fiori durano un giorno, e che solo sinché odorano esistono? Era tornato spesso in quella casa di cui essa gli aveva insegnato la via, il Figliuol Prodigo, timido e rispettoso, ma preso proprio sino ai capelli, innamorato come un pazzo, di un amore bizzarro che si pasceva di chiaro di luna e di passeggiate sotto le finestre.
- L'aveva visto tante volte, lei, prima d'andare a letto, nel buio della strada! Ed era strano come ciò la facesse sorridere di piacere, le facesse cacciare il viso infocato nel guanciale, con una muta carezza.
Era un voluttà sottile e penetrante, il gusto di un'infedeltà che non poteva dar ombra a Casalengo; ma così dolce, quando beveva il bacio dagli occhi ingenui d'Aldini, e sentivasi ricercare avidamente da quell'adorazione bramosa, tutta, il seno palpitante, mentre ballava con lui, e le braccia che avrebbero voluto avvincerlo, al sentire come gli batteva il cuore contro il suo, il cuore che gli si dava, e la bocca, e la persona intera - e neppur tanto così, nondimeno! Né una parola e neanche un dito! - Una volta sola, smarrita, in quelle ondate di sangue che la musica e il valzer le mandavano alla testa...
- No, Riccardo, così...
mi fate male!...
-
Insomma, era scritto lassù.
Ella non avrebbe voluto, no, davvero, per timore del poi, per timore di lui e di se stessa...
e di Casalengo pure, giacché non era cattiva in fondo.
Ma allorché volle proprio, coll'anima e col corpo...
Tanto peggio! Almeno non volle essere né ipocrita né egoista.
Aveva sempre pagato del suo la festa, in moneta di lagrime e di onte segrete; e non doveva nulla a nessuno, neppure al Casalengo, cui aveva dato il diritto di mostrarsi geloso sacrificandogli tutto quando non l'amava più.
Come Aldini ricevette l'ordine d'imbarco, e minacciava di dare la dimissione, di tagliarsi la gola, un mondo di cose, ella gli disse:
- No, Riccardo.
Verrò con voi...
dovunque...
-
Una proposta che lo sbalordì, povero Aldini, quasi presentisse già il momento in cui doveva pesargli come una catena, quella dolce compagna che gli buttava le braccia al collo.
Ma allora vide soltanto le belle braccia delicate che l'avvincevano, e le labbra fragranti che gli si promettevano per sempre.
Ella forse, sì, ebbe la visione di quel giorno, nella nube che le misero agli occhi innamorati le lagrime della tenerezza.
- Sì, viaggerò anch'io.
Non ho nulla che mi trattenga qui...
No, no...
lo sapete!...
Né altrove, in nessun luogo...
Ho buttato al vento il mio fazzoletto...
per lasciar fare al destino...
Non per voi, siate tranquillo.
Sono ricca e padrona di me.
Sarò libera...
fra breve...
non dubitate.
Lasciate fare a me...
che non farò del male né a voi né ad altri.
M'hanno sempre detto che i viaggi di mare gioverebbero alla mia salute.
E poi, non vi terranno sempre imbarcato, mio povero Riccardo...
Vi lascieranno mettere piede a terra, di tanto in tanto...
per dimostrare alle belle straniere che ci abbiamo dei begli ufficiali a bordo delle navi...
per proteggere delle connazionali color di fuliggine o color di cioccolatte...
Ebbene, io sarò laggiù ad aspettarvi, dove indicherà il telegrafo o il giornale.
Vi farà piacere di trovar lì una tazza di thè e un cappellino da cristiani, non è vero? E senza pesare tanto così su di voi! senza nuocere alla vostra carriera...
Non avranno da dire né i regolamenti, né il servizio, né i superiori, e neanche le conoscenze che raccatterete per via, quando vi manderanno troppo lontano, o dove non sarò certa di trovare un caminetto e dei fiori freschi...
Vedete che non fo la brava, e non vi prometto mari e monti...
Liberi e felici come due uccelli dell'aria! Soltanto, quando anche questa bella volata nell'azzurro ci stancherà...
o ci verrà noia...
a voi o a me...
poiché tutto finisce...
Quando vorrete maritarvi, o amerete un'altra...
Sì, sì, ragazzo mio, un bel giorno rideremo di queste belle parole che ci fanno piangere adesso...
Ma non importa, se adesso sono sincere...
Quando vi parrà che io vi sia d'inciampo nella carriera o nella vita, e vorrete riprendere tutta intera la vostra libertà, ditemelo francamente...
Come io dirò francamente a un'altra persona che voglio riprendere la mia libertà, oggi stesso...
Non v'inganno e non inganno, vedete, Riccardo! Non sono peggiore di quella che sembro...
Ma non ci diamo la pena e il tormento di mentirci, mai! Mi promettete?...
mi prometti?
- Oh, amore! amore bello! - esclamò Aldini fuori di sé, tentando di prendersela fin da quel momento fra le braccia avide.
- No! - rispose lei, mettendogli le mani sul petto.
- Non ancora...
Quando sarò libera...
e tua! -
Casalengo fu ripreso bruscamente da un accesso dell'amore antico, appena essa gli fece capire che il suo era morto, lì, presso quel tavolinetto, dove l'avevano strascinato un pezzo, per abitudine e per dovere, nella mezz'ora prima di pranzo che il suo amico, sempre galante e gentiluomo, non mancava mai di dedicarle.
Ora egli sentivasi mordere al cuore dal pensiero che un altro le facesse tremare la voce ed il cuore come un tempo aveva fatto lui, come sembravagli di provare ancora dentro di sé in quel momento - e che fosse stato sempre così, e che dovesse durare eternamente, anche per lei...
Ella prese un fiore che si piegava avvizzito nel vasetto d'argento, e gli disse tristemente:
- Vedete questa rosa che mi avete donata ieri? -
Casalengo chinò la fronte sulla mano, e tacque un istante.
- Partirete? - domandò poi.
- Sì.
- Per dove? -
Ella non rispose.
- Volete darmi almeno quel fiore? - chiese tristemente Alvise.
Ella esitò alquanto, prima di rispondere.
- Grazie!...
Voi sapete vivere...
-
Egli si alzò in piedi, leggermente pallido, stretto nel vestito che gli dava ancora la sua aria militare, ma perfettamente padrone di sé, col sorriso un po' ironico dei suoi bei giorni.
- E lasciar vivere...
sì, ho imparato a mie spese.
Mi permettete di darvi un consiglio, in nome di questa benedetta esperienza?
- Dite.
- Partite sola...
e più tardi che potete -.
Ella arrossì sino ai capelli.
- Non dubitate.
Ci avevo pensato...
pel vostro amor proprio.
- No, mia cara, per voi stessa, quando ritornerete, e avrete bisogno dei vostri amici -.
E inchinandosi a baciarle la mano, aggiunse con un sorriso pallido:
- Voglio rimanere vostro amico...
se volete...
se sapete...
-
PRIMA E POI
- No - m'avete detto.
- Non sciupiamo il bel sogno d'oro, Riccardo! -
Ah, voi non sapete cos'è quel sogno d'oro nei vostri occhi che cercano i miei, e il fascino che metteva allora nel vostro pallido sorriso la triste scienza del poi!
Tutto, tutto l'ho assaporato quel terribile fascino - nel dolce lividore che i baci altrui v'hanno lasciato sulle palpebre, nella rugiada di cui sono ancora umide le vostre labbra, nel molle abbandono con cui vi appoggiavate al parapetto del battello, nel gesto carezzevole della vostra mano che additava Capri, laggiù in fondo, a Casalengo - lui che non trema, né impallidisce più nel parlarvi.
No, non voglio pensare a lui.
Mi sembra d'impazzire.
Avete indovinato quanto ho sofferto in quell'eterna gita di piacere? E anche voi! Ho sentito tremare la vostra mano mentre vi aiutavo a scendere nella barca.
Oh, Ginevra, quando vi siete abbandonata trasalendo contro il mio petto nel buio della Grotta Azzurra!...
Che m'importa di Casalengo, che m'importa del poi, che ve ne importa anche a voi, poiché le vostre pupille s'intorbidano e si smarriscono figgendosi nelle mie?...
Sentite, ieri sera son tornato da voi, sapendo che vi avrei trovato quell'altro e che non mi avreste ricevuto.
Gioconda m'ha detto infatti: - La signora non c'è -.
E s'è fatta rossa, vedendomi così pallido.
Avevo visto del lume nel vostro salotto.
Mi son fermato nella via sino alle undici per vederlo ancora e sentirmene ardere gli occhi ed il sangue - sino all'ora in cui l'altro se n'è andato.
Ho cercato di indovinare se l'amate ancora, dal suo passo e dalla sua andatura.
Se avessi visto quel lume nella vostra camera da letto mi sarei ucciso.
Oggi avete risposto alla domanda insidiosa della vostra amica Gemma con uno scherzo amaro: - Né mai, né sempre! - Ah, com'era dolorosa la vostra gaiezza in quella gita di piacere! e quanto avete dovuto amare quell'uomo, per non voler più amare!
Ho sentito parlarne sin laggiù, in capo al mondo, dove l'avventura di Alvise Casalengo metteva in rivoluzione il quadrato degli ufficiali, e il vostro bel nome correva come un bacio sulla bocca dei giovani allievi.
Voi mi avete preso sin d'allora, colla curiosità o la vaga gelosia che m'ispiravate, quando pensavo a voi che non conoscevo, nelle lunghe vigilie di quarto, sotto le stelle di un altro emisfero.
M'avete preso colle vostre bianche mani, dandomi il ventaglio da tenere, la prima volta che c'incontrammo, vi rammentate? Voi, mondana, non immaginaste neppure ciò che poteva essere una vostra parola o un semplice gesto pel giovane selvaggio che vi arrivava da Zanzibar già innamorato e pauroso di voi, quanta avida e gelosa penetrazione fosse negli occhi che divoravano la vostra bellezza offerta alteramente, il sorriso noncurante col quale ne accoglievate l'omaggio, l'abbandono ch'era nel concedervi ai vostri ballerini, il suono della voce con cui parlavate ad Alvise - e in cui sentivo le dolci parole che gli avrete dette - l'ebbrezza che provai io stesso la prima volta che mi deste del voi, quasi m'aveste già dato qualcosa della vostra persona.
Vi rammentate? quel giorno che sorprendeste il primo lampo di follìa e d'adorazione nei miei occhi, e vi faceste di porpora, odorando il mazzo di fiori che vi aveva mandato Casalengo, per coprirvene il seno?...
Così m'avete preso, per sempre! Non ci credete voi a questa parola? Perché avete chinato il capo quando vi ho confidato tremando il mio segreto? e avete lasciato la vostra mano nella mia? Quante cose mi avete dette senza parlare, in quell'angolo del salotto che sono rimasto a guardare dalla strada, stanotte! Quante cose vi ho detto chinando la fronte sul vostro ritratto che sorride dalla cornicetta di strass posata sul tavolino! Così mi pareva di veder brillare e sorridere a quell'altro i vostri occhi in quelle tre ore orribili che ho passato sotto le vostre finestre.
- Quando m'è sembrato di vedere Alvise dietro i vetri, quando vi siete avvicinata a lui, forse per porgergli una tazza di thè, forse per guardare nella via, e le vostre due ombre si sono confuse insieme...
Mi avete visto voi, Ginevra, laggiù, sotto la pioggia, coi piedi nel rigagnolo? Vi siete rammentata allora del dubbio atroce che doveva torturarmi, e che cercate di scacciare, ogni volta, quando posate la mano sul mio capo, pallida anche voi della mia angoscia, e balbettate: - No!...
no, Riccardo, vi giuro?...
-
Vi credo, voglio credervi, ho bisogno di credervi.
Perché dunque? perché mi fate soffrire a questo modo? Perché temete di sciupare il bel sogno d'oro? Oh, se sapeste come l'ho visto dietro le cortine color di rosa, che sembravano agitarsi e palpitare allorché siete passata nella vostra camera da letto, e animarsi di un incarnato più vivo quando vi siete avvicinata allo specchio, e velarsi di un'ombra pudica, dove passava la carezza dei vostri movimenti! Poi quella stessa ombra ha trasalito quasi, e s'è dileguata a un tratto dalla finestra del vostro spogliatoio, ed è solo rimasto il chiarore diffuso del globo roseo che veglia sui vostri sogni dolci e sulle vostre palpebre chiuse.
Oh, struggersi e morire su quelle palpebre chiuse - perché non abbiate a temere il poi - perché duri sempre il bel sogno d'oro! Sempre! Sempre! Il poi non esiste, quando si ama.
Non esiste il domani, non esiste quel ch'è stato ieri, non penso più a Casalengo.
Penso a voi, e vi amo, e vi voglio, come se tutta la mia vita e l'universo intero fossero in questo momento e in questo desiderio.
Ahimè, Riccardo, il bel sogno d'oro è finito, da che vi siete svegliato nelle mie braccia.
Non ve ne voglio, e vi prego di non volermene.
Soltanto non ostiniamoci a chiudere gli occhi, con questo bel sole che deve accompagnarvi nella vostra traversata.
Buon viaggio, amico mio.
Vi scrivo seduta a quel medesimo tavolinetto della veranda su cui posavate la vostra tazza, quando venivate a prendere il thè nel mio salotto.
La signorina del N.
17 continua a strimpellare quel valzer che vi metteva di cattivo umore - Dolores, mi sembra - e anche a me, quando vi vedevo così uggito.
Ma adesso, non so il perché - forse il bel sole, dopo questa eterna notte in cui m'è parso d'impazzire, forse il vostro ricordo, come che sia - mi mette in cuore delle ondate di dolcezza malinconica, specialmente alla ripresa delle prime battute che piacevano anche a voi, alle volte, nei momenti buoni.
Ho ancora dinanzi agli occhi il movimento del vostro capo che segnava il tempo - il bel tempo e le buone risate che si facevano, allora...
Dove vi raggiungerà questa lettera, a Lima, al Messico? Vorrei che vi portasse il sorriso che vi piaceva tanto, una volta, e che non aveste a temere di trovarvi né lagrime né piagnistei, prima d'aprirla.
Le arie di salice piangente non mi vanno.
Anzi! M'avete sempre detto che son venuta al mondo ridendo...
e civettando.
È vero, sì.
Com'ero felice di vedervi fare il muso lungo! M'avete amata pazzamente e lealmente.
Che Dio ve lo renda coll'amore delle altre, di tutte quelle a cui sorriderete e a cui piacerà il vostro sorriso.
M'avete dato il bel fiore azzurro del vostro cuore e della vostra giovinezza.
Quante volte ci siamo inebriati insieme del suo profumo, tenendoci per mano, fra gente nuova e paesi sconosciuti, sotto le altre stelle a cui davamo dei nomi dolci, appoggiando al vostro braccio la mia persona stanca e addolorata d'aver tanto amato - e non voi soltanto.
- Vedete che vi dico tutto, e non mi faccio migliore di quel che sono.
Voi mi avete amata forse per questo; e non mi amaste più di quando sentiste ch'ero tutta vostra, tutta, tutta, Riccardo! senza pensare al poi che doveva venire tosto o tardi - e ch'è venuto.
Ora ho civettato e riso coi vostri amici, con tutti quelli che mi conducevate in casa per aiutarvi a passare le sere insieme a me.
- Hadow specialmente, che ha i più bei denti di cristianità e mi faceva perdere la testa colla sua gaiezza.
Voi non ve ne siete neppure accorto, ahimè!
Poi che siete partito ho paura di Hadow, e partirò anch'io, appena mi sarò rimessa del tutto, per tornare in Europa.
Questo cielo implacabilmente azzurro m'acceca e mi fa male.
Gioconda, che sta preparando i bauli, ha trovato degli oggetti che avete dimenticato qui: una scatola di sigarette, un fazzoletto colla vostra cifra.
Vi porterò ogni cosa a Napoli, dove vi ho conosciuto, e dove ho lasciato degli altri amici come voi.
Ve lo restituirò poi laggiù, il fazzoletto, "terso di lagrime" quando vi rivedrò, se vi rivedrò, e tornerete da me, come gli altri amici.
Adesso mi sento abbastanza forte per affrontare il viaggio di ritorno.
M'avete perdonato le pene e le noie che vi ho date da Genova sin qua? Come siete stato buono e affettuoso con questa povera ammalata! - malata di corpo e d'anima.
-
Quanto m'avete resa felice, e come m'avete guastata! Ieri sera, quando ci lasciammo, "ho fatto i capricci" proprio come una bimba viziata.
Non me ne do pace, no, Riccardo! Gioconda pretendeva che avessi la febbre, che dovessi prendere del laudano, del cloralio, che so io, alle quattro del mattino, figuratevi! Ah, che misera cosa non poter cambiar d'umore come si cambia di vestito, e avere dei nervi che fanno la festa mentre si ha voglia di dormire! La buona dormita che vorrei fare sino a Napoli, tutta d'un fiato, senza sogni e senza sentirmi vivere, e svegliarmi laggiù, nel paese che ride e canta, senza pensare a quel ch'è stato ieri o a quel che sarà domani! Quando ci rivedremo, laggiù, se ci rivedremo, voglio che mi troviate savia, grassa e prosperosa come quella bionda vergine ch'è venuta a far la tisica, qui all'albergo, e la vocina sottile per cantare le arie del Tosti, svenendosi sul piano.
Voglio che torniamo a ridere, senza musi lunghi, e senza "dolci languori negli occhi desiosi".
Oh, no! A che pro adesso? Noi ci siamo detto tutto.
E le parole amare che rimangono all'ultimo...
No, Riccardo! quelle no! Ieri sera eravate nervoso anche voi.
La mano che vi ho stesa nel dirvi addio, la mano che vi parlava altre volte, e vi diceva tante cose, non ha saputo trattenervi.
Ho persa anche la fede in quel povero neo che vi faceva perdere la testa a voi, una volta, e che non ha saputo dirvi nulla neppure esso, ahimè!
Ecco ora che fo la sfacciata per non sembrarvi noiosa, perché l'ultima immagine mia, l'ultimo ricordo che vi lascio sia buono, dolce, affettuoso e piacevole.
Sarà forse l'ultima civetteria che rimane, dopo la fine.
Vorrei che mi vedeste ancora come vi son piaciuta, quando vi son piaciuta, senza menzogne, senza reticenze, senza veli, tutta per voi, anima e corpo, tutta una cosa con voi, come quando si ama bene e molto - fin sopra ai capelli - direte voi.
E la prova è che abbiamo vuotato il sacco della felicità, voi forse più in fretta, io certo con maggior spensieratezza, poiché dovevo sapere come vanno a finire queste cose, io che son più vecchia di voi.
- Ho cent'anni da ieri in qua, amico mio.
- Ma non mi pento di avervi lasciato sfogliare pazzamente "le rose del cammino" perché ce n'erano tante, e così belle, che sembrava non dovessero terminare giammai; e vi ho aiutato anch'io a sfogliarle, sorridendo e chiudendo gli occhi, come fo adesso, per non sentirne le spine.
Se mentre vi scrivo per l'ultima volta non ho saputo nascondervi tutte quelle che mi son rimaste nelle mani, perdonatemi.
Non è come cavarsi un guanto, capirete! Ma "è pena così dolce" che tornerei a chiudere gli occhi, e a buttarmi a capofitto nelle spine.
- Non con voi, Riccardo.
Con voi il bel sogno d'oro è finito, e bisogna metterci sopra la croce delle orazioni funebri.
Il salice piangente stavolta son proprio io, la Ginevra vostra di un tempo.
CIÒ CH'È IN FONDO AL BICCHIERE
Quando la signora Silverio tornò insieme al marito - da Nuova York, da Melbourne, chi lo sa? - tutti videro ch'era finita per lei, povera Ginevra.
Metteva del rossetto; portava ancora la pelliccia nel mese di maggio; veniva a cercare il sole e l'aria di mare alla Riviera di Chiaja, dalle due alle quattro, nella carrozza chiusa, come un fantasma.
Ma ciò che stringeva maggiormente il cuore era la macchia sanguigna di quell'incarnato falso nel pallore mortale delle sue guance, e il sorriso con cui rispondeva al saluto degli amici - quel triste sorriso che voleva rassicurarli.
Anche il Comandante non si riconosceva più: aveva la barba quasi grigia, le spalle curve, e delle rughe che dicevano assai su quella faccia abbronzata d'uomo di mare.
Indovinavasi ciò che avessero dovuto fargli soffrire i farfalloni che svolazzavano un tempo intorno alla sua bella Ginevra, adesso che non era più geloso di lei, ed era tornato a prendersela sotto il braccio pietosamente, chinando il capo a tutti i suoi capricci, quasi sapesse che la poveretta non ne avrebbe avuti per molto tempo...
Dopo era ripartito subito, per ordine superiore, dicevasi; e dicevasi pure che l'ordine d'imbarcare l'avesse chiesto colla stessa sollecitudine con cui un tempo aveva desideravo di non lasciare la moglie e il Dipartimento di Napoli.
Essa, disperatamente, s'attaccava alla vita colle manine scarne, povera donna, e affaticavasi a menare a spasso i suoi guai e i suoi terrori segreti, ai balli, in teatro, come ripresa dalla febbre mondana - e forse era la stessa febbre che la teneva in piedi, sotto le armi, torturandosi delle ore dinanzi allo specchio, per strascinarsi poi col fiato ai denti sino al suo palchetto, o per passare soltanto da una sala da ballo.
- Ma così felice, sotto la carezza dei binoccoli che si puntavano sul suo petto anelante, e sembravano scaldarle il sangue nelle vene! Così grata a quell'anima buona che venisse a farle un briciolo di corte! - Senza cadere in tentazione, no! La tentazione ormai era lontana, e le aveva lasciato i lividori sulle carni.
- Tanto che sorrideva al marito, quando egli era ancora lì, come a dirgli:
- Vedi, che male c'è?...
-
Aveva preso un quartiere in via di Chiaja, per stare notte e giorno in mezzo al rumore e al movimento della città; perché gli amici venissero a trovarla più facilmente, all'uscire dal teatro o prima di pranzo, e riceveva specialmente il mercoledì sera.
Suo marito stesso me ne aveva fatto cenno al caffè, prima di partire, dimenticando le sue prevenzioni contrarie e forse anche i suoi sospetti: - Venga a trovarla, povera Ginevra.
Le farà tanto piacere -.
Ella accoglieva con gran festa tutti quanti.
Appena mi vide, mi corse incontro col suo bel sorriso che innamorava, stendendomi le mani.
Era proprio tornata la bella signora Silverio che ci faceva perdere la testa a tutti noi della Regia Marina, quando i disinganni e le amarezze non avevano ancora spento il suo bel sorriso civettuolo, e messo qualcosa di duro nella linea delle sue labbra.
- Ho lasciato tutto lì, le noie, le cose tristi! - pareva dire; e faceva un gesto grazioso col braccio esile, accennando lontano, allorché tornavano nel discorso i ricordi malinconici.
Al primo vederla, sotto il gran paralume chinese vicino al quale stava più volentieri, non mi parve nemmeno tanto patita.
Dei pizzi superbi davano una certa vaporosità alla sua figurina snella, e dei grossi filari di perle le coprivano interamente la scollatura del vestito.
Ripeteva sovente: - Adesso sto bene.
Son guarita interamente -.
Sorrideva anche delle sue paure.
Soleva rammentarle soltanto per far capire che le avevano lasciato una grande indulgenza per tutte le debolezze e tutti gli errori umani.
- E i tradimenti anche! - mi disse, spalancando gli occhioni, e accennando col muovere del capo e col sorriso che mi accusavano.
- Sapete che sono stata molto male, caro d'Arce? Ho creduto di fare il gran viaggio! Torno da lontano, adesso...
di laggiù, dove si sa tutto, e tutto si perdona!...
-
Si volse a cercare la sua amica Maio, e la pregò lei stessa di offrirmi il thè.
Da lontano vidi i suoi occhi fissi su di noi, nel breve istante che scambiammo un profondo inchino cerimonioso.
Poi la bella Maio tornò a raccogliere gli omaggi altrui come una regina.
Quando andai a posare la tazza vuota sul tavolinetto, al quale la signora Ginevra appoggiava di tanto in tanto la mano, coll'aria un po' stanca e affaticata, ella mi chiese a bruciapelo, fissandomi in viso quegli occhi luminosi:
- Così? Non avete più nulla da dirvi, né voi né lei?
- Ahimè, no.
- Oooh! - esclamò ridendo, - oooh!...
-
E inzuccherò senza pietà il thè dell'Ammiraglio.
La contessa Ardilio le offrì di aiutarla.
Ella accettò subito per venire a sedere accanto a me su di un canapè d'angolo.
- Abbiamo molte cose da dirci; ma è meglio non parlarne, è vero? A che serve oramai? Siamo perfettamente ragionevoli tutti e due...
Allora...
quando seppi il torto che avete fatto alla parola datami...
il giuramento del marinaio, vi rammentate?...
- E sorrideva, povera Ginevra.
- Però non ve ne volli...
né a voi, né a lei...
Ebbi dei torti anch'io...
Ma voi sapevate che non ero libera...
-
Allora mi parlò francamente di Alvise, il solo che non potesse farsi vivo fra i suoi amici.
- Anch'io ho bisogno di perdono, lo so!...
Ora tutto ciò è passato...
lontano tanto!...
Vedete come ve ne parlo?...
-
Tornava a fare quel gesto vago, tirando in su i guanti lunghissimi.
Tutta la sua civetteria riducevasi adesso a una cura gelosa di nascondere le sue povere carni mortificate.
E di colui pel quale aveva sentito forse più trionfante la vanità della sua bellezza, quando appariva in una festa, colle spalle e le braccia nude, soltanto per lui, discorreva adesso tranquillamente, con una certa amara disinvoltura.
Solamente non lo chiamava più pel suo nome di battesimo:
- Povero Casalengo...
Un buon amico e un uomo di mondo...
Dei pochi che sappiano pigliarlo com'è, il mondo!...
-
Rammentava ancora gli altri, passando in rivista delle memorie che accendevano dei punti luminosi nelle sue pupille.
D'un solo non fece motto, forse perché era ancora troppo presente dinanzi ai suoi occhi, quando parevano oscurarsi a un tratto, e pareva come delle ombre livide le lambissero il viso emaciato.
Ma tornava subito gaia e sorridente, occupandosi dei suoi invitati, facendosi in quattro per pensare a tutti.
Si avventurò sino all'uscio del salotto ove fumasi, col fazzoletto alla bocca, con quella gaiezza che rendeva così ospitale la sua casa.
- No, no, mi piace anzi! Fumerei anch'io, se non mi facesse tossire -.
Avrebbe chiuso gli occhi, e si sarebbe lasciata soffocare per far piacere agli altri, ed avere tutte le sere la casa piena di gente sana e allegra che la facessero illudere d'esser sana e allegra lei pure.
Aveva inchiodato Sansiro al pianoforte, e minacciava di fare un giro di valzer.
- No! con lei, no! giammai! - mi disse respingendomi con le braccia tese.
Sembrava proprio rivivere nel suo elemento, e parlava insino di "lasciarsi andare" a bere "qualcosa di forte" eccitandosi, colle guance già accese e il sorriso ebbro, lei che aspirava soltanto delle lunghe boccate d'etere "per tenersi su".
Però, di tanto in tanto, alla sfuggita, guardavasi furtivamente negli specchi, e l'occhiata ansiosa, quasi smarrita, tradiva l'interno sbigottimento.
Tutt'a un tratto, mentre mesceva il thè a dei giovanotti ch'erano giunti tardi, venne meno fra le braccia di Serravalle, tutta di un pezzo, come un cencio.
Nondimeno, appena si riebbe alquanto, cercò di rassicurare amici ed amiche che le si affollavano intorno, volgendo la cosa in scherzo, bianca come il suo vestito, facendosi vento col fazzoletto, balbettando, col sorriso smorto:
- Ah!...
la colpa è di Serravalle!...
Non posso vedermelo accanto senza cadergli fra le braccia...
È destinato, povero Serravalle!...
Si rammenta, quella volta che si ballava insieme in casa Maio? -
Fu l'ultima sua festa, povera donna.
A poco a poco gli amici dileguarono quasi tutti; e ciò la rattristiva assai, quantunque non lo dicesse.
Chiedeva di loro ai pochi fedeli che continuavano a farle visita, di tanto in tanto.
Un giorno che le recai il saluto di Alvise provò un gran piacere.
- Ah, Casalengo...
si rammenta!...
- mormorò lieta.
Volle anche sapere a chi Casalengo facesse la corte, in quel tempo, e le sfavillavano gli occhi alle piccole maldicenze che si fanno sottovoce nei circoli mondani.
- Colui, sì!...
sa vivere! - ripeté, e accennava pure col capo, assorta.
Mi era grata del tempo che rubavo "all'altra mia amica" per dedicarlo a lei, e mi chiamava "il suo buon fratello".
- Fratello, non è vero? - ripeteva colla sua grazia maliziosa.
E c'era quasi un rimasuglio di rancore involontario nella carezza della parola affettuosa.
Alcune volte, quando mi diceva quelle cose, specie sull'imbrunire, che provava una gran tristezza e mi aveva pregato di non lasciarla mai sola, al vedere i suoi occhi luminosi, il sorriso ancora dolce che le rianimava il viso e pareva dissiparne le ombre, mi sentivo riprendere irresistibilmente da quella moribonda, con un'immensa dolcezza amara.
Essa preferiva quell'ora, l'angolo del salotto riparato dal paravento chinese, la mezzaluce che dissimulava il suo pallore e il suo male.
Era il suo pudore e l'ultima sua civetteria.
Nell'ombra sentiva che il suo profumo e la sua voce ancora dolce mi parlavano meglio di lei, della Ginevra che avevo conosciuta un tempo.
- Colei lo sa che siete qui...
che fate un'opera buona...
per meritarvi il paradiso? -
Come diceva quelle parole! Come esse sonavano e penetravano! Come attiravano verso di lei quell'anelito frequente e quelle povere mani febbrili!
- No...
non mi fiderei più degli amici...
e delle amiche! Ho imparato a spese mie, caro d'Arce! -
Una sera che aveva tossito più del solito, e parlava più triste, reggendosi il capo col braccio appoggiato al tavolino, mi disse guardandomi fisso, china verso di me, nello stesso tempo che schermivasi dalla luce colla mano aperta:
- Noi non siamo stati mai...
nulla.
Ecco perché mi siete rimasto fedele -.
Le si era fatta la voce un po' roca.
Tutto ciò che le veniva alla mente e sulle labbra aveva la stessa velatura stanca, e un abbandono che avvinceva me pure.
Senza quasi avvedermene le avevo preso la mano, ed essa me la lasciò, calda ed inerte.
Allora, senza guardarmi, quasi senza volerlo, mi confidò il segreto di ciò che aveva sofferto laggiù, lontana da tutti, in paese straniero.
Una storia semplice e dolorosa, senza dramma, senza neppure l'ombra di una rivale.
Colui pel quale aveva abbandonata la sua casa e la sua patria non l'amava più: ecco tutto.
- Amore...
chi lo sa?
Anch'io avevo amato Casalengo...
o m'era parso, prima di lasciarlo per quell'altro...
Per una parola che ci suoni meglio all'orecchio, per un'occhiata che lusinghi il nostro vestito nuovo, per una frase musicale che ci faccia sognare ad occhi aperti...
Ecco perché ci perdiamo, e ciò che forma quest'amore.
Quando egli non ebbe più dinanzi altre seduzioni con cui confrontare la mia, quando non temé più altri rivali...
Una mattina, sull'alba, tornò pallido e fosco.
Aveva perduto.
Giuocava da un pezzo, da che non mi amava più.
E si voleva uccidere perché non poteva pagare...
Non per me...
Lui che aveva tutte le delicatezze, tutta la poesia, tutta la nobiltà dell'animo.
E l'ultima rottura fra di noi, l'ingiuria che non poté perdonarmi, fu quando gli offrii d'aiutarlo, io ch'ero parte di lui, che vivevo soltanto per lui, che gli avevo sacrificato ben altro, che non sapevo cosa farmi del mio denaro...
Mi lasciava appunto per questo, perché egli non ne aveva più.
L'onore degli uomini è così fatto.
Poi, quand'egli fu partito, colui che aveva detto di non poter vivere senza di me, lasciandomi sola e moribonda in un albergo...
mio marito ebbe pietà di me - lui che non mi amava più e non doveva più amarmi...
Pagò un altro debito d'onore anche lui...
-
Parlava calma, con un filo di voce, interrompendosi di tratto in tratto e lasciando morire in un soffio certe parole.
Le passò sul volto un sorriso che la fece sembrare più pallida.
- Povero d'Arce! V'ho intronate le orecchie per narrarvi le solite storie.
Cose che succedono a tutti...
Lo sappiamo e torniamo a cascarci.
Allora vuol dire che dev'essere così, non è vero? Anche voi...
-
Nel luglio e l'agosto stette meglio.
Però non si lasciò indurre a mutar paese per qualche tempo.
Il silenzio e la quiete della campagna le facevano paura.
Volle piuttosto andare alla festa di Piedigrotta.
S'era fatto fare apposta un vestito elegantissimo, e aveva combinato una carrozzata allegra, nella quale ero invitato io pure.
- La Maio, no! - mi disse sfavillante.
Tutto quel chiasso e quel movimento l'eccitavano assai.
Tornò stanchissima e si mise a letto per due o tre giorni.
Dopo si strascinò ancora un pezzo fra letto e lettuccio.
La tristezza delle giornate autunnali la pigliava lentamente.
Se non mi vedeva all'ora solita, mi teneva il broncio, quasi avessi mancato a una tacita promessa.
Faceva spesso dei progetti per l'avvenire; s'illudeva più facilmente, ora che le fuggiva la terra sotto i piedi, e che non aveva più la forza di strascinarsi sino al canapè.
Così tenacemente s'attaccava al mio braccio, che le parlavo anch'io di Sorrento e di Nizza, col cuore stretto.
Ella diceva di sì, di sì, tutta contenta, tornando ad affermare col capo, tornando a sorridere come una bambina.
Consultava insieme a me delle guide e dei giornali di mode, e aveva fissato l'epoca del viaggio: - Dopo il carnevale, appena tornerà la primavera.
Tornerò a rifiorire anch'io, vedrete! tutti v'invidieranno la vostra bella amica...
Amica, veh! -
Aveva ordinato degli abiti da ballo per quell'inverno.
Si faceva bella ancora per me.
Diceva "che erano le sue prove generali".
Una sera si fece trovare in abito da ballo, presso un gran fuoco.
Com'era contenta, povera Ginevra! Quel sorriso ingenuo nella bocca e negli occhi che le mangiavano il viso, mi mise un brivido nei capelli: lo stesso brivido che mi faceva trasalire quando l'udivo gemere sottovoce nella stanza accanto per abbigliarsi - e quel giorno che la cameriera mi chiamò spaventata, cercando colle mani tremanti la boccettina d'etere sopra la tavoletta.
Essa, pure in quel momento, coprivasi colle mani il misero petto scarno...
Una volta mi disse: - Quanto saremmo stati felici...
allora...
di poterci vedere liberamente, come adesso!...
-
In dicembre peggiorò rapidamente.
Non si alzò più dal letto; non parlò più di viaggi.
Il parlare stesso la stancava.
La baraonda e l'allegria fragorosa del Natale napoletano le davano noia.
Sembrava distaccarsi a poco a poco da ogni cosa.
Però voleva ancora che andassi a vederla spesso, più che potevo, e lagnavasi che tutti l'abbandonassero.
Stava poi ad ascoltarmi, immobile, guardandomi fisso.
Alle volte i suoi occhi si offuscavano, quasi guardassero dentro se stessa, o in un gran buio, e il viso le si affilava maggiormente, con un'espressione d'angoscia vaga.
Dopo sembrava ritornare da lontano, con una cert'aria smarrita.
Mi sorrideva dolcemente, quasi per scusarsi dell'involontaria distrazione, ma in modo che stringeva il cuore.
In quei giorni tornò a Napoli suo marito, chiamato per telegrafo.
Essa volle festeggiare con lui l'ultima sera dell'anno, e invitò pochi amici.
Le avevano apparecchiato un tavolino accanto al letto, e dei fiori, un gran numero di candele nella camera.
Era raggiante, poveretta, e sembrava proprio una bambina, sparuta, fra le gale e i pizzi della cuffia e del corsetto.
Ci salutava col capo ad uno ad uno, alzando verso di noi la coppa nella quale aveva fatto versare un dito di champagne, e beveva cogli occhi alla nostra salute, senza accostarvi le labbra, come sapesse ciò che si trova in fondo al bicchiere, come anche i nostri auguri la rattristassero.
Infine si lasciò vincere dalla comune gaiezza; parve che tornasse a sorridere a una vaga speranza, e sorrideva a tutti, a tutti noi, cogli occhi e le labbra, col viso pallido e magro.
Il capo d'anno le recai dei fiori, un gran fascio di rose che ero andato a cogliere per lei a Capodimonte.
Ella si levò giuliva a sedere, e le volle sul letto, tutte.
Ripeteva: - Quante! quante! - scegliendo le più belle, immergendovi le mani...
Era tanto contenta! Mi mostrò i regali che le avevano mandato gli amici, e le amiche...
- tutti quanti! - La camera n'era piena, sulle mensole, sul canapè, da per tutto.
Ella indicava ad uno ad uno il nome del donatore.
Dalla gioia mi pose un braccio intorno al collo, dicendomi:
- Ma nessuno come voi!...
nessuno! Voi siete il mio caro fratello, non è vero? E mi vorrete sempre bene così, sempre sempre...
perché non fummo mai altro!...
Un momento...
ci fu il pericolo...
Vi rammentate? Ma era scritto lassù!...
lassù...
-
In quel momento portarono il regalo del marito: un magnifico abito da ballo che la cameriera spiegò trionfante sulla poltrona.
Ella indovinò la delicata e pietosa intenzione d'illuderla che c'era nella scelta del dono, e ne fu scossa profondamente.
Non disse nulla; gli occhi le si fecero più grandi e più lucenti, e tornò a coricarsi, tirandosi la coperta fino al mento.
Mi lasciò senza dirmi addio, povera e cara Ginevra! L'ultima volta che la vidi, in presenza del marito e di due o tre altri, ella sembrava già non fosse più di questo mondo.
Non mi disse nulla; non sembrò nemmen accorgersi di me.
Stava zitta, chiusa, cogli occhi sbarrati e fissi.
Il Comandante rispondeva per lei qualche parola, colla voce rauca, i capelli arruffati, la barba incolta, pallido anche lui, e col viso gonfio dalle notti insonni.
Un momento appena, udendo la mia voce, ella volse su di me quegli occhi che non guardavano e non dicevano più nulla: e tornò a rivolgerli altrove, indifferente.
Li attirava adesso soltanto una striscia di luce che moriva sulle tendine istoriate.
Fu l'ultima volta che la vidi.
Dopo, l'uscio delle sue stanze rimase chiuso per tutti.
Erano arrivati dei parenti da Venezia e da Genova.
Gli amici erano tornati a chiedere di lei o a lasciare il loro nome alla porta: tutti coloro che avevano ballato in quella casa e vi avevano passato delle ore liete.
Parecchi ci avevano perduto anche la testa, un tempo, e parlavano di lei che moriva, a voce bassa, prima di tornare al Circolo o al teatro, facendosi piccini dinanzi al marito che ripigliava il suo posto in casa sua, all'ultima ora, invecchiato in un mese, rispondendo alle condoglianze e alle strette di mano collo sguardo chiuso e la mano gelida.
Seppi ch'era morta dall'invito per assistere ai funerali.
Nelle sale dove essa ci aveva ricevuti festante, era una gran folla, e molti fiori, come il primo giorno dell'anno, sulle mensole, sui tavolini, sul pianoforte.
C'erano tuttora gli avanzi delle candele dei candelabri posti dinanzi agli specchi dove ella s'era guardata.
Le sue amiche misero dei fiori sulla bara.
La signora Maio soffocava i singhiozzi con un fazzolettino di pizzo.
Prima di morire aveva detto che voleva una semplice bara coperta di raso bianco, e una semplice lapide col suo nome.
Non ci furono discorsi sulla tomba.
La sua orazione funebre fu fatta da Casalengo, che venne a trovarmi la sera stessa, per parlarmi di lei.
- Povera Ginevra! - e non disse altro.
DRAMMA INTIMO
Casa Orlandi era tutta sossopra.
La contessina Bice spegnevasi lentamente: di malattia di languore, dicevano gli uni: di mal sottile, dicevano gli altri.
Nella gran camera da letto, quasi buia in tutto il quartiere illuminato come per una festa, la madre, pallidissima, seduta accanto al letto dell'inferma, aspettava la visita del dottore, tenendo nella mano febbrile la mano scarna e ardente della figliuola, parlandole con quell'accento carezzevole, e quel falso sorriso con cui si cerca di rispondere allo sguardo inquieto e scrutatore dei malati gravi.
Tristi colloqui che celavano sotto una calma apparente la preoccupazione di un morbo fatale, ereditario nella famiglia, il quale aveva minacciato la contessa medesima dopo la nascita di Bice - il ricordo delle cure inquiete e trepide che avevano accompagnato l'infanzia delicata della bambina - l'ansia dei presentimenti minacciosi che avevano quasi soffocato la maternità della genitrice e scusato i primi traviamenti del marito, morto giovane, di un male da decrepito, dopo avere agonizzato degli anni su di una poltrona.
Più tardi un altro sentimento aveva fatto rifiorire la giovinezza della vedova, appassita anzi tempo fra quella culla minacciata, e quello sposo di già cadavere prima di scendere nella tomba: un affetto profondo e occulto, inquieto, geloso, che si mischiava a tutte le sue gioie mondane e sembrava vivere di esse, e le raffinava, le rendeva più sottili, più penetranti, quasi una delicata voluttà che profumava ogni cosa, una festa, un trionfo di donna elegante.
Adesso quell'altra nube paurosa, sorta a un tratto colla malattia della figlia in quel cielo azzurro, sembrava posare simile a una gramaglia sui cortinaggi pesanti del letto dell'inferma, e distendersi sino a incontrare degli altri giorni neri: la lunga agonia del marito, la faccia grave e preoccupata di quello stesso medico ch'era venuto quell'altra volta, il tic-tac di quella stessa pendola che aveva segnato delle ore d'agonia, e riempiva ora tutta la camera, tutta la casa, di un'aspettativa lugubre.
Le parole della madre e della figliuola, che volevano sembrar gaie e tranquille, morivano come un sospiro nella penombra della vòlta altissima.
A un tratto il campanello elettrico squillò nella lunga fila di stanze sfavillanti e deserte.
Un servitore silenzioso precedeva in punta di piedi il medico, vecchio amico di casa, il quale sembrava solo calmo, nell'attesa inquieta di tutti.
La contessa si rizzò in piedi, senza poter dissimulare un tremito nervoso.
- Buona sera.
Un po' tardi oggi...
Finisco adesso il mio giro.
E questa ragazza com'è stata? -
S'era seduto di contro al letto; aveva fatto togliere la ventola dal lume, ed esaminava l'inferma tenendo fra le dita bianche e grassocce il polso delicato e pallido della fanciulla, ripetendo le solite domande.
La contessa rispondeva con un lieve tremito nervoso nella voce; Bice, con monosillabi tronchi e fiochi, sempre fissando il medico con quegli occhi inquieti e lucenti.
Nell'anticamera si succedevano gli squilli sommessi del campanello che annunziavano altre visite, e la cameriera entrava come un'ombra per annunziare all'orecchio della signora il nome degli amici intimi che venivano a chieder notizie della contessina.
A un certo momento il dottore rizzò il capo.
- Chi è entrato adesso nella sala accanto? - domandò con una certa vivacità.
- Il marchese Danei, - rispose la contessa.
- La solita pozione per questa notte, - continuò il medico quasi avesse dimenticato la sua domanda.
- Bisogna osservare a che ora cadrà la febbre.
Del resto, nulla di nuovo.
Diamo tempo alla cura...
-
Ma non lasciava il polso dell'inferma, fissando uno sguardo penetrante sulla fanciulla, la quale aveva chinato gli occhi.
La madre aspettava ansiosa.
Un istante le pupille ardenti della figlia si fissarono in quelle di lei, e Bice avvampò subitamente in viso.
- Per carità, dottore! per carità! - supplicava la contessa, riaccompagnando il medico, senza badare agli amici e ai parenti che aspettavano in sala chiacchierando fra di loro sottovoce.
- Come ha trovato stasera la mia ragazza? Mi dica la verità!
- Nulla di nuovo, - rispondeva lui.
- La solita febbriciattola...
il solito squilibrio nervoso...
-
Ma quando furono in un salottino appartato, si piantò ritto dinanzi alla contessa, e disse bruscamente:
- La sua figliuola è innamorata di questo signor Danei -.
La contessa non rispose sillaba.
Solo impallidì orribilmente, e per istinto si portò le mani al petto.
- È un po' di tempo che lo sospettavo, - riprese il medico con certa rude franchezza.
- Ora ne son certo.
È una complicazione nella malattia, che per la estrema sensibilità dell'inferma, in questo momento, può farsi grave.
Bisogna pensarci.
- Lui! - fu la prima parola che sfuggì alla madre, quasi fuori di sé.
- Sì, il polso me l'ha detto.
Lei non aveva alcun indizio? Non ha mai sospettato qualche cosa?
- Mai!...
Bice è così timida...
così...
- Il marchese Danei viene spesso in casa? -
La poveretta, sotto lo sguardo fisso e penetrante di quell'uomo che assumeva l'importanza di un giudice, balbettò:
- Sì.
- Noi altri medici alle volte abbiamo cura d'anime, - aggiunse il dottore sorridendo.
- Forse è stata una fortuna che quel signore sia venuto mentre io ero qui.
- Ma ogni speranza non è perduta, dottore? Per l'amor di Dio!...
- No...
secondo i casi.
Buona sera -.
La contessa rimase un momento in quella stanza, quasi al buio, asciugandosi col fazzoletto il freddo sudore che le bagnava le tempie.
Quindi ripassò per la sala, rapidamente, salutando gli amici con un cenno del capo, guardando appena Danei, ch'era in un canto, nel crocchio degli intimi.
- Bice!...
figlia mia!...
Il medico t'ha trovata meglio oggi, sai!
- Sì, mamma! - rispose la fanciulla dolcemente, con quell'amara indifferenza degli ammalati gravi che stringe il cuore.
- Di là ci sono degli amici...
che sono venuti per te...
Vuoi vederli?
- Chi sono?
- Ma tutti.
La zia, Augusta...
il signor Danei...
Possono entrare un momentino? -
Bice chiuse gli occhi, come assai stanca, e nell'ombra, così pallida com'era, si vide lieve rossore montarle alle guance.
- No, mamma.
Non voglio veder nessuno -.
Attraverso le palpebre chiuse, delicate come foglie di rosa, sentiva fisso su di lei lo sguardo desolato e penetrante della madre.
All'improvviso riaprì gli occhi, e le buttò al collo quelle povere braccia esili e tremanti sotto la battista, con un atto ineffabile di confusione, di tenerezza e di sconforto.
Madre e figlia si tennero abbracciate a lungo, senza dire una parola, piangendo entrambe delle lagrime che avrebbero voluto nascondersi.
Ai parenti e agli amici che chiedevano premurosi notizie dell'inferma, la contessa rispondeva come al solito, ritta in mezzo alla sala, senza poter dissimulare uno spasimo interno che di quando in quando le mozzava il respiro.
Allorché tutti se ne furono andati, rimasero faccia a faccia Danei e lei.
Tante volte, durante la malattia di Bice, erano rimasti soli alcuni minuti, come allora, nel vano della finestra, scambiando qualche parola di conforto e di speranza, o assorti in un silenzio che accomunava i loro pensieri e le loro anime nella stessa preoccupazione dolorosa.
Momenti tristi e cari, nei quali essa attingeva il coraggio e la forza di rientrare nell'atmosfera cupa e lugubre di quella stanza d'inferma con un sorriso d'incoraggiamento.
Stettero alquanto senza aprir bocca, colla fronte sulla mano.
La contessa aveva tale espressione di tristezza in tutta la persona, che Danei non trovava la parola da dirle.
Finalmente le tese la mano.
Ella ritirò la sua.
- Sentite, Roberto...
Ho da dirvi una cosa...
una cosa da cui dipende la vita di mia figlia...
-
Egli aspettava, serio, un po' inquieto.
- Bice vi ama!...
-
Danei parve sbalordito, guardando la contessa che si era nascosto il viso fra le mani, e piangeva dirottamente.
- Essa!...
È impossibile!...
Pensateci bene!...
- No...
È un'idea che m'ha fatto nascere il suo medico...
Ed ora ne son certa.
Vi ama da morirne...
- Vi giuro!...
Vi giuro che...
- Lo so, vi credo.
Non ho bisogno di cercare perché mia figlia vi ami, Roberto! - esclamò la madre tristamente.
E si abbandonò sul divano.
Roberto era commosso anche lui.
Tentò di pigliarle la mano un'altra volta.
Ella la respinse dolcemente.
- Anna!...
- No...
no! - rispose lei risolutamente.
E le lagrime silenziose parevano che le solcassero le guance delicate come degli anni, degli anni di dolore e di gastigo che sopravvenivano tutt'a un tratto nella sua esistenza spensierata.
Il silenzio sembrava insormontabile.
Infine Roberto mormorò:
- Cosa volete che faccia?...
dite...
-
Essa lo guardò smarrita, con un'angoscia indicibile, e balbettò:
- Non so!...
non so...
Lasciatemi tornar da lei...
Lasciatemi sola...
-
Come rientrava nella camera dell'inferma, dall'ombra del cortinaggio gli occhi della figlia luccicarono ardenti, fissi su di lei, con un lampo incosciente che agghiacciò la madre sulla soglia.
- Mamma, - chiese Bice, - chi c'è ancora?
- Nessuno, figlia mia.
- Ah!...
Statti con me, allora.
Non mi lasciare -.
E le teneva le mani, tremante.
- Povera bambina! Povero amore! Guarirai presto, sai! L'ha detto il medico.
- Sì, mamma.
- E...
e...
sarai felice -.
La figlia le fissava sempre in viso quello sguardo.
- Sì, mamma -.
Poi chiuse gli occhi, che sembravano neri nelle orbite incavate.
Successe un mortale silenzio.
La madre scrutava quel viso pallido e impenetrabile con uno sguardo ardente, arrossendo e impallidendo a vicenda.
A un tratto si fece smorta come lei, e la chiamò con un'altra voce:
- Bice! -
Il suo petto si contraeva spasmodicamente, come se qualche cosa vi agonizzasse dentro.
Poscia si chinò sulla figliuola, posando la guancia febbrile su quell'altra guancia scarna, e le mormorò nell'orecchio, con un soffio appena intelligibile:
- Senti, Bice...
tu ami?...
-
Bice spalancò gli occhi all'improvviso, tutta una fiamma in volto.
E con quegli occhi sbarrati e quasi paurosi, affascinati dagli occhi lagrimosi della madre, balbettò con un accento ineffabile d'amarezza, e quasi di rimprovero:
- Oh mamma!...
-
Allora la sventurata, sentendosi penetrare quella voce e quelle parole sino all'intimo del cuore, ebbe il coraggio di aggiungere:
- Danei ha chiesto la tua mano.
- Oh mamma! oh mamma! - ripeteva la fanciulla con lo stesso accento supplichevole e dolente, stringendosi nelle coperte con un senso di pudore.
- Mamma mia!...
-
La contessa, che sembrava anche lei nello smarrimento dell'agonia, balbettò:
- Però...
se tu non l'ami...
se non l'ami...
di'!...
-
L'inferma ascoltava palpitante, ansiosa, agitando le labbra senza proferir parola, con gli occhi spalancati, enormi sul volto rifinito, che interrogavano gli occhi della madre.
Tutt'a un tratto, come quella si chinava verso di lei, l'abbracciò stretta, tremando a verga, stringendola con tutta la forza delle sue povere braccia, con un'effusione che diceva tutto.
La madre, in un impeto d'amore disperato, singhiozzava:
- Guarirai! Guarirai! -
E tremava convulsivamente ancor essa.
Il giorno dopo la contessa aspettava Danei nel suo gabinettino, seduta accanto al caminetto, stendendo verso il fuoco le mani così bianche che sembravano esangui, cogli occhi fissi sulla fiamma.
Quanti pensieri, quante visioni, quanti ricordi passavano dinanzi a quelli occhi! La prima volta che si era turbata al cospetto di Roberto - il silenzio ch'era caduto all'improvviso fra di loro - e le prime parole d'affetto che egli le aveva sussurrato all'orecchio, abbassando la voce ed il capo - il batticuore delizioso che soleva imporporarle le gote ed il seno, quando egli l'aspettava nel vestibolo dell'Apollo, per vederla passare, bella, fine, elegante, nella mantellina di raso bianco.
- Poscia, le lunghe fantasticherie color di rosa, in quel posto medesimo, le gioie trepide e intense, le attese febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la lezione di musica o di disegno.
Ora, allo squillare del campanello, si rizzò con un tremito nervoso; e immediatamente, mercé uno sforzo della volontà, tornò a sedere, colle mani in croce sulle ginocchia.
Il marchese si fermò esitante sull'uscio.
Ella gli stese la mano che ardeva, evitando di guardarlo.
Siccome Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, la contessa rispose dopo un breve silenzio:
- La sua vita è nelle vostre mani.
- Per l'amor di Dio, Anna!...
v'ingannate!...
- rispose lui.
- Bice s'inganna...
Non può essere...
non può essere!...
-
La contessa scosse il capo tristamente.
- No, non m'inganno! Me l'ha confessato lei...
Il dottore dice che la sua guarigione dipende...
da ciò!...
- Da che cosa?...
Per tutta risposta ella gli fissò negli occhi gli occhi arsi di febbre.
Allora, sotto quello sguardo, la prima parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu:
- Oh!...
no!...
-
Ella giunse le mani.
- No.
Anna! pensateci bene...
Non può essere...
V'ingannate...
- ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente.
Le lagrime le soffocarono la voce in gola.
Poi stese le mani a Roberto, senza dir nulla come nei bei tempi trascorsi.
Soltanto, quel viso che gli esprimeva uno spasimo d'angoscia e una preghiera straziante, era diventato tutt'altro in ventiquattr'ore.
Roberto chinò il capo al pari di lei.
Erano entrambi due cuori onesti e leali, nel significato mondano della parola, nel senso di esser sinceri in ogni loro atto.
Perché la fatalità facesse abbassare quelle teste alte e fiere, bisognava che le avesse messe per la prima volta di fronte a un risultato che rovesciava bruscamente tutta la loro logica, e ne mostrava la falsità.
La rivelazione della contessa aveva colpito Danei di stupore.
Adesso, ripensandoci, ne era spaventato; e in quel contrasto d'affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, egli trovavasi imbarazzato.
Parlò di loro due, del passato, dell'avvenire che gli faceva paura; cercando le frasi e le parole onde scivolare sui tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi.
- Pensateci bene, Anna! Questo matrimonio è impossibile! -
Essa non sapeva che dire.
Balbettava solo: - Mia figlia! mia figlia! -
- Ebbene...
Volete che io parta...
che mi allontani per sempre!...
Sapete qual sacrifizio farei!...
Ebbene, lo volete?
- Ella ne morrebbe -.
Roberto esitò, prima d'affrontare l'ultimo argomento.
Poi mormorò abbassando la voce:
- Allora...
allora non resta che confessarle ogni cosa...
-
La madre s'irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona.
E rispose con voce sorda, chinando il capo:
- Lo sa!...
Lo sospetta!...
- E nondimeno?...
- riprese Danei dopo un breve silenzio.
- Ne sarebbe morta...
Le ho fatto credere che s'ingannava.
- E lo ha creduto?
- Oh! - esclamò la contessa con un triste sorriso.
- L'amore è credulo...
Lo ha creduto!
- E voi! - chiese Roberto con un tremito che non poté dissimulare nella voce.
- Io ho già tutto sacrificato a mia figlia -.
Poi gli stese la mano, e soggiunse:
- Sentite com'è calma?
- Siete certa che sarà sempre così calma?
Ella rispose:
- Sempre! -
E sentì freddo nella nuca, alla radice del capelli.
Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto.
- Ascoltate, Roberto, ora è la madre che vi abbraccia! Anna è morta.
Pensate a mia figlia; amatela per me e per essa.
Ella è pura e bella come un angelo.
La felicità la farà rifiorire.
Voi l'amerete come non avete mai amato...
Dimenticherete ogni cosa...
siate tranquillo! -
Roberto, pallidissimo, non rispose verbo.
Il matrimonio della contessina Bice fu annunciato officialmente pochi giorni dopo che essa entrò in convalescenza.
Amici e parenti venivano a congratularsi nello stesso tempo dei due fortunati avvenimenti.
Il marchese Danei era uno sposo convenientissimo, e se qualche indiscreto arrischiò delle osservazioni sulla disparità degli anni - o altro - fu messo subito a tacere dal coro unanime delle signore che si sollevavano scandolezzate.
La fanciulla risanava davvero, raggiante di vita nuova, colla sincerità, la credulità, l'oblio, l'egoismo della felicità, che espandeva nel seno della madre, la quale trovava la forza di sorriderle.
Il medico si fregava le mani, borbottando:
- Io non ci ho alcun merito.
Fo come Pilato.
Questa benedetta gioventù se ne ride della scienza.
Adesso ecco le mie prescrizioni: - Recipe: L'inverno a San Remo o a Napoli.
L'estate a Pegli o a Livorno.
Una scappata a Roma, nel carnevale, e un bel maschiotto alla fine della cura -.
La contessa, alla figliuola che avrebbe voluto condurla seco, aveva risposto:
- No.
Io e il dottore non ci abbiamo più nulla a fare in questo viaggio.
Tutta la mia pretesa è che siate felici -.
E sorrideva agli sposi, col suo sorriso un po' triste.
La figliuola, a volte, aveva inconsciamente degli sguardi acuti che correvano come un lampo dal fidanzato alla madre.
A quelle parole, senza saper perché, l'abbracciava ogni volta strettamente, nascondendole il viso in seno.
La contessa aveva detto che quella sarebbe stata l'ultima sua festa; e le sue spalle bianche e delicate mostraronsi realmente un'ultima volta allo sposalizio, nelle sale scintillanti di lumi e affollate d'amici e parenti come nei giorni più tristi in cui erano venuti a chieder notizie della Bice.
Roberto, allorché baciò la mano della contessa, non poté dissimulare un certo turbamento.
Poscia quando l'ultima carrozza fu partita, e non rimase a piè dello scalone che il piccolo coupé del marchese, e la carretta inglese che portava alla stazione il bagaglio degli sposi, mentre Bice era andata a cambiarsi d'abito, rimasti soli un momento, la contessa e Roberto:
- Fatela felice! - disse lei.
Danei era nervoso; abbottonava macchinalmente il soprabito da viaggio e tornava a cavarsi i guanti.
Non disse nulla.
Madre e figlia s'abbracciarono teneramente, a lungo.
Infine la contessa respinse quasi bruscamente la figliuola, dicendo:
- È tardi.
Perderete il treno.
Andate, andate! -
La contessa Orlandi aveva tossito un poco quell'inverno, e di tanto in tanto aveva avuto bisogno del medico.
Costui, onde non spaventarla, la sgridava, perché essa soleva passare la mattinata in chiesa - a salvarsi l'anima e perdere il corpo - diceva lui.
Il buon uomo pigliava la cosa leggermente, per rassicurarla, ma in realtà era inquieto, e ingannandosi a vicenda con una finta gaiezza, pensavano entrambi a una minaccia più grave.
Bice scriveva che stava bene, che si divertiva tanto, che era tanto felice, e più tardi accennò anche vagamente a un altro avvenimento che avrebbe affrettato il loro ritorno prima che finisse l'anno.
La contessa telegrafò di non farne nulla, di aspettare l'avvenimento là dove si trovavano, protestando che temeva per la figliuola lo strapazzo del viaggio.
Piuttosto sarebbe andata lei stessa a raggiungerli.
Però non andava mai, cercando mille pretesti, differendo di giorno in giorno quel viaggio, quasi le pesasse.
I telegrammi si succedevano.
Infine Roberto ebbe un dispaccio: - Arrivo stasera -.
La prima persona che Anna vide sul marciapiedi della stazione, giungendo, fu Roberto che l'aspettava, solo.
Ella si premeva con forza il manicotto sul cuore, quasi le mancasse il respiro.
Il marchese le baciò la mano, sul guanto, e le diede il braccio, mentr'essa balbettava:
- Bice?...
Come sta? -
Fuori era fermo il piccolo coupé del marchese, col servitore accanto allo sportello.
Ella esitò un istante, al momento di montare insieme a lui.
Poi si strinse nel suo cantuccio, chiusa nella pelliccia, col velo sul viso.
- Bice sta bene, - rispondeva lui, -...per quanto è possibile...
Sarà tanto contenta! - Sembrava che cercasse le parole, col viso rivolto allo sportello, impaziente d'arrivare.
Sfilavano le case e le botteghe illuminate.
A un tratto successe l'oscurità, nell'attraversare una piazza.
Tutti e due istintivamente, si scostarono e tacquero.
Bice era corsa ad incontrare la madre, e le si buttò al collo con un diluvio di carezze e di parole sconnesse.
Era sofferente, e Roberto le diede il braccio per salire le scale.
La contessa veniva dopo, un po' stanca anch'essa, soffocata dalla pelliccia greve.
Allorché furono nel salotto, in piena luce, ella fu colpita dall'aspetto di Bice, dalla sua veste da camera larghissima, dalle mani venate d'azzurro, posate sui bracciuoli della poltrona dove s'era lasciata cadere come sfinita, ma raggiante di una serena felicità.
Roberto si chinava per parlarle nell'orecchio.
Senza avvedersene si appartavano entrambi spesso e volentieri, discorrendo sottovoce fra di loro, presso la fiamma del caminetto che li colorava di un'aureola rosata, lontani dal mondo, lontani da tutti, dimenticando ogni cosa...
Dopo il primo sbigottimento di quella sera, la contessa sembrava più calma.
Allorché trovavasi sola con Roberto, e lui parlava, parlava, quasi avesse paura del silenzio, ella ascoltava col sorriso distratto, sprofondata nella poltrona, accanto al fuoco che lumeggiava d'azzurro i capelli neri, col fine profilo opaco inquadrato nella luce al pari di un cammeo.
Però un nube sembrava sorgere fra madre e figlia, nell'intimità della famiglia: una freddezza incresciosa e insormontabile che agghiacciava le affettuose espansioni: un imbarazzo che rendeva moleste le premure di Roberto per l'una o per l'altra, e spesso anche la presenza fra di loro - come un'ombra del passato che offuscava gli occhi della figlia, che faceva impallidire la madre, che turbava anche Roberto, di tanto in tanto.
Una sfumatura d'amarezza accennavasi a volte nelle parole più semplici, nei sorrisi che si evitavano, negli sguardi che si cercavano sospettosi.
Una sera che Bice s'era ritirata prima del solito, e Roberto era rimasto nel salotto insieme alla contessa, per farle compagnia, il silenzio piombò all'improvviso, quasi minaccioso.
Anna stava a capo chino, dinanzi al fuoco che spegnevasi, presa da un brivido, tratto tratto, e il lume posato sul caminetto le accendeva dei riflessi dorati alla radice dei capelli, sulla nuca che sembrava accendersi anch'essa di fiamme vaghe.
Come Roberto si chinò a prender le molle, essa trasalì vivamente, e si alzò di scatto per augurargli la buona notte, accusando un po' di stanchezza.
Il marchese l'accompagnò sino all'uscio, in preda anche lui a un vago turbamento.
In quella apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo accappatoio bianco.
Madre e figlia si guardarono, e la prima rimase senza parola, quasi senza fiato.
Roberto, il meno imbarazzato di tutti e tre, chiese:
- Che hai, Bice?
- Nulla...
Non potevo dormire...
Che ora è?
- Non è tardi.
Tua madre stava per ritirarsi...
dice di sentirsi stanca...
- Ah, - rispose Bice.
- Ah...
- E non disse altro.
Anna, ancora tremante, balbettò con un triste sorriso:
- Sì...
sono stanca..
Alla mia età...
figliuoli miei!...
- Ah, - ripeté Bice.
Allora la madre, facendosi pallida come una morta, come soffocata da un'angoscia ineffabile, aggiunse con quello stesso sorriso doloroso:
- Non mi credete?...
Non mi credi, Bice?...
-
E rialzando alquanto i capelli sulle tempie, mostrò che quelli di sotto erano tutti bianchi.
- Oh...
È un pezzo...
tanto tempo!...
-
Bice, con uno slancio affettuoso, le buttò le braccia al collo, e le cacciò la testa in seno, senza dir altro.
E le mani della madre sentirono che tremava tutta quanta, ancor essa.
Roberto, il quale sembrava sulle spine, s'era levato per andarsene, quasi vedesse di esser di troppo fra quelle due donne, e nell'istante in cui i suoi occhi s'incontrarono in quelli di Anna, arrossò, e parve divampare in quell'istante un ricordo del passato.
La contessa Anna passò due settimane in casa della figlia, dove si sentiva estranea, accanto a Bice, accanto a lui! Come erano mutati! Quando egli le dava il braccio per andare a tavola, quando la figliuola le diceva - Mamma! - senza guardarla, e arrossiva se parlava di suo marito! - Dimenticherete, siate tranquillo! - ella aveva detto a Roberto.
E non avevano dimenticato del tutto, né l'uno né l'altra!...
Chiudeva gli occhi e rabbrividiva a quel pensiero...
Qualche volta, all'improvviso, la sorprendevano anche degli impeti di collera, di un'altra gelosia pazza.
Le aveva rubato perfino il cuore di sua figlia, colui! Tutto le aveva tolto quell'uomo!
Una sera si udì un gran trambusto per la casa.
Cocchieri e servitori erano stati spediti in fretta; il medico e un'altra donna erano giunti premurosi, ed erano entrati subito nella camera di Bice.
E nessuno era venuto a cercare di lei, sua figlia stessa non la voleva al suo capezzale, in quel momento.
- No, nessuno aveva dimenticato! - Quand'egli venne ad annunziarle la nascita della sua nipotina, quell'uomo!...
Quando lo vide così commosso e raggiante...
- Non l'aveva mai visto così! - Quando lo vide al capezzale di Bice, che era supina sul letto, come fosse già morta, con una lagrima di tenerezza per lui soltanto negli occhi socchiusi...
degli occhi che non cercavano che lui!...
Allora sentì un odio implacabile contro quell'uomo che accarezzava la sua figliuola dinanzi a lei, e a cui Bice soltanto sorrideva, anche in quel punto.
Come misero il suo nome alla neonata, ed essa la tenne al battesimo, disse sorridendo: - Ora posso morire -.
Bice andava rimettendosi lentamente.
Però il suo organismo delicato vibrava ancora.
Nei lunghi giorni di convalescenza le venivano dei pensieri neri, degli impeti d'irritazione sorda e irragionevole, degli scoramenti improvvisi, quasi tutti l'abbandonassero.
Allora guardava muta, cogli occhi neri, e diceva al marito con accento indescrivibile:
- Dove sei stato? - Dove vai? - Perché mi lasci sola? -
Ogni cosa la feriva; sembrava ingelosirsi anche di quel resto di eleganza ch'era sopravvissuto nella madre sua.
Era arrivata a dirle, cercando di dissimulare la febbre che le si accendeva suo malgrado negli occhi: - Quando partirai? -
La madre chinò il capo, quasi sotto il peso di un gastigo inevitabile.
Ma Bice tornava poi in sé, e pareva chiedere perdono a tutti colle sue parole e le sue carezze affettuose.
Appena incominciò ad alzarsi da letto, la contessa fissò il giorno della partenza.
Nel lasciarsi, madre e figlia, alla stazione, erano commosse entrambe, abbracciandosi senza dire una parola, all'ultimo momento, quasi dovessero lasciarsi per sempre.
La contessa giunse tardi a casa sua, di sera, affranta, intirizzita dal freddo.
La casa vuota e deserta era fredda ancor essa, malgrado il gran fuoco acceso, malgrado le lumiere solitarie, nelle stanze malinconiche.
La salute della contessa Anna declinò rapidamente.
Da prima ne accusò la stanchezza del viaggio, le commozioni, la stagione rigida.
Stette circa tre mesi fra letto e lettuccio, e il medico tornò a visitarla tutti i giorni.
- Non è nulla - ripeteva lei.
- Oggi mi sento meglio.
Domani m'alzerò -.
Alla figliuola scriveva regolarmente, senza accennare però alla gravità del male che l'uccideva.
Verso il principio dell'autunno parve migliorare davvero.
Ma a un tratto peggiorò in guisa che i familiari si credettero obbligati a telegrafare al marchese.
Roberto giunse il giorno dopo, spaventato.
- Bice non sta bene, - disse al dottore che l'aspettava.
- Sono inquieto anche per lei.
Non sa nulla...
Ho temuto che la notizia...
l'agitazione...
il viaggio...
- Ha ragione...
Anche la salute della marchesa ha bisogno di molti riguardi...
È una malattia gentilizia, pur troppo!...
Io stesso non avrei preso su di me tale responsabilità...
E se non fosse stata la gravità del caso...
- Molto grave? - chiese Roberto.
Il dottore scosse il capo.
L'inferma, appena le annunziarono la visita del genero, entrò in una grande agitazione.
- E Bice? - chiese appena lo vide.
- Perché non è venuta?
Egli balbettava, quasi pallido quanto lei, sentendosi anch'esso un sudore freddo alla radice dei capelli.
- Siete stato voi...
a dirle che non venisse?...
- seguitava lei colla voce tronca e soffocata.
Egli non le aveva mai udito quella voce, né visto quegli occhi.
Una donna, china sul capezzale, sforzavasi di calmare l'inferma.
Infine essa tacque, abbassando le palpebre, stringendo forte le mani sul petto.
Volle confessarsi la sera stessa.
Dopo che si fu comunicata fece chiamare di nuovo il genero, e gli strinse la mano, quasi per chiedergli perdono.
Nella stanza vagava l'odore dell'incenso - l'odore della morte; soffocato di tratto in tratto da un odore più acuto di etere, penetrante, che pigliava alla gola.
Delle ombre livide sembravano errare sul volto della moribonda.
- Ditele...
- balbettò la poveretta.
- Dite a mia figlia...
-
L'affanno la vinceva, soffocandole le parole nella strozza, facendole stralunare gli occhi deliranti.
Allora accennò che non poteva più, con un moto del capo desolato.
Di tanto in tanto bisognava sollevare di peso sui guanciali quel povero corpo consunto, nell'angoscia suprema dell'agonia.
Ella però faceva segno che Roberto non la toccasse.
Le si erano quasi sciolti i capelli, tutti bianchi.
- No...
no...
- furono le ultime sue parole che si udirono gorgogliare indistinte.
Giunse le mani per chiudere la battista che le si era aperta sul petto, e così passò, colle mani in croce.
ULTIMA VISITA
"Vorrei morir...".
Donna Vittoria cantava divinamente.
Però gli amici che frequentavano la sua casa (casa Delfini era una specie di succursale del Circolo) l'udivano raramente.
Essa pretendeva che il canto l'affaticasse; soleva dire ridendo che sarebbe morta di una malattia di petto.
- Per questo motivo, allorché compariva ai balli o al teatro, nel turbinìo infaticabile della vita elegante, splendente di bellezza e scollacciata sino al dorso, su quel petto delicato ch'era rimasto una meraviglia dopo dieci anni di matrimonio, fioccavano i complimenti e i madrigali dei suoi adoratori.
- Ne aveva tanti!...
- essa diceva con quel sorriso che faceva palpitare il bel nasino arcuato - per far la guardia alla sua virtù, guardandosi in cagnesco fra di loro!...
- Amici del marito (il solo del fior fiore del Circolo che non fosse obbligato a farsi vedere un momento nel salotto di lei) o delle sue amiche, le quali venivano a prendere il thè, a farsi ammirare, a darsi degli appuntamenti, a discorrere di tutto, fuorché di musica, ch'era la passione segreta di donna Vittoria - il solo vizio che nascondesse agli amici - diceva lei - il suo egoismo e la sua civetteria - dicevano gli altri.
Talché quella sera che si era lasciata piegare dalle calorose insistenze della cugina Roccaglia, era stato proprio un avvenimento, udire la sua voce un po' velata che accennava squisitamente quella musica, con un certo riserbo signorile, con una tinta di malinconia anche.
- Ah, sì! - esclamò galantemente il vecchio duca d'Orezzo.
- Morire a quella maniera e una bella cosa! -
Ella scherzava adesso gaiamente coi suoi intimi, che si affollavano intorno al pianoforte rimproverandole la sua ingratitudine.
- Ah, valeva proprio la pena di esserle fedeli, tutte le sere, perch'ella fosse così avara della sua voce, soltanto con loro! - Anche lei, Ginoli, ha il coraggio di lagnarsene? - Io no.
La musica mi fa male...
quando le sento dire a quel modo "Vorrei morire!..." - Gli occhi di lei ridevano negli occhi del bel giovane biondo, che si accesero anch'essi un istante di una luce più viva, malgrado il loro riserbo mondano, com'era passata una carezza nel tono della voce che voleva sembrare disinvolta e scherzevole.
- Davvero...
- soggiunse lei.
- Alle volte, sapete...
in certi momenti deliziosamente tristi...
-
Essa parlava gaiamente della morte nel fervore della festa, al ritmo del valzer di Chopin che l'eccitava vagamente, splendente di gemme e di bellezza, sotto gli occhi innamorati di Ginoli.
All'uscire di casa Roccaglia, in mezzo alla scorta di galanti che si affrettavano a metterle la pelliccia sulle spalle, a darle il braccio, ad aprir lo sportello del legnetto tiepido e profumato come un nido, aveva sentito un brivido scenderle per le belle spalle nude, ancora ansanti pel valzer, sotto la lontra del mantello.
Il suo medico, il medico delle signore eleganti, era venuto il giorno dopo a fare quattro chiacchiere, sprofondato nella gran poltrona ai piedi del letto, buttando giù svogliatamente prima d'andarsene, senza togliersi i guanti due o tre lineette della sua bella scrittura da signora su d'un foglietto medioevo con la corona a cinque foglie.
Alla porta era una vera processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea; tutti che lasciavano una parola, un nome, una carta di visita, di cui il portiere ogni sera recava in anticamera un vassoio pieno zeppo, colla lista fitta di condoglianze e di auguri, insieme al bollettino della giornata, redatto in guisa da poter passare sotto gli occhi dell'inferma, la quale voleva leggere ogni giorno i nomi di coloro che si erano ricordati di lei.
Se ne parlava al Circolo, al teatro, come s'incontravano fra di loro, amici e conoscenti di lei, in visita, dal confettiere, allo sportello delle carrozze, a Villa Borghese.
- La povera donna Vittoria!...
- Le visite si succedevano a Casa Delfini: delle signore eleganti, degli uomini che venivano un momento a stringere la mano al marito di lei, delle coppie che vi si davano ritrovo, delle ondate di profumi leggieri e delicati che passavano nell'atmosfera greve, delle osservazioni brevi che si scambiavano i visitatori a bassa voce, nell'uscire, con un gesto del capo, o della mazzettina, stringendo il manicotto al seno, o stringendosi nelle spalle.
La sera miss Florence lasciava il romanzo che stava leggendo, e scendeva colla bimba nella camera della signora, la quale accoglieva entrambi con un sorriso pallido.
La figliuola, una ragazzina bianca e delicata, con lunghe trecce d'oro pendenti giù per le spalle, e la compostezza di una donnina, andava a baciare la mamma in punta di piedi, col passo di signorina ben educata.
Le chiedeva della salute in inglese o in tedesco, secondo la giornata; poi le augurava la buona notte, e se ne andava dietro all'istitutrice, diritta e impettita.
Però una mattina il dottore s'era fatto serio all'udire donna Vittoria lagnarsi di un altro guaio serio, sopravvenutole nella notte: un dolore pungente che le attraversava il petto, dalle spalle al seno: - Come dicono che sia il mal d'amore!...
- Donna Vittoria ne parlava in tono scherzoso, con una specie di febbre d'amore realmente negli occhi, sulle guance, e nella voce rotta.
Il dottore la pregò di lasciarsi osservare, così, sollevandosi un poco, una cosa da nulla.
Una cosa che le faceva un effetto curioso, a lei, al sentire contro la batista quel viso di uomo che pareva l'abbracciasse, e le facesse battere il cuore davvero, e la faceva scomporre in volto, senza saper perché, mentre si forzava ancora di ridere, fra due colpetti di tosse: - Proprio il mal d'amore, eh, dottore? - Egli non rispose subito, intento, coll'orecchio sulle sue spalle delicate che trasalivano e s'imporporavano.
Poi aveva espresso il desiderio "di consultarsi con qualche collega sul metodo di cura", e s'era fermato un momento in anticamera a discorrere sottovoce col marito dell'inferma.
Calava la sera, una sera tiepida di primavera.
Per la via udivasi il rumore non interrotto delle carrozze che tornavano dal passeggio.
Soltanto nella camera dell'inferma, che dava sul giardino, regnava un gran silenzio.
Quando la figliuola era andata ad augurarle la buona notte, secondo il solito, donna Vittoria aveva trattenuta la ragazzina per mano, e le aveva detto, nella sua lingua nativa, poche parole che accusavano la febbre, col sorriso già triste nel viso color di cera.
La bimba ascoltava seria e zitta, coi grand'occhi azzurri spalancati.
Sino a tarda ora, come s'era sparsa la notizia del consulto tenutosi in casa Delfini, erano venuti degli amici di donna Vittoria, che il marito di lei riceveva nel suo salottino da fumare - un salottino da scapolo, con delle figure scollacciate alle pareti, e dove scoppiettava una fiammata allegra - distribuendo dei sigari e delle strette di mano, discorrendo di ciò che avevano detto i medici, e di quel che dicevasi al Circolo e nei crocchi mondani.
Qualche signora, venendo a chiedere notizie dell'amica, dopo il teatro, s'avventurò a cacciare un momento la testolina incappucciata in quel recesso profano, scandolezzandosi "degli orrori" che v'erano in mostra, sgridando Delfini e lasciandogli un saluto per "la cara Vittoria", empiendo le sale del fruscìo dei loro strascichi, e il gaio cinguettìo che fugava le idee nere.
I domestici sbadigliarono un po' più del solito in anticamera, e sino a tarda ora lo stesso coupé che aveva ricondotta la padrona dal ballo in casa Roccaglia stette attaccato a piè dello scalone, coi due fanali accesi che si riverberavano nell'acqua della fontana.
Null'altro.
Ma la stessa notte l'inferma aveva peggiorato rapidamente.
Il medico, chiamato in fretta e in furia sin dall'alba, si turbò in viso al primo vederla.
Stette appena cinque minuti e promise di tornare fra qualche ora.
Intanto fece prevenire il suo collega del consulto, suggerì alla cameriera di svegliare Delfini, che dormiva ancora, prescrisse un sacco d'ordinazioni che fecero perdere la testa ai servitori e alle cameriere.
Per un momento la casa fu tutta sottosopra.
Nel cortile c'era un va e vieni frettoloso di carrozze, coi cavalli fumanti e coi cocchieri ancora in giacchetta.
Dei parenti giungevano a ogni momento, col viso lungo, parlando sottovoce.
Il medico era tornato due volte.
Verso le quattro, prima d'andarsene, aveva scritto un'ultima ordinazione sul tavolino dell'anticamera, volgendo le spalle all'uscio, dinanzi al servitore serio e grave, di già in cravatta bianca sino dalle dieci di mattina.
Poi, il coupé di donna Vittoria era andato a prendere di corsa una lontana parente, mezza beghina, dinanzi al cui vestito dimesso, quasi umile, gli usci dorati si spalancarono premurosamente.
Costei s'era assisa al capezzale dell'inferma, con un'aria d'intimità quasi materna, chiedendole come si sentisse, chiacchierando di cose diverse con la voce pacata delle donne che vivono nella pace della chiesa.
Parlò di sé, dei suoi piccoli guai di tutti i giorni, del solo conforto che si trova nella religione.
- Giusto incominciava allora la quaresima, l'epoca della penitenza, dopo i peccati del carnevale.
A volte le malattie sono avvertimenti che dà il Signore perché ci si rammenti di Lui.
Appunto perciò i buoni cristiani antichi usavano chiedere il Viatico appena s'ammalavano.
Non è giusto aspettare l'ultimo momento per riconciliarsi con Dio.
Già il miglior rimedio è una buona confessione, si era visto tante volte, con dei malati gravi...
Donna Vittoria, bianca come il merletto del guanciale su cui posava la testa, ascoltava senza dire una parola, spalancando gli occhi, quasi affascinata da un'orribile visione interiore, col viso già stravolto da un'angoscia suprema, agitando le mani, agitando il capo che non poteva trovar requie sul guanciale.
Tutt'a un tratto si fece proprio cadaverica in volto, cercando di rizzarsi sulla vita, balbettando:
- No...
più tardi...
più tardi...
Non mi fate questi discorsi...
Non mi fate morir di spavento...
Andatevene, zia!...
andatevene!...
Più tardi poi...
-
La beghina se ne andò finalmente, stringendosi nelle spalle, brontolando delle parole oscure, accennando col capo al marito di donna Vittoria che aspettava all'uscio, sbigottito anche lui.
L'inferma gli fece cenno d'accostarsi, interrogandolo cogli occhi ansiosi, con un'espressione di rancore pure, in fondo a quegli occhi atterriti, chiedendogli perché avessero lasciata entrare quella donna...
perché?...
perché?...
La voce le si era mutata a un tratto, come il viso, come gli occhi che fissava in volto a tutti quanti e domandavano ansiosi: - Sto proprio così male?...
Cosa ha detto il medico?...
Perché non mandate a chiamare il medico? - Ad un tratto si abbandonò sul letto supina, con un terrore immenso nel viso.
- Ah...
Dio mio!...
così presto!...
-
Il triste annuncio giunse di buon'ora al Circolo.
Ginoli teneva banco, aspettando che fosse l'ora d'andare a far visita in casa Delfini, come al solito, quando il duca d'Orezzo, che aveva preso posto fra i giuocatori un momento prima, ripeté la frase che correva da una settimana sulla bocca degli amici: - La povera donna Vittoria!...
- stavolta in tal tono che tutti quanti levarono il capo.
Ginoli aveva voltato un nove.
Allora gli stessi tornarono a chinarsi sulle carte, rannuvolati.
- Pur troppo! - rispose il duca alla domanda di Ginoli, che aveva dimenticato di ritirar le poste.
- S'è già confessata...
-
Ginoli vinceva sempre con una vena implacabile che l'inchiodava al suo posto, e non teneva allegri neppure i suoi compagni di giuoco.
Accusasse un cinque o chiamasse un sette, tutte le follìe di un giuocatore inesperto che voglia fare lo spaccone, o che abbia perduta la testa, gli giovavano invece a sventare le astuzie dei suoi avversari, i quali non sapevano più a che santo votarsi, e maledicevano in cuor loro gli uccelli di malaugurio che vanno in giro a portare la disdetta e le cattive nuove.
Santa-Sira, il quale aveva già le orecchie infocate, saettò di nascosto un'occhiata sul duca.
Ma Lionelli, il quale aspettava la rivincita, e temeva che Ginoli lasciasse le carte, osservò garbatamente che in tal caso non conveniva andare in casa Delfini quella sera...
per non disturbare...
Altri approvarono, guardando alla sfuggita Ginoli a cui tremavano le mani nel dare le carte, e luccicavano delle goccioline di sudore sulla fronte, quasi perdesse tutto sulla parola; e Domitilla discretamente cambiò discorso, per riguardo a Ginoli che teneva il banco, e di cui conoscevasi la relazione con donna Vittoria.
- Peraltro si facevano pochi discorsi, ciascuno avendo da pensare ad altro, con quella maledetta partita che s'era fatta più seria che non si credesse, e che sarebbe stata un disastro per qualcheduno, se Ginoli non fosse stato quel gentiluomo che era, e non avesse capito che gli conveniva continuare a giuocare, come facevano tutti gli altri amici di donna Vittoria, per la riputazione di lei.
Con una partita così grossa, nessuno avrebbe voluto tenere il banco per lui.
- Tanto da lasciarmi tirare il fiato, - aveva egli detto sorridendo, quasi l'emozione della vincita fosse stata realmente tale da togliergli il respiro.
Finalmente, quando poté correre in casa Delfini, dopo una serie fortunata di zeri che gli riconciliò i suoi amici del Circolo, era circa mezzanotte.
Domitilla aveva voluto accompagnarlo per salvare le apparenze.
Salendo la scala gli disse: - Bada...
sei ancora tutto sottosopra...
-
Nel salotto c'erano dei parenti, una signora attempata, amica di casa, che si era offerta di vegliare la notte, e due altri, marito e moglie, zii, per parte di madre, di donna Vittoria.
La zia parlava di cure portentose, di guarigioni insperate.
Gli altri tacevano, senza ascoltare.
La contessa Roccaglia parve molto sorpresa di veder comparir Ginoli, e rivolse la parola a Domitilla, per salvare le apparenze: - Non sapevate...
povera Vittoria!...
-
Allora Ginoli dovette ascoltare le osservazioni della zia, ch'era stata nella camera dell'inferma, e balbettare delle condoglianze comuni, dinanzi a tutti quegli occhi fissi su di lui.
Di tanto in tanto passava un domestico frettoloso; una cameriera socchiudeva discretamente l'uscio delle stanze della signora.
Un momento si vide far capolino anche il marito di lei, pallidissimo, che scomparve subito.
Nel salotto discorrevasi a voce bassa, con parole tronche, con un vago senso di malessere e di fastidio reciproco.
Lo zio guardava l'orologio tratto tratto.
Poi succedevano dei lunghi intervalli di silenzio che pesavano su tutti, quasi d'attesa funebre.
A un certo punto l'uscio si spalancò e comparve prima l'istitutrice, col fazzoletto agli occhi, reggendo la fanciullina che sembrava svenuta; e il padrone di casa attraversò il salotto barcollando, senza salutare nessuno, fissando soltanto uno sguardo singolare su Ginoli che aveva chinato il capo.
Dall'uscio rimasto aperto udivasi il rumore di un affaccendarsi frettoloso, nelle stanze dell'inferma.
La cameriera era venuta correndo a prendere un candelabro dal caminetto.
Allora gli zii e la vecchia signora le erano andati dietro.
Come Ginoli si era alzato anche lui, vacillante, pallido come un cadavere, quasi non sapesse più quel che si faceva, la contessa Roccaglia lo fermò sull'uscio, dicendogli piano:
- No...
S'è confessata or ora...
s'aspetta il Viatico...
-
Si udì il suono funebre di un campanello, e uno scalpiccìo di gente che saliva.
Ginoli, dileguandosi come un'ombra, quasi inseguito dallo squillare di quel campanello, vide un'altra ombra in fondo all'anticamera, dinanzi a cui dovette chinare il capo, irresistibilmente.
BOLLETTINO SANITARIO
San Remo, 10 novembre
Sono qui da ieri sera.
Venite.
VIOLA
San Remo, 21 novembre
VIOLA fa sapere alla sola persona dalla quale è conosciuta, che ella aspetta inutilmente da otto giorni.
San Remo, 8 dicembre
Perché non siete venuto, GIACINTO? Avete letto le mie del 10 e 21 novembre? Avete dimenticato la vostra promessa? Dove siete? Ho bisogno di voi.
San Remo, 16 dicembre
Mi sono ingannata; perdonatemi.
Voi siete come tutti gli altri.
Sorrento, 22 dicembre
Io sono precisamente come tutti gli altri, cara signora VIOLA; anzi, come tutti quegli altri che hanno bisogno di pace, e a cui i medici prescrivono il riposo dell'anima e del corpo, e il clima di Nizza o di Napoli.
GIACINTO
San Remo, 25 dicembre
Godeteveli.
Parto domani.
È inutile dirvi dove andrò, poiché è inutile che mi scriviate.
Addio.
VIOLA
Sorrento, 20 gennaio
Alla signora VIOLA - non del pensiero.
- Mia cara, giacché ai vostri occhi devo comparire assolutamente colpevole, eccovi la mia giustificazione: ve la mando come posso.
Per altro, nessuno vi conosce, nemmen io, e voi non avete esitato per la prima a far correre le poste ai nostri piccoli segreti.
Sono stato malato, molto malato; ho creduto di morire, e ho avuto paura.
Vedete quanto io sia lontano dal mondo e dalle sue illusioni, se vi confesso anche cotesto! Ho vista la vita dall'altro lato.
Se sapeste che rovescio! La giovinezza, il passato, voi! Quante cose si veggono nelle cortine stinte di un letto d'albergo, a cinque lire per notte, coll'odore delle medicine sotto il naso, e il russare dell'infermiera in un canto! Mi sembrava di non dovermi alzare più.
Andavo cercando col pensiero tutto ciò che si era presa la mia vita, e non lo trovavo: il giuoco, gli amici, le amiche...
E i sogni della giovinezza...
Vi rammentate, quella prima sera che mi bruciaste l'anima colle lenti del vostro cannocchiale? Che miseria! E pensare che tutto ciò ora non mi fa battere il cuore come la voce grossa del dottore il quale mi misura la febbre col termometro!
Che cosa volete, cara VIOLA! Ritorno dal paese freddo delle ombre, dove anche il fiore del pensiero intirizzisce; e mi scaldo tranquillamente a questo bel meriggio d'inverno, come un ebete, con un plaid sulle ginocchia, le orecchie ben calde dentro il mio berretto di lontra; e sorrido soltanto al sole che mi bacia le mani diacce, gialle, di un bel giallo d'oro, come i mucchi di luigi che illuminavano le nostre notti di Montecarlo, dove quell'altro mi vinceva anche voi.
Vi rammentate, a Venezia? Avevate un colletto alto da uomo, un ferro di cavallo alla cravatta, un cappellino grigio, a tese piatte, con un ciuffo di piume di struzzo sul davanti: ricordi che mi sembrano gai e festosi in questa bella giornata d'inverno: - l'occhiata lunga e calda che mi lasciaste nel vestibolo, sirena! e la furberia con la quale vi nascondevate dietro le spalle oneste e larghe del vostro compagno, nel palchetto, per puntare il cannocchiale su di me! Quante belle cose ci dicevamo! Due o tre volte chinaste il capo e sorrideste: un sorriso che voleva dire tante cose: - Vi saluto! - Davvero? - Sì! - Venite? - che so io...
forse non lo sapevate voi stessa.
Io sorrisi e chinai il capo come voi.
Che potevamo dire di più? Tutto l'amore umano non è in quel linguaggio senza parole? - Chi sei? - Mi piaci! - Mi vuoi? - Quel bel signore che vi dava il braccio non avrebbe potuto chiedervi né sentirsi rispondere altro da voi, neppure nel momento in cui posava la sua testa accanto alla vostra sul medesimo guanciale.
Eppure, tutta la notte questa visione non mi fece chiudere occhio.
Lasciamo stare, lasciamo stare! Ecco che ricasco di nuovo nella fantasticheria erotica - la più malsana divagazione della mente, dice il mio medico.
Ora non c'è nulla per me che valga una buona nottata di sonno profondo, collo spirito e il corpo nella bambagia tiepida delle coperte.
Erano tante notti che non potevo dormire, mangiato dalla tosse, mangiato dalla febbre! Sentite, quando vi dicono che in cotesti momenti hanno pensato a voi, che siete stata il conforto, il sollievo, che so io, vi mentiscono come furfanti.
In principio, forse, quando il male non ha compìto il suo lavorìo, quando il medico non ha fatto il viso lungo, quando non si è visto passare lo spettro nero nelle prime ombre della sera...
Allora, forse...
quando il sangue ancora ricco dà con la febbre quella sensazione di benessere, si può pensare a lei, alla donna, alla treccia bionda sul guanciale, alla mano bianca che apre dolcemente le cortine, agli occhi lucenti che aspettano...
Così mi guardavate, dal fondo di quella loggia.
- Che cosa ne avete fatto del vostro bel cavaliere? Sapete, ultimamente lo incontrai a Napoli.
Non volle riconoscermi, e fece bene.
Ho un sospetto che quell'uomo in dominò della cavalchina fosse lui, e che abbia udito quando deste l'indirizzo al gondoliere...
Lasciatemi in pace, lasciatemi in pace, ecco quello che vi ho detto poi, nelle lunghe notti senza sonno e senza sogni.
E vi ho detto anche peggio.
Che ve ne importa? Che me ne importa? Io voglio dormire, voglio dormire soltanto.
Voi siete bella, sana, giovane, ricca.
Avete lì San Mauro ai vostri piedi, Giuliano che vi fa ridere, il duca che vi manda delle violette da Nizza.
Lasciatemi in pace.
Vedete, è un'ora che vi scrivo.
Il sole m'ha lasciato adagio adagio, e col sole le liete fantasie che suscitava la vostra memoria.
Ora ho freddo, e la nebbia è calata anche su di voi.
Che colpa ne ho io? Se vedeste com'è triste questo mare che illividisce, e questo verde che si fa scuro! Sento il bisogno del bel fuoco che scoppietta nel camino, e del buon brodo che fuma nella tazza.
Se stanotte potessi dormire senza cloralio, quanto sarei felice! Vedete quanto poco ci vuole per avere la felicità? Il dottore m'assicura che sto meglio, e che forse fra un mese o due potrò lasciare Sorrento...
Giacché dovete sapere che odio Sorrento, odio questo mare, questo cielo, questo verde implacabile, in mezzo al quale sono costretto a vivere, se voglio vivere.
Ora difatti mi sento meglio, ho pensato a voi, ho riletto le vostre lettere, ho sentito rifiorire in me qualcosa del passato che credevo morto, e che mi rianima invece, e mi riscalda.
Dunque anch'io posso rivivere? Allora, allora...
No, non voglio pensare ad altro.
Il medico dice che mi fa male.
Il mio male siete voi.
Non mi importa più di nulla, capite! Sentite...
siete già in collera? Vi chiedo perdono.
Sono un uomo dell'altro mondo: eccovi spiegato il motivo del mio silenzio.
Non pensate più a me.
Se mi vedeste ora, volgereste il capo dall'altra parte.
Lasciatemi in pace.
Sorrento, 25 marzo
È proprio vero.
Sto meglio, son quasi guarito, sapete? Il male non era così grave come si temeva.
Chi ne sa nulla? Questi medici, dottoroni! non lo sanno neppur loro.
Certo è che son guarito, guarito! Oggi ho fatto una lunga passeggiata a piedi.
Che bel sole! che bel verde! Quella ragazza che mi vende le viole ha detto che non mi ha mai visto così di buona cera.
Anche qui si fa la corte, come laggiù la fanno a voi, e non potete immaginare quanto sia ingenua e credula la civetteria dei malati.
Le ho dato venti lire.
Quanta gente si può far contenta con venti lire.
Ho portato il plaid sul braccio, tutto il dopo pranzo.
C'è un povero storpio che suona da un'ora il valzer di Madama Angot sotto le mie finestre.
Sì, quella musichetta gaia può avere il suo merito anch'essa quanto il vostro Chopin e il vostro Mendelssohn.
Le belle sere passate nel vostro salottino, guardandovi le mani e accarezzandovi i capelli! Non mi sgridate.
Sono un gran colpevole che vi domanda perdono e viene a picchiarsi il petto dietro la vostra porta.
Dove siete? Che avete pensato di me? Ero tanto lontano da voi, tanto! Ed ora desidero tanto di rivedervi! Basta, non ne parliamo.
Non me lo merito, lo so.
L'avete ancora quel serpentello d'oro al braccio? Come mi farebbe bene una bella chiacchierata con voi, di quelle chiacchierate che sapete fare, mezzo sdraiata sulla poltrona, e colle scarpette accavalciate l'una sull'altra! Sono circa sei mesi che non parlo.
E vedete, che perciò chiacchiero, chiacchiero per lettera, e vi corro dietro con la mente, e con qualche altra cosa anche, qui nel petto...
Se siete tuttora in collera, dovreste perdonarmi soltanto al pensare che, se voleste dirmi dove siete, verrei a piedi, come un pellegrino, a sciogliere il voto, foste anche in capo al mondo! Non mi sgomenterei, no! Ora son forte.
Ah, com'è bella la vita!
Sì, vi avevo promesso: "Quando mi permetterete di venirvi a trovare...
dovunque sarete..." Poi fui in collera con voi che m'avete lasciato partire.
Quella sera che mi posaste la fronte sul petto, a Villa d'Este? Perché non siete venuta con me? Eravate tutta tremante.
Mi amavate dunque? Perché non avete voluto che ci acciuffassimo pei capelli, io e quell'uomo? Che notte ho passato sotto le vostre finestre! Fu là che presi la tosse...
E ve ne volli.
Sì, sì, quando vi seppi partita, partita con colui, vi odiai, fui malato, volli dimenticarvi.
Giuliano mi disse che San Mauro vi faceva la corte, e che il duca portava discretamente al collo la vostra catena.
Che m'importa adesso? Io so che avete le mani bianche e che ve le siete lasciate baciare da me.
So che a San Remo non siete più da un pezzo, e che mi avete aspettato colà, e che siete partita senza dire per dove.
Ed io vi ho lasciata partire! Ero pazzo allora, o son pazzo adesso? Nessuno potrebbe dirlo.
Quello che so di certo, è che in questo momento vorrei baciare ancora le vostre mani bianche.
Sorrento, 11 aprile
VIOLA cara! VIOLA bella! VIOLA bionda! Eccomi ginocchioni dinanzi a voi, con le mani in croce, la fronte sul tappeto.
Lasciatemi baciare le vostre scarpette piccine! Sì, sì, lo so, sono molto colpevole.
Non merito il perdono.
Ditemelo, ma ditemelo voi stessa.
Sono otto giorni che ho fatte le valige, e che aspetto una vostra parola, dura, assai dura, che mi dica di venirmi a chiedere perdono.
Pensare che forse eravate sola a San Remo, e che avreste lasciato l'uscio socchiuso...
Ah, come darei della testa nella parete! Sono stato peggio di colpevole: sono stato uno sciocco.
Non ci cascate anche voi, se mi amate ancora, per picca, per dispetto.
Pensate che potremmo vederci, soli, dirci colla bocca tutto ciò che ci siamo detto quella sera alla Fenice col cannocchiale! Vi dico delle cose pazze.
Sono pazzo, vi giuro...
Sorrento, 16 aprile
GIACINTO supplica e scongiura a mani giunte VIOLA di fargli avere un rigo, una parola, qualunque sia, perché il silenzio implacabile di lei gli mette addosso tutte le febbri.
Sorrento, 29 aprile
Sentite, non ne posso più.
Aspetterò qui la vostra lettera sino a domani.
Domani, ultimo giorno d'aprile, non so quel che farò.
Vi amo, vi amo, mi sento morire un'altra volta.
Fatelo per pietà almeno, VIOLA! Stanotte ho tossito di nuovo e ho avuto la febbre.
Sorrento, 8 maggio
Ah, che siate proprio tale quale vi avevo giudicata! senza cuore, senza spirito, senz'altro che lo spumeggiare delle vostre trine e lo scintillìo dei vostri diamanti, frivola e dura altrettanto! Vi odio, vi detesto! Voi mi fate morire, consunto da questa febbre che mi avete messa nel sangue, maledetta! Tenetevi il duca che v'insulta co' suoi doni.
Tenetevi Giuliano, che si ride di voi.
Tenetevi San Mauro che vi mette in un mazzo con le ballerine della Scala.
Io vi ho buttato in faccia la giovinezza mia, che avete distrutto, la vita che mi avete succhiata coi baci, vampiro!
GIACINTO
Genova, 8 maggio
Aspettatemi.
Verrò.
VIOLA
Napoli, 14 maggio
No, no, mio caro GIACINTO.
È meglio non vederci più.
Sono stata a trovarvi, incognita; l'albergatore mi aveva aperta una finestra sul giardino, dove eravate a passeggiare.
Come siete mutato, mio povero e caro GIACINTO!
VIOLA è morta.
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DON CANDELORO E C.
(1894)
DON CANDELORO E C.
Don Candeloro era proprio artista nel suo genere: figlio di burattinai, nipote di burattinai - ché bisogna nascerci con quel bernoccolo - il suo pane, il suo amore, la sua gloria erano i burattini.
- Non son chi sono se non arrivo a farli parlare! - diceva in certi momenti di vanagloria come ne abbiamo tutti, allorché gli applausi del pubblico gli andavano alla testa, e gli pareva di essere un dio, fra le nuvole del palcoscenico, reggendo i fili dei suoi "personaggi".
Per essi non guardava a spesa.
Li perfezionava, li vestiva sfarzosamente, aveva ideato delle teste che movevano occhi e bocca, studiava sugli autori la voce che avrebbe dovuto avere ciascuno di essi, Almansore o Astiladoro.
Quando declamava pei suoi burattini, nelle scene culminanti, si scaldava così, che dopo rimaneva sfinito, asciugandosi il viso, nel raccogliere i mirallegro dei suoi ammiratori sfegatati, come un attore naturale.
Di ammiratori ne aveva da per tutto, alla Marina, alla Pescheria, certuni che si toglievano il pan di bocca per andare a sentire da lui la Storia di Rinaldo o Il Guerin Meschino, e se l'additavano poi, incontrandolo per la strada, colla canna d'India sull'omero e la sua bella andatura maestosa, che sembrava Orlando addirittura.
Era un gran regalo quando egli rispondeva al saluto toccando con due dita la tesa del cappello.
Se nasceva una lite in teatro, e venivano fuori i coltelli, bastava che don Candeloro si mostrasse fra le quinte, e dicesse: - Ehi ragazzi!...
- con quella bella voce grassa.
Giacché s'era fatta anche la voce, come il gesto e la parlata, sul fare dei suoi "personaggi" e pareva di sentire un Reale di Francia anche se chiamava il lustrastivali dal terrazzino.
Con queste doti innamorò la figliuola di un oste che teneva bottega lì accanto.
La ragazza era bruttina, ma aveva una bella voce, e doveva avere anche un bel gruzzolo.
- La voce è tutto! - le diceva don Candeloro sgranandole gli occhi addosso, e accarezzandosi il pizzo.
- Grazia! Che bel nome avete pure! - Andava spesso a far colazione all'osteria per amore della Grazia, e le confidò che pensava d'accasarsi, dacché aveva voltato le spalle alla vecchia baracca del padre, e messo su di nuovo teatro che rubava gli avventori al SAN CARLINO, e al TEATRO DI MARIONETTE.
Si mangiavano fra di loro come lupi, padre e figlio, e i suoi colleghi erano giunti ad ordirgli la cabala, e fargli fischiare la Storia di Buovo d'Antona.
- Spenderò i tesori di Creso! - aveva fatto voto quel dì don Candeloro battendo il pugno sulla tavola.
- Ma non son chi sono se non li riduco a chiuder bottega tutti quanti! -
Lui con dei contanti avrebbe fatto cose da sbalordire.
Insino il balletto e la pantomima avrebbe portato sul suo teatro; tutto colle marionette.
- Ci aveva qualcosa lì! - e si picchiava la fronte dinanzi alla Grazia, fissandole gli occhi addosso come volesse mangiarsela, lei e la sua dote.
Si scervellò un mese intero, col capo fra le mani, a cercare un bel titolo pel suo teatrino, qualcosa che pigliasse la gente per gli occhi e pei capelli, lì, nel cartellone dipinto e coi lumi dietro.
- Le Marionette parlanti! - Sì, com'è vero ch'io mi appello Candeloro Bracone! parlanti e viventi meglio di voi e di me! Non deve passare un cane che abbia un soldo in tasca dinanzi al mio teatro, senza che dica: "Spendiamo l'osso del collo per andare a vedere cosa sa fare don Candeloro!" -
L'oste veramente non si sarebbe lasciato prendere a quelle spampanate, perché sapeva che gli avventori seri preferiscono andare a bere il buon vino nel solito cantuccio oscuro; e del resto, lui voleva un genero con una professione da cristiano, come la sua, a mo' d'esempio, e non un commediante con la zazzera inanellata, che parlava come un libro e gli incuteva soggezione.
- Quello è un tizio che ci farebbe muovere a suo piacere come i burattini, te e me! - disse alla figliuola.
- Bada ai fatti tuoi: le buone parole, qualche risatina anche, con gli avventori.
E poi orecchie di mercante.
Hai inteso? -
Ma il tradimento gli venne da un finestrino che dava sul palcoscenico, al quale la ragazza correva spesso di nascosto a mettere un occhio, e dove si scaldava il capo con tutte quelle storie di paladini e di principesse innamorate.
Don Candeloro, dacché s'era dichiarato con lei, lasciava socchiusa apposta l'impannata, e le sfuriate di amore, Rinaldo e gli altri personaggi, le rivolgevano lassù; tanto che la ragazza ne andava in solluchero, e aveva a schifo poi di lavare i piatti e imbrattarsi le mani in cucina.
"Non pur me, ma infiniti signori questo amore ha fatto suoi vassalli, principessa adorata!..."
- Tu non me la dài a intendere! - brontolava l'oste colla figliuola.
- Che diavolo hai in testa? Mi sbagli il conto del vino...
Gli avventori si lamentano...
Questa storia non può durare -.
La catastrofe avvenne alla gran scena in cui la bella Antinisca ritorna alla città di Presopoli, e Guerino "quando la vidde" dice la storia "s'accese molto più del suo amore".
Smaniava per la scena, sbalestrando le gambe di qua e di là, alzando tratto tratto le braccia al cielo, squassando il capo quasi colto dal mal nervoso.
Diceva, con la bella voce cantante di don Candeloro:
"O Dio, dammi grazia ch'io mi possa difendere da questa fragil carne, tanto ch'io trovi il padre mio, e la mia generazione".
E la bella Antinisca, dimenandosi anch'essa, e lagrimando (si capiva dalle mani che le sbattevano al viso):
"O Signor mio, io speravo sotto la vostra spada di esser sicura del Regno che voi mi avete renduto, per questa cagione vi giuro per li Dei che come saprò, che voi siete partito, con le mie proprie mani mi ucciderò per vostro amore, e se mi promettete, che finito il vostro viaggio ritornerete a me, io vi prometto aspettarvi dieci anni senza prender marito".
"Non per Dio, sarete vecchia" disse il Meschino.
"Questo non curo, pur che voi giuriate di tornare a me, di non pigliare altra donna".
(Veramente la bella Antinisca aveva una voce di grilletto che faceva ridere gli spettatori, giacché don Candeloro per le parti di donna aveva dovuto scritturare a giornata un ragazzetto che cominciava adesso a farsi grandicello, e per giunta recitava come un pappagallo, talché alle volte il principale, sdegnato, gli assestava delle pedate, dietro la scena).
Allora la bella Antinisca cadde d'un salto fra le braccia del Guerino, piegata in due dalla tenerezza, e Grazia, arrampicata al finestrino, si sentì balzare così il cuore nel petto, che le sembrava proprio di essere nei panni dei due felici amanti, allorché il Meschino, in presenza di Paruidas, Armigrano e Moretto, giurò per tutti i sagramenti di farla sua donna e legittima sposa.
- Quando saremo marito e moglie, le parti di donna le farai tu! - le aveva detto don Candeloro.
E la ragazza, ambiziosa, si sentiva gonfiare il petto dalla gioia, a quelle scene commoventi che facevano drizzare i capelli in capo ad ognuno, e si vedevano degli uomini con tanto di barba piangere come bambini, fra gli applausi che parevano subissare il teatro.
- Sì! sì! - disse Grazia in cuor suo.
Il babbo invece disse di no.
C'erano continuamente delle scene fra padre e figlia; quello ripetendo che la storia non poteva durare, e minacciando la ragazza di tornare a maritarsi, e metterle sul collo la matrigna.
Lei dura nel proposito: o don Candeloro, o la morte! Quando don Candeloro andò a far domanda formale, vestito di tutto punto, l'oste rispose:
- Tanto onore e piacere.
Ma ciascuno sa i fatti di casa sua.
Sono vedovo, non ho altri figliuoli, e mi abbisogna un genero che mi aiuti...
- Allora vuol dire che non son degno di tanto onore! - balbettò don Candeloro facendosi rosso, e piantandosi di tre quarti, colla canna d'India appoggiata all'anca.
- Nossignore, l'onore è mio.
- L'onore è vostro, ma vostra figlia non me la date...
- Nossignore.
Come volete sentirla?
- Va bene.
Umilissimo servo! - conchiuse don Candeloro calcandosi con due dita la tuba sull'orecchio, e se ne andò mortificatissimo.
- Senti - disse poi alla Grazia dal finestrino.
- Tuo padre è un ignorante che non capisce nulla.
Bisogna prendere una risoluzione eroica, hai capito? -
La ragazza esitava a prendere la risoluzione eroica di infilare l'uscio e venirsene a stare con lui, per costringere poi il babbo ad acconsentire al matrimonio.
Ma don Candeloro aveva il miele sulle labbra, e sapeva trovare delle ragioni alle quali non si poteva resistere.
Le diceva di fare nascostamente il suo fagotto...
con giudizio, s'intende...
- C'era anche la sua parte nei denari del padre, - e venirsene dove la chiamavano i cieli.
- Non hai giurato per gli Dei di essere mia donna e legittima sposa? -
Il vecchio però era un furbo matricolato, il quale cantava sempre miseria, e nascondeva i suoi bezzi chissà dove.
Grazia non portò altro che quattro cenci in un fazzoletto, e quelle poche lire spicciole che aveva potuto arraffare al banco.
- Come? - balbettò don Candeloro che si sentiva gelare il sangue nelle vene.
- In tanto tempo che ci stai, non hai saputo far di meglio?...
-
Questo era indizio che non sarebbe stata buona a nulla, neppure per lui; e le questioni cominciarono dal primo giorno.
Basta, era un gentiluomo, e la promessa di Candeloro Bracone era parola di Re.
Il bello poi fu che lo stesso giorno in cui andarono all'altare, lui e la sposa, il suocero volle fargli la burletta di andarci lui pure, insieme a una bella donnona colla quale aveva combinato il pateracchio lì per lì.
- Senza donne non possiamo stare né io né il mio negozio, cari miei, - gli piaceva ripetere, con quel sorrisetto che mostrava le gengive più dure dei denti, e faceva venire la mosca al naso.
- State allegri e che il Signore vi prosperi e vi dia molti figliuoli.
Alla mia morte poi avrete quel che vi tocca -.
I figliuoli vennero infatti a tutti e due, genero e suocero, uno dopo l'altro.
Ma l'oste prometteva di metterne al mondo quanto il Gran Sultano, e di campare gli anni del Mago Merlino.
Ogni volta che gli partoriva la moglie o la figliuola, invitava tutto il parentado a fare una bella mangiata.
Crescevano i figliuoli, e i pesi del matrimonio; ma viceversa poi diminuivano gli introiti e il favore popolare.
Quella gran bestia del pubblico s'era lasciato prendere a certe novità che avevano portato Bracone il vecchio e il proprietario del SAN CARLINO.
Adesso nei teatrini di marionette recitavano dei personaggi in carne ed ossa, la Storia di Garibaldi, figuriamoci, ed anche delle farsacce con Pulcinella; e vi cantavano delle donne mezzo nude che facevano del palcoscenico un letamaio.
La gente correva a vedere le gambe e le altre porcherie, tale e quale come le bestie, che don Candeloro ne arrossiva pel mestiere, e preferiva piuttosto fare il saltimbanco o il lustrascarpe, prima di scendere a quelle bassezze.
Per non recitare alle panche era arrivato a far entrare in teatro gratis dei vecchi avventori, fedeli alle belle Storie d'Orlando e dei Paladini antichi, coi quali almeno si sfogava dicendo vituperi dei suoi colleghi:
- Perché non mettere le persiane verdi alle porte, come certi stabilimenti?...
Sarebbe più pulito.
Dovrebbe immischiarsene la Questura, per Satanasso! -
Però l'ignoranza e l'ingratitudine del pubblico gli facevano cascare le braccia.
Non valeva proprio la pena di sudare coi libri, e spendere dei tesori per dare roba buona a degli asini.
- Volete lavare la testa all'asino? - Gli stessi burattini recitavano svogliatamente, vestiti come Dio vuole.
- Ci si perdeva l'amore dell'arte e d'ogni cosa, parola di gentiluomo! - Dov'erano andati i bei tempi in cui si facevano due rappresentazioni al giorno, la domenica e le feste, e la gente assediava la porta, quend'era annunziato sul cartellone un "personaggio" nuovo? Don Candeloro, colla barba di otto giorni e la zazzera arruffata, passava le giornate intere nella bettola del suocero, a dir corna dei suoi colleghi, o a litigare colla moglie, ora che in casa pareva l'inferno.
Grazia, adesso che aveva visto cosa c'era dietro le belle scene impiastricciate, stava con tanto di muso a rammendar cenci anche lei, a stemperar colori, e rompersi braccia e schiena, vociando come un pappagallo per le Artemisie e le Rosalinde, dall'avemaria a due ore di notte; che specie quando il Signore le mandava dei figliuoli (e succedeva una volta all'anno) era proprio un gastigo di Dio.
- Tu non sai far altro, per Maometto! - le rinfacciava il marito furibondo.
L'oste dava soltanto buoni consigli: - Non vedete che gli avventori corrono al vino nuovo? Cambiate il vino -.
Ma don Candeloro non si piegava.
Piuttosto avrebbe tolto su baracca e burattini, e sarebbe andato pel mondo a far conoscere chi era Candeloro Bracone, giacché i suoi concittadini non sapevano apprezzarlo.
La piazza "non faceva più" per lui! Se c'era ancora un po' di buon senso e di buon gusto dovevasi andare a cercarlo in provincia, dove non erano ancora penetrate quelle sudicerie.
Finalmente spiantò davvero il teatro, mise ogni cosa su di un carro, e via di notte, per non dar gusto ai nemici.
L'oste prese lui a pigione il magazzino per metterci delle botti, e allargare il negozio, ora che la figliuolanza era cresciuta.
- Te l'avevo detto, - disse alla Grazia.
- Quello non è mestiere da cristiani.
Se fossi rimasta a vendere del vino.
non saresti ridotta adesso a far la zingara.
Ben ti stia! -
Don Candeloro viaggiò per valli e per monti, come i cavalieri antichi, con tutto il suo teatro ammucchiato in un carro, e la moglie e i figliuoli sopra.
Il guaio era che non si trovava con chi combattere.
Quei contadinacci ignoranti ed avari, sfogata la prima curiosità, voltavano le spalle alle "marionette parlanti" o s'arrampicavano sul tetto del teatrino per godersi la rappresentazione gratis.
Arrivando in un villaggio, don Candeloro scaricava la roba sulla piazza, pigliava in affitto una bottega, un magazzino, una stalla, quel che trovava, e si mettevano a inchiodare e incollare tutti quant'erano.
Le stagioni duravano otto, quindici giorni, un mese, al più.
Dopo, si tornava da capo a correre il mondo, e in quel va e vieni la roba andava in malora; si mangiavano ogni cosa le spese d'affitto e di viaggio, con dei carrettieri ladri ch'erano peggio dei saracini, e non usavano riguardi neanche a Cristo.
Don Candeloro, avvezzo ad essere rispettato come un Dio da simile gentaglia, voleva farsi ragione colle sue mani, in principio, sinché si buscò una grandinata di calci e pugni.
E ci dovette arrivare anche lui, Candeloro Bracone, a fare il pagliaccio se volle aver gente nel suo teatro, e a rappresentare le pantomime nelle quali pigliavasi le pedate nel didietro dal minore dei suoi ragazzi per far ridere "la platea".
Quando vide che il pubblico non ne mangiava più in nessuna salsa delle "marionette parlanti", e ci voleva dell'altro per cavar soldi da quei bruti, ebbe un'idea luminosa che avrebbe dovuto fare la fortuna di un artista, se la fortuna baldracca non ce l'avesse avuta a morte con lui...
- Ah, vogliono i personaggi veri?...-
Un bel giorno si vide annunziare sul cartellone che la parte di Orlando, nei Reali di Francia, l'avrebbe sostenuta don Candeloro in persona "fatica sua particolare!" E comparve davvero sul palcoscenico, lui e tutta la sua famiglia, in costume, e armato di tutto punto: delle armature ordinate apposta al primo lattoniere della città, e che erano costate gli occhi della testa.
Il pubblico sciocco invece, al vedere quei ceffi di giudei che toccavano i cieli col capo, e suonavano a ogni passo come scatole di petrolio, si mise a ridere e a tirare ogni sorta d'immondizie sui Paladini, massime allorché ad Orlando cadde di mano la spada, ed egli, tutto chiuso nell'armi, non poté chinarsi per raccattarla.
Urli, fischi e mozziconi di sigari in faccia ai Reali.
Un putiferio da prendere a schiaffi tutti quanti, o da passar loro la spada attraverso il corpo, se non fosse stata di latta, pensando a tanti denari spesi inutilmente.
Da per tutto, ove si ostinava a portare i Paladini di Francia "con personaggi veri" trovava la stessa accoglienza: torsi di cavolo e bucce d'arance.
Il pubblico andava in teatro apposta colle tasche piene di quella roba.
Non li volevano più neanche "coi personaggi veri" i Paladini! Volevano le scempiaggini di Pulcinella, e le canzonette grasse cantate dalle donne che alzavano la gamba.
- E tu fagliele vedere le gambe! - disse infine alla moglie don Candeloro infuriato.
- Diamogli delle ghiande al porco! -
Lui stesso, colle sue mani, dovette aiutare la Grazia ad accorciare la gonnella, litigando con lei che pretendeva di non esser nata per quel mestiere, e si vergognava all'udire i complimenti che il pubblico indirizzava ai suoi stinchi magri.
- Per che cosa sei nata? per far la principessa? Il pane te lo mangi, però! - Lui invece era preso adesso dalla rabbia di mostrare ogni cosa, a quegli animali, la moglie, la figliuola ch'era più giovane e chiamava più gente.
- Anch'io, se vogliono vedermi!...
Voglio calarmi le brache in faccia a quelle bestie! - Faceva delle risate amare, povero don Candeloro! Cercava le farsacce più stupide e più indecenti.
Si tingeva il viso per fare il pagliaccio.
Sputava sul pubblico, dietro le quinte! - Porci! porci! -
LE MARIONETTE PARLANTI
Si rappresenta
Come il MESCHINO andò per le CAVERNE
E trovò MACCO in forma di SERPENTE
Col quale parlò
E giunse alla PORTA della
FATA
Indi farsa con
PULCINELLA
Il cartellone portava dipinto il Meschino, armato di tutto punto contro un drago verde, il quale vomitava delle lettere rosse che dicevano: Ebbi nome MACCO, e andai facendo male sin da piccino: tutta opera di don Candeloro, il quale dipingeva anche le scene, suonava la gran cassa, vestiva i burattini e li faceva parlare, aiutato dalla moglie e dai cinque figliuoli, talché in certe rappresentazioni c'erano fin venti e più personaggi sulla scena, combattimento ad arma bianca, musica e fuochi di bengala, che chiamavano gran gente.
Diciamo cinque figliuoli, però uno di essi veramente era figlio non si sa di chi, raccolto da don Candeloro sulla pubblica via per carità, ed anche perché aiutasse a lavare i piatti, suonar la tromba e chiamar gente, vestito da pagliaccio, all'ingresso del teatro.
- Martino, fate vedere i vostri talenti, e ringraziate questi signori -.
Martino voltava la groppa, si buttava a quattro zampe e imitava il raglio dell'asino.
Egli era il buffo della Compagnia, faceva il solletico alle donne, e andava a cacciare il naso fra le assi del dietro scena, mentre si vestivano per la farsa.
Colla ragazza poi inventava cento burlette che la facevano ridere, e le mettevano come una fiamma negli occhi ladri e sulla faccia lentigginosa.
- Be', Violante, vogliamo rappresentare al vivo la scena fra Rinaldo e Armida? -
Una volta che don Candeloro lo sorprese a far la prova generale colla sua figliuola, la quale si accalorava anch'essa nella parte, e abbandonavasi su di un mucchio di cenci, quasi fossero le rose del giardino incantato, amministrò a tutti e due tal salva di calci e schiaffi da farne passare la voglia anche a dei gatti in gennaio.
- Ah bricconi! Ah traditori! V'insegno io!...
- La Violante ne portò un pezzo il segno sulla guancia.
Ma ormai aveva preso gusto alle monellerie di Martino, sicché andava a cercarlo apposta dietro le quinte, fra le scene arrotolate, e i cassoni delle marionette, mentre lui smoccolava i lumi per la rappresentazione della sera, o soffiava sotto la marmitta posta su due sassi, nel cortiletto.
Gli soffiava fra capo e collo dei sospiri che avrebbero acceso tutt'altro fuoco, pigliandosela colle stelle e coi barbari genitori.
- Sta' tranquilla, - disse Martino, - sta' tranquilla che me la pagherà -.
Adesso era lei che lo stuzzicava, vedendo che il ragazzo, ammaestrato dalle busse, stava all'erta pel principale, coll'orecchio teso e guardandosi intorno prima di allungare le mani verso di lei.
Gli portava di nascosto i migliori bocconi; gli serbava, in certi posti designati, il vino rimasto in fondo al fiasco; per rivolgergli le parole più semplici, dinanzi ai suoi, faceva un certo viso come avesse l'anima ai denti, col capo sull'omero e gli occhi di pesce morto; pigliava il tono delle Clorinde e delle Rosamunde per dirgli soltanto: - Bisogna andare per l'olio, Martino.
- Guarda che non c'è più legna sotto la mangiatoia...
-
E quando lavorava accanto a lui, sul palco, con le Artemisie in mano, gli buttava sul viso le parole infocate della parte, cogli occhi neri che mandavano lampi, e le labbra turgide che volevano mangiarselo.
"O Cieli! Che mai vedo a me dinanzi!...
Mio signore...
mio bene!"
- Lavora! lavora, sgualdrinella! - borbottava don Candeloro, allungando delle pedate, quando poteva.
- Com'è vero Dio! t'ho detto che me la pagherà! - rispose Martino fra i denti più di una volta.
"Si, principessa adorata..."
E gliela fece pagare, un giorno che il principale era andato avanti a procurar la piazza, e la Compagnia e la baracca seguivano dietro su di un carro.
Martino e la Violante finsero di smarrirsi per certe scorciatoie, in mezzo ai fichi d'India, e raggiunsero poi la comitiva in cima alla salita, scalmanati; Martino trionfante, quasi avesse vinto un terno al lotto, e la Violante che sembrava davvero una principessa, sdilinquendo attaccata al suo braccio, e lagnandosi di avere male ai piedi.
Chi si lagnò sul serio poi fu don Candeloro, che non poteva più maneggiare quel birbo di Martino, divenuto insolente e pigro, minacciando ogni momento di piantar baracca e burattini e andarsene pei fatti suoi.
- Ora che t'ho insegnato la professione, e t'ho messo all'onor del mondo!...
ribaldo, fellone!...
-
Violante piangeva e supplicava l'amante di non abbandonarla in quel punto.
- Che vuoi? - disse Martino.
- Sono stanco di lavorare come un asino pei begli occhi di non so chi.
Ci levano la pelle.
Non ci lasciano respirare un momento, neppure per trovarci insieme...
-
In tre mesi soltanto quattro volte, di notte, a ruba ruba, con una paura del diavolo addosso! Una sera che babbo e mamma avevano mangiato bene e bevuto meglio, la ragazza andò a trovare il suo Martino in sottana, che sembrava la Fata Bianca, sciogliendosi in lagrime come una fontana.
- Che facciamo, Dio mio?...
Tu dormi invece!...
- Eh? Che vuoi fare? - rispose lui fregandosi gli occhi.
- Non posso più nascondere il mio stato...
La mamma mi tiene gli occhi addosso...
Bisogna confessare ogni cosa...
Tu che hai più coraggio...
- Io, eh? Perché tuo padre mi dia il resto del carlino? Grazie tante! Piuttosto infilo l'uscio e me ne vo.
Se tu vuoi venire con me, poi...
-
L'idea gli parve buona e l'accarezzò per un po' di tempo.
- Io so fare il salto mortale, l'uomo senz'ossa, il gambero parlante.
Tu sei una bella ragazza...
Sì, te lo dico in faccia...
Vestita in maglia, a raccogliere i soldi col piattello, la gente non si farà tirar le orecchie per mettere mano alla tasca.
Andremo pel mondo; ci divertiremo, e ciò che si guadagna ce lo mangeremo noi due.
Ti piace? -
Mai e poi mai don Candeloro si sarebbe aspettato un tradimento così nero.
Proprio nel meglio della stagione, quando il pubblico cominciava ad abboccare, e da otto giorni che erano arrivati in paese, e avevano piantato le assi nel magazzino dell'arciprete Simola, s'intascavano soldi colla pala, e ogni sera si cenava! Fu allora che Martino e la Violante, sentendosi la pancia piena, sputarono fuori il veleno, e gli appiopparono il calcio dell'asino, la sera che il pubblico affollavasi in teatro per la continuazione delle imprese di Guerin Meschino alla ricerca della Fata Alcida, e prevedevasi più di venti lire d'incasso.
La moglie di don Candeloro, che da qualche tempo aveva dei sospetti e teneva d'occhio la figliuola, la sorprese tutta sossopra, dietro a Martino, il quale insaccava della roba.
Violante, colta sul fatto, le si buttò ai piedi piangendo, come la Damigella di Pacifero Re del Porchinos, quando svela il suo fallo al genitore.
- Ah, scellerata! - strillò la madre.
- Cos'hai fatto? Tuo padre ora v'accoppa tutt'e due! -
Don Candeloro sopraggiunse in quel punto, facendo il diavolo a quattro appena intese di che si trattava.
Sua moglie gridando aiuto, Violante buttandosi dinanzi all'amante per difenderlo eroicamente a costo dei suoi giorni, Martino arrampicandosi sull'intelaiatura delle quinte, con tanto di temperino in mano, i ragazzi strillando tutti in coro: una scena al naturale che chiunque avrebbe pagato l'ingresso volentieri per godersela.
Don Candeloro però non dimenticò neppure allora né chi era né quel che aveva a fare.
- Zitti tutti! - gridò colla voce solenne delle grandi rappresentazioni.
- Adesso apparteniamo al pubblico, che comincia a venire in teatro.
Tu, Grazia, va alla porta, se no entrano di scappellotto.
Aggiusteremo i conti dopo, in famiglia -.
Figuriamoci la povera madre che doveva sorridere alla gente incassando i due soldi del biglietto, con quel pensiero e quello spavento addosso!...
Le prime scene poi, mentre aiutava il marito che aveva le mani legate dai burattini, e non poteva andare a prendere pel collo i due infami che non comparivano a tempo coi loro personaggi!...
- Che diavolo fanno? Adesso è l'entrata di Alcida.
Com'è vero Dio, mi rovinano la meglio scena!...
-
Il pubblico, che non sapeva niente di tutto ciò, aspettava l'entrata della Fata Alcida, la quale doveva sedurre il Meschino per bocca della Violante; e lo stesso Meschino era rimasto colle braccia in aria, dondolandosi sulla punta dei piedi, e guardando la gente coi suoi occhi di vetro, come a chiedere: - Che succede adesso? -
Succedeva che dietro le quinte c'era una casa del diavolo.
Si udiva correre e bestemmiare, e a un certo punto la stessa scena, che figurava una bellissima loggia tutta istoriata a colonne gialle e turchine, ondeggiò come sorpresa dal terremoto.
Guerino alzò ancora le braccia al cielo, tirato in su sgarbatamente, e uscì di furia, col manto rosso che gli si gonfiava dietro.
- Tradimento! Infami saracini! Voglio berne il sangue! - si udì gridare don Candeloro colla sua voce naturale.
Il pubblico si mise a strepitare.
Dei burloni che avevano adocchiato qualche bella ragazza nei primi posti, cominciavano a spegnere i lumi.
- Fermi! Ehi! Non facciamo porcherie! - gridavano altri.
Nella baraonda si udì il correre dei questurini, che le orecchie esercitate riconobbero subito al rumore degli stivali.
- Musica! musica! Non è niente! niente! -
Ma non ce ne fu bisogno.
Guerino tornò in scena, piegandosi in due ad inchinare gli spettatori, e dall'altra parte comparve immediatamente la Fata Alcida, "di tanta bellezza adorna che la sua faccia splendeva come un sole" come spiegava a voce don Candeloro, il quale accese in quel punto un po' di magnesio, che fece un bel vedere sull'armatura di latta del Meschino, e il manto della fata tutto a draghi e bisce d'orpello.
- Bravi! bis! - gridarono i compari, che non ne mancavano.
Si sarebbe udita volare una mosca.
Da un canto il Guerino, che faceva orecchio di mercante alle seduzioni della Fata, e lei che ostinavasi a riscaldare in lui "le ardenti fiamme d'amore" diceva colla sua stessa bocca, e con certi atti di mano anche, tanto che il Meschino dimenavasi tutto con un suon di ferraccia, e lasciava intender chiaramente "che se Dio per la sua grazia non gli avesse fatto tenere a mente gli avvertimenti dei tre santi Romiti di certo sarìa caduto".
La gente si sentiva drizzare i capelli in testa.
Uno di lassù, nei posti da un soldo, gridò inferocito:
- Guardati, Meschino! Tradimento c'è! -
Però gli avventori soliti avevano notato che quella non era la voce della Fata Alcida, e gli stessi gesti che faceva, di qua e di là, all'impazzata, non avevano niente di naturale.
Per certo qualcosa di grosso doveva essere avvenuto dietro le quinte.
Sicché da prima furono osservazioni e mormorii, e poi vennero le male parole.
Infine allorché invece dei draghi e degli altri incantesimi che dovevano far nascere il finimondo, don Candeloro cercò di cavarsela con una manata di pece greca e picchiando su due scatole di petrolio per imitare il fracasso dei tuoni, scoppiò davvero l'inferno in platea: urli, fischi, bucce d'arance e pipe rotte, che pareva volessero sfondare il sipario.
- Pubblico rispettabile, - venne a dire la moglie di don Candeloro più morta che viva, e con un occhio pesto, - ora viene una bella farsa tutta da ridere, nuovissima per queste scene.
Onorateci e compatiteci -.
Che farsa! La gente era lì dall'avemaria per godersi appunto la gran scena dell'incantesimo, e aveva speso i suoi denari per vedere "i personaggi", che si azzuffavano sul serio menando botte da orbi, e non don Candeloro, il quale fingeva di prendersi le legnate dal randello imbottito di stoppa e se la rideva poi sotto il naso.
Parecchi si buttarono sulla cassetta.
Ci fu un piglia piglia fra le guardie e i più lesti di mano.
I comici saltarono giù dal palcoscenico, così come si trovavano, mezzo vestiti per la farsa, gridando e strepitando anche loro.
Don Candeloro colla camicia di Pulcinella, scappò a correre verso la campagna, al buio, in cerca dei fuggitivi, giurando d'accopparli tutt'e due, se li pigliava.
- Li ho visti io, - disse un ragazzo: ce n'è sempre di cotesti: - Son fuggiti per di qua -.
Martino e la Violante correvano ancora infatti, tanta era la paura.
Allorché incontravano dei carri per la strada, Violante si buttava dietro una siepe, poich'era in sottanina bianca, così come aveva potuto svignarsela mentre vestivasi per la farsa.
Martino, più furbo, fingeva d'andare pe' fatti suoi, o di allacciarsi una scarpa.
Poi, quando furono ben lontani, si accoccolarono dietro un muro, e mangiarono del salame, che Martino, innamorato com'era, aveva pensato a mettere da parte.
Violante, più delicata e sensibile, badava piuttosto a guardare le stelle, pensando a quel che aveva fatto.
- Dove si va adesso? - chiese sbigottita.
- Domani lo sapremo - rispose lui colla bocca piena.
Cominciava a spuntare il giorno.
Violante non aveva portato altro che uno scialletto logoro, sulla sottanina, e tremava dal freddo.
- Hai paura forse? - chiese lui.
- No...
no...
con te, mio bene...
-
Le venivano in mente allora le parlate d'amore che aveva imparato a memoria pei burattini, allorché Martino rispondeva colla voce grossa e facendo smaniare d'amore Orlando e Rinaldo.
Così le damigelle e le principesse si lasciavano rapire dall'amante sui cavalli alati.
Martino fermò un carrettiere che andava per la stessa via, e combinò di montare sul carro, lui e la Violante, pagando.
- Hai dei soldi? - chiese lei sottovoce.
- Sì, sta zitta -.
Dopo, per giustificarsi, si sfogò a dir male dei genitori di lei, che li facevano lavorare per nulla e si arricchivano a spese loro.
- Infine, - conchiuse, - ho preso il mio.
Tanto tempo che tuo padre non mi dava un baiocco -.
Però la Violante non aveva appetito, sentendosi sullo stomaco la paura del babbo, e il peso di quell'azionaccia che Martino gli aveva fatto mettendo le mani nella cassetta.
Lui invece era allegro come un fringuello; accarezzava la ragazza e faceva cantare i soldi in tasca; nelle strade maestre ci stava come a casa sua, e ad Augusta le fece far l'entrata in ferrovia come una principessa.
- Vedi! - le disse, pigliando i due biglietti di terza classe.
- Vedi come tratto io! -
Da principio non andava male.
Violante era un po' goffa, un po' pesante; ma allorché girava in tondo su di un piede, o s'arrampicava sul dorso di Martino, scopriva tali attrattive che la gente correva in piazza a vedere, e metteva volentieri mano alla tasca.
Martino chiudeva un occhio quando correvano anche dei pizzicotti, sottomano, mentre la ragazza girava contegnosa col piattello fra la folla.
Pazienza! il mestiere voleva così.
Oggi qua, domani lontani delle miglia.
- Dove ti rivedranno poi gli sciocchi che si lasciano spillare i soldi per la tua bella faccia? - In compenso si mangiava e beveva allegramente, e lui andava a letto ubriaco, sinché il diavolo ci mise la coda...
La Violante si ubbriacava pure agli applausi e alle esclamazioni salate del pubblico, sicché scorciava sempre più il sottanino, e rischiava di rompersi l'osso del collo nel fare il capitombolo.
Per disgrazia s'accorse nello stesso tempo che bisognava slargare di giorno in giorno la cintura, e che le dolevano le reni nel fare le forze.
Già quei baffetti gliel'avevano detto a Martino, che non l'avrebbe passata liscia.
Sicché le rinfacciava che quando sarebbe divenuta grossa come il tamburone, il pubblico li avrebbe lasciati in piazza tutt'e due a grattarsi la pancia.
Per giunta poi aveva dei sospetti su di un Tizio che correva dietro alla Violante, da un paese all'altro, e tirava a farlo becco.
Ne aveva avuti tanti la bella figliuola degli spasimanti che ustolavano dietro il suo gonnellino corto: militari, bei giovani, signori che avrebbero speso tesori! Nossignore! Ecco che ti va a cascare in bocca a quel disperato che portava tutta la sua bottega al collo, e girava anch'esso per il mondo a vendere spilli e mercerie di qua e di là.
Per un palmo di nastro la brutta carogna si era venduta! Martino n'ebbe la certezza quando glielo vide al collo, e vide pure il merciaiuolo che lo pigliava colle buone anche lui, e gli pagava da bere per tenerlo allegro.
- Aspetta! - ghignava fra sé e sé Martino alzando il gomito.
- Aspetta, che vogliamo ridere meglio quando verrà il momento che dico io! -
Tollerò ancora un po', per necessità, finché la Violante poté aiutarlo a raccogliere soldi sulle piazze, odiandola internamente e dandole in cuor suo tutti i titoli che aveva imparato nei trivi.
Poi, un bel giorno, accortosi che il merciaio allungava le mani sotto la tavola verso la Violante, mentre desinavano insieme come amici e fratelli all'osteria, fece una scena indiavolata, tirando fuori il coltello, minacciando gli amici che si frapponevano a metter pace.
- Che pace? Con quella canaglia?...
Voglio mangiargli il cuore a tutti e due! - sbraitò raccogliendo i suoi cenci, e tanti saluti alla compagnia!
Il povero merciaio, che si vide cadere sulle braccia la Violante più morta che viva, e gravida di sette mesi per giunta, protestò la sua innocenza, e se la diede a gambe anche lui, la stessa notte.
Sicché la sventurata rimase senza amici e senza quattrini, in mezzo a una via, e dovette lasciare all'Ospizio di Maternità il frutto del suo bell'amore.
Così babbo don Candeloro, passando da quelle parti, raccolse di nuovo nell'ovile la pecorella smarrita, ché la misericordia paterna è grande assai, e la ragazza, nel teatro delle MARIONETTE PARLANTI, riusciva di molto aiuto, massime ora che la mamma cominciava a sentire gli acciacchi degli anni e della figliuolanza.
Violante lavava, cucinava, aiutava i fratelli nelle prove, mentre il genitore smaltiva l'uggia al caffè.
Le marionette in mano sua parlavano davvero.
Se la mettevano poi a riscuotere i soldi, in maglia carnicina, la gente entrava in teatro soltanto per rasentarle i fianchi.
Sembrava la Fortuna delle "Marionette parlanti" come si suol dipingere, col piede sulla ruota e rovesciando il corno dell'abbondanza sul prossimo suo.
- Madre natura m'ha fatto così, - ripeteva dal canto suo don Candeloro nel crocchio degli amici, che si rinnovano sempre in ogni paese e in ogni caffè nuovo, - il cuore largo come il mare e le braccia aperte...
-
Cogli anni era diventato filosofo.
Aveva imparato a conoscere i capricci della sorte e l'ingratitudine degli uomini.
Perciò pigliava il tempo come veniva, e gli amici dove li trovava.
Si contentava di portare il corno di corallo fra i ciondoli dell'orologio, e un ferro di cavallo, del piede sinistro, inchiodato sulle assi della baracca.
Era andata su e giù quella baracca.
Una volta, quando i figliuoli, fatti grandicelli, aiutavano anch'essi colle forze e nelle pantomime, le MARIONETTE PARLANTI contavano fra le prime di quante ne fossero in giro, e si stava bene.
Poi i ragazzi erano sgattaiolati di qua e di là, in cerca di miglior fortuna o dietro la gonnella di qualche donnaccia dello stesso mestiere, e don Candeloro per aiutarsi era stato costretto a riprender Martino che aveva incontrato a Giarratana povero in canna, e ridotto a far qualsiasi cosa per il pane.
- Sono nato senza fiele in corpo, come i colombi, - disse allora don Candeloro.
- Le anime grandi si conoscono appunto al perdono delle offese.
Se mi prometti di non tornar da capo, ti piglio di nuovo in Compagnia, a quindici lire il mese, alloggio e vitto compreso.
- Sia pure, - rispose Martino che moriva di fame.
- Lo fo per amor della Violante, che un giorno o l'altro deve esser mia moglie e legittima sposa.
Ma intendiamoci, vossignoria, che non son più un ragazzo!...
e se tornate a giocar di mano o a farmi patir la fame, ci guastiamo per l'ultima volta, com'è vero Dio! -
Si rappattumarono anche colla Violante, per intromissione del babbo, il quale però prescrisse che dormissero lontani l'uno dall'altra, in omaggio al buon costume, finché fossero stati marito e moglie.
Messosi così l'animo in pace, tornò agli amici e all'osteria, ora che al resto badavano gli altri.
Nondimeno capitava spesso di dover sospendere le rappresentazioni per due settimane o tre a causa della Violante, la quale era costretta a tornare di tanto in tanto all'Ospizio di Maternità.
Il fidanzato allora vomitava ogni sorta di improperi contro di lei, pigliandosela anche con la suocera, la quale non sapeva tenere gli occhi aperti come faceva lui, protestando di non averci colpa; e don Candeloro metteva pace e tornava a ripetere che quella storia doveva avere un termine, e che li avrebbe menati per le orecchie dinanzi al sindaco tutti e due, e l'avrebbe fatta finita.
Disgraziatamente i tempi non dicevano.
Le marionette facevano pochi affari, e la Violante protestava che se Martino non arrivava a metter su teatro da sé, sinché doveva portar lei sola tutta la baracca sulle spalle, non voleva mettersi pure quell'altra catena al collo, e preferiva restar zitella come Sant'Orsola.
Lei invece sapeva ingegnarsi col suo pubblico, di qua e di là, e per mezzo delle beneficiate e dei regali riusciva a porre da parte qualche soldo.
Don Candeloro vedeva già il momento in cui gli avrebbero dato il calcio dell'asino, come aveva fatto lui con suo padre.
- Così paga il mondo! Non tutti hanno il cuore a un modo! -
E ci aveva pure un'altra spina nel cuore il povero vecchio, al vedere la condotta che teneva la figliuola, e rodendosi internamente contro quella bestia di Martino che non si accorgeva di nulla.
Accettava, è vero, per amor della pace, le cortesie e gli inviti a cena dei protettori che la figliuola sapeva trovare in ogni piazza; si lasciava mettere in fondo alla tuba il cartoccio coi dolci o gli avanzi del desinare per la sua vecchiarella che aspettava a casa; ma stava a tavola di mala voglia, senza alzare il naso dal piatto, col cuore grosso.
E vedendo Martino che macinava a due palmenti, cuor contento, quell'altro! gli dava fra sé certo titolo che non aveva mai portato, lui!...
- Ah, no! Non nacqui sotto quella stella, io! -
PAGGIO FERNANDO
- Paggio Fernando sarà lei! - esclamò il signor Olinto, puntando l'indice peloso.
- Lei sarà un amore di paggio, parola d'onore! -
Don Gaetanino Longo, rosso dal piacere, seguitò a tormentare i baffetti che non spuntavano ancora, e balbettò:
- Se crede...
se le pare...
- E come! e come! - Il capocomico, col pugno sull'anca e il busto all'indietro, colla tuba bisunta sull'orecchio, e il mento ispido in mano, saettando un'occhiata sicura di conoscitore di fra le setole delle sopracciglia aggrottate, continuava a dire:
- Ma sicuro! Lei ha il fisico che ci vuole! Faranno una bella macchia insieme alla mia Rosmunda! -
Allora scoppiarono i malumori e le gelosie fra i dilettanti raccolti intorno al biliardo nel Casino di conversazione.
Si udì prima un'osservazione timida, come un sospiro; poscia il coro delle lagnanze: Perché è figliuolo del sindaco!...
Perché torna dagli studi col solino alto tre dita!...
- Eh?...
Che cosa?...
Dicano, dicano pure liberamente.
Siam qui apposta per intenderci...
fra amici...
-
Si fece avanti un giovanotto magro e barbuto, sotto un gran cappellaccio nero, e cominciò:
- Io vorrei...
Non dico per la distribuzione delle parti...
Non me ne importa...
Ma quanto alla scelta della produzione...
Mi pare che sarebbe ora di finirla colla camorra...
- Eh? Che dice? Non le piace la Partita a scacchi dell'avvocato Giacosa?...
Lavoro applaudito in tutte le piazze!...
-
L'altro fece una spallata, e l'accompagnò con un risolino che diceva assai.
Don Gaetanino, che pigliava le parti dell'avvocato Giacosa, come si sentisse già sulle spalle la responsabilità della parte affidatagli, tirava grosse boccate di fumo dal virginia lungo un palmo, col cuore alla gola.
- Vediamo.
Mi trovi di meglio.
Cerchi lei, signor...
signor...
-
Il giovanotto s'inchinò; cavò fuori dal portafogli un biglietto di visita, e lo presentò, con un altro inchino al signor Olinto.
- Ah! ah! corrispondente della Frusta teatrale e dell'Ape dei teatri?...
Felicissimo! Io non domando di meglio che contentare la libera stampa e la pubblica opinione...
Vediamo, dica lei.
Mi suggerisca, signor...
- E tornò a leggere il biglietto di visita.
- Barbetti, per servirla.
- Signor Barbetti, dice lei...
Se ci ha sotto mano qualche altra cosa che si adatti meglio al gusto di questo colto pubblico...
Qualche lavoro di polso...
-
Barbetti si faceva pregare, masticando delle scuse, fingendo di ribellarsi all'amico Mertola, il quale moriva dalla voglia di tradire il segreto dell'amico Barbetti.
Infine Mertola non seppe più frenarsi, e alzò la voce, scostandosi dall'amico, additandolo al pubblico per quel grand'uomo che egli era.
- Il lavoro di polso c'è...
inedito...
la sua Vittoria Colonna!...
Gli è costata due anni di lavoro!...
- Ah! ah! - fece il capocomico.
- Ah! ah! e me lo teneva nascosto, lei! Non sa ch'io sono ghiotto di simili primizie? -
Barbetti s'arrese infine, e tirò fuori dal soprabitino un rotolo legato con un nastro verde.
- Adesso? - rispose il signor Olinto.
- Su due piedi? Che mi canzona, caro lei?...
Un lavoro di polso come il suo!...
Bisogna vedere...
bisogna studiare...
Intanto dò un'occhiata...
-
Colla schiena appoggiata alla sponda del biliardo e il mento nel bavero di pelliccia, andava sfogliando le pagine, aggrottato, e borbottava:
- Bene, bene!...
Effetto scenico!...
Bei pensieri!...
Stile elevato!...
In questa parte la mia signora...
Non le dico altro!...
- Con permesso! con permesso! - interruppe il cameriere del Casino, spingendosi avanti a gomitate.
- Ecco qui don Angelino e il notaro Lello.
Devo preparare il biliardo per la solita partita -.
Il capocomico si cacciò la mazza sotto l'ascella, e raccattò gli scartafacci e i telegrammi sparsi sul panno verde.
- Va bene, va bene, ne riparleremo.
Intanto bisogna far girare la pianta -.
Fu il più difficile.
I giuocatori di tressette rispondevano picche, e brontolavano contro quel forestiere che portava la iettatura.
Seduta stante si dovettero ribassare i prezzi.
Ma l'avvocato Longo, sentendo che c'era per aria un dramma dell'avvocato Barbetti, repubblicano e suo avversario nel Consiglio, una gherminella per togliere la parte di Paggio Fernando al suo figliuolo, dichiarò che non dava il teatro per rappresentazioni immorali e sovversive.
Il signor Olinto, che andava mostrando la pianta del teatro col cappello in mano, gli disse:
- Ma che! Lei ci crede alla Vittoria Colonna? Una porcheria! Servirà per accendere la pipa.
Lasci fare a me che so fare...
Me ne trovo tra i piedi una ogni piazza, delle Vittorie!...
- Bene, faccia lei.
Ma a buon conto sa che al sindaco spetta un palco, e un altro alla Commissione teatrale, senza contare il tanto per cento sull'introito lordo a beneficio dell'Asilo Infantile -.
Le trattative durarono otto giorni.
Il signor Olinto si scappellava con tutto il paese, per rabbonire la gente, e la signorina Rosmunda aiutava dal balcone, civettando, vestita di seta, con un libro in mano, mentre la mamma badava alla cucina.
Don Gaetanino Longo, oramai sicuro del fatto suo, aveva confidato all'amico Renna:
- Quella me la pasteggio io! -
E passava e ripassava sotto il balcone, succhiando il virginia, a capo chino, rosso come un pomodoro, lanciando poi da lontano occhiate incendiarie.
Il signor Olinto, che l'incontrava spesso, gli disse infine:
- Voglio presentarti alla mia signora.
Così ti affiaterai pure con Jolanda -.
Il tu glielo aveva scoccato a bruciapelo, fin dal primo giorno.
Ma quel tratto d'amicizia commosse davvero don Gaetanino.
Trovarono la signorina Rosmunda che stava leggendo accanto al lume posato su di un cassone, colla fronte nella mano, la bella mano delicata e bianca che sembrava diafana.
Aveva i capelli nerissimi raccolti e fermati in cima al capo da un pettine di tartaruga, un casacchino bianco e un cerchietto d'argento, dal quale pendeva una medaglina, al polso.
Da prima alzò il capo arrossendo e fece un bell'inchino al figliuolo del sindaco.
Gli occhioni scuri e misteriosi sotto le folte sopracciglia lasciarono filare uno sguardo lungo che gli cavò l'anima, a lui! Ma in quella comparve la mamma infagottata in una vecchia pelliccia, coll'aria malaticcia, un fuoco d'artificio di ricciolini inanellati sulla fronte, e le mani, nere di carbone, nei mezzi guanti.
- Da artisti, alla buona, senza cerimonie - disse il signor Olinto.
E cominciò a parlare dei suoi trionfi e delle famose candele che gli dovevano tanti autori che adesso andavano tronfi e pettoruti; e delle birbonate che aveva salvato da un fiasco sicuro, e passavano ora per capolavori.
- Anche quella Vittoria Colonna, vedi, se mi ci mettessi!...
Don Gaetanino assentiva col viso e con tutta la persona.
Ma intanto guardava di sottecchi la figliuola, che aveva il viso lungo e il naso del babbo, ingentiliti da un pallore delicato, da una trasparenza di carnagione che sembrava vellutata, dalla polvere di cipria abbondante, e da una peluria freschissima che agli angoli della bocca metteva l'ombra di due baffetti provocanti.
Essa di tratto in tratto gli saettava addosso di quelle occhiate luminose che lo irradiavano internamente.
- Ah! anche il signore si occupa?...
- Sì.
Non hai inteso? Lui è Paggio Fernando...
Essa allora gli piantò addosso gli occhi e non li mosse più, perché egli vedesse ch'erano proprio belli.
Il babbo colse giusto quel momento per passare in cucina; e don Gaetanino, sentendo di dover spifferare qualche cosa, balbettò col cuore che battevagli forte:
- Signorina!...
son fortunato!...
davvero!...
- Oh! Che dice mai?...
Piuttosto io!...
- Il bicchiere dell'amicizia! - interruppe il signor Olinto tornando con una bottiglia in mano e gli occhi già accesi.
- Da artisti, alla buona.
Scuserai...
Non abbiamo mica il buon vino che bevete voi altri proprietari del paese...
-
La ragazza non volle bere.
Il giovanetto, per cortesia, bagnò appena le labbra in quell'aceto, dicendole:
- Alla sua salute! -
Essa alzò gli occhi su di lui, e lo ringraziò con quella sola occhiata.
- Divino!...
Squisito! - sentenziò don Gaetanino, che non sapeva più quel che si dicesse.
- Vi manderò domani un po' di quel vecchio...
Questo qui è eccellente...
Non c'è che dire...
Ma domani...
-
La mamma voleva protestare.
Il marito le chiuse la parola in bocca:
- Per qualche bottiglia di vino...
Non è un gran male.
Non è un regalo di valore.
Fra amici...
pel bicchiere dell'amicizia.
Già verrai a berlo anche tu...
la sera, quando non avrai altro da fare...
intanto vi affiaterete con Jolanda -.
Jolanda appoggiò l'invito con un'altra occhiata, e Paggio Fernando balbettò:
- Sì!...
certamente!...
felicissimo!...
-
Stava poi per rompersi l'osso del collo quando imboccò la botola della scaletta.
Fuori c'era un bel chiaro di luna, una striscia d'argento fredda e silenziosa che divideva la strada in due.
Egli camminava in quella striscia d'argento, col piede leggiero, il cervello spumante, il virginia rivolto al cielo, il cuore che batteva a martello, e gli diceva: - È tua! è tua! -
A casa trovò una lavata di capo per l'ora tarda, e andò a letto senza cena.
Il povero giovane passò una notte deliziosa, cogli occhi sbarrati nel buio, a veder pettini di tartaruga e occhiate lucenti che illuminavano la camera.
Appena uscito, il giorno dopo, provò subito una smania di correre dall'amico Renna.
- Una divinità, caro mio! Una cosa da ammattire! -
Renna, ch'era indiscreto, volle sapere a che punto fossero le cose, e lo costrinse a inventare dei particolari.
- Benone! - conchiuse.
- Sai però cosa ti dico? Alla lesta! Non perdere il tempo a filare il sentimento.
Già è donna di teatro; non ti dico altro!
- Io?...
Filare il sentimento?...
- borbottò Gaetanino, quasi reputandosi offeso.
- Vedrai!...
Ma il signor Olinto era lì ogni sera, a fumare la pipa e centellinare il vino dell'amicizia.
Quando lui usciva a prender aria poi, la mamma, che stava appisolata in un cantuccio, collo scaldino sotto le sottane, apriva un occhio.
Filavano le occhiate, del resto, che era uno struggimento, e le pedate sotto la tavola, e il fuoco e l'accento di certe frasi, alle prove:
Io ti guardo negli occhi che son tanto belli!!!
- Così - esclamava il capocomico, picchiando della mazza per terra.
- Faremo saltare in aria il teatro! -
Intanto quel briccone di Barbetti metteva dei bastoni nelle ruote.
Erano giunte due copie della Frusta teatrale con un articolaccio che diceva ira di Dio della camorra letteraria ed artistica, e fecero il giro del paese.
La pianta del teatro rimaneva mezzo vuota.
Don Gaetanino, per onore di firma, dovette prendere un palco ad insaputa del genitore.
C'erano pure delle altre nubi in quel cielo azzurro.
Il vino vecchio scorreva com'olio; e l'amico Olinto qualche volta, conducendolo a braccetto per le strade remote, gli faceva delle confidenze:
- Sono sulle spese...
Otto giorni inoperoso sulla piazza...
La recita non va...
- Don Gaetanino dovette carpire le chiavi del magazzino e vendere del grano di nascosto.
Intanto il capocomico, per rabbonire il corrispondente della Frusta teatrale e dell'Ape dei teatri, aveva tirato in casa pur lui, a studiare Vittoria Colonna, insieme alla sua signora e alla ragazza.
Quando don Gaetanino trovò anche Barbetti installato accanto alla Rosmunda, col cappellaccio in testa e il bicchiere in mano, fece tanto di muso, e andò a sedere in disparte.
- Lei mi deve fare entrare Vittoria alla terza scena - stava dicendo il capocomico.
- C'è più interesse e movimento.
Un valletto solleva la tenda, giusto all'ultima battuta mia: "sulla tua corona superba, il mio piede sovrano di pezzente!..." e comparisce lei, bella, maestosa, imponente...
-
E così dicendo additò la sua signora.
Costei al richiamo spalancò gli occhi di botto, e si rizzò sulla vita, col viso di tre quarti, e un sorriso sospeso all'angolo della bocca.
Rosmunda finse di dover andare di là, e passando vicino a don Gaetanino disse piano:
- Che seccatore!...
- No! - ribatté Barbetti solennemente.
- Non muto neppure una virgola! Mi farei tagliare la mano piuttosto!
- Ah! Bene! bene! Questo si chiama aver coscienza artistica! Non come tanti altri che magari vi aggiungono o tagliano degli atti intieri...
quasi fosse un giuoco di bussolotti!...
Mi pareva soltanto...
pel movimento scenico...
per l'interesse...
per la pratica che ci ho!...
Ma già, lei è il miglior giudice.
Alla sua salute! -
Don Gaetanino vedeva nell'altra stanza lampeggiare al buio gli occhi della Rosmunda, la quale si voltava a guardarlo di tanto in tanto.
Poi essa ritornò con un lavoro all'uncinetto e gli si mise allato.
- Che hai, Paggio Fernando?...
- gli chiese sottovoce, con una musica deliziosa nella voce, e i begli occhi chini sul lavoro.
Allora senza curarsi di Barbetti, senza curarsi di nessuno, egli le disse il suo segreto, col viso acceso, colle parole calde che le balbettava all'orecchio come una carezza.
Essa chinavasi sempre più sul lavoro, quasi vinta, scoprendo la nuca bianca.
Poscia si sollevò con un sospiro lungo di cui non si udì il suono, appoggiando le spalle alla seggiola, colle mani abbandonate sul grembo, la testa all'indietro, il viso pallido, la bocca semiaperta, gli occhi languidi di dolcezza che si fissavano su di lui.
Ma quello sfacciato di Barbetti non se ne dava per inteso.
Sembrava anzi che si pigliasse da sé la sua parte di confidenza e d'intimità in casa dei comici.
Era lì ogni sera, stuzzicando la ragazza a fare il chiasso, bevendo il vino di don Gaetanino, giuocando a briscola col signor Olinto, sparlando di questo e di quello.
- Da artisti! Una vita quieta e tranquilla, che si sarebbe dimenticato volentieri di cercar le piazze e le scritture, in quell'angolo del mondo! - diceva il capocomico.
Quando non c'era l'amico Barbetti, faceva dei solitari, o si esercitava in certi giuochi di mano coi quali aveva messo sossopra dei teatri.
Don Gaetanino, purché lo lasciassero quieto nel suo cantuccio, portava nelle tasche del cappotto salsicciotti e altri salumi, che piacevano tanto alla mamma, felicissimo quando poteva starsene insieme alla Rosmunda, colle mani intrecciate, guardandosi negli occhi, spasimando di desiderio, e volgendo le spalle agli altri.
- Eh? a che punto siamo? - chiedeva il Renna di tanto in tanto.
Don Gaetanino rispondeva con un sorriso che voleva sembrar discreto.
- Ma c'è sempre Barbetti?
- Ci vado di notte...
- confessò finalmente Gaetanino facendosi rosso, - dalla finestra!...
-
Tutto il paese sapeva ch'egli era l'amante della "prima donna" e papà Longo sequestrò le chiavi della dispensa, vedendo diradare i salsicciotti appesi al solaio, e avendo anche dei sospetti quanto al grano e al vino vecchio.
Fu un affare serio, poiché l'orologio d'argento messo in pegno non durò neanche quarantott'ore.
Per giunta il povero don Gaetanino era geloso di quella bestia di Barbetti, il quale colla Rosmunda si pigliava troppa libertà, senza educazione, subito in confidenza, con quelle manacce sudice sempre per aria, e le barzellette salate che facevano ridere la ragazza.
Due o tre volte, giungendo prima dell'ora solita, li aveva trovati a tavola tutti quanti, mangiando e bevendo alla sua barba.
Vero è che Rosmunda si era alzata subito, con un pretesto, ed era venuta a dirgli in un cantuccio:
- Quel seccatore!...
L'ho sempre fra i piedi! -
Le prove tiravano in lungo, come la vendita dei biglietti per la serata.
Il signor Olinto passava le giornate dal barbiere, al caffè, nelle spezierie, dando anche la sera una capatina nel Casino di conversazione, cavando fuori ogni momento la pianta, fermando la gente per le strade col cappello in mano.
Aveva pure radunata una Commissione, "senza colore politico", per proteggere la serata, il presidente della Società operaia insieme al vice pretore, i quali avevano accettato soltanto per godersi la Partita a scacchi gratis.
A Barbetti poi diceva, con una strizzatina d'occhi che doveva chetarlo:
- Abbi pazienza! Prima bisogna adescare il pubblico con quella roba lì! Più tardi poi...
se abboccano...
fuoco alla grossa artiglieria! E diamo mano all'arte sul serio! -
Perciò ogni mattina alle 10, tutti in teatro per le prove: lui gesticolando colla canna d'India in mano e predicando dentro il bavero di pelo; la sua signora, come una marmotta, colla sciarpa di lana intorno al capo; Rosmunda col nasino rosso sul manicotto di pelle di gatto, e la veletta imperlata dal freddo.
- Là! Fatemi suonare quei versi! -
Oh! Ma non sai, Jolanda, che ho giuocato la vita?
- Flon! flon! flon! La gamba un po' più avanti! La mani sul petto! Viva quella mano, perdio! che palpiti e frema! Tu sei innamorato della mia ragazza...
-
Il fatto è che a dirglielo in versi dinanzi a tanta gente, don Gaetanino diventava un minchione.
C'erano pure gli altri dilettanti, in posizione, ad aspettare la loro battuta colla bocca mezzo aperta, e il cappellaccio di Barbetti che andava svolazzando al buio per la platea, come un uccello di malaugurio.
Jolanda al contrario, padrona di sé e del palcoscenico, si muoveva come una regina, agitava drammaticamente il manicotto, si piantava sull'anca, col seno palpitante, il torso audace, gli occhi stralunati sotto la veletta.
Tu giungesti, Fernando, tu che sei forte e bello.
E una voce nell'anima mi gridò tosto: È quello!...
- Perdio! Porca fortuna! - il babbo picchiava con forza il bastone sulle tavole.
- Un insieme come questo!...
Il pubblico balzerà in piedi, vi dico!...
Dove me lo trovate?...
Li tengo negli stivali tutti quei cavalieri e commendatori, quanto a saper mettere in scena!...
È che la fortuna!...
-
Allora se la pigliava colla cabala, col gusto corrotto del pubblico, coi tempi che non dicevano, e deplorava che ora si corra dietro all'apparato, ai vestiti delle prime attrici, roba che non ha nulla a fare coll'arte, anzi che la corrompe.
Un'artista, per contentare tutti al giorno d'oggi deve fare quel mestiere!
Don Gaetanino, mortificato, scusavasi col dire:
- Sicuro...
quando avrò il costume...
Adesso, con questi abiti...
mi sento tutto...
-
Finalmente, papà Longo sequestrò anche le chiavi del magazzino.
Allora il signor Olinto accorciò le prove.
A Barbetti, che gli ronzava sempre intorno colla Vittoria Colonna, disse chiaro e tondo:
- Mio caro, se mi dai teatro pieno, volentieri...
Ma se no, salutami tanto donna Vittoria.
Da tre settimane son qui sulle spese! -
Sembrava che la sera della recita alla Rosmunda le parlasse il cuore.
Nervosa, irrequieta, correndo ogni momento dinanzi allo specchio per darsi un po' di cipria, o per accomodarsi meglio la parrucca bionda.
Appena i tre violini della Filarmonica attaccarono il valzer di Madama Angot, essa stessa si buttò singhiozzando nelle braccia di Paggio Fernando, il quale aspettava dietro una quinta, irrigidito, e lo baciò sulla bocca, lievemente, tenendolo discosto per non sciupare il belletto.
- Che hai, Rosmunda?...
- Ora andremo via...
fra qualche giorno!...
Non ci vedremo più! -
Comparve all'improvviso il babbo, come uno spettro, infarinato, bianco di pelo, colle calze bianche della moglie tirate sulle polpe, e due ditate nere sotto gli occhi: - Ragazzi! attenti! Fuori di scena! -
Andò a rotta di collo la Partita a Scacchi.
Sia che ci fosse "il partito contrario"; sia che Paggio Fernando, con quei stivaloni e quella penna di struzzo dinanzi agli occhi, perdesse la tramontana.
Incespicò, s'impaperò, batté i piedi in terra, tornò da capo: insomma un precipizio.
L'amico Olinto, bestemmiando nel barbone di bambagia, gli faceva degli occhiacci terribili.
Jolanda fu lì lì per isvenire.
Barbetti e tre o quattro amici suoi dal cappellaccio repubblicano, in piedi addirittura fischiavano come locomotive.
La mamma di don Gaetanino e tutto il parentado se ne andarono prima che calasse la tela.
Il Sindaco, furibondo, voleva fare arrestare tutti quanti.
Ma fu peggio il giorno dopo, quando il povero innamorato, di sera, pigliando le strade fuori mano, andò a trovare la Rosmunda, con tanto di muso e bisbetica, che gli fece appena la carità di un'occhiata e di una parola.
Meno male l'amico Olinto, che non ne parlava più e badava soltanto a fare i conti dello spesato, e con Barbetti, il quale prometteva mari e monti, e aveva di nuovo intavolato il discorso della Vittoria.
- Se avessi dato retta a me!...
Quella è roba che fa ridere oramai...
Non parlo per l'esecuzione...
-
Più di una volta, in quella sera disgraziata, don Gaetanino accarezzò l'idea del suicidio.
Girovagò sin tardi per le strade buie come l'inferno.
Andò a chinarsi sul parapetto del Belvedere, scivolando sui mucchi di sterro, colla morte nell'anima.
Da per tutto, nella vallata scura e sinistra, nel cielo nuvoloso, sugli usci neri, vedeva il viso di lei rigido e chiuso; la vedeva ancora colla parrucca bionda e il bacio sulle labbra di carminio.
Non chiuse occhio tutta la notte, tormentato da quella visione implacabile, colle stesse parole di Paggio Fernando che gli martellavano le tempie, ridicole, simili agli sghignazzamenti della platea, che gli facevano cacciare il capo disperatamente fra i guanciali.
Poi, come tutto passa, anche Rosmunda si calmò; il padre stesso di lei venne a cercarlo sin nella strada.
Ricominciarono a far girare la pianta, e parlare di un'altra recita con un "lavoro originale di penna paesana".
Il capocomico e Barbetti tornarono a passar la sera discorrendo di Vittoria Colonna, egli e Rosmunda parlando di tutt'altro, a quattr'occhi, in un cantuccio, tenendosi le mani, benedicendo a quella Vittoria che tratteneva ancora in paese papà Olinto e la sua ragazza.
Ma la gente non voleva più saperne di mettere mano alla tasca per simili sciocchezze.
Il teatro rimaneva quasi vuoto.
Barbetti seguitava a pigliarsela colla camorra, e don Gaetano era indebitato sino agli occhi.
Infine suo padre, vedendo che quella musica non cessava, ed egli rischiava davvero di perdere il figliuolo che già gli si ribellava contro, tanto era innamorato, prese un partito eroico: salassò il bilancio comunale di un centinaio di lire, raccolse un altro gruzzolo per contribuzione, e mandò i denari ai comici per le spese del viaggio.
Che agonia l'ultima sera! Che schianto mentre Rosmunda preparava i bauli colle mani tremanti, e la mamma faceva friggere in cucina un po' di pesce per la cena d'addio! Don Gaetanino seguì la Rosmunda anche lì, dinanzi alla mamma che voltava le spalle, tenendola per mano, appoggiati al muro tutti e due, la ragazza singhiozzando forte come una bambina, nei brevi istanti che la mamma discretamente li lasciava soli.
- Addio!...
per sempre!...
Non ci vedremo più!...
Sempre così!...
sempre così!...
-
Ora gli parlava a cuore aperto, lamentandosi a voce alta, a rischio d'essere udita dal Barbetti.
Che gliene importava? Non si sarebbero visti mai più! così era stato sempre, tutta la sua vita, da un paese all'altro, ogni due o tre settimane uno strappo al cuore, appena il cuore si attaccava a qualcuno...
- Ti ho voluto bene, sai! Tanto bene! tanto! - E lo guardava fisso, accennando anche col capo, cogli occhi pieni di lagrime.
L'amico Olinto, baciandolo sulle due guance, coi baffi ancora umidi di salsa, gli disse all'ultimo momento:
- Arrivederci, Paggio Fernando! Le montagne sole non si muovono.
Chissà!...
Rammentati l'amico Olinto, in giro pel mondo, e viva l'allegria! -
Don Gaetanino Longo rimase Paggio Fernando: nel paese, all'Università, più tardi, quando vinse il concorso di notaio, consigliere comunale, maritato, padre di famiglia: Paggio Fernando! E la moglie, per giunta, gelosa come una tigre per quel soprannome che gli faceva sospettare non so che infedeltà.
Dopo un gran pezzo, a Roma, dove aveva accompagnato il Sindaco per certo affare del municipio, rivide in teatro la Rosmunda, acclamata, festeggiata, tutti gli occhi su di lei, tutte le mani che l'applaudivano.
Provò un tuffo nel cuore, soffiandosi il naso come una trombetta, coi lucciconi di tanti anni addietro che gli tornavano agli occhi.
Ma Renna, segretario comunale, ch'era con lui nello stesso palco, se la rideva invece nella barba grigia; e Severino, il suo ragazzo, di già alto così, gli fece capire quant'era sciocco.
- Guarda, papà che piange! Se è tutta una finzione!...
-
I ragazzi al giorno d'oggi hanno più giudizio dei vecchi.
LA SERATA DELLA DIVA
- Sublime!...
impareggiabile!...
divina!...
- acclamarono in coro gli ammiratori della seratante ammessi all'onore d'esprimerle a viva voce i loro entusiasmi.
- Celeste! - le soffiò sulla nuca Barbetti, il cronista teatrale.
La divina, imbacuccata nella pelliccia preziosa che la cameriera le aveva buttato premurosamente sulle spalle appena fra le quinte, ansante, col viso acceso, passò modestamente orgogliosa in mezzo alla folla degli amici che le facevano ala sino all'uscio del camerino, ringraziando col sorriso distratto i suoi ammiratori.
C'erano tutti quelli della piazza.
Il principe d'Antona, in giacchetta, come uno che da per tutto si reputa in casa propria, Barbetti e il banchiere Macerata in cravatta bianca come dei principi; i soliti amici di tutte le prime donne che passano pel palcoscenico dell'Apollo.
C'erano anche delle facce nuove, che se ne stavano timidamente in seconda fila: un giovanotto pallido e dagli occhi sfavillanti che tartagliava, una signora in voce di poetessa, la quale eclissavasi con affettazione dietro agli altri; e un po' in disparte il Re di cuori, come lo chiamavano, il patito della signora Celeste, un bel giovane taciturno che assumeva un'aria misteriosa.
Barbetti scriveva già le impressioni della serata sul ginocchio, posando lo scarpino inverniciato sulla sponda del canapè, elegantissimo e insolente, quand'era in cravatta bianca, mugolando fra le labbra:
- Ah, Celeste mia! Celeste voluttà!...
-
Lontano, al di là della scena buia e di un caos d'attrezzi, continuava ancora l'applauso, col crepitìo di un fuoco d'artifizio.
Delle ballerine discinte si affacciavano alle ringhiere dei camerini soprastanti.
Il buttafuori, in maniche di camicia, accorreva scalmanato.
Le stesse voci plaudenti ripigliarono:
- Sentite! sentite!...
Vi vogliono ancora!...
Li avete proprio elettrizzati!...-
La diva, nell'orgoglio del trionfo, fece un atto sublime di disdegno, lasciandosi cadere quasi sfinita sul canapè, accanto al ginocchio del cronista, e colla coda dell'occhio seguiva il lapis d'oro di lui, mentre rispondeva col solito sorriso stracco ai complimenti che le piovevano da ogni parte.
L'impresario venne in persona a supplicarla di "accondiscendere al desiderio del pubblico", arruffato, gongolante, col sorriso cupido che voleva sembrar benevolo.
- Cara signora Celeste...
abbiate pazienza!...
un momentino solo!...
Buttano sossopra il teatro, se no!...
-
La trionfatrice, a cui gli occhi sfavillavano di desiderio, ebbe però il coraggio di ripetere il magnanimo rifiuto, stringendosi nelle spalle, questa volta in barba all'uomo che teneva la cassetta.
Ma il giornalista paternamente le tolse la pelliccia di dosso, senza dir nulla, e la spinse verso la ribalta in un certo modo che significava:
- Via, via, figliuola, non facciamo sciocchezze -.
L'applauso, quasi soffocato sino allora, rinforzò a un tratto collo scrosciare impetuoso di una grandinata.
Delle acclamazioni ad alta voce irruppero qua e là.
E a misura che l'entusiasmo s'eccitava, propagandosi dall'uno all'altro, dei visi accesi, delle mani inguantate, dei petti di camicia candidissimi sembravano staccarsi confusamente dalla folla, e avanzarsi verso l'attrice.
Più vicino, dinanzi a lei, dei professori d'orchestra si erano levati in piedi, plaudenti, e sino in fondo alla vasta sala, lungo la fila dei palchi gremiti di spettatori, nel brulichìo immenso della folla variopinta, si sentiva correre, quasi un fremito d'entusiasmo, l'eccitamento delle note d'Aida ancora vibranti nell'aria e dei seni ignudi che si gonfiavano mollemente, tutta la vaga sensualità diffusa per la sala, che rivolgevasi verso l'attrice e l'avviluppava come una carezza del pubblico intero - colle mani che si stendevano verso di lei per applaudirla - colle grida che inneggiavano al suo nome - col luccichìo dei cannocchiali che cercavano il suo sorriso ancora inebbriato, il sogno d'amore ch'era ancora nei suoi occhi, l'insenatura delicata del suo petto e la curva elegante della maglia che balenava tratto tratto fra le pieghe della tunica d'Aida, trasparente e semiaperta, quasi cedendo già all'invito delle braccia tese verso di lei, mentre essa inchinavasi dolcemente, col sorriso tuttora avido, volgendo sguardi lunghi e molli che cercavano l'amore della folla.
- Proprio così! - stava dicendo il giornalista che aveva fretta di andarsene a cena.
- Stasera non ce n'è più per noialtri.
Siamo in troppi, amici miei! Vi pare?...
Dopo aver dato il cuore a duemila persone...
e in musica per giunta!...
-
E Barbetti stonacchiò sotto il naso del Re di cuori:
- Morir d'amor per te!...
per teee!...
-
Il principe sorrise lievemente, stendendosi sul divano.
Macerata, mentre la diva rientrava nel camerino, ribatté con molto spirito:
- Va bene.
Vuol dire che noi rappresentiamo l'entusiasmo pubblico...
la deputazione dei dimostranti venuta a prendere l'accolade!...
E la vogliamo, per bacco! -
Così dicendo fece mostra di aprirle le braccia confidenzialmente.
Ella vi mise soltanto la pelliccia, sedendo accanto al principe, il quale le baciò la mano.
- Un successone!...
un vero trionfo! - ripeteva intanto il coro.
Ma essa non dava retta.
Sembrava assorta, un po' stordita dall'applauso, e interrogava solo Barbetti con uno sguardo insistente.
Questi chinò il capo affermando, senza dire una parola.
- Ci penserete voi al telegrafo? - diss'ella un momento dopo.
Barbetti esitò.
- Va bene, ci penserò io...
c'è tempo...
-
Una dozzina di persone pigiavansi nel camerino.
E delle altre teste si ammonticchiavano all'uscio, degli altri visitatori sopraggiungevano: il direttore d'orchestra che veniva a congratularsi "del legittimo successo", un compositore famoso per cercare dei complimenti da per tutto, col pretesto di farne agli altri:
- Ah, signora Celeste, non ci siete che voi!...
il vostro metodo!...
la vostra voce!...
l'arte vostra!...
-
Per cinque minuti si parlò anche d'arte e di musica.
Il giovanetto tartaglione, strozzato dall'emozione, balbettò qualche frase sconnessa, facendosi rosso, di una fiamma sincera d'entusiasmo che avvivava le sue guance e i suoi occhi giovanili, e faceva sorridere la commediante.
La poetessa si fece avanti alla fine, bisbigliando a mezza voce:
- Mia cara...
Non ho saputo resistere...
Quali sensazioni deliziose!...
-
Il principe si era alzato per cederle il posto; ma essa preferiva drappeggiarsi nel suo mantello, per recitare con voce dimessa un madrigale pomposo.
Barbetti che si era messo a sedere sul bracciolo del canapè e la guardava insolentemente, si chinò poi all'orecchio della signora Celeste, dicendole:
- Ah, figliuola mia, se m'innamorate anche le donne, adesso!...
-
L'attrice riceveva tutti quegli omaggi negligentemente seduta sul canapè, come in trono, sorridendo a mala pena di tanto in tanto, in aria distratta, quasi tendesse ancora l'orecchio al rumore degli applausi, quasi cercando ancora il suo pubblico delirante coll'occhio assorto che fissavasi incerto su chi parlava.
E tornava a sorridere incontrando gli occhi sfavillanti del giovinetto ingenuo che la divoravano.
Fragranze rare e delicate emanavano dai fiori ammucchiati da per tutto, sulla poltrona, sulle seggiole, sul tavolinetto che reggeva lo specchio, fra le quinte: dei mazzi enormi, dei monogrammi inquadrati su dei cavalletti, delle giardiniere che impedivano il passo e che nessuno guardava; un profumo delizioso di vari odori che andava alla testa e inebbriava al pari della musica, al pari dell'amore d'Aida, al pari delle parole sonanti accompagnate dal ritmo armonioso, al pari degli applausi della platea, dei tanti visi accesi per lei, dei tanti cuori che essa aveva fatto palpitare, di tante fantasie e tanti vaghi desideri che essa aveva destato e che erano venuti a deporsi ai suoi piedi, coll'adulazione ingenua e ardente del collegiale che aveva osato mandarle la sua dichiarazione d'amore per la posta, col francobollo da cinque centesimi: - "Stanotte vi ho sognata...
Mi pareva di essere sotto un bell'albero, in un ameno giardino...
e un usignuolo cantava colla vostra voce..." - oppure colla lusinga che era nell'articolo del giornale e nei versi dedicati a lei: "Celeste scende degli umani al core..." - "Per descrivere le impressioni veramente celestiali destate dal canto della grande artista signora Celeste..." - Le parole e le frasi che l'avevano inneggiata in tanti modi si ripetevano in quel momento vagamente dentro di lei, quasi un'altra armonia interiore, tutte quante, le più insulse come le più artificiose; le facevano gonfiare il cuore egualmente del ricordo di tutti i suoi ammiratori - dall'adolescente imberbe che rizzavasi in piedi affascinato, dietro le spalle della mamma, nel palchetto di proscenio, al giornalista che smetteva il sorriso canzonatorio quando le parlava - al diplomatico che disertava il Circolo per lei, e le offriva le ultime fiamme avanzate dalle emozioni del giuoco e della gran vita - all'operaio che le gridava brutalmente il suo entusiasmo dalla piccionaia.
- Tutti, tutti.
- Fin l'impresario che si mostrava amabile - fino il telegramma che andava a cercarla in capo al mondo - fino il cronista di provincia che assediava il portiere del suo albergo - dovunque, in ogni piazza, fin nelle stagioni di riposo, ai bagni, ai quattro punti cardinali, sempre, lo stesso culto l'era stato tributato in tutte le lingue, lo stesso sentimento essa aveva letto in viso ad ammiratori di tutte le razze, il sentimento che le indicava il valore della sua persona e ispiravale l'amore di tutto ciò che riferivasi a lei, il teatro, l'arte, Aida, Valentina, Margherita, tutte le creazioni che incarnavansi in lei.
E sentiva a momenti in quel trionfo di sé, in quell'orgoglio sconfinato del suo io, una tenerezza, una gratitudine, una simpatia, un'indulgenza per tutti gli omaggi che erano venuti a lei, comunque fossero, da qualunque parte venissero, e che si personificavano in tanti ricordi, in tante date, dei momenti deliziosi, delle parole che le avevano fatto palpitare il cuore un momento, di qua e di là...
Chi poteva rammentarsi? Delle fisonomie e dei lembi di paesaggio le tornavano dinanzi agli occhi, di tanto in tanto: dei visi che dovevano turbarsi anch'essi, quando leggevano il suo nome nelle gazzette sparse ai quattro venti della terra, o il suo ritratto, sparso anch'esso ai quattro venti della terra, tornava a cadere loro sott'occhio.
L'avevano tutti, il suo ritratto, nel giornale illustrato, nella vetrina dell'editore, sulle cantonate della via; i fotografi lo tiravano a centinaia di dozzine, ed essa se lo lasciava dietro, in ogni città, a dozzine intere, per tutti quanti, come dava a tutti quanti i tesori del suo canto, le emozioni della sua anima, i segreti della sua bellezza.
Perché accordare delle preferenze quando aveva bisogno dell'ammirazione di tutti? Perché imporsi certi riserbi, vincolare il suo cuore o il suo capriccio, se doveva mutare amici e paese a ogni mutar di stagione, se nessuno le sarebbe stato grato della costanza, se la sua dignità stessa di donna doveva essere diversa da quella delle altre? E una malinconica dolcezza le veniva da tanti ricordi confusi, nello stordimento e nella vaga lassezza di quell'ora.
E sorrideva più volentieri al giovinetto bleso di cui l'adorazione ingenua ridava una specie di verginità a quelle memorie.
E il bel Re di cuori, collo sguardo supplichevole, implorava invano da lei quella sera l'occhiata complice che avrebbe dovuto assentire e promettere...
Egli aspettava sempre, paziente e rassegnato, aiutando a porre in ordine lo stanzino, scegliendo i fiori da mettere da parte, cedendo il posto ai nuovi visitatori, dando sottovoce degli ordini alla cameriera, la quale affrettavasi a riporre i regali che brillavano sulla tavoletta, segnati da biglietti da visita.
Macerata, che covava cogli occhi da un pezzo il suo, non seppe tenersi dal protestare:
- Come?...
Senza farceli neppure ammirare?...
Senza "farci vedere il cuore degli amici?..." -
Gli astucci allora passarono di mano in mano, ammirati, lodati, sotto gli occhi sospettosi della cameriera, la quale si teneva ritta presso la cortina che nascondeva il fondo del camerino.
Si ripeté un altro coro di esclamazioni:
- Bello! - Elegantissimo! - Stupendo! - Il banchiere insisteva sull'intenzione che esprimeva il suo dono, uno spillo a ferro di cavallo di brillanti.
- Per dare un bel calcio alla jettatura! - Nella confusione poi alcuni dei biglietti che accompagnavano al dono il nome del donatore andarono smarriti, prima che la diva si fosse degnata di accorgersene.
Un magnifico vezzo di perle non si sapeva più da chi fosse stato offerto.
- Eh, giacché siete tanto indiscreti...
Sono stato io, là! - disse infine Barbetti.
Tutti quanti scoppiarono a ridere, compresa la signora Celeste, quasi Barbetti avesse spacciato la panzana più matta.
Il principe assentì anche col capo.
In quella fece capolino all'uscio un inserviente del palcoscenico, sorridendo alla seratante come uno che aspetti la mancia anche lui, porgendole a mano un biglietto da visita.
- C'è questo signore...
Dice che la conosce tanto...
-
L'attrice studiava il biglietto, cercando di rammentarsi quel nome, quando entrò il signore che essa conosceva tanto, un bel giovane forestiero, riccioluto e azzimato all'ultima moda, il quale però rimase un po' male, trovandosi a un tratto in sì bella compagnia, al cospetto della diva in soglio che lo guardava d'alto in basso, per raccapezzarsi, e di tutta la sua corte.
- Scusatemi, Celeste...
- balbettò lui.
- Ho letto sui giornali...
Presi subito il treno...
Non potevo immaginare una cosa simile...
-
E com'ella seguitava a guardarlo in quel modo imbarazzante, senza rispondere, in mezzo al silenzio ostile di tutto l'uditorio, il povero giovane perse del tutto la tramontana, cercando d'aiutarsi alla meglio.
- Ettore...
Ettore Baroncini di Sinigaglia...
Vi rammentate...
per la fiera?
- Ah!...
- fece lei.
- Oh! -
Ettore Baroncini, incoraggiato dai due monosillabi insidiosi, si lasciò sfuggire:
- N'è passato del tempo, eh! -
Non aggiunse altro, mortificato del sorriso glaciale di lei, che riprese immediatamente a discorrere col principe, volgendo le spalle all'amico Baroncini e alla fiera di Sinigaglia, con un certo sorriso fine per giunta, che aveva tutta l'aria d'essere dedicato a lui, e che gli tolse il coraggio finanche d'andarsene insalutato ospite, e lo inchiodò al posto in cui era.
- Allora - riprese Barbetti, quasi continuando un discorso incominciato.
- Allora direi che il donatore incognito è già bell'e trovato...
E vuol dire che non sarò stato io, pazienza! -
D'Antona, mentre gli altri si accingevano a ridere di nuovo, disse galantemente alla bella signora:
- Chiunque sia stato l'ammiratore incognito...
Ne avrete tanti!...
Volete permettermi di rappresentarlo? -
Ella che aveva già indovinato sorridendo gli stese la mano, che il principe si mise a baciare ghiottamente, fra il serio e il faceto, sulla palma, sul polso, salendo su pel braccio che sembrava inzuccherato dalla polvere di cipria, mentre la Celeste rideva quasi le facesse il solletico, fingendo di voler svincolarsi, esclamando:
- No! no! basta! Così ve la pigliate per venti ammiratori! -
Macerata reclamava intanto la sua parte, e degli altri pure, cortesemente.
Solo la poetessa accomiatavasi a labbra strette, e il giornalista agitava il gibus quasi per scacciare delle mosche, ripetendo:
- Via, via, signori miei...
dinanzi alla gente...
dei forestieri anche!...
-
Il signore forestiero, ancora rosso dall'emozione, aveva fatto la bocca al riso anche lui, per non restar da grullo, tormentandosi i baffi, girando intorno, suo malgrado, uno sguardo inquieto, sulla comitiva di cui la sola faccia simpatica gli sembrò allora quella del bel giovane taciturno, il quale lisciavasi i baffi anche lui, sorridendo a fiori di labbro anche lui.
Di fuori intanto il macchinista strepitava per far sgombrare il palcoscenico:
- La vita!...
Signori!...
Abbiano pazienza! - Gli ammiratori della cantante, che erano rimasti sull'uscio, ondeggiavano di qua e di là.
Degli altri mazzi di fiori furono cacciati nel camerino alla rinfusa.
Il cavalletto e la giardiniera furono spazzati via.
Si udì un correr frettoloso, uno sbatter di usci, delle voci di comando, e uno schiamazzar di voci femminili.
- Il ballo! In scena pel ballo! -
Lo stesso impresario, che era tutto miele un quarto d'ora prima, mandava ora al diavolo gli importuni.
- Signori miei...
un po' di pazienza...
Il pubblico s'impazienta!
- Se si andasse a cena? - propose Macerata.
La signora Celeste fece una smorfia che diceva di no.
Ma il banchiere torno ad insistere e a farle dolce violenza, chino verso di lei, prendendole la mano, parlandole sul collo in un certo modo che faceva arricciare il naso al Re di cuori e all'amico di Sinigaglia.
Barbetti però approvava il rifiuto.
- Andiamoci pure a cena, ma senza di lei.
Lei ha bisogno di riposare, poverina.
Lasciateli dire, mia cara.
Questa gente non sa cosa significhi una serata simile...
- Il bel Re di cuori infine perse la pazienza, borbottando che non era quella la maniera...
Ettore Baroncini in cuor suo fece lega con lui.
- Ma no! ma no! - diss'ella.
- Andate via, piuttosto! Non posso mica spogliarmi dinanzi a tutti quanti.
- Oh! - Perché mai?...
- Magari!...
- C'est juste mais sévère! - conchiuse il banchiere.
- Bello! bellissimo...
le mot de la fin!... - esclamò Barbetti, e intanto spingeva fuori la gente, come uno di casa.
Il Re di cuori era rimasto cercando il cappello, aspettando dalla diva la parola o l'occhiata che essa gli aveva promesso per quella sera.
- Caro Sereni, - gli disse Barbetti.
- non facciamo dei gelosi...
- Barbetti, ehi! il telegrafo l'avete dimenticato? - esclamò la signora Celeste passando la testa nell'apertura della tenda.
- Eh, no...
pur troppo...
- A Milano! E rammentatemi anche a Napoli, dove farò la quaresima...
Non lo dimenticate...
Vi accompagnerà Sereni perché non lo dimentichiate, al vostro solito...
Aspettate, Sereni, vi do un rigo per memoria -.
E lì, scrivendo sul ginocchio anche lei come Barbetti, colla tunica di Aida semiaperta che scopriva il fine contorno della gamba coperta dalla maglia carnicina, buttò due parole su di un pezzetto di carta strappato da un mazzo di fiori, e sporse dalla tenda il braccio nudo per dare il bigliettino a Sereni, il quale lo prese avidamente, mentre dietro la cortina, con un fruscìo frettoloso di vestiti, si udiva ancora la bella voce allegra di lei ripetere:
- Andatevene! Andate via tutti quanti! -
I suoi fedeli però l'aspettavano ostinatamente dietro l'uscio del camerino, Macerata che voleva aver l'onore di darle il braccio sino alla carrozza, il principe d'Antona discorrendo con una figurante che non gli nascondeva nulla, Ettore Baroncini il quale non sapeva risolversi ad andarsene dopo aver preso apposta il treno, temendo di passare per uno zotico, Sereni che fiutava un rivale e Barbetti che odorava la cena.
Finalmente la bella ricomparve col berrettino di lontra sugli occhi, imbacuccata sino al naso, seguìta dalla cameriera contegnosa che portava la borsetta delle gioie, sgridando Barbetti e tutti gli altri, che si precipitavano ad accompagnarla, Macerata impadronendosi del braccio di lei che gli era costato uno spillo di brillanti, il principe staccandosi garbatamente dalla figurante, la quale schermivasi allora coprendo il petto colle mani, Barbetti canticchiando:
- Andiam! partiam! a cena andiam!...
Non dico a voi, cara Celeste.
Voi anderete a dormire tranquillamente...
Sentirete che brindisi, dal vostro letto!...
- Ah! meraviglia delle meraviglie! Angeli e ministri di grazia, soccorretemi voi! -
Quest'ultimo complimento era diretto all'altra diva del ballo "La stella" che attraversava in quel punto il dietro scena, seminuda, colle spalle e il seno appena coperti da una ricca mantellina, tutta vaporosa nella cipria e nei veli diafani, col viso mordente delle labbra e degli occhi tinti che salutava gli amici e gli ammiratori della cantante, suoi ammiratori anch'essi e suoi amici, quasi librandosi sulla punta delle scarpette di raso all'incitamento della musica che la chiamava, per correre all'applauso che aspettava impaziente lei pure.
Il tenore, con cui la diva del canto aveva delirato d'amore in musica, e per cui era morta sul palcoscenico mezz'ora prima, le passò vicino adesso senza salutarla, rialzando il bavero della pelliccia, col fazzoletto sulla bocca.
Ed essa non lo guardò neppure, scambiando invece un'occhiata ostile coll'altra diva della danza.
- No, no, non vi lascio andar sola...
Ho paura che vi rubino, i vostri ammiratori...
- diceva il principe che ostinavasi a voler montare in carrozza con lei, dopo aver messo da banda tranquillamente Macerata.
Ed essa rispondeva con la risatina squillante: - Sciocco!...
via! andate via!...
Barbetti?...
- Sì, sì, il telegrafo, non l'ho dimenticato.
Signori belli, cosa si fa adesso? Si va a cena, a finir la serata della diva? Ehi, dico, Sereni, è quanto possiamo far di meglio.
Non ti cavare gli occhi sotto quel lampione, che lo scritto so io cosa dice -.
Ma il principe si scusò dicendo di avere un appuntamento al Circolo, e Macerata non si sentiva di pagare anche i brindisi che gli altri avrebbero fatti alla diva.
Rimasero Baroncini, il quale non voleva passare per straccione o per avaro, ricusando di pagar da cena, e Sereni che aveva letto: "Impossibile per questa sera, mio caro...
Abbiate pazienza...
Sono affranta...
Sognerò di voi...".
Per altro, tutti e due avevano bisogno di pensare alla diva, vicino a degli altri che avrebbero pure pensato a lei o parlato di lei.
Nei fumi del vino, più tardi, poiché Baroncini aveva fatto le cose per bene, Barbetti, commosso anche lui, sentenziava:
- Cari amici miei...
Il telegrafo non sapete cosa significhi...
L'impresario...
l'agente teatrale...
Dei colpi di gran cassa per far quattrini...
Siamo giusti...
il mondo gira su di un pezzo da cinque lire...
Ciascuno secondo il suo mestiere...
L'arte, il giornalismo...
tutte belle cose...
Segui bene il mio ragionamento, Sereni...
Io sono un artista...
Bene...
io appartengo al pubblico...
il pubblico è il mio amante...
Tu sei innamorato di me, artista...
bene...
Se Venere, in camicia, venisse a dirmi in certi momenti...
Barbetti, dammi una notte d'amore...
No, no, e poi no! -
IL TRAMONTO DI VENERE
Quando Leda, astro della danza, splendeva nel firmamento della Scala e del San Carlo, come stella di prima grandezza, contornata di brillanti autentici, e regalava le sue scarpette smesse ai principi del sangue e del denaro, chi avrebbe immaginato che un giorno ella sarebbe stata ridotta a correre dietro le scritture e i soffietti dei giornali, cogli stivalini infangati e l'ombrello sotto il braccio - a correre specialmente dietro un mortale qualsiasi, fosse pur stato Bibì, croce e delizia sua?
Poiché Bibì era anche un mostro, un donnaiuolo, il quale correva dal canto suo dietro tutte le gonnelle, e concedeva perfino i suoi favori alle matrone ancora tenere di cuore, adesso che la sua Leda batteva il lastrico, in cerca di scritture e di quattrini, e lui aspettava filosoficamente la dea Fortuna al Caffè Biffi, dalle 5 alle 6, nell'ora in cui anche le matrone s'avventurano in Galleria - oppure tentava di sforzarla - l'instabil Diva - a primiera o al bigliardo, tutte le notti che non consacrava alla dea Venere, come chiamava tuttora la sua Leda, quand'era fortunato alle carte o altrove, o quando non la picchiava, per rifarsi la mano.
Ahimé sì! L'indegno era arrivato al punto di fare oltraggio ai vezzi per cui aveva delirato, un tempo - per cui i Cresi della terra avevano profuso il loro oro.
Le rinfacciava adesso, brutalmente: - Dove sono questi Cresi? -
Ah, l'ingrato, che dimenticava quanto gliene fosse passato per le mani di quell'oro; con quanta delicatezza la sua Leda gliene avesse celato spesso la provenienza, per non farlo adombrare, lui che era tanto ombroso, allora! E i sottili artifici, le trepide menzogne, i dolci rimorsi che rendevano attraente l'inganno fatto all'amante, per l'amante stesso, onde legarlo col beneficio! E le care scene di gelosia, e le paci più care!...
Che importa il prezzo? Non era lui il suo tesoro, il suo bene?
Ma ciò che ora rendeva furiosa specialmente la povera dea Venere, erano le infedeltà gratuite e umilianti di Bibì; gli idilli che le toccava interrompere dinanzi alla tromba della scala, colle serve del vicinato; il lezzo di sottane sudice che egli le portava in luogo di violette di Parma.
Aveva un vulcano in corpo, l'indegno! Ardeva per tutte quante della stessa fiamma che consumava lei pure, ahi derelitta - di persona e di beni!
O dolcezze perdute, o memorie! Quando invece Bibì correva dietro a lei, come un pazzo, in quella memorabile stagione dell'Apollo che fece perdere la testa anche a dei principi della Chiesa! Ebbene, essa aveva preferito Bibì, né signore né principe, allora, ma giovin, studente e povero, venuto dal fondo di una provincia, ricco solo di entusiasmi, per imparare musica, o pittura - una bell'arte insomma.
La più bell'arte, per lui, fu di saper conquistare, senza spendere un quattrino, il cuore di Leda, la quale in quell'epoca teneva legata al filo dei suoi menomi capricci quasi una testa coronata.
Capriccio per capriccio, essa preferì il nuovo, quello che aveva il sapore del frutto proibito, un'attrattiva insolita, la freschezza e la grazia di un primo palpito: - Lettere, mazzolini di fiori, incontri semifortuiti al Pincio, ogni fanciullaggine, in una parola.
Ei ripeteva, supplice, come un eroe della scena: - Un'ora!...
e poi morire!...
- No! - rispose ella alfine.
- No! Vivere e amar! -
Amor, sublime palpito!...
Il fatto è che ne fu presa anche lei stavolta, allo stesso modo che aveva fatto ammattire tanti altri.
- Ma presa, là, come si dice, pei capelli.
Così il fortunato giovane ascese furtivo all'ambìto talamo del geloso prence.
Gli schiuse l'Eden lei stessa, tremante, a piedi nudi - i divini piedi cantati in prosa e in versi! - Bibì, che a sentirlo era un leone indomito, tremava anche lui come una foglia.
E se lo prese, lei, trionfante per la prima volta! - Come sei timido, fanciullo mio! -
Tanto che Sua Altezza, seccato alfine da quelle fanciullaggini, degnò aprire un occhio, e li scacciò dall'Eden.
Che importa? Il mondo non era seminato di teatri e di mecenati che portavano in palma di mano lei e Bibì? Soltanto, come i principi son rari, e i mecenati vogliono sapere dove vanno a finire i loro denari, i due amanti fecero le cose con maggior cautela, e le fanciullaggini a usci chiusi.
Bibì era felice come un Dio, viaggiando da una capitale all'altra, in prima classe, ben vestito, ben pasciuto, a tu per tu cogli impresari e i primi signori del paese che accorrevano a fare omaggio alla sua diva.
Se bisognava ecclissarsi qualche volta discretamente dinanzi a loro, lo faceva con un sorriso che voleva dire: - Poveretti! - Le stesse scene di gelosia sembravano combinate apposta per infiorare quel paradiso, come una carezza all'amor proprio di entrambi, una protesta dignitosa dell'amante, e una delicata occasione offerta all'amata di tornare a giurargli e spergiurargli la sua fede: - No, caro!...
Lo sai!...
Sei tu solo il signore e il padrone...
Ecco! -
Basta, ora si trattava di non lasciarsi sopraffare da quell'intrigante della Noemi, che le rapiva agenti ed impresari, alla Leda, con tutte le armi lecite e illecite, e le portava via le scritture - una che non aveva dieci chili di polpa sotto le maglie! - E le portava via anche Bibì, il quale si dava il rossetters ai baffi, e si metteva in ghingheri per andare ad applaudirla, gratis et amore.
- Ma il ballo nuovo del cavalier Giammone non me lo porta via, no! - giurò a se stessa la bella Leda.
Da un mese, Barbetti e tutti gli altri giornalisti che vendono l'anima a chi li paga, non facevano altro che rompere la grazia di Dio ad artisti ed abbonati con quel nome della Noemi stampato a lettere di scatola.
Già erano in tanti a far la spesa degli articoli, i protettori della casta vergine! Ma il ballo nuovo del cavalier Giammone non l'avrebbe avuto, no!
Il cavaliere stava appunto parlandone coll'impresario, chiusi a quattr'occhi, dinanzi al piano del Gran Poema storico-filosofico-danzante, sciorinato sulla tavola, allorché capitò all'improvviso la signora Leda, in gran gala, e col fiato ai denti.
- Cavaliere mio!...
scusatemi!...
Non si parla d'altro sulla piazza!...
Sarà un trionfo, vi garantisco!...
Lasciatemi vedere...
- Ah! - sbuffò il coreografo colto sul fatto.
- Oh!...
-
E si buttò sulle sue carte, quasi volessero rubargliele.
L'impresario, dal canto suo, diede una famosa lavata di capo al povero tramagnino che stava a guardia dell'uscio.
- Ho dato ordine di non essere disturbato, quando sono in seduta! Nessuno entra senza essere annunziato!...
-
Dopo tanti anni che le porte si spalancavano dinanzi a lei, e gli impresari le venivano incontro col cappello in mano! Se non la colse un accidente, fu proprio un miracolo.
Barbetti, che la incontrò all'uscita così rossa e sconvolta, non poté tenersi dal dirle ridendo:
- Come va, bellezza?
- Senti! - rispose lei, fuori della grazia di Dio davvero; - senti, faresti meglio a stare alla porta della Noemi, per vedere chi va e chi viene, giacché fai quel bel mestiere! -
All'occasione la signora Leda aveva la lingua in bocca anche lei - la bocca amara come il tossico.
- Per rifarsela dovette fermarsi al Biffi, a bere qualche cosa.
Bibì era là, al solito, in trono fra gli amici.
Tutti quanti, ad uno ad uno, per far la corte a lei e a lui, cominciarono a dire ira di Dio della Noemi - che non aveva scuola - che non aveva grazia - che non aveva questo e non aveva quest'altro.
Già l'avevano tutti quanti a morte coll'Impresa che lasciava disponibili i migliori soggetti.
Poi, dopo che l'amorosa coppia si fu congedata, fra grandi inchini e scappellate - Bibì stavolta volle accompagnare la sua signora per sentir bene come era andata a finire, un po' inquieto e nervoso in fondo, ma disinvolto, giocherellando colla mazzettina, lei tutta arzilla e saltellante, col sorriso di cinabro e le rose sulle guance (quantunque si sentisse soffocare nella giacchetta attillata) per non dar gusto ai colleghi, Scamboletti, il celebre buffo, ch'era anche il burlone della compagnia, mandò loro dietro questo saluto:
- Lei sì che n'ha della grazia di Dio!...
Una balena! - Anzi citò un'altra bestia.
- Senza invidia però, Bibì! -
Senza invidia, a lui, Bibì, ch'era un pascià a tre code, e di donne ne aveva sino ai capelli, damone e titolate?...
Basta, era un gentiluomo! E sapeva anche quello che andava reso alla sua signora.
Ma in quanto all'arte però non era partigiano, e ammirava ugualmente tutti i generi.
Leda era del genere classico? E lui l'aveva fatta subito scritturare al Carcano, un teatro di cartello anche questo, non c'è che dire.
Oggi, pei balli grandi, bastano le seconde parti, gambe e macchinario.
Piacciono anche questi? Ebbene, batteva le mani lui pure, senza secondi fini.
Ma la Leda, che non aveva più un cane che le battesse le mani, era diventata gelosa come un accidente, e gli amareggiava la vita, povero galantuomo.
Lagrime, rimproveri, scene di famiglia continuamente.
Alle volte, magari, lui doveva buttar via il tovagliolo a mezza tavola, per non buttarle il piatto in faccia.
Tanto, quella poca grazia di Dio gli andava tutta in veleno.
Si rappattumavano dopo, è vero; perché quando si è fatto per un uomo quello che aveva fatto lei!...
- E quando si è un gentiluomo come era lui!...
Ma però artisti l'uno e l'altra, dopo la commedia delle paci e delle tenerezze si tenevano d'occhio a vicenda, e la signora Leda, a buon conto, aveva messo un tramagnino alle calcagna di Bibì, per scoprire il dietro scena nel repertorio delle sue tenerezze.
Talché gli amici al vederlo sempre con la guardia del corpo, gli affibbiarono il titolo di Re di picche.
Infine tanto tuonò che piovve, la sera stessa della beneficiata di Leda, che non c'erano duecento persone al Carcano.
Ella cercò di sfogarsi con Bibì "il quale faceva il risotto" alla Noemi, invece! lui e i suoi amici! bestie e animali tutti quanti, che non sapevano neppure dove stesse di casa il vero merito! e si lasciavano prendere all'amo dalle grazie di quella diva, la quale rideva di loro, poi - sicuro! - di lui pel primo! - Gonzo!
- Via, fammi il piacere! - interruppe Bibì accendendo un mozzicone di sigaro dinanzi allo specchio.
- Ah, non vuoi sentirtela dire? Già, quella lì non ti piglia certo pei tuoi begli occhi, mio caro! - Schizzava fuoco e fiamme dagli occhi, lei, colle ciglia ancora tinte e il rossetto sulla faccia, così come si trovava all'uscire dal teatro, una Furia d'Averno - dopo tutto quello che aveva fatto per lui, e le occasioni che gli aveva sacrificato, ricconi e pezzi grossi, che se avesse voluto, ancora!...
- Fammi il piacere, via! - tornò a dire Bibì con quel ghignetto che la faceva uscire dai gangheri.
- Allora senti! Bada bene a quello che fai! Bada bene, veh! Che son capace di andare a romperle il muso, alla tua casta diva! - E qui un mondo di altre porcherie: - che lui era roba sua, di lei, giacché lo pagava e lo manteneva, e si rompeva la grazia di Dio, laggiù al Carcano, per mantenergli anche la casta diva! - Allorché era in bestia la signora Leda sbraitava tal quale come la sua portinaia, e vomitava gli improperi che aveva inteso al Verziere, quando stava da quelle parti.
- Puzzone! Svergognato! Ti pago perfino il sigaro che hai in bocca!...
- Scendere sino a queste bassezze, via! Talché Bibì stavolta perse il lume degli occhi e l'educazione, e gliene disse d'ogni specie anche lui, buttando in aria ogni cosa, dediche, omaggi, ritratti e corone sotto vetro, tutto quanto v'era in salotto, e quando non ebbe più che dire buttò anche le mani addosso a lei, senza riguardo neppure al rossetto e alle finte che costavano 50 lire al paio.
- Già al Carcano non ci avrebbe ballato più per un pezzo, la brutta bestia, tante gliene diede, - e il meglio era di prendere il cappello e andarsene via, poiché il vicinato era tutto sul pianerottolo, e colla Questura lui non voleva averci a che fare di nuovo, dopo che gli aveva rotto le scatole per altre sciocchezze.
Stavolta sembrava bell'e finita per sempre fra Bibì e la sua signora.
- Ciascuno per la sua strada, e alla grazia di Dio tutt'e due, in cerca di miglior fortuna, - se non fossero stati i buoni amici che vi si misero di mezzo.
Tanto, dopo tanto tempo che stavano insieme, erano più di marito e moglie.
No, lei non poteva starci senza Bibì.
Fosse sorte, fosse malìa, la teneva legata ad un filo, come essa ne aveva tenuti tanti, uomini seri, ed uomini forti, che in mano sua sembravano delle marionette.
E anche Bibì, a parte l'interesse, un cuor d'oro in fondo, che non si poteva dire lo facesse muovere l'interesse, ormai.
Non tornò a servirla in ogni maniera e a procurarle le scritture egli stesso? in America, in Turchia, dove poté, giacché al giorno d'oggi soltanto laggiù sanno conoscere ed apprezzare le celebrità.
- Prova i vaglia postali che lei mandava, poco o molto, quanto poteva.
Un cuor d'oro.
E allorché la povera donna batté il bottone finale, e sbarcò a Genova senza un quattrino, bolsa e rifinita, chi trovò alla stazione, a braccia aperte? Chi si fece in quattro per scovarle qua e là mezza dozzina di ragazze promettenti, e insediarla maestra di ballo addirittura? Chi le prestò i mezzi, a un tanto al mese, per metter su "pensione d'artisti" - una speculazione che sarebbe riuscita un affarone, se non ci si fosse messa di mezzo la Questura, che l'aveva particolarmente con Bibì?
E come ogni cosa andava di male in peggio, cogli anni e la disdetta, chi le prestò qualche ventina di lire, al bisogno, di tanto in tanto, quando si poteva? Dio mio, le ventine di lire bisogna sudare sangue e acqua a metterle insieme; e quando si diceva prestare, da lui a lei, era un modo di dire.
E al calar del sipario, infine, allorché la povera Leda andò a finire dove finiscono gli artisti senza giudizio, chi andò a trovarla qualche volta all'ospedale, e portarle ancora dei soldi, se mai, per gli ultimi bisogni?
Bibì ne aveva avuto del giudizio, è vero, e un po' di soldi aveva messo da parte, col risparmio e gli interessi modici, tanto da render servizio a qualche amico, se era solvibile, e da far la quieta vita, coi suoi comodi e la sua brava cuoca.
Perciò quelle visite all'ospedale gli turbavano la digestione, gli facevano venire le lagrime agli occhi, e non era commedia, no, quando ne parlava poi cogli amici, al caffè.
- Bisogna vedere, miei cari! Una cosa che stringe il cuore, chi ne ha! L'avreste creduto, eh? Lei abituata a dormire nella batista!...
E ridotta che non si riconosce più...
Un canchero, un diavolo al petto...
che so io...
Non ho voluto vedere neppure.
Lei ha sempre la smania di far vedere e toccare a tutti quanti.
E delle pretese poi! Certe illusioni!...
Non si dà ancora il rossetto? Misera umanità! Ieri, sentite questa, vo sin laggiù a Porta Nuova, apposta per lei, con questo caldo, e trovo la scena della Traviata: "O ciel morir sì giovane..." "Mia cara:..
giovani o vecchi...
Voi guarirete, ve lo dico io!" "Ah! Oh!" Allora viene la parte tenera, e vuol sapere se sono sempre io...
lo stesso amico...
da contarci su...
"Certo...
certo...
Diamine!..." O non mi esce a dire di condurla via? Sissignore - che una volta via di lì è sicura di guarire - che vogliono operarla - che ha paura del medico: "Per carità! Per amor di Dio!" "Un momento, cara amica! Che diamine, un momento!" Ella si rizza come una disperata, afferrandomi pel vestito, baciandomi le mani...
Non ci torno più, parola d'onore! -
E vedendo che ci voleva anche quello, dalla faccia degli amici, Bibì asciugò una furtiva lagrima.
PAPA SISTO
Di commedianti come Vito Scardo non ne nascono più a Militello, massime dacché fu toccato dalla grazia, e da povero diavolo arrivò ad essere guardiano dei cappuccini, come Papa Sisto.
Dopo aver provato cento mestieri - e averne fatte d'ogni colore anche, dicevasi, colla donna e la roba altrui - ridotto colle spalle al muro, malandato di borsa e di salute, Vito Scardo capì alfine: - Qui bisogna mutar strada -.
Era l'anno della fame per giunta, che i seminati, dal principio, dissero chiaro che si voleva ridere quell'inverno, e tutti quanti, poveri e ricchi, si strappavano i capelli, alla raccolta.
Vito Scardo stava bestemmiando anche lui nell'aia di massaro Nasca - compare Nasca sfogandosi coi figliuoli a pedate - sua moglie covando le spighe magre cogli occhi arsi e il lattante al petto - lo stesso marmocchio che si disperava e non trovava nulla da poppare - una desolazione insomma da per tutto, per la campagna brulla, senza una canzone o un suono di tamburello, quando si vide arrivare fra Angelico, quello della cerca, fresco come una rosa, trottando allegramente sulla bella mula baia dei cappuccini.
- Sia lodato San Francesco! - E lodato sia, fra Angelico! - disse compare Nasca fuori della grazia di Dio stavolta.
- Che a voi altri, benedica, il pane e il companatico non ve lo fa mancare San Francesco!...
Sangue di!...
Corpo di!...
- Le bestemmie della malannata, in una parola.
Ma fra Angelico se ne rideva.
- O dunque chi prega Domeneddio per la pioggia e pel bel tempo, gnor asino? -
Un pezzo di tonaca sulle spalle, una presa di tabacco qua e là, il buon viso e la buona parola, e fra Angelico raccoglieva grano, olio, mosto, senza bisogno di mietere né di vendemmiare, e senza pensare ai guai e a malannate, ché al convento, grazie a Dio, il caldaione era sempre pieno, e i monaci non avevano altro da fare che ringraziare la Provvidenza e correre lesti al refettorio quando suonava la campanella.
- Quello è il mestiere che fa per me, - disse allora Vito Scardo.
Di lì a poco, un bel giorno - volontà di Dio - lo trovarono tutto pesto e malconcio nel podere di Scaricalasino, o che l'avessero colto a cerca di olive senza permesso del padrone del campo, e senza la tonaca di San Francesco, o che a Scaricalasino quella notte gli dicessero le corna di tornare a casa insalutato ospite.
Il fatto è che glie ne diedero tante, al povero Vito Scardo, da lasciarlo più morto che vivo, e in quell'occasione volle confessarsi dal guardiano dei cappuccini appunto.
- Padre Giuseppe Maria - disse veramente contrito - padre Giuseppe Maria, o me ne vo in paradiso, o prometto di cambiar vita e fo voto di darmi a Dio.
- Va bene, va bene.
A questo c'è tempo -.
Il guardiano credeva che fossero le solite chiacchiere di ogni galantuomo ridotto al mal passo, e promise d'aiutarlo anche, per sbrigarsene.
Ma però non furono chiacchiere.
Vito Scardo aveva la pelle e la testa dura.
Non s'era fitto in capo di mutar vita? O dunque perché gli aveva promesso Roma e torna quel servo di Dio? Il guardiano, di lì a un mese, come se lo vide capitar dinanzi con quel dettato, sano come una lasca, fece il segno della croce: - Monaco tu? Non ci mancherebbe altro adesso! - E vossignoria che vi cresceva qualche cosa? Per arrivare guardiano anche!...
-
Voi che avreste fatto? Un arnese come Vito Scardo, che puzzava di tutti i sette peccati mortali! Però egli giurava che era un altro, ormai.
Lo pigliassero a prova.
Tanto disse e tanto fece che il povero guardiano dovette pigliarlo a prova, pel vitto e la tonaca soltanto, frate converso.
- Se la tonaca fa questo miracolo, vuol dire ch'è una santa cosa davvero, figliuol mio!-
Basta, o che la tonaca abbia fatto il miracolo, o che sia stato il bisogno a far trottare l'asino, Vito Scardo divenne l'esempio della comunità.
Bravo, modesto, prudente - le donne, magari, non le guardava neanche, in strada.
- E per la cerca poi valeva un Perù; meglio di fra Angelico, ch'è tutto dire.
La gente al vederlo così cambiato, che pareva un santo, diceva: - Questa è opera di San Francesco.
- E mandava elemosine.
Però c'era ancora quella certa tizia che tirava a fargli perdere il pane - comare Menica la moglie di Scaricalasino, dopo che suo marito era andato in galera per le legnate di quella notte - lei a tentarlo fino in chiesa, e occhiate di fuoco, e imbasciate con questa e con quella.
Una sera poi l'appostò al cancello del podere, che tornava tardi dalla cerca e non passava un cane, e lo strinse proprio colle spalle al muro: - Dopo averla messa in quello stato - né vedova né maritata! - E tutto quello che aveva fatto per lui! - Le legnate che s'era prese! - Sissignore! Eccole qua! - Quasi quasi si spogliava lì dov'era, dietro la siepe.
La siepe fitta, l'ora tarda, sulla strada che non passava un cane...
San Francesco glorioso, se Vito Scardo tenne duro come Giuseppe Ebreo, fu tutto merito vostro.
- Sorella mia - rispose lui - sorella mia, in galera si va e si viene, ma se mi scacciano dal convento cosa fo, ditelo voi? -
E lo disse anche al Padre Guardiano, a titolo di confessione - la carne - il demonio.
- La sai più lunga di lui! - pensò il guardiano.
Ma dovette chinare il capo anche stavolta, toglierlo dalla cerca e metterlo ai servizi interni del convento.
Vito, contentone, badava a far la sua strada.
Un colpo al cerchio, un colpo alla botte, barcamenandosi fra questo e quell'altro, che il convento è come un piccolo mondo, e le nimicizie covano anche fra i seni di Dio.
Quando s'accapigliavano fra di loro, e volavano le scodelle, lui orbo e sordo.
A tempo e luogo poi lisciare i pezzi grossi pel verso del pelo, e pigliare ciascuno pel vizio suo, fra Serafino col tabacco buono di Licodia, fra Mansueto chiudendo un occhio in portineria, il Padre Lettore a colpi d'incensiere.
- Ah, che grazia v'ha fatto il Signore! Quante cose sapete, vossignoria! - Figliuol mio, ho sudato sangue.
Vedi, ho tutti i peli bianchi.
Che mi giova? Padre Lettore, e nulla più.
- Birbonate! La solita storia che chi più merita meno ha...
M'intendo io, se fossi padre da messa e avessi voce in capitolo, quando fanno il guardiano!...
Il guaio era che per entrare in noviziato ed arrivare padre da messa ci voleva un po' di latino, e 20 onze di patrimonio.
Quanto al latino, pazienza, Vito Scardo, picchia e ripicchia, sudando sui libracci come Gesù all'orto, tendendo l'orecchio a questo e a quello, pigliandosi la testa a due mani - testa fine di villano che quel che voleva voleva - coll'aiuto di Dio e del Padre Lettore riescì a farvi entrare quel che ci voleva.
Ma trovare le 20 onze del patrimonio era un altro paio di maniche.
Ci si struggeva mattina e sera, senza contare i digiuni, le astinenze, e simili privazioni, che ormai era diventato tutto pelo e naso, e le divote susurravano anche che portava il cilizio sotto la tonaca.
In chiesa poi servizievole con tutti quanti, premuroso colle figlie penitenti del guardiano e dei pezzi grossi, innamorato del Patriarca San Giuseppe, sì che la vedova Brogna s'indusse a fare l'altare nuovo, e fu tutto merito suo.
Insomma, se il Patriarca non gli faceva trovare i danari per entrare in noviziato e darsi a Dio, voleva dire che non c'è religione né nulla.
- O tu che credi d'arrivare Papa? - Gli diceva alle volte il guardiano ridendo.
E lui, minchione minchione: - Papa, no -.
Bene, se il Patriarca non voleva farlo, l'avrebbe fatto lui il miracolo, Vito Scardo.
A un tratto, corse la voce che egli guariva asini e muli, con certi rimedi che sapeva lui - e la fede viva.
Se mancava la fede, addio virtù dei semplici, e tanto peggio per la bestia che crepava, salute a noi.
Poi furono i numeri del lotto che gli vennero in mente, come un'ispirazione del cielo che gli diceva all'orecchio: - Escirà il tale, il tale, e il tal altro numero -.
Veramente a tanta grazia divina recalcitrava egli stesso, semplice frate laico, senza neppure gli ordini sacri.
Resisteva alla tentazione, si confessava indegno, faceva il sordo o lo scemo, arrivava a tapparsi le orecchie insino, quando i poveri giuocatori gli correvano dietro supplicando: - Per la santa tonaca che portate! - Per l'anima dei vostri morti! - e per questo, e per quest'altro.
- Due parole sole, e ci togliete dai guai! - Intanto i numeri che gli ballavano dentro, e le dita stesse che si tradivano e accennavano il terno, senza sua voglia, soltanto al modo di lisciare la barba e di far segno: - zitto! - Chi sapeva intendere poi e cavarne il terno ci pigliava l'ambo almeno.
E l'elemosine fioccavano.
Il padre guardiano, uomo rozzo all'antica, prese infine Vito Scardo a quattr'occhi, e gli fece una bella lavata di capo: - A che giuoco giuochiamo? Che significa questa faccenda? - Lui a testa bassa, colle mani in croce nei maniconi, rispose tutto compunto che significava che il Signore lo chiamava in religione, e se non lo lasciavano entrare in noviziato sarebbe andato a fare l'eremita in cima a una montagna.
- Fra Giuseppe Maria capì il latino.
- A fare il santo per conto tuo, eh? E tirar l'acqua al tuo mulino? - Vito Scardo non capiva neppure.
- L'acqua? - Il santo? - Il mulino? - E le 20 onze del patrimonio, per pigliar messa? le 20 onze le hai? - aggiunse il guardiano per tagliar corto.
- Ah, le 20 onze?...
-
Come abbia fatto a procurarsele, quel diavolo di Vito Scardo, lo sa Dio e lui.
O che siano stati frutti di stola, come dicevano le male lingue, denari rubati allo stesso San Francesco, messi da parte sulla cerca, in barba a lui; o che la vedova Brogna abbia fatto anche questa, e si sia lasciato toccare il cuore; o sia stata infine carità fiorita di qualche altra benefattrice, che tirava anime a salvamento - la Scaricalasino vendé allora un pezzo di terra, suo di lei.
- Il fatto è che all'impensata saltò fuori il padre di Vito Scardo, Malannata, uno che il soprannome stesso diceva chi fosse, povero e pezzente che avrebbe cavato la pelle piuttosto al suo figliuolo per rattoppare la sua, e mise fuori i denari del patrimonio.
- Qui, ecco le 20 onze! - Il guardiano, che cercava pretesti ancora, voleva sapere donde venivano e donde non venivano.
Ma Vito Scardo che piangeva di tenerezza e di gratitudine, abbracciando gnor padre e baciandogli le mani, abbrancò il suo gruzzolo e minacciò di piantar su due piedi baracca e burattini.
- Allora, benedicite! Allora vi lascio la tonaca e me ne vo, giacché non volete salvarmi l'anima neppure col fatto mio! - Questo diavolo ci darà da fare a tutti quanti! - disse poi in capitolo il padre guardiano.
E disse bene, che gli parlava il cuore.
Basta, per toglierselo dai piedi lo mandarono a fare il noviziato fuori provincia, alla Certosa di Santa Maria.
Ci pensassero intanto quegli altri frati a vedere se spuntava grano o loglio da quel seme.
E Vito Scardo zitto, fece l'obbedienza, fece il noviziato, girò anche un po' il mondo, come piaceva ai superiori, e tornò fra Giobattista da Militello, monaco fatto, con tanto di barba e qualche pelo bianco.
Però colla barba e i peli bianchi gli era cresciuto anche il giudizio.
Trovò il paese sottosopra: bandiere, luminarie, ritratti di Pio IX da per tutto, Scaricalasino a spasso per le strade, e il padre guardiano colla coda fra le gambe.
Cose che non potevano durare, in una parola.
Intanto si doveva riunire il capitolo per la nomina dei superiori.
Malcontenti ce n'erano molti, minchioni la più parte, che pensavano ciascuno: - Ora infine tocca a me! - E brigavano, s'arrabattavano, trappolandosi gli uni e gli altri, liberali e realisti.
Lui invece né carne né pesce, affabile con tutti, rispettoso coi superiori, e tanto di coltello poi sotto la tonaca, a buon conto.
Come si avvicinava il gran giorno delle elezioni, il convento sembrava un formicaio messo in subbuglio.
Un va e vieni di frati sospettosi - quelli che andavano a caccia di voti - quelli che stavano a spiare - quelli che montavano la trappola - un fruscìo di tonache e di piedi scalzi, specie la notte, capannelli nei corridoi, conciliaboli di religiosi fino in sagrestia, vestendosi per la santa messa, e occhiate torve, anche in refettorio, il campanello della portineria che tintinnava ogni momento, gente di fuori che veniva a confabulare, le figlie penitenti che si guardavano in cagnesco fra di loro esse pure, il servizio divino sbrigato alla diavola, tutti colle orecchie tese alle notizie che giungevano di fuori, al vento che soffiava.
- Vincono i regi.
- Vincono i rivoltosi.
- Hanno bombardato Messina.
- Catania si difende -.
Gli umori e le alleanze segrete che ondeggiavano collo spirare del vento.
Fra Giobattista vedeva e taceva, o al più rispondeva: - Ah? - Eh? - Oh? - quando venivano a tastarlo anche lui, tirandolo ognuno dalla sua parte.
- Fra Mansueto che gli raccomandava in tutta segretezza di guardarsi bene di Scaricalasino, il quale voleva reso conto del pezzo di terra venduto da sua moglie.
- Il Padre Lettore che lo incensava lui adesso: - Il merito deve premiarsi.
Chi l'avrebbe detto di cos'era capace Vito Scardo se non fosse stato lui? - Lo stesso fra Serafino che veniva a sfogare le sue amarezze, dopo quarant'anni di religione, rimasto sempre a veder salire gli altri e vivere di elemosina - anche per una presa di tabacco! - Potete dirlo voi stesso, eh! Che ve ne pare? Non è un'ingiustizia? Allora vuol dire che non arriveremo mai a prendere il mestolo in mano, né voi né io!
Fra Giobattista, rassegnato invece, si stringeva nelle spalle.
- Eh, tenere il mestolo...
al giorno d'oggi...
È un affare serio...
Ci vuol prudenza...
ci vuol giustizia...
ci vuol carità -.
Tante belle cose.
- E al Padre lettore: - Non dubitate.
Il vostro tempo è venuto.
Ci vogliono uomini in testa e di lettere adesso.
E senza di voi...
Guardate, mettessero anche l'ultimo del convento a quel posto, mettessero me, guardate...
Senza il vostro aiuto che potrei fare? - E dare perfino ragione a fra Mansueto, ch'era il capo del malcontenti.
- Ci vuol politica...
Chiudere un occhio.
Non siamo più ai tempi che il guardiano faceva il commissario di polizia -.
In verità il povero guardiano aveva altro da fare adesso.
La tremarella da una parte, e la bile che gli toccava ingoiare dall'altra, e far buon viso a chi gli mirava al cuore.
Questo vuol dir politica, ora che il Santo Padre aveva mutato casacca, e il Re, Dio guardi, mandava truppe a far sacco e fuoco.
Se la spuntava, bene.
Ma se no, chi vi andava di mezzo per il primo era lui, padre Giuseppe Maria.
Un calcio nella schiena, e lo sbalestravano chissà dove, a far penitenza, semplice fraticello, giacché i pochi a lui fedeli gli nicchiavano in mano anch'essi.
Era quella famosa settimana santa del '48; le stesse funzioni sacre si trascinavano svogliate, la chiesa quasi vuota, tutta la gente in piazza dalla mattina alla sera, ad aspettare le notizie col naso in aria.
Giungevano fuggiaschi, carri di masserizie che temevano il sacco anch'essi, e rivoltosi di tutte le fogge, che contavano d'aver fatto prodigi, e correvano ad aspettare i regi laggiù, a Palermo, per massacrarli tutti.
Il sindaco, a buon conto, fece armare i galantuomini per tener d'occhio la roba del paese.
La folla correva ogni tanto sulla collina del Calvario, in cima al villaggio, per vedere se era già cominciato il fuoco nella città laggiù, lontano, in fondo alla pianura verde - uomini, donne, cappuccini anche, ciascuno pel suo motivo.
Vito Scardo invece non si muoveva, badava alla chiesa, badava al convento, badava ad aggiustare le sue faccende con questo o con quello, a quattr'occhi, intanto che fra Mansueto e il Padre Lettore perdevano il tempo a vendersi vesciche per lanterne l'un l'altro, o a correre lassù al Calvario a cercar notizie e le stelle di mezzogiorno.
- Signori miei, badate a quel che fate! - ammoniva Vito Scardo.
- Vincano questi, vincano quegli altri, badate a quel che fate! -
Soltanto a sera tarda sguisciava fuori un momento per pigliar aria, e sentire quel che si diceva, e lì, sotto gli olmi della piazzetta, al buio, amici, conoscenti, che spuntavano come funghi, e perfino Malannata, in gran sussurro.
Alcuni dissero pure di averci visto Scaricalasino, in confidenza con fra Giobattista.
Malannata poi che faceva il mestiere di vender erbe, ed era sempre in giro, ne portava più di ogni altro, notizie fresche.
Andava a raccoglierle sino a Scordia e a Valsavoja, insieme alle erbe, talché il figliuolo, perché parlasse in libertà, lo ficcava anche in cucina, col naso sulla scodella.
Giunsero le funzioni del giovedì santo, la comunione per tutti i frati, abbracci e baci a destra e a sinistra.
- Fra Giobattista adesso, colle lagrime agli occhi, si picchiava il petto quasi fosse giunta l'ultima sua ora.
Tanto che il guardiano si mise in sospetto e lo chiamò in sagrestia: - Che c'è, figliuol mio? Che sai? - Niente, Padre.
Ho il cuore grosso.
Il cuore mi dice che arriva il finimondo -.
Con tutta la comunione in corpo era più furbo che mai, quel diavolo di Vito Scardo, e non diceva altro.
Ma il guardiano tirò un sospirone.
Il finimondo, per un servo di Dio della taglia di fra Giobattista, doveva essere la vittoria dei regi e della podestà legittima.
- Gli era rimasto sempre sullo stomaco quel religioso.
- Fra Mansueto invece, giallo come un morto, lo aspettò nel corridoio per raccomandarsi a lui.
C'era qualcosa per aria? Eh? Che sapeva di certo? - Nulla...
di certo, nulla...
Chiacchiere.
"Tempo di guerre, menzogne per le terre" -.
Insomma ciascuno più era al buio di tutto, e più aveva da perdere, e perciò era inquieto, e più Vito Scardo diventava un pezzo grosso, con quell'aria di dico e non dico di chi la sa lunga davvero.
Tanto più che verso sera mutò il vento di nuovo: bande, fiaccolate, grida di viva che arrivavano sin lassù, e non si sapeva che credere e che pesci pigliare.
Il venerdì fu peggio ancora.
Giorno di lutto, in chiesa e fuori, le notizie che facevano a pugni fra di loro, dei curiosi che correvano in piazza per vedere se c'era ancora la bandiera al Municipio.
La sera i reverendi accompagnavano il Cristo morto, quando all'improvviso corse la voce: - Correte! - Lassù, al Calvario! - Si vede la città in fiamme! - Figuratevi come restò la processione! Fra Mansueto, nel deporre il cero in sagrestia, gli tremavano le mani.
Il guardiano non era tranquillo neppur lui.
In refettorio non si mise neppur la tavola.
Ciascuno, mogio mogio, era andato a rintanarsi nella sua cella, e aspettava come andava a finire.
Verso mezzanotte, toc-toc, fra Giobattista in punta di piedi andò a bussare all'uscio del Padre guardiano - Che è, che non è? - Gli altri religiosi, che avevano il suo peccato ciascuno, e la tremarella addosso, stavano ad origliare, e quando lo videro uscire, poi, dopo mezz'ora, ciascuno voleva sapere la sua.
Niente.
Si vedrà domani, in capitolo.
- Fra Giuseppe Maria protestava che ne aveva abbastanza, del guardianato, e fra Mansueto non voleva fastidi neppur lui.
- Basta, vedremo.
Sentiremo quello che consiglia lo Spirito Santo -.
E spunta infine il sabato santo, sempre in quell'incertezza.
Gli stessi curiosi in piazza; la bandiera sul campanile; la città che si vedeva fumare, laggiù, dal Calvario.
Intanto, per pigliar tempo, si fecero le funzioni in chiesa, prima di passare ai voti, suonarono le campane a gloria, s'invocò il Veni creator, e finalmente si riunì il capitolo.
Padre Giuseppe Maria esordì con un discorsetto tutto miele, tutta manna: - La religione - la fratellanza, - la carità -.
Lui domandava perdono a tutti se non era stato all'altezza della carica, mentre ne deponeva il peso, troppo grave per la sua età, supplicando di lasciarlo l'ultimo degli ultimi, semplice servo di Dio.
- Fra Mansueto chinava il capo anche lui.
Il Padre Lettore cominciò un'orazione in tre punti, per dichiarare che i tempi eran gravi e a reggere la comunità ci voleva giustizia - ci voleva prudenza - tutte le belle cose che aveva detto fra Giobattista.
Però il discorso diventava lungo, e fra Serafino pel primo cominciò a interrompere.
- Basta.
- Lo sappiamo.
- Ai voti, ai voti -.
Le lingue si confusero, e successe una babilonia.
Allora saltò su fra Giobattista; ch'era stato zitto, e disse la sua: - Signori miei, a che giuoco giuochiamo? Altro che perdere il tempo per sapere se deve essere Tizio o Caio a pigliare il mestolo in mano! Qui si tratta che stasera non si sa chi lo piglia sul capo, il mestolo! -
Successe un putiferio.
Fra Mansueto, che aveva la maggioranza, voleva approfittare del momento e passar subito ai voti.
Fra Giuseppe Maria protestò invece che se ne lavava le mani.
- Sì e no.
- Una baraonda.
In quella si udì scampanellare in furia alla portineria.
- Un momento! - strillò fra Giobattista come un indemoniato, colle mani in aria.
- Un momento! Eccoli qua! -
Che cosa? Lo sapeva lui solo, che uscì correndo, colla tonaca al vento.
Era proprio quell'altro, Scaricalasino, ansante e trafelato, che veniva a pigliar chiesa, quasi ci avesse già gli sbirri alle calcagna; poi Malannata, gongolante, e altri ancora, che confermavano la mal nuova.
Vito Scardo li piantò tutti in asso, e capitò di nuovo come una bomba in mezzo ai reverendi che si accapigliavano già.
- Signori miei, non fate sciocchezze.
Siamo belli e fritti! Tolgono le bandiere.
Andate a vedere -.
Era proprio vero, la notizia che i regi s'erano impadroniti della città fin dal giorno innanzi si era sparsa come un fulmine.
Il paesetto era allibito.
E ogni frate, dal canto suo, per togliersi di impiccio, e assicurarsi il quieto vivere, dava il voto a chi gridava di più:
- Fra Giobattista - Fra Giobattista -.
Vito Scardo che assisteva allo scrutinio con tanto d'orecchi aperti, a un certo punto cadde ginocchioni, colle mani in croce.
Piegò il capo a recitare in fretta due parole di orazione, e poi disse:
- Sia fatta la volontà di Dio -.
E fece anche la sua, sbalestrando padre Giuseppe Maria a Sortino - glielo aveva detto il cuore al poveraccio! - fra Mansueto e altri turbolenti di qua e di là.
S'intese pure col Giudice, ora che il buon ordine era tornato in paese, e le autorità si dovevano aiutare a vicenda per rimettere sotto chiave i malviventi sul fare di Scaricalasino, e vivere poi quieti e contenti com'era prima della rivoluzione, ciascuno al suo posto.
Vito Scardo rimase alla testa della comunità temuto e rispettato, un colpo al cerchio, un colpo alla botte, chiudendo un occhio a tempo e luogo, badando a non far ciarlare le male lingue, a proposito della Scaricalasino, o della vedova Brogna, che era gelosa matta.
Tutti contenti e lui pel primo.
Chi rimase scontento fu solo Malannata che gli era parso di dover mutar vita anche lui, col figlio guardiano, e diventare non so che cosa.
Ed era il solo che osasse lagnarsi.
- Monaco! - Tanto basta! - Nemico di Dio! -
EPOPEA SPICCIOLA
Ecco come lo zio Lio raccontava poi quella faccenda:
Mancava dove andare ad ammazzarsi? Nossignore, proprio qui; ché per dieci miglia in giro ne fecero piangere degli occhi! E anche loro ne seminarono delle ossa a far concime, lungo la strada, fra le siepi, dietro i muri, uomini e bestie mietuti a fasci, talché un mese dopo, a dar un colpo di zappa, ne saltavano ancora fuori, ossa di cristiani! Figuratevi i campi e gli orti! E la povera gente del paese che non c'entrava per nulla in quella lite, e non voleva entrarci.
Alcuni vi lasciarono la pelle, infine - per difendere la sua roba.
- La roba e la vita, perse!
Basta.
Molti se l'erano data a gambe il giorno prima, a buon conto, come sentivano: - Vengono! - Gli svizzeri! - La cavalleria! - E chi non gli era bastato l'animo di piantar subito casa e paese, all'ultimo momento disse pure: - Meglio il danno che la pelle - e via: uomini, donne, bestie, quello che si poteva mettere in salvo insomma; le vecchie col rosario in mano.
Io non avevo nessuno al mondo, soltanto quei quattro sassi al sole, la casa, l'orto, lì proprio sulla strada, con tanti soldati che passavano - chi li diceva dei nostri - chi di quegli altri - ciascuno che voleva mangiarsi il mondo - certe facce! Cosa avreste fatto? Rimasi a guardia della mia casa, lì accanto, seduto sul muricciuolo.
- A svignarsela, poi, c'è sempre tempo - pensai.
Intanto passa un'ora, ne passano due.
I nostri avevano tirato dei cannoni sin lassù sulla collina, in mezzo alle vigne.
Figuratevi il danno! A un tratto giunge uno a cavallo, tutto arrabbiato, che pareva volesse mangiarsi il mondo anche lui - uno di quelli che insegnano a farsi ammazzare agli altri - e si mette a gridare da lontano.
Allora uomini, cannoni, muli, via a rompicollo dall'altra parte; povere vigne! Però stavolta quello del cavallo aveva pure la testa fasciata; segno che si picchiavano diggià, in qualche luogo.
Però non si vedeva nulla ancora, dalle nostre parti.
Il paese quieto, la via deserta, la città che pareva tranquilla anch'essa, come se non fosse fatto suo, sdraiata in riva al mare, laggiù, e le fregate che andavano e venivano innanzi e indietro, fumando.
- Questa è l'ora d'andare a mangiare un boccone, - dico io, dall'alba che stavo piantato lì come un minchione.
In quella si mette a tuonare, lassù nella montagna.
Uno, due, tre, infine un temporale a ciel sereno, in quella bella giornata di Venerdì Santo che dovevano succedere tanti peccati.
- Buono! Addio voglia di mangiare un boccone! Lo stomaco se n'era già bell'e sceso in fondo alle calcagna, con quella solfa.
A buon conto è meglio correre a casa, e stare a vedere come si mettono le cose da dietro l'uscio.
Scendo quatto quatto dal muricciolo, e filo carponi lungo la siepe.
Le Proscimo allora mi vedono passare; la vecchia apre un po' di finestra, e si mette a strillare: - O zio Lio - Cosa succede? - Per amor di Dio! - C'era anche la figliuola, Nunzia, dietro la madre, più morta che viva anche lei; tutt'e due che non sapevano far altro: - Signore! - Madonna! - Ahimé! - Bene - dico io - chiudetevi in casa.
Stiamo a vedere -.
Mi chiudo in casa mia anch'io, e stiamo a vedere.
Niente.
Non passa un cane.
La pace degli angeli da queste parti.
Soltanto lassù che si divertono sempre a cannonate.
- Buon pro vi faccia! Tanto, qui il sangue non arriva, quando vi sarete accoppati tutti -.
Poteva essere mezzogiorno, a occhio, ché il sagrestano non si arrischiava certo sul campanile quella volta.
Quasi quasi m'arrischio a mettere il naso fuori di nuovo, quand'ecco, crac, il tetto dei Minola che rovina, e poi un altro, lì a due passi.
Le palle ci piovono sui tetti, adesso!
Che vedeste! Chi è rimasto a fare il bravo va a cacciarsi sotto il letto.
Altri che s'erano rintanati nelle cantine o in qualche buco, saltano fuori all'impazzata.
Pianti, grida, un baccano d'inferno.
Io andavo correndo di qua e di là per la casa, senza sapere dove ficcarmi, talmente ogni colpo me lo sentivo fra capo e collo.
- Aiuto! - Cristiani! - gridavano le Proscimo.
C'è cristiani e turchi in quel momento? Maledette donne che ce li tirano addosso, ora! Eccoli infatti che arrivano, prima dieci, poi venti, poi, che vi dico? un fiume.
Soldati e poi soldati che si vedono passare dal buco della chiave, per più di un'ora, a piedi, a cavallo, con certi cannoni di qua a là.
Povera la città che se li vede capitare addosso!
Intanto, se Dio vuole, di qui se ne vanno, a poco a poco; ché quando pareva fossero passati tutti, ne giungevano altri ancora, a frotte, alla spicciolata, zoppi, sfiniti, strascinandosi dietro il fucile e le gambe, con certe facce nere e arse.
E a un tratto ecco che si mettono a bussare in mala maniera dalle Proscimo, alla mia porta, qua e là alle poche case lungo la strada, volendo da bere, coi sassi, coi fucili, e minacciano di sfondare ogni cosa.
Al vedere che lo fanno davvero, dove non rispondono subito, aprono le Proscimo, apro io pure, e ci mettiamo alla fune del pozzo.
Acqua all'uno, acqua all'altro; ne vengono sempre! Bisogna vedere come vi si buttavano, colla faccia, colle mani, coi berretti, e spinte, e busse, una ressa indiavolata.
Delle facce, Dio ne scampi, che avevano gli occhi come brace.
E alcuni si lasciavano cadere giù in fascio col fucile dove c'era un po' d'ombrìa.
Altri si cacciavano nelle case e mettevano le mani da per tutto.
- Ah le mani! - Questo poi! Sì e no.
- Tira e molla.
- Si cercava di persuaderli colle buone e colle cattive: - Caporale! - Che fate? - Siamo poveri campagnoli! - Noialtri non c'entriamo colla guerra -.
A chi dite! Come parlare al muro.
E a capire ciò che dicevano loro, peggio, con quel linguaggio di bestie che hanno.
Andare a far sentir ragione alle bestie! La Proscimo che ci s'era provata con uno che le sembrava più faccia da cristiano, un ragazzo addirittura, biondo come l'oro, fine e bianco di pelle che sembrava una donna, cercava di addomesticarlo narrandogli guai e miserie - Sono una povera vedova - con due orfani sulle spalle! - Ci avrete la mamma anche vossignoria, laggiù al vostro paese!...
- Sissignora che quello invece le adocchia la figliuola, e tirava a farsi intendere colle mani, giacché colla lingua non si capivano né lei, né lui.
L'uno peggio dell'altro, in una parola.
Gente venuta da casa del diavolo ad ammazzare e farsi ammazzare per un tozzo di pane.
Dopo che ebbero bevuta l'acqua, vollero bere il vino, e dopo vollero il pane, e dopo volevano anche la ragazza.
Ah, le donne, poi! Qui non si usa! Pazienza la roba, e tutto il resto.
Ma anche le donne adesso? proprio sotto il mostaccio? Allora era meglio pigliare lo schioppo anche noi, e come finiva, finiva.
Vero ch'erano in tanti, e facevano tonnina nel villaggio intero! La Nunzia, però - una ragazza onesta - quel discorso sotto gli occhi della madre e dei vicini per giunta...
- Urli, graffi, morsi, si difendeva come una leonessa.
E la vecchia! Avete visto una chioccia, che è una chioccia, se la toccano nei pulcini? Insomma, sul più bello salta in mezzo anche il ragazzo dei Minola, che stava abbeverando quei porci lui pure - con quel bel costrutto.
- Salta in mezzo, e si mette a dar botte da orbi con un pezzo di legno che trovò lì nel cortile - o che gli premesse la ragazza, vicini come erano, oppure che gli sia andato il sangue agli occhi finalmente, dopo tante soperchierie.
Botte da orbi, a chi piglia, piglia.
Ma chi le pigliò peggio fummo noi poveri diavoli del paese.
Le case arse, i poderi distrutti, il ragazzo Minola con una baionetta nella pancia, la mamma Proscimo ridotta povera e pazza, e Nunzia con un figliuolo che non sa di chi sia, adesso.
L'OPERA DEL DIVINO AMORE
Nel monastero di Santa Maria degli Angeli c'era sempre stata proprio la pace degli angeli.
Non dispute né combriccole quando trattavasi di rieleggere la superiora, suor Maria Faustina, che reggeva il pastorale da vent'anni, come i Mongiferro da cui usciva tenevano il bastone del comando nel paese; non liti fra le monache pel confessore o per la nomina delle cariche della comunità.
Le cariche si sapeva a chi andavano, secondo la nascita e l'influenza del parentado.
E come suol dirsi che il monastero è un piccolo mondo, anche lì dentro c'erano le sue gerarchie, chi disponeva di un pezzetto d'orticello, e chi no, chi aveva le sue camere riserbate sotto chiave, le sue galline segnate alla zampa, e i giorni fissi per servirsi delle converse e del forno della comunità.
Ma senza invidie, senza gelosie, che son l'opera del demonio e mettono la discordia dove non regna il timor di Dio e il precetto d'obbedienza.
Già si sa che tutte le dita della mano non sono eguali tra di loro, e che anche nel Testamento Antico c'erano i Patriarchi e le Potestà.
A Santa Maria degli Angeli l'abbadessa e la celleraria erano sempre state una Flavetta o una Mongiferro: dunque vuol dire che così doveva essere, e a nessuna veniva in mente di lagnarsene.
Se nascevano delle questioni alle volte - Dio buono, siamo nel mondo, e ne nascono da per tutto - suor Faustina colle belle maniere, e don Gregorio suo fratello coi sorbetti e i trattamenti che mandava per tutte quante le religiose, nelle feste solenni, mantenevano nel convento il buon ordine e il principio d'autorità.
Ma un bel giorno questa bella pace degli angeli se ne andò in fumo.
Bastò un'inezia e ne nacque un diavolìo.
Padre Cicero e padre Amore, liguorini e cime d'uomini, vennero in paese pel quaresimale e fondarono l'Opera del Divino Amore, con sermoni appropriati e sottoscrizioni pubbliche fra i fedeli.
Se ne parlava da per tutto.
Le buone suore avrebbero voluto vedere anch'esse di che si trattava.
Però il monastero ne aveva pochi da spendere, e suor Maria Faustina diceva che bastava don Matteo Curcio, il cappellano, per gli esercizi spirituali.
C'era in quel tempo novizia a Santa Maria degli Angeli, Bellonia, figlia di Pecu-Pecu, il quale arricchitosi col battezzare il vino, aveva messo superbia per sé e pei suoi e aveva pensato di far educare la figliuola fra le prime signore del paese - motivo d'appiccicarle il Donna, se giungeva a maritarla come diceva lui.
Bellonia però, rimasta nel sangue bettoliera e tavernaia, in convento ci stava come il diavolo nell'acqua santa, e gliene fece vedere di ogni colore, a lui Pecu-Pecu, e alle monache tutte quant'erano.
La prima volta fuggì ficcandosi nella ruota del parlatorio.
Una povera donna che si trovava lì appunto a ricevere non so che piatto dolce dalle monache, rimase figuratevi come, invece, al vedersi sgusciar fuori dallo sportello quel diavolo in carne, appena girò la macchina.
Un'altra volta si calò dal muro dell'orto, colle sottane in aria, a rischio di spezzarsi il collo.
Un giorno che si facevano certi lavori nel monastero, e c'era quindi un via vai di muratori alla porta, Bellonia si cacciò fra le gambe della suora portinaia, e via di corsa.
Pecu-Pecu, poveretto, ogni volta correva a cercare la sua figliuola di qua e di là, fra gli altri monelli, nei trivi, fuor del paese, dietro le siepi di fichi d'India pure, e la riconduceva per un orecchio al convento, supplicando la madre badessa di perdonarle e ripigliarsela per amor di Dio.
Alla ragazzetta che si ribellava poi, e strillava rivoltolandosi in giro per terra, strappandosi vesti e capelli, e non voleva starci, carcerata in convento, Pecu-Pecu tornava a dire:
- Bellonia, abbi pazienza!...
Per amor del tuo papà!...
Dammi questa consolazione al papà! -
Bellonia non voleva dargliela.
Vedendo che non poteva escirne, di gabbia, o dopo tornava a cascarci per sempre, cercò il modo e la maniera di farsene cacciar via dalle monache stesse.
Attaccò lite con questa e con quella, mise zizzanie, inventò pettegolezzi, fece altre mille diavolerie, e non giovava niente.
Pecu-Pecu accorreva, pregava, supplicava, faceva intendere questo e quell'altro, si giovava della protezione di don Gregorio Mongiferro e degli altri pezzi grossi, ch'eran tutti suoi debitori, mandava regali al convento, e Bellonia vi restava sempre.
Tanto, suo padre si era incaponito di lasciarvela a imparare l'educazione, sino a che la maritava.
- Tu dammi questa consolazione, e il papà in cambio ti contenterà in tutto quello che desideri -.
- Pensa e ripensa, infine Bellonia disse che voleva quelli del Divino Amore, e Pecu-Pecu fece venire i due padri liguorini a sue spese.
Quaresimale in regola e Santa Maria degli Angeli, con organo, mortaletti e suono di campane.
Dopo due giorni soli che padre Cicero e padre Amore fecero sentire la parola di Dio a modo loro, le povere monache parvero ammattite tutte quant'erano.
Chi fu presa dagli scrupoli, e chi si trovava ogni giorno un peccato nuovo.
Estasi di beatitudine, fervori religiosi, novene a questa o a quella Madonna, digiuni, cilizi, discipline che levavano il pelo.
Parecchie si accusarono pubblicamente indegne del velo nero.
Suor Candida, per mortificazione, non si lavava più neppur le mani, suor Benedetta portava una funicella di pelo di capra sulle nude carni, e suor Celestina arrivò a mettere dei sassolini nelle scarpe.
A suor Gloriosa infine la predica dell'Inferno aveva fatto dar volta completamente al cervello, e andava borbottando per ogni dove: - Gesù e Maria! - San Michele Arcangelo! - Brutto demonio, va via! -
Siccome la grazia poi toccava i cuori per bocca dei due predicatori forestieri, le suore se li rubavano al confessionale, al parlatorio, li assediavano sino a casa per mezzo del sagrestano, coi dubbi spirituali, coi casi di coscienza, coi vassoi pieni di dolci.
Alla madre abbadessa fioccavano le domande delle religiose, le quali chiedevano l'uno o l'altro dei due padri liguorini per confessore straordinario.
Invano suor Maria Faustina, che ai suoi anni era nemica di ogni novità, rifiutava il permesso, anche per riguardo a don Matteo Curcio, che era il cappellano ordinario del monastero.
Le monache ricorrevano al vicario, all'arciprete, sino al vescovo, inventavano dei peccati riservati, si lamentavano che don Matteo Curcio era duro d'orecchio, e non dava quasi retta: - Gnora sì - Gnora no - Ho inteso - Tiriamo innanzi -.
Qualcheduna giunse ad accusarlo di far cascare le penitenti in distrazione, con quella barba sudicia di otto giorni, che in un servo di Dio non ispirava alcuna devozione.
Invece i due padri forestieri, quelli sì che sapevano fare! L'uno, padre Amore, che portava il nome con sé, un bell'uomo che si mangiava l'aria, e faceva tremar la chiesa in certi passi della predica; e padre Cicero, un artista nel suo genere, tutto san Giovanni Crisostomo, col miele alle labbra.
I peccati sembravano dolci a confidarli nel suo orecchio.
E la bella maniera che aveva di consolare! - Sorella mia, la carne è fragile.
- Siamo tutti indegni peccatori.
- Buttatevi nelle braccia del Divino Amore -.
Allorché vi sussurrava all'orecchio certe parole, con la sua voce insinuante, con le pupille color d'oro che vi frugavano addosso attraverso la grata, sembrava che vi s'insinuasse nella coscienza, quasi l'accarezzasse, talché quando levava per assolvervi quella bella mano fine e bianca, vi veniva voglia di baciarla.
Qualche disordine s'era notato sin da principio.
C'erano state delle mormorazioni a causa di suor Gabriella la quale accaparravasi padre Amore tutte le mattine, e lo sequestrava al confessionale per delle ore, quasi ella avesse il jus pascendi perché discendeva dal Re Martino.
Altre si sentivano umiliate dai canestri di roba che suor Maria Concetta mandava in regalo a padre Cicero: paste, conserve, sacchi interi di zucchero e caffè; alla sua grata, nel parlatorio, dopo la messa di padre Cicero, sembrava che vi fosse il trattamento di qualche monacazione.
Voleva dire che chi non poteva spendere, come suor Maria Concetta, o doveva fare una magra figura, o non si poteva mettere in grazia di Dio col confessore forestiero.
Perciò suor Celestina fu costretta a privarsi delle due uniche galline, e suor Benedetta, che non aveva altro, dovette sollecitare la grazia di lavare colle sue mani la biancheria di padre Cicero.
- Ogni fiore è segno d'amore.
- I due reverendi protestavano, padre Cicero specialmente, che ci stava alle convenienze: - Non voglio.
- Non posso permettere -.
Una volta finse pure d'andare in collera con don Raffaele, il sagrestano, che non c'entrava per nulla affatto, e di quelle scene non ne aveva viste cogli altri preti, stomacato dalla commedia in cui padre Amore rappresentava poi la parte di paciere e pigliava lui le paste e i regali, per non mandarli indietro.
- E per non dir neanche grazie! - borbottava don Raffaele tornandosene a mani vuote.
Ma infine, sia padre Cicero o padre Amore, i reverendi pigliavano ogni cosa, a somiglianza degli apostoli che erano pescatori e usavano la rete.
Tutti i giorni, dal monastero ai Cappuccini, dove erano alloggiati padre Amore e padre Cicero, andava su e giù don Raffaele, poveraccio, carico di vassoi e di canestri pieni di regali, sicché una volta don Matteo Curcio, non per indiscrezione, ma per saper dire il fatto suo a tempo e luogo colle antiche penitenti, se mai, lo fermò per via, e volle cacciare il naso sotto il tovagliuolo che copriva il canestro.
- Caspita, don Raffaele! Dev'esser festa solenne anche per voi, con tante mance che vi daranno i liguorini! -
Il sagrestano gli rispose con un'occhiataccia.
- Mance, eh?...
Neanche uno sputo in faccia, vossignoria!...
Retribuere Domine, bona facientibus, che non costa niente...
-
Figuriamoci Bellonia, che aveva fatto la spesa dei liguorini, e credeva di averli tutti per sé! Villana senza educazione com'era, si diede a insolentire questa e quell'altra.
- Suor Celestina che stava al confessionale mezze giornate intere.
- Suor Maria Concetta che s'accaparrava padre Amore.
- Suor Celestina che basiva dinanzi a padre Cicero.
- La gelosia del monastero insomma, Dio ne scampi e liberi.
La madre abbadessa allora fece atto d'autorità, per metter freno allo scandalo.
Niente liguorini.
Niente confessori straordinari.
Chi voleva ricorrere al Tribunale della Penitenza c'era don Matteo Curcio, il cappellano solito, nessuna eccettuata, a cominciare dalla Flavetta, ch'è tutto dire.
Suor Gabriella non disse nulla, ma non si confessò neppure, né coi liguorini, né col cappellano ordinario, quindici giorni interi.
La superiora quindi, a far vedere che non era una Mongiferro per nulla:
- Suor Gabriella, precetto d'obbedienza, andate a confessarvi da don Matteo Curcio -.
Suor Gabriella fece anche questa, si presentò al confessionale, con quell'alterigia di casa Flavetta:
- Son venuta a fare atto d'obbedienza alla madre badessa.
Mi presento -.
E null'altro.
Il povero don Matteo Curcio, buono come il pane, non poté frenarsi questa volta.
- Voi altre signore monache siete tutte superbe, - disse, - ma vossignoria è la più superba di tutte -.
Bellonia però tenne duro: o il padre liguorino, o niente.
Pecu-Pecu dovette tornare a infilare il vestito nuovo e venire a intercedere.
L'abbadessa dura lei pure.
- Anche le educande adesso? Ci voleva anche questa adesso! Perché lo tengo padre Curcio allora? -
Pecu-Pecu, che gli cuoceva ancora la spesa dei liguorini, non sapeva darsi pace.
- O bella! Come se le educande non potessero avere dei peccati riservati meglio delle professe! Son io infine che pago!...
- E nell'andarsene mortificato e deluso si lasciò pure scappar di bocca:
- Sino in Paradiso si deve andare per riguardo umano! Se Bellonia fosse figlia di qualche barone spiantato, l'avrebbe avuto il liguorino! -
Bellonia intanto per spuntarla pensò di mutar registro.
Demonio incarnato, si mise a fare la santa, cadendo in estasi ogni quarto d'ora, presa dagli scrupoli se le toccavan una mano, facendo chiamare in fretta e in furia don Matteo Curcio al confessionale due o tre volte al giorno, come se fosse in punto di dannarsi l'anima, per dirgli invece delle sciocchezze, tanto che il pover'uomo ci perdeva il latino e la pazienza.
- Figliuola mia, il troppo stroppia.
- Questo è opera della tentazione.
- Che c'è di nuovo, sentiamo?
- C'è che ho un peccato grosso.
Ma non vuol venir fuori con vossignoria...
O che non sapete fare, o che mi siete antipatico...
-
Finché il pover'uomo perdé la pazienza del tutto, e le sbatté il finestrino sul muso.
La madre abbadessa montò su tutte le furie contro Bellonia, e le appioppò una bella penitenza, il giorno stesso, in pubblico refettorio:
- Donna Bellonia, mangerete coi gatti, per insegnarvi il precetto d'umiltà - sentenziò suor Maria Faustina colla voce nasale che metteva fuori nelle occasioni in cui le premeva far vedere da chi nasceva.
La ragazzaccia, come se non fosse stato fatto suo, se ne stava tranquillamente ginocchioni nel bel mezzo del refettorio, seduta sulle calcagna, colla disciplina al collo, e la corona di spine in capo, e per ingannar la noia contava quanti bocconi faceva intanto suor Agnese con mezzo uovo, e quante mosche mangiavano nello stesso piatto di suor Candida.
Poscia cavò fuori di tasca pian piano l'agoraio, e si divertì a far passare gli aghi da un bocciuolo all'altro.
Tutt'a un tratto, mentre suor Speranza dal pulpito faceva la lettura, e le altre religiose stavano zitte e intente col naso sul piatto, si udì la figliuola di Pecu-Pecu, da vera figlia di tavernaio che era, a sbadigliare in musica.
La superiora picchiò severamente sul bicchiere col coltello, e si fece silenzio.
- Donna Bellonia! precetto d'obbedienza, farete subito subito tre volte la via crucis ginocchioni, col libano e la corona di spine! -
La ragazza spalancò gli occhiacci mezzo assonnati, ancora a bocca aperta, e domandò:
- Perché signora badessa?
- Per insegnarvi l'educazione, donna voi!
- Già...
l'educazione...
al solito!...
-
Poi, sempre seduta sulle calcagna in mezzo al refettorio, cominciò, strapparsi di dosso la corona di spine e la funicella sparsa di nodi strillando:
- Io non voglio starci qui, lo sapete!...
È mio padre che vuol tenermi qui, finché mi marito...
- L'ha preso per una locanda il monastero, l'ha preso! - disse forte suor Benedetta.
- Anzi l'ha preso per un'osteria!...
- Già, l'osteria!...
Vossignoria che lavate i fazzoletti di padre Cicero per sentire l'odore del suo tabacco...
Come se non fosse peggio!...
-
Scoppiò una tempesta nel refettorio.
Suor Maria Concetta lasciò la tavola forbendosi la bocca col tovagliuolo a più riprese, quasi ci avesse delle porcherie; suor Gabriella arricciò il naso adunco dei Flavetta, sputando di qua e di là.
La superiora poi sembrava che le venisse un accidente, gialla come lo zafferano, colla voce che dalla collera le tremava nel naso e fra i canini malfermi.
Tutte quante che se la prendevano con donna Bellonia, ritte in piedi, vociando e gesticolando.
- Sissignora! - ostinavasi a dire la figlia di Pecu-Pecu colla faccia tosta di monella.
- Come non si sapesse!...
Suor Maria Concetta che gli imbocca i biscottini colle sue mani, a padre Cicero!...
E le male parole che suor Gabriella ha detto a suor Celestina perché le ruba padre Amore!...
- È uno scandalo! una porcheria! - strillavano tutte insieme.
Suor Gloriosa, cogli occhi fuori dell'orbita, andava borbottando:
- Gesù e Maria! - San Michele Arcangelo! - Libera nos, Domine!...
- Sissignora! le porcherie le fanno loro pel confessore.
Io non ho potuto averlo, il confessore forestiero, perché non son figlia di barone!...
-
La superiora, ritta sulla predella abbaziale, riescì infine a far udire la sua voce in falsetto:
- Lo scandalo lo fo cessare io! Da ora innanzi il solo confessore di tutta la comunità sarà don Matteo Curcio, come prima!...
Precetto d'obbedienza! La madre portinaia non lascierà passare più nulla senza il mio permesso speciale...
Precetto d'obbedienza!...
Voi, donna Bellonia, farete otto giorni di cella a pane ed acqua.
Dopo poi si vedrà con vostro padre!...
-
Non si dormì quella notte a Santa Maria degli Angeli.
"Che posso farci se l'amo? Forse che al cuore si comanda?..." dice la Sposa dei Cantici...
Padre Cicero, dacché gli era chiuso il parlatorio e il confessionale di Santa Maria degli Angeli, faceva parlare ogni momento la Sposa dei Cantici, negli ultimi sermoni del quaresimale.
Padre Amore, più focoso, scorrazzava come un puledro nel Testamento Vecchio e Nuovo, cavandone fervorini di questa fatta:
"Tu mi hai involato il cuore, o sposa, sorella mia: tu mi hai involato il cuore con uno dei tuoi occhi" - "O Dio, tu ci hai scacciati...
Dacci aiuto per uscir di distretta...".
Nel coro, di risposta, erano sospiri repressi, soffiate di naso ancora più eloquenti.
Suor Benedetta, che non sapeva frenarsi, singhiozzava addirittura come una bambina, sotto il velo nero.
- E Bellonia che doveva udire e inghiottir tutto.
Gonfia, gonfia, le venne in mente all'improvviso l'ispirazione buona.
Terminato il triduo, spenti i lumi e pagate le spese, padre Amore e padre Cicero vennero a ringraziare le signore monache e a prender congedo dalle figlie penitenti, una dopo l'altra, per non destar gelosie.
Le poverette figuratevi in quale stato, e padre Cicero cavando di tasca il fazzoletto ogni momento, quasi gli si spezzasse il cuore a quella separazione.
A un tratto, in mezzo alla scena muta che succedeva fra padre Amore e suor Celestina, tutt'e due colle lagrime agli occhi, saltò in mezzo anche Bellonia, come una spiritata, e ne fece e disse d'ogni sorta.
Pianti, convulsioni, strilli che si udivano dalla piazza, tanto che corsero i vicini.
Pecu-Pecu, don Matteo Curcio, ed anche gli sfaccendati della farmacia.
E poi, quando vide il parlatorio pieno di gente, Bellonia si mise a gridare che voleva andarsene coi padri liguorini, che ci aveva il cuore attaccato con essi - un putiferio.
Saltò su allora la madre abbadessa, come una furia, e se la prese con tutti quanti, a cominciare dai liguorini.
- Ah? È questa l'opera del Divino Amore che intendete voi? Non son chi sono se non vi faccio pentire! Scriverò a monsignore! Vi farò togliere la messa e la confessione! Vedrete chi sieno i Mongiferro! -
Quei poveri servi di Dio se ne andarono più morti che vivi, la madre abbadessa fu costretta a mandar via quel diavolo di ragazza, e Pecu-Pecu dovette ripigliarsi la sua Bellonia, che non prese il Donna, ma vinse il punto.
IL PECCATO DI DONNA SANTA
Stavolta il quaresimalista, per far colpo su quelle teste d'asini che venivano alla predica tirati proprio per la cavezza, e poi tornavano a far peggio di prima, immaginò un colpo di scena, che se non giovava quello, prediche o sermoni era tutto come lavare la testa all'asino davvero.
Fece nascondere nella vecchia sepoltura, là sotto il pavimento della chiesa, il sacrestano e due o tre altri, cui aveva prima insegnato la parte, e poi disse: - Lasciate fare a me -.
Cadeva giusta la predica dell'Inferno, in fine degli esercizi spirituali, e la chiesa era piena zeppa di gente, chi per un verso e chi per un altro, chi per ordine del giudice (che a quei tempi il timor di Dio s'insegnava colla sbirraglia) e chi per amor della gonnella.
Gli uomini a sinistra, da una parte, e le donne dall'altra.
Il predicatore montato sul pulpito dipingeva al vivo l'inferno, come se ci fosse stato.
E poi a ogni tratto tuonava, con un vocione spaventoso: - Guai! Guai! -
Come tante cannonate.
Le donne raccolte in branco dentro il recinto a destra della navata, chinavano il capo sgomente, a ogni colpo, e lo stesso don Gennaro Pepi, ch'era don Gennaro Pepi! si picchiava il petto in pubblico, e borbottava ad alta voce: - Pietà e misericordia, Signore! -
Ma c'era poco da fidarsi, perché ogni giorno, prima di scorticare il prossimo a quattr'occhi, don Gennaro Pepi tornava a mettersi in grazia di Dio, andando a messa e a confessione, e quanti erano alla predica poi, si sapeva che sarebbero tornati a fare quel che avevano fatto sempre.
- Guai a te, ricco Epulone, che ti sei ingrassato col sangue del povero! - E tu, Scriba e Fariseo, spogliatore della vedova e dell'orfano...
-
Questa era pel notaio Zacco.
E ce n'era per tutti gli altri: pel barone Scampolo che aveva una lite coi reverendi padri cappuccini; per don Luca Arpone, il quale viveva in concubinato colla moglie del fattore; pel fattore che si rifaceva alla sua volta sulla roba del padrone; pei libertini che congiuravano contro i Borboni nella farmacia Mondella; per tutti quanti insomma, poveri e ricchi, ragazze e maritate, che ciascuno nel paese conosceva le marachelle del vicino, e diceva in cuor suo: - Meno male che tocca a lui! - a ogni peccato che sciorinava fuori il predicatore, e la gente si voltava a guardare da quella parte.
- E allorché sarete nelle fiamme eterne, poi, cosa farete?...
Guai!
- Cos'è? - borbottò donna Orsola Giuncada all'orecchio della figlioula, la quale dimenavasi sulla seggiola, quasi fosse realmente sui carboni accesi, per sbirciare Ninì Lanzo, laggiù in fondo.
- Cos'è? Ti vengono i calori adesso? Bada che te li fo passare con qualche ceffone, ehi! -
Intanto pareva di soffocare, in quella stia.
Fra il caldo, l'oscurità, il sito greve della folla, quelle due misere candele che ammiccavano pietosamente dinanzi al Cristo dell'altare, il guaito del chierichetto che vi cacciava indiscretamente sotto il naso la borsa delle elemosine, il vocione del predicatore che intronava la chiesa e faceva venire la pelle d'oca, da sentirvi mancare il fiato.
E sembrava allora che tornassero a pizzicarvi tutte le pulci degli scrupoli vecchi e nuovi, al sentire specialmente le frustate della disciplina che davasi laggiù, al buio, quel buon cristiano di Cheli Mosca, famoso ladro, che era venuto a dare il buon esempio e mostrare che mutava vita, lì, sotto gli occhi stessi del giudice e del capitano giustiziere - cing-ciang - colla cigna dei calzoni.
- Ché poi, se mancava un pollo in paese, andavano subito a cercar lui, sangue di Giuda ladro! Gli uomini, dal canto loro, tenevano duro, bene o male.
Ma nel recinto delle donne la parola di Dio faceva miracoli addirittura: sospiri, brontolii, soffiate di naso che non finivano più; e chi aveva la coscienza pulita ringraziava il Signore in faccia a tutti quanti - coram populo - e tanto peggio per qualcun'altra che non osava levare il naso dal libro di messa, donna Cristina-del-giudice a mo' d'esempio, o la Caolina, messa in disparte come un'appestata, con tutti i suoi fronzoli e il puzzo di muschio che ammorbava.
- A che ti gioveranno, Maddalena impenitente, le chiome profumate di mirra e d'incenso, e i vezzi procaci?...
-
Donna Orsola si turò il naso, stomacata dallo scandalo che recava in chiesa la Caolina, poiché gli uomini per simili donnacce trascurano fino il sacramento del matrimonio, e vi lasciano muffire in casa le figliuole, senza contare poi gli altri inconvenienti che ne nascono: le ragazze che per aiutarsi si attaccano pure a uno spiantato senz'arte né parte, come Ninì Lanzo; i padri di famiglia che continuano a correre la cavallina a cinquant'anni...
- Guai agli adulteri e ai lussuriosi!...
- Ehm! Ehm!...
Ora che il predicatore si era buttato addosso al settimo peccato mortale, e diceva pane al pane, la povera donna Orsola si sentiva sulle spine per la figliuola, che sgranava gli occhi e non perdeva una sola parola della predica.
Tossì, si soffiò il naso; infine cominciò a farle la predica a modo suo, che le ragazze in chiesa devono stare composte e raccolte, ascoltando solo quello che sta bene per loro, senza bisogno di fare quel viso sciocco, quasi il servo di Dio parlasse turco.
Parlava come sant'Agostino invece il predicatore; tanto che si sarebbe udita volare una mosca; la stessa Caolina si era calato il manto sugli occhi, e pareva contrita anche lei.
L'uditorio era così penetrato dal soggetto della predica, che vecchie di cinquant'anni tornavano ad arrossire come zitelle, e le più infervorate guardavano di traverso donna Santa Brocca, la moglie del dottore, che era venuta alla predica con un ventre di otto mesi che faceva pietà, e si sentiva morire sotto quelle occhiate, poveretta.
Una santa donna davvero però costei, timorata di Dio, sempre fra preti e confessioni, tutta della casa e del marito, tanto che gliela aveva empita di figliuoli, la casa.
E il marito - un libertino, uno di quelli che andavano a cospirare nella farmacia Mondella - ogni volta che sua moglie mettevasi a letto coi dolori del parto, se la pigliava con Dio e coi sacramenti, specie quello del matrimonio, talché la poveretta piangeva nove mesi interi quando tornava ad essere in quello stato.
Ma stavolta donna Santa gliene fece una più grossa delle altre.
È vero che il diavolo e il predicatore ci misero la coda - con quella scena dell'altro mondo che il quaresimalista aveva preparato - a fin di bene però.
Mentre sgolavasi a gridare: - Guai a voi, lussuriosi! - Guai a te, adultera! - apparvero le fiamme della pece greca nel bel mezzo della chiesa, e si udirono il sagrestano coi compari che strillavano: - Ahi! Ohimé! - Che vedeste allora! Chi diceva che erano proprio i diavoli, chi piangeva ad alta voce, chi si buttava ginocchioni.
La vedova Rametta, che aveva il marito sepolto lì di fresco, svenne dalla paura, e due o tre per simpatia.
La povera donna Santa Brocca poi, già debole di mente per la gravidanza, i digiuni e le devozioni, sbigottita fra i rimproveri del marito e le invettive del predicatore, sofferente dal caldo, dalla vergogna, dal puzzo di zolfo, fu colta all'improvviso dagli scrupoli, o da che so io, cominciò a smaniare e a stralunare gli occhi, pallida come una morta, annaspando colle mani in aria, gemendo: - Signore!...
Sono una peccatrice!...
Pietà e misericordia!...
- e tutt'a un tratto, crac, fece la frittata.
Figuratevi il putiferio: voci, strilli, mamme che scappavano, spingendosi innanzi le ragazze curiose di vedere: insomma, un parapiglia.
Gli uomini, nella confusione, invasero il recinto riservato, a dispetto del giudice che brandiva la canna d'India, e gridava come fosse in piazza.
Corsero pugni e pizzicotti, nel pigia pigia.
Quella fu anzi l'occasione che Betta l'indemoniata si rimise con don Raffaele Molla, dopo tante liti e tante vergogne che erano state fra di loro, e la Caolina fece vedere a chi voleva le brachesse ricamate, scavalcando seggiole e panche meglio di una capra.
Una baraonda da farvi badare al portafoglio o alla catenella dell'orologio, se era il caso, ché il giudice a buon conto appioppò una stangata sulle spalle a Cheli Mosca, per tenerlo in riga.
Infine, qualche bene intenzionato, coll'aiuto del giudice e delle altre autorità, sgridando, strepitando, pigliando la gente per il petto del vestito, correndo di qua e di là, come cani intorno al gregge, riuscirono a mettere un po' d'ordine e ad avviare la processione che doveva recarsi alla Matrice, come al solito, per ringraziare il Signore, la ciurmaglia innanzi, alla rinfusa, a spinte e a sdruccioloni per la viuzza dirupata, e i galantuomini dietro, a due a due, colla corona di spine e la disciplina al collo, che da ogni parte correvasi a veder passare a quel modo i meglio signori del paese, baroni e pezzi grossi, cogli occhi bassi, e le finestre erano gremite di belle donne - una tentazione per quelli che passavano in processione colla corona di spine in testa.
Nel terrazzino del pretorio donna Cristina-del-giudice chiacchierava colle sue amiche, e faceva gli onori di casa quasi fosse la padrona.
- Sicuro! Donna Santa Brocca! Bisogna dire che ci abbia di gran porcherie sulla coscienza! L'avrebbe detto, eh? una mascherona come lei! E si faceva passare per santa! Anche suo marito farebbe meglio ad aprire gli occhi in casa sua, invece di sparlare di tutto e di tutti! -
Il dottor Brocca, che era realmente un giacobino, un malalingua di quelli della farmacia Mondella, e andava in giro per le sue visite, invece di ascoltare la predica e di seguire la processione, come seppe il castigo di Dio che gli era capitato addosso, e gli portarono a casa la moglie più morta che viva, cominciò a strepitare e a prendersela col quaresimalista, cogli esercizi spirituali, e col Governo che permetteva simili imposture, e tiravano ad accopparvi una gestante con quelle commedie; finché il giudice lo mandò a chiamare in pretorio ad audiendum verbum, e gli fece una bella lavata di capo: - che il Governo è quello che comanda, e non sarete voi, mio caro, che gli insegnerete ciò che deve fare.
Avete capito? - E il quaresimalista apparteneva a quell'ordine dei reverendi padri liguorini che si facevano sentire sino a Napoli, e andavano girando e predicando per notare a libro maestro buoni e cattivi cittadini, come fa san Pietro in paradiso, per conto dei superiori.
- Già voi non siete nella pagina pulita, caro don Erasmo! Che siete stanco di fare le vostre visite, adesso, e volete riposarvi in qualche carcere di Sua Maestà? Fatevi i fatti vostri, piuttosto.
Avete capito? -
I fatti suoi erano che sua moglie stava per lasciarlo vedovo, con cinque figliuoli sulle spalle, povero don Erasmo, e per giunta, nel delirio, essa gli spifferava sotto il naso certe cose che gli facevano drizzare le orecchie, pur troppo!
- Guai all'adultera! Guai ai lussuriosi!...
Sono in peccato mortale!...
Signore, perdonatemi!...
-
Quello che aveva sentito alla predica, insomma.
Ma don Erasmo, che non era stato alla predica, non sapeva che pensare, sgranava gli occhi, si faceva di tutti i colori, balbettava ansioso:
- Eh? Che dici? Eh? -
Non che sua moglie avesse mai dato occasione a sospettar di lei, poveretta, con quella faccia! che sarebbe stata una vera birbonata a volergli fare quel tiro al dottor Brocca, un altro che non ci fosse obbligato, come vi era costretto lui, purtroppo, per amor della pace, per accontentare la moglie che aveva la testa piena delle diavolerie dei preti, e osservava con fervore tutti e cinque i sacramenti...
S'intendeva lui, che aveva una nidiata di figlioli sulle spalle! Già i preti non pagano del loro! E quando una donna si è scaldata la testa, poi...
Ne aveva viste tante! - Eh? che dici? Parla chiaro, in malora -.
Ma l'inferma non dava retta, accesa, guardando chi sa dove cogli occhi stralunati.
E donna Orsola Giuncada, che gli era sempre fra i piedi, col pretesto di assistere la cugina donna Santa, gli dava sulla voce, per di più:
- È questa la maniera? Dopo un aborto? Mi meraviglio di voi che siete medico! -
- E lasciatela dire, peste! Si tratta del mio interesse!...
-
Le amiche che venivano a visitare l'inferma facevano le meraviglie!...
- Possibile! Un caso simile! Se stava così bene! Era venuta alla predica! Una madre di famiglia ch'era un modello! Che scrupoli poteva avere? -
- Mah!...
Mah!...
-
Alcune tentennavano allora il capo discretamente, altre invece si guardavano fra di loro, e se ne andavano senza chiedere altro.
Qualche burlone perfino stringeva la mano in certo modo a don Erasmo che sembrava dirgli: - Pazienza! È toccata a voi...
-
Almeno gli sembrava! Giacché, quando vi si è ficcata una di quelle pulci nell'orecchio, un galantuomo non sa più che pensare.
Vito 'Nzerra non era venuto a riferirgli pure le chiacchiere che faceva correre donna Cristina-del-giudice, quella pettegola, insudiciando anche lui, povero galantuomo?
Le chiacchiere non finivano più: forse donna Santa era uscita di casa che non si sentiva bene quel giorno: o una mala luna nella gravidanza: o qualche spintone della folla: e questo, e quest'altro; oppure aveva avuto che dire col marito: - Dite la verità, eh, don Erasmo?...
- La verità...
la verità...
Non si può sapere la verità! - Don Erasmo, che si sentiva scoppiare, la buttò infine in faccia alla Borella e a due o tre altri fidati: - Non vogliono che si dica la verità!...
preti, sbirri, e quanti sono della baracca dei burattini!...
che menano gli imbecilli per il naso!...
proprio come le marionette!...
e tirano ad accopparvi una gestante con simili pagliacciate!...
-
- Ma no! Ma no! Siamo state tutte alla predica...
C'ero anch'io...
A nessuna è successo niente...
-
- Allora! Allora!...
-
Allora non sapeva che dire il povero don Erasmo, cogli occhi stralunati e la bocca amara.
Tornava a supplicare la moglie, prendendola colle buone, colla faccia atteggiata al riso, mentre preparava decotti e l'abbeverava di medicine: - Dilla al tuo maritino la verità...
Cos'è questo peccato? Che devo perdonarti? -
Come parlare a un muro.
Donna Santa non disserrava neppure i denti per inghiottire le medicine, alle volte; oppure, se parlava, tornava a battere la stessa solfa di castighi, di peccati gravi, di lingue di fuoco che aveva sempre dinanzi agli occhi.
- Ah? Non posso sapere nemmeno cosa è successo in casa mia, ah? - sbuffava allora furibondo don Erasmo rivolto a donna Orsola ch'era sempre lì, fra i piedi.
Lui che sapeva tutte le storie di casa altrui, gli scandali di donna Cristina, le scene della vedova Rametta che andava a piangere, la buon'anima, nelle braccia di questo o di quello! - Se ne facevano le belle risate col farmacista e don Marco Crippa.
- Gli pareva di vederlo, adesso, don Marco, strizzando l'occhio guercio, ora che la disgrazia toccata a lui faceva le spese della conversazione.
- Capite bene, donn'Orsola, che ho diritto di sapere infine cos'è successo in casa mia! -
- Cos'è successo? Che vedete? Non vedete che vaneggia, poveretta? Sono le parole della predica che le rimasero in mente...
-
Giusto! perché le fossero rimaste in mente appunto quelle voleva sapere don Erasmo! In casa sua non ce n'erano mai state di simili porcherie!...
Che sapesse lui, almeno! Che sapesse lui, Cristo santo! - Lasciatemi stare, Cristo santo, o dico che siete d'accordo fra di voi! E tu spiegati, mannaggia!
- Che volete? Perdonatemi!...
-
Ah no! Don Erasmo voleva prima sapere cosa dovesse perdonare! ...e chi ringraziare del tiro fattogli, se mai! ...del furto domestico! ...Sissignore, del furto domestico! Perché quando un galantuomo non è sicuro nemmeno in una casa come la sua, una vera fortezza, e con una moglie come la sua, che a fargli un tiro simile con siffatta moglie doveva essere stata inimicizia bell'e buona!...
Ma chi? compare Muzio, il solo che bazzicasse da lui...
a sessant'anni suonati!...
È vero che donna Santa non era più di primo pelo nemmeno lei, e il peccato poteva essere vecchio anch'esso...
E allora? Allora? Quei figlioli di cui s'era empita la casa in ossequio al settimo sacramento? C'era qualche ladro anche fra di loro...
Gennarino, o Sofia...
o Nicola?...
Tutti i santi del calendario c'erano in casa sua! Di tutte le età e di tutti i colori...
Anche coi capelli rossi come il notaio Zacco che stava lì di faccia, ed era capacissimo di avergli fatto quel tiro per pura e semplice birbonata, gratis et amore Dei!
Il pover'uomo perdeva la testa in quei sospetti, e si rodeva dentro, mentre gli toccava assistere l'ammalata, e correre di qua e di là per la casa in disordine, costretto a far tutto lui, la pappa per Concettina, lavare il muso ad Ettore - forse i ladri domestici, poveri innocenti!...
No, non poteva durare a quel modo! Donna Santa avrebbe parlato infine, avrebbe detto la verità, - se è vero che era una santa donna, - per scarico di coscienza.
Ma essa invece non confessò nulla, nemmeno in punto di morte, nemmeno al prete che venne a portarle il viatico.
Don Erasmo lo prese a quattr'occhi, dopo, seguendolo giù per la scala, colle gambe che gli vacillavano sotto, per conoscere infine questa benedetta verità...
- Se è vero che ci sia questo mondo di là...
Se è vero che bisogna andarvi colla coscienza pulita...
Specie di certi fatti che tolgono per sempre il sonno e l'appetito a un galantuomo...
Disposto a perdonare però...
da buon cristiano...
-
Niente! Neppure al confessore aveva detto nulla sua moglie.
- Una vera santa, caro don Erasmo! Potete vantarvene...
- o che realmente sua moglie non avesse nulla da dire, o che anche le sante ci hanno il pelo sullo stomaco.
E se il dottor Brocca non poté togliersela allora, non se la tolse mai più quella spina dal cuore, quel dubbio amaro, quel sospetto che gli accendeva il sangue a ciascuno che venisse a cercarlo, o soltanto passasse per via, e lo coglieva di soprassalto se fermavasi un quarto d'ora nella farmacia, e gli metteva l'inferno in casa, gli avvelenava il pane stesso che mangiava a tavola, fra quella nidiata di marmocchi che ne divoravano dei cassoni pieni, chissà quanti a tradimento, e quella moglie che tornata da morte a vita avrebbe voluto tornare anche ad essere come era prima, tutta della casa e del marito, sempre fra preti e confessori.
- Come la fai questa confessione? Che andate a dirgli al confessore voi altre donne?...
Se non dite mai la verità!...
-
La poveretta piangeva, si disperava, faceva mille proteste e mille giuramenti.
La cugina Orsola alle volte accorreva alle grida, e gli diceva il fatto suo:
- Ma che volete, infine, da lei?...
Volete che inventi dei peccati? Volete esser becco per forza? -
E gli toccava mandar giù anche questa e tacere! E gli toccava chinare il capo e cambiar discorso, quando si rideva degli altri mariti disgraziati, con don Marco Crippa e il farmacista.
LA VOCAZIONE DI SUOR AGNESE
Era venuta dopo, alla povera Agnese, la vocazione di prendere il velo, quando la sua famiglia, caduta in rovina, fu costretta a farla monaca per darle un tozzo di pane.
Prima era destinata al mondo.
A casa sua filavano e tessevano la biancheria pel corredo di lei, mentr'essa terminava l'educandato a Santa Maria degli Angeli.
Suo padre, don Basilio Arlotta, l'aveva già fidanzata col figliuolo del dottor Zurlo, un partitone che faceva gola a tutte le mamme del paese, malgrado la bassa nascita.
Bel giovane, bianco rosso e trionfante, egli faceva l'innamorato con tutte quante le ragazze.
Com'era figlio unico, e donna Agnesina Arlotta avrebbe portato la nobiltà nei Zurlo, s'era lasciato fidanzare a lei, e aveva preso gusto anche a scaldarle la testa, recitando la sua parte di primo amoroso del paese.
Babbo Zurlo che mirava al sodo, e a quella commedia ci credeva poco, diceva in cuor suo: - Il suggeritore lo faccio io.
Se don Basilio Arlotta non snocciola la dote in contanti, spengo i lumi e calo la tela -.
Don Basilio arrabattavasi appunto a mettere insieme la dote confacente alla nascita della sua Agnese, giacché di nobiltà in casa ce n'era assai, ma pochi beni di fortuna, e imbrogliati fra le liti per giunta.
Il pover'uomo che voleva far contenti tutti, e non ci vedeva dagli occhi per la figliuola ingolfavasi nelle spese: venti salme di maggese alle Terremorte seminate tutte in una volta; la lite di Palermo spinta innanzi a rotta di collo.
- Come chi dicesse un pazzo che giuoca ogni cosa su di una carta, a fin di bene, sia pure, per amor della famiglia; ma fu quella la sua rovina.
Lavorava come un cane, sempre in faccende, di qua e di là, con gente d'ogni colore che gridava e strepitava.
Partiva all'alba pei campi, e tornava a tarda sera, sfinito, coll'aria stravolta, sognando anche la notte i seminati in cui aveva messo il poco che gli rimaneva, e tutte le sue speranze.
- San Giovan Battista! - Anime del Purgatorio, aiutatemi voi! - Così pregava la Madonna dell'Idria, accendendole di nascosto ogni sabato la lampada, dinanzi all'immagine benedetta del Papa, perché facesse piovere.
Teneva nascoste ai suoi le lettere dell'avvocato che gli parlavano della causa.
In casa sforzavasi di mostrarsi allegro, il poveraccio.
Rispondeva alle occhiate timidamente ansiose della moglie: - Va bene - Non c'è male - Domeneddio non ci abbandonerà in questo punto...
- Si confessò e si comunicò a Pasqua; si mise in grazia di Dio, pregando coll'ostia in bocca per la buon'annata, per la vittoria della lite, per la buona riuscita del matrimonio che doveva far felice la sua creatura...
Essa pure, l'Agnesina, il bene che le volevano se lo meritava.
Buona, amorevole, ubbidiente, quando le avevano fatto vedere lo sposo attraverso la grata - una lontana parente - e la mamma le aveva detto all'orecchio: - È quello lì.
Ti piace? - Essa aveva chinato il viso, rosso qual brace:- Sì -.
Poi, successa la catastrofe, come le fecero intendere che bisognava rinunziare a don Giacomino e darsi a Dio, chinò il capo di nuovo e disse: - Sì -.
Era stato il giorno di Pasqua che glielo avevano fatto conoscere, quel cristiano.
L'aspettava, lo sapeva quasi.
Le avevano messo in capo quel brulichìo le confidenze delle amiche, le visite insolite delle parenti di lui, certe mezze parole della mamma...
Ah, che festa quella mattina che la mamma le aveva fatto dire di scendere in parlatorio, dopo le funzioni! Che dolcezza nel suono dell'organo, quante visioni nelle nuvolette azzurre che recavano sino al coro il profumo dell'incenso! Che batticuore in quell'attesa! Ogni cosa che rideva, ogni cosa che risplendeva d'oro e di sole, ogni cosa che sembrava trasalire allo scalpiccìo della gente che entrava in chiesa, quasi aspettasse, quasi sapesse già...
Non lo dimenticò più quel giorno di Pasqua, la poveretta.
Ancora, dopo tanti anni, quando udiva lo scampanìo allegro che correva su tutto il paese, le sembrava di rivedere il giardinetto tutto in fiore, le compagne appollaiate alle finestre, un cinguettìo di passeri, un chiacchierìo giulivo di voci note e care, un ronzìo nelle orecchie, uno sbalordimento, e lui, quel giovine, col sorriso già bell'e preparato, e la destra nel panciotto, e l'occhiata tenera che sembrava sfuggirgli suo malgrado, in mezzo ai suoi parenti, al di là della soglia del portone spalancato...
Le avevano pure fatto una gran festa all'uscire dal monastero, tutti i parenti, anche quelli di lui.
Il babbo era tanto contento quella sera! I dispiaceri e i bocconi amari se li teneva per sé, il poveretto.
Per gli altri invece aveva fatto preparare dolci e sorbetti che Dio sa quel che gli erano costati.
Dio e lui solo! E nessun altro.
- Né la ragazza per cui si faceva la festa, né il giovane che le avevano fatto sedere allato.
- Se don Giacomino avesse sospettato in quel momento quanti pasticci c'erano in quella casa, e come la dote che gli avevano promessa tenesse proprio al filo della buona o cattiva annata, avrebbe preso il cappello e sarebbe andato via, senza curarsi di far più l'innamorato.
E sarebbe stato meglio; ché allora la giovinetta non aveva ancora messa tutta l'anima sua in quel giovine, al vederlo tutti i giorni, quasi fosse già uno della famiglia, che veniva a farle visita, quasi anche lui non potesse stare un giorno senza vederla, e si metteva a sedere accanto a lei, e le diceva tante cose sottovoce.
E la mamma era contenta lei pure, e aspettava anche lei l'ora in cui egli soleva venire, e adornava colle sue mani la sua creatura.
Le avevano fatta una veste nuova color tortorella; l'avevano pettinata alla moda, colla divisa in mezzo.
Allora aveva dei bei capelli castagni, che gli piacevano tanto a lui.
Le diceva che sarebbe stato peccato doverli tagliare per farsi monaca.
Discorreva anche di tante altre cose, con la mamma o col babbo, di ciò che gli avrebbe assegnato suo padre, del come intendeva far fruttare la dote che gli avevano promesso, del modo in cui voleva che andasse la casa e tutto.
La mamma faceva segno ad Agnese di stare attenta e di badare a ciò che diceva lui, che doveva essere il padrone.
Un giorno egli le aveva regalato un bel paio d'orecchini, e aveva voluto metterglieli colle sue stesse mani, in presenza della mamma.
Come passavano quei giorni! Le ore in cui egli era lì, vicino a lei, le ore in cui essa l'aspettava, le ore in cui pensava a lui - le sue parole, il suono della sua voce, i menomi gesti, tutto - col cuore gonfio, colla testa piena di lui, china sul lavoro, agucchiando allato alla mamma.
La mamma sembrava che le penetrasse nell'anima, con quegli occhi amorosi che la covavano, se taceva, in tutto quel che diceva, fin nei consigli che le dava intorno al taglio di un corpetto o pel ricamo di un guanciale su cui dovevasi posare il capo della sua figliuola, accanto a quello dello sposo.
Ci pensava spesso la giovinetta, col viso chino, facendosi rossa fino al collo.
E la mamma sembrava che le leggesse il pensiero dolce negli occhi fissi ed assorti, che ne giubilasse anche lei, povera vecchia, senza alzare gli occhi dal lavoro, fingendo di non vedere, quando il giovane cercava di nascosto la mano tremante della ragazza, quella volta che approfittando della confusione di tutto il parentado venuto a farle visita le sfiorò il viso fra un uscio e l'altro, come a caso.
Venivano spesso i parenti e le amiche, tutti che pigliavano parte alla gioia comune.
C'era un'aria di festa nella casa, nei mobili ripuliti, nei mucchi di biancheria sparsi qua e là, nel va e vieni di sarte e di operaie, nelle donne che cantavano affaccendate.
Il babbo però aveva un certo modo di esser contento che toccava il cuore.
Gli spuntavano le lagrime, a volte, nell'abbracciare la figliuola.
Le diceva: - Che Dio ti benedica! Che Dio ti benedica, figliuola mia! - E le mani gli tremavano, accarezzando la sua Agnese, e rinfrancava la voce così dicendo, per dare ad intendere ai gonzi che dormiva su due guanciali, riguardo ai suoi interessi.
A San Giovanni che il paese intero bestemmiava Dio e i santi, lagnandosi della malannata, aveva il coraggio di dire soltanto lui: - Non c'è tanto male, poi.
Potrebbero andar peggio le cose.
Lì, a Terremorte, ci ho venti salme di maggese.
Calcoliamo pure sulla media...
Ho avuto buone notizie della lite, laggiù...
-
Ma parlava così perché nel crocchio che stava a sentir la musica in piazza era pure la sua figliuola, seduta accanto allo sposo, colla veste di mérinos e il cappellino comprato a credenza.
Sembrava così intenta, la cara fanciulla, senza un pensiero e senza un sospetto al mondo! Il dottor Zurlo invece aveva certi occhi inquisitori, e insisteva con certe domande indiscrete che facevano sudar freddo il povero don Basilio: - E quanto credete che vi daranno le Terremorte? E che n'è della causa? Vi siete messo in una grossa impresa, voi.
Io nei vostri panni non dormirei più la notte...
Con una malannata simile! Le meglio famiglie non sanno come va a finire, vi dico! A metter su casa ci penserà bene ogni galantuomo, quest'anno! - Per poco non si sfogò col figliuolo che non badava ad altro, lui, in quel momento, pigliando fuoco ai begli occhi di donna Agnesina, eccitato dalla musica che suonava e dalla bella serata tepida.
Però don Giacomino non era sciocco neppur lui.
Oltreché, nei piccoli paesi tosto o tardi si vengono a scoprire gli imbrogli di ciascuno.
Il povero don Basilio Arlotta friggeva proprio come il pesce nella padella, assediato dai creditori, stretto da tanti bisogni, le spese della causa, il fitto delle terre, le paghe dei contadini.
Correva da questo a quell'altro, s'arrapinava in ogni guisa, cercava di far fronte alla tempesta, dava la faccia al vento contrario almeno, pagava di persona.
Quando, al tempo della messe, fu colto da una perniciosa che fu a un pelo di portarselo via - e sarebbe stato meglio per lui - non diceva altro, nel delirio: - Lasciatemi alzare.
Non posso stare a godermela in letto.
Bisogna che vada.
Bisogna che cerchi...
So io!...
So io!...
-
E lo sapevano anche gli altri, primo di tutti don Giacomino, il quale batteva freddo colla sposa e si faceva tirar le orecchie per tornare in casa di lei, ogni volta; tanto che donna Agnesina piangeva notte e giorno, e sua madre non sapeva che pensare.
Le povere donne avevano ancora gli occhi chiusi sul precipizio che inghiottiva la casa, perché don Basilio cercava ancora di nascondere il sole collo staccio, soltanto per risparmiare loro più che poteva quel dolore che se lo mangiava vivo.
Ogni giorno che tardavano a conoscere il vero stato delle cose era sempre un giorno di meno di quelli che passava lui!...
Tacque dell'usciere che venne a sequestrare quel po' di raccolta alle Terremorte.
Tacque della scena terribile coi contadini che l'avevano minacciato colle forche, vedendo in pericolo le loro giornate.
Alla moglie che scopava già il granaio pel frumento che doveva venire dalle Terremorte, disse d'averlo venduto sull'aia.
Come essa aspettava i denari della vendita disse che glieli avevano promessi a Natale.
- Domani - Doman l'altro - Alla fine del mese -.
Il pover'uomo pigliava tempo con tutti, balbettando delle bugie alle quali quasi quasi credeva anche lui, tanto aveva perduta la testa.
- Alla vendemmia - Alla raccolta delle olive - E l'usciere era stato pure nelle vigne e nell'oliveto.
Finalmente, nella novena di Natale, che le donne avevano fatto voto di digiunare tutti i nove giorni perché Gesù Bambino facesse succedere il matrimonio senza intoppi, scoppiò la bomba.
In casa Arlotta avevano fatto il pane quella mattina.
L'Agnese, tutta contenta, stava anche preparando per don Giacomino certe paste che le avevano insegnate al Monastero.
E lui stava a vedere, sopra pensieri, piluccando di tanto in tanto un pizzico di pasta frolla e dicendole sbadatamente, soltanto per dire qualche cosa, che essa aveva le mani più bianche del fior di farina...
- lì, in cucina, dinanzi al forno, col cappello in testa, proprio come uno della famiglia - quando comparve Menica, la serva, col fascio di sermenti ch'era scesa a prendere in corte, e l'aria sconvolta: - Signora! signora!...
- Nell'anticamera udivasi la voce di don Basilio che pregava e scongiurava.
La signora corse subito a vedere e non tornò più, senza curarsi che lasciava soli don Giacomino colla figliuola.
La povera ragazza, si strinse allora allo sposo, quasi sapesse già che non le rimaneva altro aiuto ed altro conforto: - Cos'è stato, don Giacomino, per l'amor di Dio!...
-
Ah, quando vide il babbo con quella faccia! La faccia che doveva avere in punto di morte.
Barcollava come un ubbriaco; andava di qua e di là senza sapere quel che facesse, chiudendo le imposte e le finestre, perché la gente che passava non vedesse l'usciere in casa sua.
Imbattendosi a un tratto nel fidanzato di sua figlia, don Basilio lo guardò stralunato, col sudore dell'agonia in viso.
Giunse le mani e aprì la bocca senza dir nulla.
Allora don Giacomino si mise a cercare il bastone e il pastrano senza dir nulla, facendo ancora finta di non saper niente di niente, per cortesia, ed anche per evitare una scena che gli seccava, borbottando:
- Scusate...
Sono d'incomodo...
Mi dispiace...
-
Ma come don Basilio voleva continuare a fare la commedia dell'uomo tranquillo, coi goccioloni dell'agonia in fronte e pallido più di un morto: - Ma, don Giacomino!...
Figuratevi!...
Un momento e li sbrigo subito...
Passate un momento in camera mia colle donne...
- don Giacomino si fermò a guardarlo, verde dalla bile, sul punto di spiattellargli in faccia: - A che giuoco giuochiamo? Finiamola adesso questa commedia! Se lo sanno tutti che siete rovinato! Mi meraviglio di voi che volete imbrogliare un galantuomo...
-
Ma tacque ancora per prudenza.
Soltanto non ci furono Cristi per trattenerlo.
Né la vista dell'Agnesina che gli faceva la scena dello svenimento.
Né le lagrime della madre che lo supplicava tremante: - Don Giacomino...
Figliuolo mio!...
- Egli disse che tornava subito, per cavarsi d'impiccio: - Mi dispiace.
Non posso, proprio!...
Un momento.
Vado e torno -.
Tornò invece il notaio Zurlo, a restituire i regali che venivano dalla sposa: il berretto di velluto e pantofole ricamate, facendo il viso compunto per procura del figliuolo, un viso fra il padre nobile e il burbero benefico, tornando a dire anche lui: - Mi dispiace davvero!...
Era il mio più gran desiderio.
Ma voi non ci avete colpa, donna Agnesina!...
Ne troverete degli altri coi vostri meriti...
-
E volle lasciarle anche una carezza paterna sulla guancia, con due dita, sorridendo bonariamente.
Ma come vide barcollare la ragazza, bianca al par di un cencio, si asciugò persino gli occhi col fazzoletto e conchiuse:
- Che disgrazia, figliuola mia!...
Scusate se vi chiamo così.
Vi tenevo già per figlia mia!...
Che crepacuore mi avete dato...
-
Ecco com'era venuta la vocazione alla povera donna Agnese.
Il cappellano del monastero la citava in esempio alle altre novizie che mostravansi sbigottite nel punto di pronunciare i voti solenni: - Guardate suor Agnese Arlotta! Specchiatevi su di lei che ha provato quel che c'è nel mondo.
C'è l'inganno e la finzione.
- Imbrogliami che t'imbroglio.
- Una cosa sulle labbra e un'altra nel cuore.
- E poi che resta alla fine di tante angustie, di tanti pasticci? Un pugno di polvere! Vanitas vanitatum!...
-
Così, a poco a poco, la poveretta s'era distaccata completamente dalle cose terrene, e s'era affezionata invece all'altare che aveva in cura, al confessore che la guidava sul cammino della salvazione, al cantuccio del dormitorio dov'era il suo letto da tanti anni, al posto che occupava al coro e nel refettorio, al suono della campana che regolava tutte le sue faccenduole, sempre eguali, alle pietanze che tornavano invariabilmente secondo il giorno della settimana, alla stessa ora, nello stesso piatto.
Il suo mondo finiva lì, al cornicione della casa dirimpetto che affacciavasi sopra il muro del giardino, al pezzetto di collina che si vedeva dalla finestra, al gomito della stradicciuola che metteva capo al parlatorio.
Le ore e le stagioni si succedevano nel monastero allo stesso modo, col sole che scendeva più o meno basso sul cornicione, colla collina che era verde o brulla, coi polli che razzolavano nella stradicciuola, o si radunavano all'uscio del pollaio.
Anche le voci dei vicini erano tutte note.
Allorché andò via la tessitrice che stava di faccia alla chiesuola fu un avvenimento, quando non si udì più il battere del pettine ogni mattina.
Suor Agnese non ebbe pace finché non riescì a sapere dal sagrestano dov'era andata e perché era andata via, quella cristiana.
Non che cercasse il pettegolezzo, ma per semplice curiosità, massime da che era divenuta sorda.
Siamo fatti di carne infine, e il mondo ostinavasi a insinuarsi sin là, pian piano, coi sermoni del confessore, colle chiacchiere del sagrestano, coi discorsi dei parenti che venivano in parlatorio, colle liti fra le monache, e gl'intrighi che nascevano quando trattavasi di eleggere le cariche pel triennio.
Oh allora!
Suor Gabriella, ch'era la superbia in persona, si faceva umile come un agnello pasquale; e suor Maria Faustina, otto giorni prima, aveva sulla faccia arcigna un sorriso amabile.
Fra le suore poi erano conciliaboli a tutte le ore, durante la ricreazione, o quando si riunivano nel tinello a preparare i dolci e le paste per la solennità, a Pasqua o a Natale.
Tanto più che suor Agnese non aveva nulla da fare, perché non aveva né fior di farina, né zucchero, né denari per comprarne, né parenti a cui mandare in regalo i dolci.
Sua madre, buon'anima, era morta da un pezzo; e anche don Basilio, quantunque fosse campato vecchio nei guai, perché Dio aveva voluto dargli il purgatorio in terra - e anche la zia caritatevole, che aveva sborsato le cento e venti onze della dote perché donna Agnese potesse farsi monaca.
- Pace alle anime loro, di tutti quanti, compreso don Giacomino, che era morto carico di figliuoli, e gli avevano fatto i funerali a Santa Maria degli Angeli.
Sia fatta la volontà di Dio! a suor Agnese, povera vecchia, il Signore le accordava la grazia.
Colle sei onze all'anno della dote, e il piatto che le passava il convento, meno di trenta centesimi al giorno, essa riusciva a mantenersi lei, la lavandaia, e la conversa di cui non poteva fare a meno pei suoi acciacchi.
Risparmiava sulle due paia di scarpe e sulla tonaca nuova che le spettavano ogni anno.
Vendeva le noci e le mandorle della tavola che non poteva rosicchiare.
Di due ova ne mangiava una lei, e l'altro, metà per una fra la serva e la lavandaia.
Aveva anche combinato che a tavola teneva un fornello allato al piatto, e la sua porzione di minestra tornava a farla bollire perché crescesse e potesse bastare alle due donne che avevano sempre una fame da lupi.
Essa campava d'aria, povera vecchia.
Talché a furia di privazioni tirava innanzi anche lei, e arrivava a cavare di quel poco anche il caffè e il biscotto pel confessore, ogni mattina.
Veramente avrebbe avuto anche lei l'ambizioncella di tenere il pastorale, almeno una volta in tanti anni.
Ma alle cariche erano nominate sempre quelle monache che sapevano intrigare meglio, e trovavano appoggio nel parentado di fuori.
Basta, taceva e ringraziava la Divina Provvidenza.
- Che le mancava, grazie a Dio? Mentre fuori, nel mondo, c'erano tanti guai! - Col buon esempio, e simili belle parole, confortava pure quelle novizie che in convento ci venivano tirate proprio pei capelli, senza vocazione.
Una di queste però, maleducata e villana, le rispose un bel giorno chiaro e tondo:
- Sapete com'è? La mia vocazione è di sposare don Peppino Bèrtola, per amore o per forza -.
GLI INNAMORATI
Innamorati lo erano davvero.
- Bruno Alessi voleva Nunziata; la ragazza non diceva di no; erano vicini di casa e dello stesso paese.
Insomma parevano destinati, e la cosa si sarebbe fatta se non fossero stati quei maledetti interessi che guastano tutto.
Quando due passeri, o mettiamo anche due altre bestie del buon Dio, si cercano per fare il nido, forse che stanno a domandarsi: - Tu cosa mi porti in dote, e tu cosa mi dài? -
La Nunziata, cioè mastro Nunzio Marzà suo padre, doveva avere un bel gruzzolo, dopo quarant'anni che teneva merceria aperta, e quindi Alessi pretendeva cento onze insieme alla ragazza.
- La gallina si pela dopo morta - ribatteva mastro Nunzio.
- Io non intendo lasciarmi spogliare in vita.
- La moglie va colla dote - picchiava Bruno Alessi.
- Io non voglio maritarmi a credenza -.
Veramente questo lo faceva dire dai suoi vecchi, com'è naturale, e lui badava a scaldare i ferri colla giovane.
Il diavolo è tentatore, e le donne hanno il giudizio corto.
A poco a poco la povera Nunziata prese fuoco come un pugno di stoppa, e ci rimise il sonno e l'appetito.
- Bene, - disse mastro Nunzio.
- T'insegnerò io il giudizio -.
E giù legnate da levare il pelo, se la sorprendeva alla finestra, o la vedeva fare altre sciocchezze.
Cogli Alessi invece usava politica, e stavano insieme a tirare sul prezzo, senza troppa furia.
Al giovanotto però quel negozio non andava a sangue, sia che ci avesse la fregola addosso, o perché le cose lunghe diventano serpi.
Poi voleva mettere una bella calzoleria, e pensare agli interessi propri, invece di lavorare a bottega dal padre.
- Senti, - disse alla ragazza - Qui ci menano a spasso, per fare i loro comodi.
Bisogna finirla -.
Giacché Marzà aveva un bel picchiare la figliuola, e sprangare usci e finestre.
Il diavolo è anche sottile, e Bruno Alessi ne sapeva una più del diavolo.
Fingeva di andare a vendere scarpe e stivali per le fiere, lì intorno, e poi, mentre mastro Nunzio dormiva tranquillo fra due guanciali, veniva di notte a stuzzicargli la figliuola.
- Maria santissima! Cosa mi fate fare! - piagnucolava Nunziata col grembiule agli occhi.
- Se mi vuoi bene, te lo dirò io -.
Però la ragazza non voleva sentirla quella faccenda di spiccare il volo con lui, e dopo, quando il pasticcio era fatto, mastro Nunzio avrebbe dovuto adattarsi a mandarlo giù.
Era una buona figliuola infine, dello stesso sangue dei Marzà, e stando dietro il banco aveva imparato cosa vuol dire negozio, e come vanno a finire certe cose.
Ma soffia e soffia, Bruno, che non pensava ad altro, seppe scaldarle la testa, e farle perdere quel po' di senno che le restava ancora.
La finestra era bassa, e rizzandosi sulla punta dei piedi egli le arrivava al collo.
Allora, per parlarsi all'orecchio, perché non udisse mastro Nunzio che dormiva lì accanto, pigliavano fuoco tutt'e due, e la ragazza ci si squagliava come la neve.
Lui le aveva mostrato anche un trincetto che portava addosso, e minacciava di fare una tragedia con quello.
- M'ucciderò sotto i tuoi occhi! Verrà tutto il paese a vedere il sangue! Allora sarai contenta! Allora vedrai se ti voglio bene sì o no! -
E bisognava vedere che faccia! Nunziata a quell'uscita sbigottiva, e tornava a balbettare tutta tremante:
- Oh Madonna santa! cosa mi fate fare!...
- Bene.
Quand'è così, vuol dire proprio che non mi ami.
È meglio finirla!...
-
Per abbreviare, gnor padre che picchiava la ragazza tutto il giorno, l'innamorato che veniva a farle di notte le stesse scene di amore e di gelosia, Nunziata raccolse quattro stracci in un fagotto, e andò a raggiungere Bruno che l'aspettava nella viuzza.
- Però giuratemi che mi sposerete subito! - gli disse prima di tutto.
- Giuratemi innanzi a Dio! -
Bruno le giurò tutto quel che voleva, lì, su due piedi, al cospetto di Dio che vedeva e sentiva, lassù: una mano sul petto e l'altra che chiamava angeli e santi testimoni: - Non lo sai che t'amo più della pupilla degli occhi miei? Non dobbiamo essere marito e moglie? - Poi volle portarle lui il fagotto.
- Hai preso gli ori? - le chiese pure.
Essa non aveva preso gli ori, perch'era tutta sottosopra.
- Hai fatto una sciocchezza, - conchiuse Bruno.
- Tuo padre te li metterà sul conto della dote -.
Mastro Nunzio il mattino trovando l'uscio aperto si mise a gridare al ladro.
Papà Alessi, che passava di là a caso, in quel punto, lo tirò dentro pel braccio e gli disse:
- Non fare strepiti.
Non facciamo ridere la gente.
Vostra figlia è in casa di mia cugina Menica, rispettata e onorata come una regina -.
Il povero Marzà s'era messo a sedere colle gambe rotte.
Ma tosto si rimise.
Compare Alessi gli offrì una presa, accostò una scranna lui pure, e infine intavolò il discorso.
- Bene.
Ora che facciamo?
- Dite voi, - rispose Marzà asciutto asciutto.
- Io lo so cosa devo fare.
- È una disgrazia, non dico di no.
Gli altri rompono e tocca pagare a noi.
- Chi rompe paga, e chi ne ha ne spende -.
Compare Alessi era uomo navigato anche lui, e capì il latino.
- A me non importa infine, - conchiuse mettendosi colle spalle al muro.
- E a me neppure.
- Scusate, scusate.
Si tratta di vostra figlia.
È il sangue vostro.
- E voi, quando vi esce il sangue dal naso, che state a cercare dov'è andato a cadere? -
Toccò a mastro Alessi stavolta di rimanere con tanto di naso e la bocca aperta.
- Allora dite voi.
Come si fa?
- Si fa così, che la Nunziata è minorenne, e vostro figlio andrà in carcere.
- Ah! ah!...
Va bene allora! Quand'è così vi saluto tanto! -
Papà Alessi si alzò lentamente, e fece anche finta d'andarsene, come quando si capisce bene che il negozio non si combina.
Pure, vedendo mastro Nunzio fermo come un macigno, con quella faccia tosta di negadebiti, non poté frenarsi dal rinfacciargli, stando sull'uscio:
- E vi terrete la figliuola...
così?
- Non mi avete detto ch'è onorata come una regina? Ho quattro soldi.
Le troverò bene un marito a modo mio.
- Ah! per quei quattro soldi! - esclamò l'altro infuriato.
- Vendete vostra figlia per cento onze!...
Sentite! Scusate! È sangue vostro, sì o no? Siete cristiano? Siete padre, o cosa siete?
- Ah, compare bello! E voi ve lo fate cavare il sangue per gli altri? -
Mastro Alessi se ne andò davvero stavolta, e corse subito a far scappare Bruno prima che la giustizia venisse a cercarlo.
Nunziata invece, che mangiava a ufo dalla cugina Menica, e neppure il curato aveva potuto persuadere Marzà a sborsare le cento onze, dovette tornare a casa mogia mogia, e sentirsi dire:
- Vedi se volevano te o il mio denaro? Hai capito adesso? -
Intanto passavano i giorni, e Bruno, temendo di cadere nelle unghie della giustizia, andava pel mondo cercando fortuna, e riducendosi povero e pezzente.
Mastro Nunzio, che era padre e cristiano alla fin fine, gli avrebbe pur dato la figliuola, ed anche un po' di roba.
Ma cento onze di denaro, no, finch'era vivo! - E Bruno dal canto suo si ostinava invece: - O colle cento onze, o niente -.
Però la Nunziata, piangendo giorno e notte, indusse il padre a discorrerne fra loro e Bruno, in famiglia, e ciascuno avrebbe dette le sue ragioni.
- Ma non sarà qualche tranello poi? - osservò Bruno, come la zia Menica andò a fargli l'imbasciata.
- Posso fidarmi di quel birbante?
- Ti accompagno io, - tagliò corto la zia.
- Mastro Nunzio è un galantuomo -.
La sera stessa, dopo chiusa la bottega, si riunirono nella merceria loro quattro, lei, Bruno e i Marzà, per dire ciascuno la sua ragione.
Bruno stava zitto e grullo, mastro Nunzio guardava in terra.
Nunziata versava il vino nei bicchieri, e toccò quindi a comare Menica parlare:
- Bisogna finirla.
È una porcheria.
Tutto il paese non discorre d'altro.
Io non me ne vado di qui se prima non si conclude il matrimonio -.
Nunziata allora si mise a piangere.
Bruno guardava ora lei e ora suo padre.
La ragazza infine, vedendo che non diceva nulla, prese a sfogarsi:
- Ditelo voi stessa, comare Menica!...
Dopo avermi lusingata per tanto tempo! Dopo tanti giuramenti! E quello che ho fatto per lui...
che sarebbe meglio buttarmi nel pozzo, adesso!
- Io non mi tiro indietro, - borbottò lui.
- Per me non manca.
- Dunque per chi manca? - conchiuse la zia Menica, guardando ora il padre ed ora la figlia.
Nessuno aprì più bocca, finché Bruno s'alzò in piedi, e prese un bicchiere dal banco.
- Guardate! - disse.
- Che questa grazia di Dio possa mutarsi in veleno se dico bugia! Della dote non me ne importa nulla.
Quanto a me la sposerei anche senza camicia.
- Questo no, - interruppe la zia Menica.
- Mastro Nunzio conosce il suo dovere.
- Bene.
Dunque quello che dà lo dà a sua figlia.
Voglio le 100 onze nel suo interesse.
Ci ha lavorato anche lei, colla merceria, sì o no? -
Qui Nunziata prese le sue parti, e disse che era vero.
Ci aveva spesa tutta la bella gioventù dietro a quel banco, dacché era morta la buon'anima di sua madre.
Se fosse stata ancora al mondo, quella, non avrebbe fatto penare la sua creatura per 100 onze di più o di meno.
E lì a intenerirsi tutti, e buttarsi piangendo al collo di mastro Nunzio, lei, lo sposo e anche la zia Menica, sinché il babbo dopo aver pestato e ripestato che la gallina si pela dopo morta, che i denari hanno le ali, e quando Bruno Alessi avesse mangiato quelli della dote gli toccava poi a lui mantenere marito e moglie, pure si lasciò andare a promettere le 100 onze, purché ci fosse la sua brava cautela.
Nunziata ballava e rideva, comare Menica baciava in terra, ma qui Bruno mostrò il malanimo, che le 100 onze le voleva in mano, perché - metterle alla Banca, no: se le portano via.
- Comprare un pezzo di terra, neppure: non danno frutto.
- Invece col contante in mano lui avrebbe messo un bel negozio.
- Il negozio è quello che volete fare con questa sciocca che vi crede e si lascia prendere alle vostre commedie! - interruppe nel bel mezzo il vecchio più arrabbiato di prima.
- No! - rispose Nunziata aprendo gli occhi a un tratto, e asciugandosi le lagrime.
- No, che non mi lascio prendere! -
E in tal modo sfumarono matrimonio ed amore.
Bruno rinfacciò a Nunziata, prima d'andarsene: - Così dicevate di buttarvi nel pozzo? - Lei, di rimando: - Come vi siete ucciso voi col trincetto, tal quale -.
Mastro Nunzio chiuse l'uscio, e la figliuola se ne andò a letto furiosa.
Se non fosse stata la vergogna di essersi lasciata cogliere in trappola da quel bel galantuomo, ed era difficile trovarne un altro, avrebbe voluto maritarsi subito subito, per dispetto, anche con uno di mezzo alla strada.
Ma suo padre, coi suoi denari, le trovò invece Nino Badalone, un pezzo di marito che ne valeva due, e non aveva tante arie e tante pretese.
Nunziata si fece pregare alquanto, per decenza, e poi disse di sì.
- Giacché piace a voi, sono contenta io pure -.
Nino Badalone era contento anche lui.
Veniva alla merceria quasi ogni sera; portava qualche regaluccio, e faceva l'innamorato come e meglio di qualcun altro.
Mentre Marzà serviva gli avventori, o schiacciava un pisolino dietro il banco, Nino soffiava all'orecchio della ragazza le stesse cose che le aveva dette Bruno: - Bene mio! - Cuore mio! - E lei ci pigliava gusto egualmente, e la notte poi fra le coltri, diceva fra sé e sé: - È lo stesso, tal quale -.
Bruno invece, ch'era rimasto a bocca asciutta, pensava dal canto suo: - Voglio vedere come va a finire! -
Passava e ripassava per la stradetta, col garofano in bocca; si sgolava di notte a cantarle dietro l'uscio canzoni d'amore e di sdegno, e quando incontrava la Nunziata, alla messa, invece di farla arrossire, come pretendeva, e di confonderla colle sue occhiatacce, era lui piuttosto che restava minchione e doveva chinare il capo.
- Ma con quell'altro voglio vedermela davvero - brontolava poi sputando veleno.
- Voglio mangiargli il fegato! Voglio berne il sangue -.
Di buoni amici ce n'è sempre a questo mondo; sicché cotesti sproloqui arrivarono all'orecchio di Badalone.
Costui era stato soldato, e sapeva il fatto suo.
- Bene, - rispose, - vedremo! Chi è buon cane mangia alla scodella -.
La domenica di carnevale dai Bozzo ci era un po' di festino.
Bruno vi andò lui pure, colla fisarmonica, per svagarsi, ed anche perché sapeva che Mastro Nunzio vi avrebbe condotto la figliuola, e voleva vedere come andava a finire.
Mentre dunque suonava la fisarmonica e faceva ballare gli amici, arrivò infatti mastro Nunzio, colla Nunziata in gala, e dietro Badalone gonfio come un tacchino.
Se Bruno Alessi in quel momento non fece uno sproposito e poté andare innanzi colla sonata, fu proprio un miracolo, ed anche per non lasciare in asso i ballerini.
Per giunta Badalone prese subito la sposa a braccetto, senza dire né uno né due, e si mise a ballargli sotto il mostaccio - polche, valzeri, contradanze - Nunziata che si dimenava con bel garbo e gli faceva il visavì, e lui saltando come un puledro, tutto rosso e scalmanato.
Il povero Bruno intanto gli toccava portare il tempo e inghiottire veleno.
Infine lasciò il posto a Zacco, ch'era lì pronto colla cornamusa, e volle fare quattro salti anche lui.
- Permettete, amico? - disse a Badalone, toccandosi pulitamente il berretto.
Quello screanzato invece lo squadrò prima ben bene, e poi rispose asciutto:
- Non permetto.
Perché? -
Gli disse anche quel "perché", che fa montare la mosca al naso! Fortuna che Bruno Alessi era un galantuomo, e non voleva più averci a fare colla giustizia.
Ma gli giurò in cuor suo: - Ti farò becco, com'è vero Dio! -.
E volle piantar subito ballo e ballerini.
Non ci furono cristi.
Se ne vedono civette al mondo! Sfacciate come quella lì, che ridono a Cajo e a Tizio, e passano da una mano all'altra peggio dei cani di strada che fanno festa a tutti.
Ma un tradimento simile Bruno non se lo aspettava, dopo tanto amore e tante pene, e tutto ciò che aveva fatto per l'ingrata! Questo voleva dirle, a quattr'occhi, appena la coglieva un momento sola, dovesse azzuffarsi poi con Badalone.
Infatti Nunziata se lo vide capitare in casa con quel proposito, il giorno dopo, mentre stava affacciata a veder le maschere.
Era vestito da pulcinella, per non farsi scorgere, ma essa lo riconobbe tosto, che il cuore non è fatto di sasso, e voleva chiudergli l'uscio sul naso.
- Ah, così mi ricevete? - diss'egli.
- Questa mi toccava?
- Bene, parlate, - rispose lei.
- Non m'importa di vostro padre.
Non ho paura di nessun altro.
Voglio dirvi il fatto mio.
- Bene, dite, e finiamola subito -.
Bruno s'era preparato il suo bel discorso, ma al vedersi trattare in quel modo non trovò più le parole.
Bugiarda! Traditora! L'aveva venduto per 100 onze, come Gesù all'orto! E gli rideva sul muso anche! Allora, disperato, si strappò la maschera, e mostrò anche di frugarsi addosso per cercare il trincetto.
- Ah! Volete ammazzarvi un'altra volta? - rispose lei continuando a ridere.
In quel punto sopraggiunse Nino, colle mani in tasca, e quella sua andatura dinoccolata.
Appena vide il Bruno, che lo seccava, infine, gli assestò una pedata sotto le reni, e questo fu il primo saluto.
- Bada che ha il trincetto addosso! - gridò la giovane spaventata.
Bruno si rivoltò come una furia.
Voleva mangiargli il fegato.
Voleva berne il sangue.
Ma poi se la diede a gambe, e Nino l'accompagnò ancora a pedate sino in fondo alla stradetta.
FRA LE SCENE DELLA VITA
Quante volte, nei drammi della vita, la finzione si mescola talmente alla realtà da confondersi insieme a questa, e diventar tragica, e l'uomo che è costretto a rappresentare una parte, giunge ad investirsene sinceramente, come i grandi attori! - Quante altre amare commedie e quanti tristi commedianti!
Ho visto la commedia del dolore al letto di un'agonizzante.
Un caso di corte d'Assise, se era vero, come dicevano i vicini, che Matteo Sbarra non moriva, no, di un calcio di mulo; ma fosse stato il compare Niscima che l'aveva ucciso a tradimento, con una badilata nella testa, quando seppe di quell'altro tradimento che Matteo Sbarra gli faceva con la moglie - un compare, un amicone che spartiva con loro il pane e il lavoro, e si sarebbe fatto ammazzare per tutt'e due! - Niscima piangeva, sua moglie piangeva, strappandosi i capelli, fosse amore, o fosse timore della giustizia.
- O compare, che giornata spuntò oggi per tutti noi! - O che fuoco ci ho qui dentro, compare bello! - E il giudice istruttore era presente; e la stanza era piena di vicini che sapevano e non sapevano; e il mulo, legato lì fuori, non poteva parlare.
Matteo Sbarra, col singhiozzo alla gola, stava zitto anche lui, dinanzi al giudice, dinanzi ai testimoni, dinanzi al prete che gli dava l'assoluzione dei suoi peccati.
Guardava la comare, guardava il compare, cogli occhi torbidi, dove forse passava già la visione della vita eterna.
Ah! le mani di lei, che gli asciugavano adesso col fazzoletto il sangue e il sudore della morte! E le mani dell'amico che gli rassettavano il guanciale sotto il capo, lì, nello stesso letto matrimoniale dove l'aveva tratto in agguato - a colpo sicuro, se era vero che la donna ve l'aveva stretto altre volte fra le braccia, poiché Niscima sapeva bene che il maschio della selvaggina vi torna di nuovo sotto il fucile, al richiamo della femmina, fosse ferito e grondante sangue.
- La vicina Anna aveva udito dietro l'uscio il rumore della lotta brusca e violenta, appena il marito era arrivato a casa: le grida soffocate, il rantolo della donna, e l'anelito furioso di lui.
Cosa doveva fare, poveretta, se era vero che fosse colpevole? se è vero che Dio non paga il sabato, e ci castiga col nostro stesso peccato? - Perché l'hai fatto scappare, buona donna? Digli che torni.
Dovete averci un segnale fra di voi.
Fagli segno di venire, pel nome di Dio! - Ella mise il segnale: un fazzoletto rosso color di sangue: la videro altri vicini, più morta che viva, alla finestra.
Avevano ben ragione di strillare adesso tutti e due: - O compare mio, che fuoco mi lasciate qui dentro nel mio cuore! - Signor giudice, signori miei, uccidetemi qui stesso, dinanzi a lui, se fui io il traditore! - E la giustizia oscura che era nella coscienza dei testimoni muti, pensava forse: - Il morto è morto.
Bisogna salvare il vivo.
-
Quest'altra da tribunale correzionale invece: lui buttandosi fra le fiamme che aveva appiccato di nascosto al magazzino, dicevasi, onde salvarsi dal fallimento, e cercando di spegnerle colle sue stesse mani: le mani arse, i panni che gli fumigavano addosso, i capelli irti, il viso stravolto e terreo di un disperato o di un delinquente - e la moglie seminuda, i figliuoli atterriti che s'avvinghiavano a lui.
- Lasciatemi!...
perdio!...
È la rovina!...
Meglio la morte! - Il vocìo della folla, il crepitare dell'incendio, il getto delle pompe, lo squillare delle cornette dei pompieri.
- E dei visi arrossati, delle ombre nere che formicolavano nel chiarore ardente, le placche dei carabinieri che l'abbacinavano.
- Che vedeva egli, che sentiva in quel momento torbido? Le mani convulse che si stendevano verso di lui, fra il luccicare delle baionette; la fanciulla brancicata senza riguardo da cento sconosciuti, il figliuolo dibattendosi furioso fra i soldati: - Papà! papà mio! - E i sogghigni dei malevoli, il sussurro avverso della voce pubblica: - Trecentomila lire d'assicurazione!...
Si capisce!...
Tanto più che la barca faceva acqua da tutte le parti! - Due volte il forsennato tentò di rompere il cordone di truppa che isolava l'incendio, e due volte fu respinto urlante e traballante sul marciapiedi: - È la mia roba, vi dico!...
La mia roba!...
Lasciatemi morire! - E noi, papà? Siamo noi! Ascolta - Ah, figli miei! Poveri figli miei! - E il piangere che faceva, lì in mezzo alla strada, le lagrime che gli rigavano il viso sporco di fumo e di polvere - le lagrime della moglie e dei figli! Erano finte anche quelle? Erano complici pietosi ancor essi della turpe commedia? Piangevano sulla colpa del padre, o sulla loro rovina? Avevano letto prima in quel volto venerato ed amato le angustie segrete, le ansie, le lotte che il negoziante onorato e stimato fino a quel giorno aveva dovuto dissimulare fra loro, a tavola, in teatro, nell'intimità della famiglia e al cospetto del pubblico che bisognava illudere colle apparenze di una costante prosperità? Era la disperata necessità della menzogna istessa che li contaminava tutti adesso per la comune salvezza? Sino a qual punto erano finte le lagrime del colpevole, lì, sotto gli occhi della moglie e dei figli, la sua tenerezza, il suo orgoglio, le sue vittime, i suoi giudici primi e più inesorabili nel segreto della coscienza? Chi avrebbe potuto dirlo? - Voi uomo di banca, che giuocate alla Borsa col sigaro in bocca delle partite di vita o di morte, e di rovina per altri mille che hanno fede soltanto nella vostra bella indifferenza? - O voi uomo di toga, che avete fatto piangere i giudici per salvare l'omicida? - Tutt'a un tratto la folla, i soldati, gli stessi pompieri indietreggiarono atterriti, dinanzi all'orror dell'incendio, fra un urlo immenso.
Egli solo, il disgraziato, si strappò dalle braccia dei figli per slanciarsi nella voragine ardente, rovesciando quanti gli si opponevano, lottando come un forsennato contro tutti, respinto, percosso, tornando a cacciarsi avanti a testa bassa, grondante sangue, colla schiuma alla bocca, la bocca da cui usciva un grido che non aveva più nulla d'umano: - La cassa! I libri! -
Lo portarono a casa su di una barella, tutto una piaga e mezzo asfissiato.
Stette un mese fra morte e vita, coll'aspettativa del giudizio infame in quell'agonia, e gli occhi dei figli che lo interrogavano.
- Povera Lia, come sei pallida! E anche tu, Arturo! Anche tu! Vedete, sono tranquillo adesso, tra voi.
Vedete come sorrido, povere creature? - E poi ancora dinanzi ai giudici, seduto al posto dei malfattori, sotto l'interrogatorio e le testimonianze contrarie, e la difesa dell'avvocato che invocava in suo favore quarant'anni di probità intemerata, e il viso pallido del figliuolo che ascoltava fra l'uditorio, e le braccia tremanti delle sue donne che l'avvinsero all'uscita del tribunale.
- Assolto! Assolto! - Senza dir altro, un'altra parola, che rimase muta e gelida fra di loro, sempre!
E la commedia di tutti i giorni, nella casa patrizia, sotto lo stesso tetto, alla stessa tavola, al cospetto dei figli e dei domestici, rappresentata per vent'anni, colla disinvoltura del gran mondo, tra il marito offeso e la moglie colpevole, se il triste segreto era realmente fra di loro.
- La moglie di Cesare non deve essere neppure sospettata, - ed entrambi, legati alla medesima catena da un casato illustre, osservavano perfettamente il codice speciale della loro società.
Né il mondo ci aveva nulla da vedere.
Forse qualche capello bianco di più sulle tempie delicate di lei; ma non un riguardo, né un'attenzione di meno della cortesia implacabile del marito.
Se la dama, moglie e madre onorata e insospettata sino al declinare della giovinezza, era caduta tutt'a un tratto, e caduta male, giacché il pleonasmo è ammesso nel suo mondo, come una povera creatura delicata e fiera, avvezza soltanto a camminar a testa alta sui tappeti e che non sappia mettere le mani avanti, il marito la sorresse tosto con braccio fermo, perché continuasse a portare degnamente il nome suo e quello dei figli.
Certo è che essa non gridò né pianse, né fece piangere le anime caritatevoli sulla pietà del caso.
- E anche il marito ebbe gran parte di merito nel tenere la cosa in famiglia; poiché l'altro era un uomo di mondo lui pure, della stessa casta e quasi dello stesso casato, bel cavaliere e bel giuocatore alle carte e in amore, che correva alla rovina e alla morte col sorriso alle labbra e il fiore all'occhiello, e sapeva vivere - e morire, al bisogno, evitando ogni scandalo.
Egli non le aveva scritto che due o tre lettere, nei casi più urgenti, quando si era trovato proprio coll'acqua alla gola o colla rivoltella sotto il mento.
Il male fu che una di quelle lettere, la più breve e grave, l'ultima, cadde in mano del marito, mentre stavano per recarsi a una gran festa, e la carrozza aspettava a piè dello scalone, e la povera donna già pettinata e vestita, pallida come una morta, seduta dinanzi a un gran fuoco, aspettava i gioielli che aveva impegnati per l'amante, e che questi le aveva promesso di restituirle per quella sera a ogni costo.
- A ogni costo.
- Perciò le chiedeva scusa, scrivendole, se per la prima volta, e l'ultima, mancava alla sua parola.
La poveretta ne aveva già il triste presentimento, giacché aveva il cuore stretto da quella immensa angoscia ed era così pallida dinanzi a quel gran fuoco? Aveva visto balenare l'idea del suicidio, ed era stata la pietosa attrattiva che l'avea data a lui, quando lo aveva visto perdere tutto, calmo e impenetrabile, in una terribile partita? - Una terribile partita che faceva disertare il ballo e attirava anche le dame nella sala da giuoco.
Egli, incontrando gli occhi di lei, tristi e pietosi, le aveva detto allora con un pallido sorriso: - Perché viene a vedere queste brutte cose, duchessa? - E lei...
- Perché?...
Perché fa questo, Maurizio? - balbettò essa con un filo di voce.
Egli si strinse nelle spalle, chinandosi a baciarle la mano, e non rispose altro, fissandola in viso con gli occhi chiari e fermi, e decisi a tutto.
La notizia del suicidio correva già per i trivi sulla bocca dei venditori di giornali, allorché il duca entrò nello spogliatoio della moglie colla fatale lettera in mano.
Era fermo anche lui, e impenetrabile come quell'altro, nella rovina improvvisa di tutto ciò che aveva formato il suo orgoglio e la sua fede.
- Scusatemi, - le disse - se l'ho letta prima di accorgermi che non era diretta a me.
Ma riflettete che poteva capitare in mani peggiori.
Bruciatela insieme a tutte le altre che dovete avere, e datevi un po' di rosso, giacché non posso condurvi al ballo con quella faccia, senza renderci ridicoli voi ed io -.
Il ridicolo fu evitato.
Se pure i cacciatori di scandali si affollarono all'uscio, quando fu annunziata l'illustre coppia, e le amiche indulgenti si rivolsero a lei, allorché la notizia del suicidio cominciò a circolare nella festa, videro lei diritta e forte, senza battere palpebra sotto il colpo mortale che le picchiava alla testa, e gli sguardi dei curiosi, e le parole del marito che compiangeva "quel povero Maurizio" colla discrezione mondana che attutisce ogni stridere molesto.
Essa fu malata, e il duca non lasciò un sol giorno la stanza di lei.
Ricomparve ai teatri, ai ricevimenti, ammirata, inchinata, al braccio di quell'uomo di cui sentiva l'intima repulsione, accanto alla vergine candida e pura e al giovinetto di cui era l'orgoglio e la tenerezza.
Quando essi andarono sposi, il padre aveva detto loro: - Serbatevi degni del vostro nome, e dell'esempio che vi hanno dato i vostri -.
Dinanzi a loro, dinanzi a tutti, egli non dimenticò giammai, un giorno solo, per anni ed anni, di dare lo stesso esempio di devozione e di stima alla compagna della sua vita e della sua catena, rimasta sola con lui, nel palazzo immenso, sonoro e vuoto come una tomba.
Se mai il volgare sospetto fosse durato ancora nella mente di qualche domestico o di un familiare, egli volle smentirlo sino all'ultimo momento, sino al punto di morte, stringendo la mano della moglie singhiozzante, prostrata dinanzi a lui, dinanzi ai figli, dinanzi ai congiunti, mentre il prete gli dava la estrema unzione.
Soltanto nell'ultima convulsione di spasimo, respinse quella mano colla mano di ghiaccio.
Nel testamento lasciò un ricco legato "alla sua fedele compagna".
Quante altre! Quante! - Il sorriso procace della disgraziata che deve guadagnarsi il pranzo.
- Le lagrime dello scroccone che viene a chiedervi venti lire "in prestito".
- L'eleganza dello spiantato che cena colle paste del the.
- Gli occhi bassi della ragazza che cerca un marito.
- E la più desolante, infine, la commedia dell'amore, quando l'amore è morto, e resta la catena.
O braccia delicate che vi allacciaste all'amplesso stanche e illividite! Quando Alberto strinse in quella festa da ballo la piccola mano che doveva avvincergli così tenacemente la catena al collo, non sapeva che essa se ne sarebbe svincolata così presto.
E anche lui allora non sapeva di lasciarsi prendere all'ardore che simulava e alla lusinga delle proprie frasi galanti.
- Il sorriso trionfante di lei che si inebbriava all'omaggio di quel bell'avventuriero d'amore disputato e ammirato - il sottile eccitamento della danza - la carezza della musica che accompagnava la carezza delle parole - gli occhi bramosi che cercavano i suoi, e il fulgore ch'essa vi scorse allorché chinò il capo biondo ad assentire: - Sì! Sì! - con qual altra ebrezza e qual smarrimento negli occhi ella ascese la prima volta quella scala e spinse quell'uscio, premendosi forte il manicotto sul seno ansante! Con qual altro sbigottimento vi ritornò poi, guardandosi intorno e buttandosi a sedere appena entrata, col viso pallido e una ruga sottile fra le sopracciglia.
- Mi son fatta aspettare, non è vero? - No...
non importa ormai...
Sei qui!...
- Ah, son mezzo morta...
Sapeste!...
Mio marito!...
Quel portinaio che mi vede passare! - Insomma tutte quelle cose che non vedeva prima, quando aveva gli occhi abbacinati dal sogno d'oro.
- Lasciatemi, Alberto!...
Ve ne prego! Vi prego!...
- Vi lascio.
Scusatemi!
- Che vi piglia adesso? Vedete in che stato sono!...
Che faccio per voi!...
Gli occhi negli occhi, le mani nelle mani, e la bocca rosea che sorrideva stanca e si offriva sotto la veletta.
Ah, non era quella la bocca che una volta sfuggiva tremante e si era abbandonata avida al primo bacio! Gli si offriva anche adesso, pietosa menzogna, perché vedeva gli occhi ardenti dell'innamorato cercare in quelli di lei l'amore che non c'era più.
Egli non raccolse quel bacio, guardandola fiso: - O povera Maria! - disse tristamente.
Ella si era fatta rossa, fissandolo anche lei con gli occhi già inquieti.
Scorgeva forse il dubbio e l'incredulità atroce negli occhi di lui? - Povero amore! Povera Maria! - Non le disse altro, e l'accarezzò sui capelli, sorridendo anche lui.
Ma era bianco bianco, e il sorriso era amaro.
Allora essa avvinse nelle sue carezze quel pallore e quegli occhi, e vi si smarrì un istante ella pure, forse sinceramente, o volle smarrirvisi per compassione di lui.
O povero amore, che hai bisogno di batterti i fianchi colle ali! Povera amante discesa a rappresentare l'ignobile commedia! - No! No! - Egli indietreggiò barcollante, come se avesse ricevuto un urto al petto, fece qualche passo per la stanza, e tornò a sederlesi allato, cercando di sorriderle ancora, cercando le parole che non venivano.
- È tardi - diss'ella alzandosi.
- Saranno quasi le cinque.
Devo andarmene -.
Si alzò egli pure senza dir nulla.
Essa cercò il manicotto ed i guanti, si aggiustò il velo sul viso serio e freddo, senza una parola, senza guardarlo, e s'avviò all'uscio.
Egli l'apriva già.
- Fatemi il favore.
Se ci fosse qualcheduno per la scala...
- Aspettate -.
Uscì a spiare dal pianerottolo e rientrò tosto.
- Nessuno -.
L'amata esitò un istante e rialzò la veletta al di sopra della bocca.
L'amante finse di non vederla, e le strinse la mano.
- Addio dunque.
- Addio -.
Udì sino all'ultimo scalino il rumore dei passi di lei che altra volta si dileguavano furtivi, e dalla finestra la vide ferma e tranquilla sul marciapiedi, come una che non ci abbia più nulla da nascondere adesso, accennando a un cocchiere d'accostarsi, con un gesto grazioso della destra infilata nel manicotto.
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RACCONTI E BOZZETTI (1880-1922)
UN'ALTRA INONDAZIONE
Mi rammento, nell'ultima eruzione dell'Etna, di avere assistito ad uno di quei semplici episodi che vi colpiscono più profondamente della catastrofe istessa.
Era lo spettacolo di un casolare, in fondo alla valle, che la lava stava per seppellire.
Davanti al casolare, c'era un cortiletto, cinto da un muricciuolo, il quale aveva arrestato per poco la corrente, e le scorie gli si ammonticchiavano addosso adagio adagio; sembrava si gonfiassero, come un rettile immane irritato, e scoppiavano in larghi crepacci infuocati.
Allora il casolare ne era improvvisamente rischiarato, e si vedevano le finestre spalancate, una tettoia accanto alla porta, e un albero nel cortiletto.
L'immensa valle era tutta nera di scorie fumanti, che si squarciavano qua e là, e avvampavano nelle tenebre, e le scorie irrompevano da quei crepacci, con un acciottolio prolungato e sinistro, come di un'immensa distesa di tegole che rovinasse.
Una delle finestre del casolare si era illuminata, e dava un aspetto di cosa viva a quella casuccia abbandonata in mezzo a tanta desolazione; ma ciò che colpiva maggiormente era quel cortiletto deserto e sgombro d'ogni cosa, senza un cane, né una gallina, né un pezzo di legno, quasi spazzato da un vento furioso.
Di tanto in tanto vi si vedeva comparire un uomo, il quale sembrava nero nel riflesso ardente della lava, e piccin piccino per la grande distanza.
Egli si affacciava sotto la tettoia, e guardava.
Dal poggio dove eravamo, si scorgevano anche col cannocchiale altri uomini piccini e neri, che formicolavano sul tetto, e ne levavano le tegole, i travicelli, le imposte, tutto ciò che potevasi strappare di dosso alla povera casa, la quale pareva sempre più desolata a misura che la spogliavano nuda prima di abbandonarla.
E intanto dal poggio gli spettatori, seccati dalla cenere che li accecava, e dalle emanazioni che toglievano il respiro, s'impazientivano del lungo tempo che ci metteva la lava a soverchiare l'altezza del muricciuolo, e calcolavano, coll'orologio in mano, il tempo che ci avrebbe messo a circondare la casuccia.
Tutt'a un tratto l'albero accanto alla porta avvampò come una fiaccola, e la lava si rovesciò nel cortile.
E nella immensa valle nera non si vide altro che il rosseggiare qua e là delle lave che irrompevano, accompagnate dall'acciottolio sinistro delle scorie che precipitavano.
Alle volte, mentre la corrente infuocata si ammonticchiava a poco a poco per 50 metri d'altezza, non si udiva né si vedeva più nulla, tranne il fruscio soffocato della pioggia di cenere, che stampavasi come uno sterminato nuvolone nero sul pallido cielo di luna nuova, e le fiamme che si accendevano di tratto in tratto nella valle, e indicavano il corso della corrente di fuoco.
Ah! quanti alberi se ne andavano in quelle fiamme! e quanti filari di vigne zappati, potati, accarezzati, guardati cogli occhi assorti nei castelli in aria della povera gente! e quante cannucce con le immagini di sant'Agata miracolosa, che non erano valse ad arrestare il fuoco! e quante avemarie biascicate colle labbra tremanti!
E noi che correvamo ad assistere a quel triste spettacolo in brigate chiassose! e le strade della montagna che erano popolate di notte come alla vigilia di una festa, e i cocchieri che facevano scoppiettare allegramente le fruste perché non avevano né vigne né case, e la loro vigna era quella provvidenza dell'eruzione che avrebbe dovuto non finir più, se voleva Dio! e le bettole affollate e fumanti, e i campi lungo le siepi, e le storielle dettagliate del disastro che si raccontavano per renderne più piccante lo spettacolo a coloro che spendevano 20 lire per andarlo a vedere! - Quante ricchezze aveva ingoiate il fuoco, quanti campi aveva distrutto, quanto erano distanti i boschi del barone A.
e quanto potevano valere i nocciuoleti del marchese B.
minacciati dell'eruzione.
- Insomma i particolari più desolanti, come il pepe della pietanza, che vi facevano sospirare dal piacere pensando che non ci avevate nemmeno un palmo di terra da quelle parti.
Un tale, il giorno prima, vi possedeva una vigna che gli fruttava 3000 lire all'anno, una ricchezza, sebbene non avesse altro, per sé e per la sua numerosa famiglia.
Tutt'a un tratto vennero a dirgli che il fuoco si divorava la sua ricchezza, e lo lasciava povero e pazzo, come si dice.
Egli accorse a cavallo dell'asino, e trovò il vignaiuolo affaccendato a levare le imposte del palmento, e le tegole del tetto, le doghe delle botti, tutto ciò che si poteva salvare, come avevano fatto quei del casolare.
Il padrone, giungendo alla porta senz'uscio del palmento, dinanzi alla sua vigna che gli fumava e gli crepitava sotto gli occhi, filare per filare, domandò al vignaiuolo con la faccia bianca; - Perché avete levato le tegole e le imposte, e le doghe delle botti? - Per salvarle dal fuoco - rispose il contadino.
- Il fuoco fra tre ore sarà qui.
- Lasciate stare ogni cosa, - disse il padrone.
- Io non ho più bisogno di palmento, né avrò più cosa metterci nelle botti.
Io non ho più nulla .
- Egli non aveva nemmeno la zappa da camparsi la vita, come il suo vignaiuolo.
Poi baciò il cancello della vigna, che ancora rimaneva in piedi, e se n'andò, tirandosi dietro l'asinello.
Io non ho assistito a quella scena, ma essa mi è rimasta stampata dinanzi agli occhi più nettamente del casolare che ho visto distruggere dalle lave.
E quando mi avviene di sentire di qualche altra catastrofe, penso a quei poveretti che si sono voltati a guardare da lontano la vigna inondata e la casuccia distrutta, ed hanno detto; - Io non ho più cosa metterci nelle botti quest'anno, né nel granaio.
Io non ho più nulla, - come quel tale che aveva baciato per l'ultima volta il cancello della sua vigna, e se n'era andato tirandosi dietro l'asinello.
CASAMICCIOLA
Quando giunse la notizia del disastro che aveva colpito Ischia mi parve di rivedere l'isoletta, quale mi era sfilata dinanzi agli occhi attraverso gli alberi del battello a vapore, in una bella sera d'autunno.
La mensa era ancora apparecchiata sul ponte, e gli ultimi raggi del sole indoravano il marsala nei bicchieri.
Dei viaggiatori alcuni s'erano già levati, e passeggiavano su e giù.
Altri, coi gomiti sulla tovaglia, guardavano l'immensa distesa di mare che imbruniva sotto i caldi colori del tramonto su cui Ischia stampavasi verde e molle, e dove la riva s'insenava come una coppa.
Casamicciola, bianca, sembrava posare su di un cuscino di verdura.
A tavola due che tornavano dal Giappone discorrevano di seme di bachi.
Una coppia misteriosa era andata a rannicchiarsi a ridosso del tubo del vapore.
Un giovane che non aveva mangiato quasi, e stava seduto in un canto, pallido, col bavero del paletò rialzato, guardava l'isoletta con occhi pensierosi e lenti, in fondo alle occhiaie incavate.
Tutt'a un tratto sul profilo dell'isola che spiccava dalla luce diffusa del crepuscolo, apparve netto e distinto un fabbricato, quasi sorgesse d'incanto, e l'ultimo raggio di sole scintillò sui vetri, come l'accendesse.
Quel dettaglio del paesaggio che si animava all'improvviso apparve così chiaro e luminoso come se si fosse avvicinato d'un tratto.
Tutti si volsero ad ammirare lo spettacolo, e i negozianti di cartoni giapponesi tacquero un momento.
Soltanto la coppia ch'era andata a nascondersi dietro il fumajuolo non si mosse, e gli occhi del giovane pallido che teneva il bavero rialzato non si animarono neppure.
Così succede ogni dì; e due sole preoccupazioni bastano per sé stesse, l'amore e la malattia, l'origine e la fine della vita.
Quasi cotesta riflessione fosse venuta istintivamente a tutti in quel momento, si cominciò a parlare dell'azione benefica che hanno le acque e l'aria di Casamicciola, e dei malati che vanno a cercarvi la salute o la speranza.
Invece il giovane dal paletò, pensava probabilmente, come si fa delle cose che si desiderano, alle gioie tranquille e ignote che dovevano esserci in quell'isoletta verde, fra quelle casette bianche, dietro quei vetri scintillanti.
E quando i vetri si spensero, e la casa si dileguò ad un tratto quasi al mutare di una lanterna magica, e i contorni dell'isoletta sfumarono nel mare livido, il suo volto si offuscò.
Adesso quella casetta bianca è forse distrutta, e degli occhi senza lagrime e senza sorriso ne contemplano le rovine, dalle occhiaie incavate, su dei visi pallidi.
I DINTORNI DI MILANO
L'impressione che si riceve dall'aspetto del paesaggio prima d'arrivare a Milano, per quaranta o cinquanta chilometri di ferrovia, è malinconica.
La pianura vi fugge dinanzi verso un orizzonte vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi scapitozzati, uniformi, che non finiscono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di alberelli, colle medesime cascine sull'orlo della strada, in mezzo al verde pallido delle praterie.
Verso sera, allorché sorge la nebbia, il sole tramonta senza pompa, e il paesaggio si vela di tristezza.
D'inverno un immenso strato di neve a perdita di vista, costantemente rigato da sterminate file d'alberi nudi, tirate colla lenza, a diritta, a sinistra, dappertutto, sino a perdersi nella nebbia.
Di tratto in tratto, al fischio improvviso della macchina, vi si affaccia allo sportello, e scappa come una visione un campanile di mattoni, un fienile isolato e solitario.
Sicché finalmente appena nella sconfinata pianura bianca, fra tutte quelle linee uniformi, vi appare del cielo smorto la guglia bianca del Duomo, il vostro pensiero si rifugia frettoloso nella vita allegra della grande città, in mezzo alla folla che si pigia sui marciapiedi, davanti ai negozi risplendenti di gas, sotto la tettoia sonora della Galleria, nella luce elettrica del Gnocchi, nella fantasmagoria di uno spettacolo alla Scala, dove sboccia come in una serra calda la festa della luce, dei colori e delle belle donne.
I dintorni di Milano sono modellati sulle linee severe di questo paesaggio.
Basta salire sul Duomo in un bel giorno di primavera per averne un'impressione complessiva.
È un'impressione grandiosa ma calma.
Al di là di quella vasta distesa di tetti e di campanili che vi circonda, tutta allo stesso livello, si spiega la pianura lombarda, di un verde tranquillo, spianata col cilindro, spartita colle seste, solcata da canali diritti, da strade più diritte ancora, da piantagioni segnate col filo, senza un'ondulazione di terreno e senza una linea capricciosa in gran parte.
L'occhio la percorre tutta in un tratto sino alla cinta delle Alpi ed alle colline della Brianza.
E se rimaneste un giorno intero lassù non ne avreste un'impressione nuova, né scoprireste un altro dettaglio.
È la stessa cosa percorrendo i dintorni immediati della città.
Sempre le stesse strade più o meno diritte, fiancheggiate dagli stessi alberi; il medesimo fossato da una parte, o il medesimo canale dall'altra, lo stesso muro grigio, rotto di tanto in tanto dal portone di una fabbrica, sormontato da un fumaiuolo nero che sporca il cielo azzurro, gli stessi orti chiusi tra filari di gelsi e divisi in scompartimenti di cavoli e lattughe senza mutar di prospettiva.
Sicché la cosa più difficile per un viandante pare che dovrebbe essere di riconoscere la sua strada fra quelle altre cento strade che si somigliano tutte, e per un proprietario di ritrovare il suo podere fra tutti quei poderi fatti sul medesimo stampo.
Nondimeno il milanese ha la passione della campagna.
Bisogna vederlo a San Giorgio o in qualche altra festa campestre per farsene un'idea.
Appena la stagione comincia a farsi mite e il ciglio dei fossati a verdeggiare, tutti corrono fuori del dazio, a godersi il verde sminuzzato a quadretti, e ad empirsi i polmoni di polvere.
Codesto è il motivo di tante osterie di campagna, di tante isole, di tanti giardini piantati in botti da petrolio.
Allora le strade melanconiche, i ciglioni intristiti, i quadrelli di verdura pallida formicolano di un'altra vita, risuonano di organetti, di chitarre, di allegria chiassosa e bonaria.
L'uniformità del fondo dà alcunché di piccante alla varietà delle macchiette.
Qui il paesaggio, in un orizzonte sconfinato, è circoscritto costantemente fra due file di alberi, lungo due muri polverosi, fra le sponde di un canale diritto, smorto, che sembra immobile, ombreggiato dacché spuntano i primi germogli sinché cadano le ultime foglie, e i raggi del sole non hanno più colori né festa.
La mucca che leva il muso grondante d'acqua, un gruppo di contadine che lavorano nei campi, e mettono sul prato la nota gaia delle loro gonnelle rosse, la carretta che va lentamente per la stradicciuola, un desco zoppicante sotto il pergolato di un'osteria, coll'operaio in maniche di camicia, e la sua donna coi gomiti sulla tovaglia e gli occhi imbambolati, due cavalli da lavoro accanto a una carretta colle stanghe in aria, davanti a una porta chiusa, sono tutti i quadri della campagna milanese, su di un fondo uniforme.
Lo spettacolo grandioso di un tramonto bisogna andare a vederlo in Piazza d'Armi, su quella bella spianata che corre dal Castello all'Arco del Sempione; e tuttavia l'effetto più grandioso gli viene dalle linee stupende del monumento, sul fondo opalino, e da quei cavalli di bronzo che si stampano come una visione del bello dell'arte, in alto, nella gloria degli ultimi raggi.
Ma la ineffabile melanconia di quell'ora non l'ho mai provata come in una delle Certose dei dintorni di Milano.
Colà, in mezzo a mirabili pagine d'arte, la luce muore nelle invetriate dipinte, vi sorprende uno strano sentimento della vanità dell'arte e della vita, un incubo del nulla che vi si stringe attorno da ogni parte, dalla campagna silenziosa e uniforme.
Io non ho mai passata un'ora più tetra come quella che provai in uno di quei cortiletti di verdura cupa della Certosa di Pavia, chiusi fra quattro mura di cimitero, e allietati da quattro file di bosso, nel caldo meriggio d'aprile, in cui non si udiva il ronzare delle mosche.
Di cotesta impressione alquanto melanconica del paesaggio milanese ne avete un effetto anche ai Giardini pubblici, dove mettendo sottosopra il tranquillo suolo lombardo sono riesciti a rendere un po' del vario e pittoresco che è la bellezza della campagna.
Il popolo però li ha cari, e nei giorni di festa e di sole ci reca in folla la sua allegria e la sua vita.
Tutto ciò infine prova che Milano è la città più città d'Italia.
Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre.
Il più bel fiore di quella campagna ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l'uomo ha fatto più della natura.
Che importa a Milano se non ha che 3 o 400 metri di passeggiata, da Porta Venezia al ponte della via Principe Umberto? I suoi equipaggi non sono splendidi quanto quelli della Riviera di Chiaja e delle Cascine? e la prima domenica di quaresima, quando il sole scintilla sugli arnesi lucenti, e sui colori delicati, per tutte quelle file di cocchi e di cavalli, in mezzo a quella folla elegante che formicola nei viali, col fondo maestoso di quelle Alpi ancora bianche di neve, il cielo trasparente e gli ippocastani già picchettati di verde, lo spettacolo non è bello? e quando il teatro alla Scala comincia ad essere troppo caldo anche per le spalle nude, e l'alba imbianca troppo presto sulle finestre delle sale da ballo, Milano non ha la sua Brianza per farvi trottare i suoi equipaggi? non ha i laghi per rovesciarvi la piena della sua vita elegante? non ha Varese per farvi correre i suoi cavalli? Le passeggiate e i dintorni di Milano sono un po' lontani, è vero; ma sono fra i più belli del mondo.
Io mi rammento ancora della prima gita che feci al Lago di Como, in una giornata soffocante di luglio, dopo una di quelle estati di lavoro e di orizzonti afosi che vi mettono in corpo la smania del verde e dei monti.
La prima torre sgangherata che scorsi in cima alla montagna posta a guardia del lago mi si stampò dinanzi agli occhi come un faro di pace, di riposo, di freschi orizzonti.
Il paesaggio era ancora uniforme.
Tutt'a un tratto, dalle alture di Gallarate, vi si svolge davanti un panorama che è una festa degli occhi.
Allorché vi trovate per la prima volta sul ponte del battello a vapore, rimanete un istante immobile, e colla sorpresa ingenua del piacere stampata in faccia, né più né meno di un contadino che capiti per sorpresa in una sala da ballo.
L'ammirazione è ancora d'impressione, vaga e complessiva.
Non è lo spettacolo grandioso del Lago Maggiore, né quello un po' teatrale del Lago di Lugano visto dalla Stazione.
È qualche cosa di più raccolto e penetrante.
Tutto il Lago di Como a prima vista è in quel bacino da Cernobbio a Blevio, e la prima idea netta che vi sorga è di sapere da che parte se n'esca.
A poco a poco comincia a sorgere in voi come un'esuberanza di vita, quasi un'esultanza di sensazioni e di sentimenti, a misura che lo svariato panorama si va svolgendo ai vostri occhi.
Sentite che il mondo è bello, e se mai non l'avete avuta, principia a spuntare in voi, come in un bambino, la curiosità di vederlo tutto, così grande e ricco e vario, di là di quelle cime brulle, oltre quei boschi che si arrampicano come un'immensa macchia bruna sui dossi arditi, dopo quei campanili che sorgono da un folto d'alberi, di quelle cascate che biancheggiano un istante nella fenditura di un burrone, di quelle ville posate come un gingillo, su di un cuscino di verdura, che vi creano in mente mille fantasie diverse, e la vostra immaginazione popola di figure leggiadre, dietro le stoie calate ed i vetri scintillanti, in quelle barchette leggiere che battono il remo silenzioso come un'ala, e si dileguano mollemente, con un cinguettìo lontano di voci fresche, strascinandosi dietro delle bandiere a colori vivaci.
È come un sogno in mezzo a cui passate, e vi sfila dinanzi Villa d'Este elegante, Carate civettuolo, Torno severo, e Balbianello superbo.
Poi come tutt'a un tratto vi si allarga dinanzi la Tremezzina quasi un riso di bella fanciulla, nell'ora in cui sulla Grigna digradano le ultime sfumature di un tramonto ricco di colori e Bellagio comincia a luccicare di fiammelle, e il ramo di Colico si fa smorto, di là di Varenna, e Lenno e San Giovanni vi mandano le prime squille dell'Avemaria, voi vi chinate sul parapetto a mirare le stelle che ad una ad una principiano a riflettersi sulla tranquilla superficie del lago, e appoggerete la fronte sulla mano sentendovi sorgere in petto del pari ad una ad una tutte le cose care e lontane che ci avete in cuore, e dalle quali non avreste voluto staccarvi mai.
NELLA STALLA (INONDAZIONE)
Le mucche, lungo le rastrelliere, si voltavano indietro, a fiutare quel tramestìo che si era fatto attorno alla lettiera della Bigia.
La pioggia batteva contro le impannate; e le bestie scuotevano le catene sonnolente: di quando in quando, nell'ombra cui non arrivavan mai a dissipare le lanterne polverose, si udiva il tonfo di quelle che si accovacciavano, ad una ad una nello strame alto, dei muggiti brevi e sommessi, un ruminare svogliato, il fruscìo della paglia.
Di tanto in tanto le mucche inquiete levavano il capo, tutte in una volta.
La Bigia aveva ai piedi un vitellino, ancora tutto molle e lucente nella lettiera, e lo leccava e lo lisciava muggendo sotto voce.
- Di fuori si udiva un rombo che cresceva, dappertutto.
Poco dopo accadde un gran trambusto nelle stanze superiori: dei passi precipitosi, e dei mobili che strascinavano sul pavimento.
Uno spalancare di usci e di finestre e delle voci che chiamavano nel cortile.
Quindi si udirono delle schioppettate e delle strida di donne che piangevano.
Il gallo, in cima alla scala, saettava il capo, spaventato, chiocciando.
Di fuori, il cane uggiolava.
Ad un tratto le bestie cominciarono a muggire tutte in una volta, fiutando verso l'uscio, cogli occhi spaventati, e tiravano forte le catene, come cercassero di strapparle.
Per tutta la corsìa oscura corse un volo pesante e schiamazzante di galline.
Immediatamente si udì il rombo vicino che scuoteva i muri, e sembrava montare verso le finestre.
La Bigia allora levava il muso fumante verso l'impannate, e metteva un muggito lungo e doloroso.
Poi ritornava a fiutare il vitellino, raccoccolato colle zampe sotto il ventre.
Il cane non uggiolava più.
Della gente correva pel cortile, delle voci affannate, delle grida.
L'uscio si spalancò all'improvviso, ed entrò un'ondata d'acqua sporca.
Allora nella stalla successe un trambusto, un rovinìo, tutta una fila di mucche avea strappata l'asse, alla quale erano legate, e scappava all'impazzata trascinandosela dietro, inciampando le une colle altre, mentre le galline fuggivano schiamazzando fra le loro gambe.
Nella corte su di un palo, ardeva un fascio di legna secca, e illuminava tutto intorno l'acqua nera, che luccicava dove cadevano le scintille.
- Le bestie irruppero dalla stalla come una valanga, rompendo, scavalcando ogni cosa, sguazzando nella pozzanghera, la Bigia in mezzo.
Poi tornò indietro, levando il muso, con lunghi muggiti, verso le finestre della cascina.
Andava e veniva per la corte colla coda ritta; infine si decise di rientrare nella stalla.
Il vitellino era là coll'acqua al collo, la madre tentava di spingerlo dolcemente verso l'uscio, scalpicciando in mezzo all'acqua.
Ad ogni momento levava il capo verso il soffitto come per chiamare aiuto.
Giunse un'altra ondata che gorgogliò al posto dove era il vitello, poi si agitò disperatamente e ribollì; la lanterna era sempre accesa nella stalla nera che sembrava barcollare.
Infine l'onda si allargò quieta ed immobile dappertutto.
Allora la Bigia scappò muggendo al vento, colla coda ritta, l'occhio pazzo di terrore, e si prese nell'oscurità profonda.
PASSATO! (RICORDI)
Qui, quando la città è più festosa e la folla più allegra, penso alla campagna lontana, laggiù, fra i miei monti, dietro il mare azzurro.
Penso ai sentieri verdeggianti, alle siepi odorose, alle lodole che brillano al sole, alla canzone solitaria che sale dai campi, monotona e triste come un ricordo d'altre patrie.
Penso a quell'ora dolce del tramonto, quando l'ultimo raggio indora le nevi della montagna, e il fumo svolgesi dai casolari, e le campane degli armenti risuonano nella valle, e la campagna si nasconde lentamente nella notte.
Penso a quell'ora calda di luglio quando il sole innonda la pianura riarsa, e il cielo fosco di caldura sembra pesare sulla terra, e il grillo nelle stoppie canta la canzone dell'ora silenziosa.
Penso alle notti profonde, alle lucciole innamorate, al coro dei vendemmiatori, al rumore lontano dei carri che sfilano nella pianura odorosa di fieno, ai cespugli immobili e neri come spettri nel raggio misterioso della luna.
Penso alle lunghe notti d'inverno spazzate dal vento e dagli acquazzoni, agli alberi che gemono nel temporale, e vi raccontano fantastiche storie cui sorridono gli occhi dei vostri cari, raccolti intorno alla lampada domestica.
Penso alla mia fanciullezza, che sembra sia tutta trascorsa in quella nota campagna; penso a quei colli, a quei valloni, a quei sentieri, a quella fontana, davanti alla quale è passata tanta gente, che veniva da lontano, a quel cespuglio su cui moriva il sole d'autunno quel giorno in cui vi passaste anche voi, con me, per l'ultima volta.
Quest'ultimo raggio di sole che mi è rimasto in cuore come un addio, come la vaga angoscia dei giorni spensierati dell'infanzia, che ci fa presentire le amarezze della vita, con un senso di vaga e dolorosa dolcezza.
Penso a quel sasso in cui ho segnato il primo amore de' miei tredici anni, quando non conoscevo ancora altri dolori all'infuori di quelli creatimi dalla mia fantasia.
Ora che il dolore so cosa sia, il dolore vero, quelle che vi immerge le unghie nella carne viva e vi ricerca le fibre del cuore, quello che vi divorava le lagrime, le sensazioni e le idee, quando la morte entrò nella vostra casa...; penso ancora a quei luoghi, a quelle scene serene che vi tornano dinanzi agli occhi feroci come un'ironia nell'ora terribile di quell'angoscia; penso al muricciolo di quella fontana al quale si sono appoggiati quelli che non son più, a quell'erba che si è piegata sotto i loro passi, a quelle pietre sulle quali si sono messi a sedere.
Ora l'erba è morta anch'essa, ed è risorta tante volte.
Il sole l'ha bruciata, e la pioggia fatta rinascere.
Quando le nuove gemme hanno verdeggiato nella siepe lì accanto, ne' bei giorni d'aprile, essi non sapevano più nulla di voi, miei cari!
Io che sono rimasto, penso a quell'erba che non è più la stessa, a quelle pietre che dureranno ancora, mentre voi siete passati su di loro - e per sempre; penso che dell'altra erba spunta e muore fra le pietre della vostra fossa; e quando penso che lo strazio feroce di questo dolore non è più così vivo dentro di me, che ogni strappo dell'anima lentamente va rimarginandosi, mi viene uno sconforto amaro, un senso desolato del nulla, d'ogni cosa umana, se non dura nemmeno il dolore, e vorrei sdraiarmi su quell'erba, sotto quei sassi, anch'io nel sonno, nel gran sonno.
- IL CARNEVALE FALLO CON CHI VUOI; - PASQUA E NATALE FALLI CON I TUOI -
Così andava dicendo compar Menico, a ogni conoscente che incontrava, salutandolo "Viva Maria!" - Il paesetto rideva là al sole, col campanile aguzzo fra il grigio degli ulivi.
- Cosa ci portate a casa, per le feste? - gli chiese il vetturale che gli andava accanto sul basto dondoloni.
- Quel che dà la provvidenza, - rispose compare Menico ridendo fra di sé.
La bisaccia per la salita non gli pesava, tanto aveva il cuore leggiero; e gli facevano allegria financo i passeri che si lisciavano le penne, gonfi dal freddo, sulle spine della siepe.
La strada ora gli sembrava lunga, dopo tanto tempo.
- E vostra moglie che vi aspetta? - gli disse il vetturale.
Compare Menico fece cenno di sì, ridendo sempre fra di sé.
La casa era in fondo al paese.
Passò la fontana; passò la piazza; passò la beccheria, dove c'era gente che comprava carne, e da per tutto, a ogni cantonata, gli altarini parati a festa, cogli aranci e le ostie colorate.
Nelle case il suono delle cornamuse metteva allegria.
In fondo al vicoletto del Gallo si udiva un gridìo di ragazzi che giuocavano alle fossette, colle mani rosse.
Compar Menico guardava la finestra, da lontano, per vedere se sua moglie l'aspettava.
Ma la finestra era chiusa.
C'erano comare Lucia a sciorinare il bucato, e comare Narcisa, che filava al ballatoio per fare la gugliata lunga.
Lo sciancato andava zoppiconi a raccogliere le galline che fuggivano schiamazzando.
Compare Menico posò la bisaccia, che gli pesava, e sedette ad aspettare accanto all'uscio chiuso, senza accorgersi delle vicine che ridevano dei fatti suoi, nascoste dietro l'impannata.
Aspetta e aspetta, infine lo zio Sandro mosso a compassione gli si accostò passo passo, col fare indifferente e le mani dietro la schiena.
Dopo un pezzetto che stavano seduti accanto colle gambe larghe, guardando di qua e di là, lo zio Sandro domandò;
- Che aspettate la zia Betta, compar Menico?
- Sissignore, vossignoria.
Son venuto a fare il Natale.
E vedendo che avrebbe aspettato fino al giorno del giudizio, lo zio Sandro si decise a dirgli:
- O che non sapete nulla, dunque?
- Nossignore, zio Sandro.
Che cosa devo sapere?
- Che vostra moglie se n'è andata con Vito Scanna, e si è portata via la chiave -.
Compare Menico lo guardò stupefatto, grattandosi la testa.
Quindi balbettò:
- E dove se n'è andata?
- Io non lo so, compare Menico.
Credevo che lo sapeste.
- Nossignore, io non sapevo niente, - rispose il poveraccio ripigliando la bisaccia.
- Non sapevo che mi aspettava a casa questo bel regalo, la festa di Natale -.
Tutto il vicinato si scompisciava dalle risa, vedendo compare Menico che s'era fatta dare una scala per entrare dal tetto in casa sua, peggio di un ladro.
Egli stette rintanato in casa, festa e vigilia, senza aver animo di mettere il naso fuori.
- Questa ch'è la maniera di fare, servo di Dio? - gli diceva comare Senzia la vedova.
- La grazia di Dio che lasciate andare a male, tali giornate! e il crepacuore che covate per dar gusto ai vostri nemici! -
Egli non sapeva che dire, in verità; ora il compassionarlo che faceva la zia Senzia lo inteneriva, in mezzo a tutto quel ben di Dio che c'era in casa.
- Che gli mancava, gnà Senzia, ditelo voi? che gli mancava a quella buona donna per farmi questo tradimento?
- Noialtre donne, compare Menico, ci meritiamo il castigo di Dio, - rispondeva comare Senzia.
Quella era veramente una buona donna, che aveva cura del poveraccio, abbandonato al pari di un orfano, e gli teneva la chiave della casa allorché compare Menico se ne fu tornato in campagna come se le feste per lui non ci fossero mai state.
Lì, nel maggese, gli giungevano altre notizie della moglie; - L'abbiamo vista alla fiera di Mililli.
- Vito Scanna se l'è portata a incartar limoni nei giardini di Francofonte -.
Tutti gli facevano la predica: - La moglie giovane non va lasciata sola, compare Menico! -
Infine il torto cadeva su di lui.
In giugno, colla schiera dei mietitori assoldati dal capoccia, giunse al podere anche Vito Scanna, tutto cencioso, senz'altro bene che la sua falce.
- Guardate che non voglio scene fra di voi! - raccomandò il fattore.
- Ciascuno al suo lavoro, com'è dovere -.
Sicché gli toccò anche vedersi Scanna mattina e sera sotto il naso, mangiare e bere e cantare come la cicala, nelle ore calde, per non sentire il sole.
Un giorno che il sole gli scaldò la testa a tutti e due, e volevano bucarsi la pancia colla forca, per amore di quella donna, il fattore li minacciò di scacciarli su due piedi, e convenne aver pazienza.
Certo è che Betta doveva fare la mala vita, ora che Vito Scanna l'aveva abbandonata.
Il Signore l'aveva castigata, come soleva dire comare Senzia.
Zio Menico portava a casa vino, olio, frumento, al par della formica, nella casa senza padrona, dove la zia Senzia si godeva tutto.
- Solo come un cane non posso starci - diceva lui, il poveraccio, per scolparsi.
- Chi baderebbe alla casa e mi farebbe cuocere la minestra? -
Il curato, servo di Dio, cercava di toccargli il cuore, e far cessare lo scandalo, ora che sua moglie era sola e pentita.
- Aprite le braccia e perdonatele, come al figliuol Prodigo, adesso che s'avvicina il Santo Natale.
- Come posso vedermela di nuovo in casa, vossignoria, dopo il tradimento che mi ha fatto? - rispondeva lo zio Menico - senza pensare a Vito Scanna, che stavamo per ammazzarci colla forca, Dio libero, alla messe! -
Dall'altro canto comare Senzia, che mangiava la foglia, ogni volta che vedeva lo zio Menico parlare col curato, gli faceva un piagnisteo, lamentandosi che volevano abbandonarla nuda e cruda in mezzo a una strada.
- Allora vedrete che il castigo di Dio vi sta sul capo,- conchiudeva il prete.
- E la gente a sparlare di lui, che si ostinava a vivere nel peccato, come una bestia.
Il castigo di Dio lo colse infatti a Ragoleti con una febbre perniciosa, peggio di una schioppettata.
Lo portarono in paese su di un mulo, che aveva già la morte sulla faccia.
Sua moglie allora corse insieme al viatico, colla faccia pallida e torva, e siccome la zia Senzia era ancora lì, umile e atterrita, si mise i pugni nei fianchi, e la scacciò di casa sua come una mala bestia.
Ora ella era la padrona.
Compare Menico in un angolo non parlava e non contava più.
Appena chiusi gli occhi, la vigilia dell'Immacolata, sua moglie si vestì di nero da capo a piedi, senza perdere un minuto.
E coi vicini, i quali si erano accostati, in occasione della disgrazia, parlavano spesso del morto, poveretto, che aveva lavorato tutta la vita per fare un po' di roba, e grazie a Dio, lasciava la vedova nell'agiatezza.
Ma quando Vito Scanna tornava a ronzarle attorno, vestito di nuovo, come un moscone, essa si faceva la croce e gli diceva:
- Via di qua, pezzente! -
CARNE VENDUTA (FRAMMENTO I)
Su per la china, dalla città addormentata nell'alba chiara, saliva di tratto in tratto come il muggito del mare in burrasca, e nel porto la fregata si copriva di fumo.
Tornavano indietro contadini frettolosi, spingendosi innanzi le loro bestie, spiando il cammino con occhio inquieto.
Una comare che s'era fermata un momento a metter giù la cesta e ripigliar fiato, disse stendendo il braccio a indicar laggiù, verso la città; - Vengono!...
I soldati!...
La cavalleria!...
-
Più tardi erano passati dei soldati infatti: cacciatori neri, fantaccini di cui i calzoni rossi facevano come una ondata di sangue, nella via bianca, e per tutta la strada, di qua e di là, non si udiva altro che il tintinnio delle armi, in cadenza col passo grave e uniforme della moltitudine.
Neppure le galline s'erano arrischiate nell'aia, dinanzi al cortile, per paura del sacco e fuoco che dicevano.
Compare Nunzio, colle spalle appoggiate al muricciuolo, stava a guardia del suo orto.
Alla Lia, che s'era affacciata all'uscio, venuta l'ora di mangiare un boccone, aveva risposto di no, col capo.
Era più di un'ora che passavano dei soldati, prima in folla, come un armento in mezzo al polverone; poi a gruppi di dieci o venti, alla spicciolata, col fucile a bandoliera, e il chepì sulla nuca, stanchi e trafelati.
Alcuni chiedevano dell'acqua, rossi pavonazzi dall'arsura.
Uno, stanco morto, s'era messo a sedere all'ombra del mandorlo, col fucile fra le gambe.
- Vieni tanto da lontano? - gli chiese compare Nunzio.
L'altro levò il capo e lo guardò cogli occhi azzurri come il fiore del lino, senza comprendere e senza rispondere.
Aveva i capelli biondi come le spighe, e una carnagione bianca di fanciullo o di donna, dove non era arsa dal sole, sotto il collarino di cuoio, e l'uniforme sbottonata.
- Di dove sei? Non capisci nemmeno la lingua del paese dove vai? Che ci sei venuto a fare? - L'altro balbettò infine qualche parola che nessuno capiva, come una povera bestiola che non sa dire il suo bisogno.
- Poveretto! - disse la Lia.
- Carne venduta! - ribatté compare Nunzio.
Il soldato guardava lui, guardava la ragazza, e non aggiungeva altro.
Poi si alzò da sedere, affibbiò il cinturone, rimise in spalla il suo fucile, e se ne andò cogli altri.
- Va, vattene alla malora! - gli gridò dietro lo zio Nunzio.
- Tu e chi ti paga! -
Colla notte scese un gran silenzio, come succede al cadere del vento, prima della burrasca.
Solo, per quanto era lungo lo stradale, correva un uggiolìo di cani.
A un tratto, dietro le imposte sbarrate del casolare si udì un gran tramestìo, della gente in folla che correva, e delle voci alte e brusche, in mezzo al mormorio.
Verso l'alba si udirono pure le prime fucilate, e il cannone laggiù, e le campane che suonavano a martello, nella città.
Poi cannonate e fucilate scoppiarono vicine, furiose, come un uragano.
Il muro del pollaio crollò a un tratto, e sulle tegole le palle fioccavano fitte come una grandinata.
Insieme grida e urli disperati, dei colpi tirati a bruciapelo, dalle imposte, dalle finestre, e degli altri colpi che rispondevano, dalle siepi, da ogni albero vicino, dalla cresta dei muri, di lassù in cima allo stradale.
Una tempesta di colpi che squassò casa e villaggio, per più di un'ora, e si lasciò dietro uno strascico di gemiti e di rantoli, quando si dileguò infine, laggiù, verso il piano, distruggendo e bruciando ove passava, e i cadaveri sparsi, per la via, fra i seminati, lungo i muri, dietro le siepi.
All'ombra del mandorlo, in una pozza di sangue, giaceva il giovanetto biondo del giorno innanzi, colle braccia aperte, e cogli occhi azzurri spalancati che sembravano guardare l'azzurro del cielo che non era quello del suo paese.
- Poveretto! - tornò a dire la Lia.
- Carne venduta! - tornò a ribattere compare Nunzio.
- Che ci veniva a fare? -
OLOCAUSTO
Il sermone del Paradiso chiudeva il corso degli esercizi spirituali per le monache, dopo la sottile analisi delle colpe recondite, la fosca descrizione del gastigo, e gli anatemi contro il peccato.
La voce del predicatore adesso levavasi alta ed esultante nel sole di Pasqua che scintillava sulle dorature della vòlta.
Giù in chiesa una dozzina di donnicciuole pregavano inginocchiate dinanzi all'altare della Vergine splendente di ceri.
Dietro la grata del coro biancheggiavano confusamente i soggoli e i visi delle suore impalliditi nella clausura e nella penitenza; luccicavano degli occhi perduti nell'estasi di visioni luminose.
La voce del missionario, grave e calda, scendeva ai toni bassi come una confidenza e una carezza, saliva trionfante come un inno, modulava i pensieri e le aspirazioni di tutte quelle vergini tentate e sbigottite dal mondo, andava a ricercare le più intime fibre di quei cuori chiusi nelle sacre bende e li faceva palpitare avidamente, aveva tutti gli slanci, le trepidazioni, come dei sospiri d'amore e d'estasi che morivano ai piedi della croce, e facevano intravvedere quasi un balenìo d'ali iridescenti, dei brividi di carni rosse di cherubini che passavano fra nuvole trasparenti, in un'aureola, in ampie distese color di cielo e color d'oro.
L'uomo era tutto in quella voce, in quell'inno, in quella letizia: il viso scorgevasi appena, come trasfigurato, nell'ombra del pulpito: degli occhi luminosi, ardenti di fede, pieni di visioni celesti, il viso pallido ed ascetico, immateriale, il segno austero della tonsura sui capelli giovanili, e la mano bianca ed immacolata che accennava, essa sola in luce, fuori della nicchia scura, e pareva stendersi verso le peccatrici, per sollevarle al cielo in un amplesso di perdono e d'affetto, dopo essersi levata minacciosa a fulminare, dopo esser scesa a frugare nei cuori, dopo aver sentito palpitare la tentazione, e i fremiti e le ribellioni della carne.
Ora quella mano facevasi lieve, morbida e carezzevole, al pari della voce che addolcivasi in un mormorio affettuoso e in una promessa soave, nella quale passava l'alito di carità, di pietà immensa, e si umiliava, e implorava, e facevasi complice delle povere anime turbate e derelitte, per incoraggiarle, sostenerle e attirarle a Dio.
Egli parlava rivolto al coro, quasi attratto anch'esso dalla simpatia ardente che vi destava, come indovinasse i cuori che rispondevano al suo e gli si aprivano sitibondi.
Ivi pure delle teste tonsurate si chinavano, delle labbra tremavano commosse, dei veli candidi palpitavano sui seni incontaminati, sfiorati soltanto dai fremiti che sorgono nelle tenebre, nelle notti irrequiete e paurose.
Il sagrestano s'alzò d'appiè del pulpito e andò ad accendere le altre candele dell'altare - una gloria di fiammelle tremolanti, delle gocce di splendore nella mattinata limpida, nella gaiezza primaverile, nel profumo dei fiori, e dell'incenso, nel suono grave dell'organo che levavasi dalle profondità misteriose del coro - un canto alato, un inno di grazie e di gloria che irrompeva, e libravasi al cielo trionfante.
Fra le monache raccolte nel coro una voce bella e fresca intuonò il Tantum ergo, una voce di donna che sembrava cantare la giovinezza, l'amore, il sogno, l'azzurro, i fiori e la vita in quell'inno religioso, una voce che aveva le lagrime, le estasi, i sorrisi, la gioventù, la bellezza, e li deponeva trepidante ai piedi dell'altare.
Il frate orava in ginocchio, a capo chino.
Sembrava che a quel canto si riverberassero delle sfumature rosee sulla nuca bianca d'adolescenza casta e prolungata.
Egli stesso sembrava quasi immateriale fra le pieghe molli della tonaca nera che cadeva sui gradini dell'altare, simile a una veste muliebre.
Poi sorse un'irradiazione abbagliante, una gloria di raggi che ecclissò, nell'aureola dell'ostensorio gemmato, l'uomo segnato dalla stola d'oro, come in una croce, sulla cotta spumante di trine al pari di un abito da sposa.
Tutte le teste si prostrarono umiliate.
Le campane squillarono alte in un coro festante, insieme alle note gravi e sonore dell'organo che vibravano sotto la vòlta dorata della chiesa, irrompevano dalle finestre dipinte, pel cielo azzurro, nella primavera gioconda, sotto il sole radioso, mentre il canto moriva in un'estasi sovrumana.
Suor Crocifissa era rimasta accanto all'organo, colle mani ancora erranti sulla tastiera, le labbra palpitanti dell'inno d'amore mistico, smarrita nella visione interiore di quegli splendori che alla sua anima esaltata dalla musica, dalla reclusione, dal digiuno, dal cilicio e dalla preghiera in comune recavano uno sgomento e una dolcezza nuova della vita, un turbamento degli echi e degli incitamenti che venivano a morire sotto le mura del convento colla canzone errante, coi rumori del vicinato, colla carezza della luna che entrava dall'alta inferriata a posarsi sul lettuccio verginale, e tentava il mistero pudibondo della cella solitaria, e vi destava le curiosità timide, le fantasie vagabonde, e gli scrupoli vaghi che annidavansi nell'ombra.
Ella sentiva ora una bramosia calda, un desiderio quasi carnale di mondarsi l'anima e lo spirito di quelle allucinazioni peccaminose, di difendersi dal mondo, di agguerrirsi contro la tentazione, coll'aiuto di quell'uomo il quale discerneva la via della colpa coi suoi occhi luminosi e insinuavasi nei cuori colla voce soave, e scacciava il peccato colla mano fine e bianca, e parlava dell'amore eterno con accento d'innamorato.
- Accostarsi a lui, essere con lui, confondersi in lui.
- Avere in quell'uomo purificato dal sacramento il consigliere, il conforto, l'amico, il confidente, il perdono, la verità e la luce.
Una suora la toccò dolcemente sull'omero.
Ella si scosse e la seguì vacillante, cogli occhi ardenti di fede, premendo colle mani ceree in croce sul seno il cuore che sbigottiva di passione, chinando il capo umiliato dall'umana miseria nella benda che chiudeva le trecce recise e incorniciava il viso di un'altra bianchezza fredda, sbattuta, stirata d'angoscia, illividita da vigilie tormentose, come la sua povera anima sbigottita, e chiese alla superiora il permesso di confessarsi al predicatore.
L'abbadessa acconsentì, alzando la mano a benedire, leggendo forse le stesse inquietudini dolorose che avevano provato la sua giovinezza trascorsa in quelle sopracciglia lunghe e nere, e in quelle labbra dolorose, soltanto vive nel viso mortificato ed austero.
Lì, attraverso la grata del confessionario che aguzzava il mistero e rincorava la coscienza trepida, aprirgli il cuore, tutto, coi suoi palpiti, colle sue angosce, coi suoi pudori.
Parlare d'amore con lui, parlargli di colpa e di perdizione, dirgli quello che non avrebbe osato mormorare sottovoce, da sola ai piedi del crocifisso muto.
Udire il suono delle proprie parole, colla fronte ardente su quella grata di ferro dietro alla quale lui ascolatava.
Intravvedere il riflesso dei propri pensieri, delle proprie allucinazioni, dei propri terrori su quella testa china.
Vedere arrossire e impallidire del pari quella fronte pura.
Aver lì, sotto il proprio anelito concitato, quel sacerdote, quella coscienza, quell'intelletto, quella carità, quel turbamento, quella simpatia, quell'uomo, trasfigurato dall'abito sacro, legato dal vingolo indissolubile, segnato fra gli eletti dalla tonsura religiosa, agitato al par di lei, sbigottito come lei, palpitante come lei, mentre la sua voce velata giungeva a lei come attraverso la lapide di una tomba, per consigliare, per sorreggere, per consolare, sommessa, confidente, nel mistero, nel segreto delizioso della chiesa deserta.
E vederlo trasalire sotto l'angoscia della passione di lei, vederlo arrossire al riverbero della sua vergogna, vedere il soffio infocato della sua parola che implorava aiuto, scendere sino in fondo a quell'uomo, e destare in lui le debolezze istesse perché ne sentisse la miseria e la pietà, e rifiorirgli nei brividi e nei pallori improvvisi della carne.
Sentirsi ricercare nel più profondo del cuore e delle viscere da quella voce dolce e insinuante, nel più vivo, nel segreto, dove s'annidiavano e rabbrividivano pensieri, e desideri, e palpiti ch'essa stessa non avrebbe neppur sospettato - la confusione dolce, il rossore trepido, l'abbandono del pudore violentato, - e darsi tutta a lui come in uno smarrimento dei sensi.
Scorgere in lui, nel consigliere, nel ministro, nel forte, la simpatia di quelle debolezze, la pietà di quei dolori; sentire nella sua voce commossa l'eco e il fascino trepido delle medesime inquietudini - con una tenerezza trepida per lui, maggiormente esposto al pericolo, votato alla lotta col peccato, solo nel mondo, nella tentazione, senza altra difesa che quell'abito che trasfigurava l'uomo, e il segno irrevocabile della tonsura come un marchio di castità sui capelli castagni - con un desiderio materno di stringersi al petto quel viso impallidito e sbattuto dalle medesime angosce, quel capo tonsurato in cui bollivano le stesse febbri, onde proteggerlo e difenderlo.
Egli ascoltava, raccolto, colla fronte velata dalla mano scarna, gli occhi vaghi e senza sguardo.
Passavano dei bagliori di tanto in tanto in quegli occhi pensierosi, dei fantasmi che dileguavano dinanzi alla volontà severa, dei fremiti destati da quell'alito caldo e profumato di donna, dalla parola commossa, l'ombra di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutti gli allettamenti, le effusioni, le dolcezze, gli struggimenti, le febbri, le estasi.
Con lei rifaceva l'aspro cammino che avevano fatto verso la croce quei piedi delicati.
Rivedeva la fanciullezza orfana, l'adolescenza precocemente mortificata, la gioventù scolorita e trista, l'agonia dello spirito e le ribellioni della carne.
Fuori, il cielo azzurro, l'ampia distesa dei prati, il sole, la luce, l'aria, lontani, perduti in un mondo al quale non apparteneva più, - e la gran rinunzia di tutto ciò, per sempre! - E pensava qual eco dovesse avere fra quelle mura claustrali la voce di un uomo o il pianto di un bambino, il brivido che doveva portarvi il profumo di un fiore o un raggio di primavera.
- Le fronti pallide che trasalivano, gli occhi spenti che guardavano lontano, le labbra che mormoravano inconsciamente accenti desolati.
E sentiva una grande pietà, una gran tenerezza per quelle povere anime che tendevano al cielo strette ancora fra i legami della terra, per quei gemiti d'agonia che si tradivano nella parola esitante e supplichevole, per quelle mani tremanti che si stendevano verso di lui, che cercavano di aggrapparsi alla vita, al perdono, alla fede, alla costanza, e che doveva lasciarsi cadere ai piedi, insensibile e inesorabile, che doveva abbandonare dietro di sé continuando sulla terra il suo pellegrinaggio d'apostolato, e scuotendo i lembi della sua tonaca perché non si contaminasse a quella seduzione, - anch'esso solitario, legato soltanto dalla disciplina dell'ordine alla fredda famiglia religiosa, senza genitori, senza casa, senza patria, passando sulla terra cogli occhi rivolti al cielo, fallendo se inciampava, se le spine del cammino gli insanguinavano le carni, o le voci del mondo penetravano nelle sue orecchie, se la vita batteva nelle sue arterie o tumultuava nel suo cuore, se la tentazione di quell'incognita, il ricordo di quella sconosciuta che si era data a lui in ispirito, in un momento di mistico abbandono, veniva a turbare la sua fantasia o a fargli tremare la preghiera sulle labbra.
Un campanello squillò.
Il prete cinse la stola fulgida che lo sollevava dalla terra, e si accinse a comunicarla.
Ella genuflessa dinanzi allo sportellino aperto della grata annichilivasi nella contemplazione degli splendori celesti che apriva la sfera d'oro.
Un languore soave, una calma infinita, una dolcezza ineffabile per tutto l'essere: la battaglia vinta, il cuore librantesi nella fede, il conforto, la forza, l'ardore di quell'ostia consacrata che scendeva nel suo petto e si confondeva col suo sangue - l'ostia che le posava lui stesso sulle labbra trepide, colle mani trepide, mormorando soavemente le parole sacramentali, chinando gli occhi, dolci, come velati da una visione interiore nelle occhiaie profonde e misteriose, sul viso sbattuto ed emaciato anch'esso.
- Egli la vide quel momento solo, in quell'abbandono, in quella bramosia arcana, in quell'estasi, colle pupille smarrite, il viso trasfigurato, in un'irradiazione candida di veli, sporgendo le labbra avide e innamorate.
Essa chinò il capo, nell'atto di ringraziamento, in un torpore e in uno sfinimento delizioso di tutta se stessa.
La chiesa tornò vuota e silenziosa come una tomba.
Il missionario era andato via per sempre, continuando il suo viaggio di carità, lasciando a lei la benedizione di quella pace e di quella fede.
Essa lo accompagnava col pensiero per strade e per paesi sconosciuti; vedeva ancora quegli occhi dolci, quel viso emaciato, quella tonaca fluttuante dietro la sua persona esile, in altre chiese risonanti della sua parola, dinanzi ad altre monache palpitanti; lo seguiva nei rumori che giungevano dalla via, nelle notti stellate, nel cielo che stendevasi al di là delle inferriate claustrali.
Era un grande sconforto, un isolamento più tristo, come un abbandono.
Poi, quando la sua coscienza inquieta cominciò a ridestarsi, pregò una delle sorelle anziane che aveva sofferto e dubitato come lei d'intercedere presso l'antico confessore, il quale si rifiutava a confessarla geloso che essa gli avesse preferito una volta il predicatore di passaggio.
Era un vecchio incanutito nel confessionario, con dei grandi occhi chiari e penetranti, abituati a guardare nelle tenebre dei cuori, e il pallore delle lunghe confidenze e delle attese pazienti sulle guance incavate.
- No.
Io non servo di ripiego...
M'ha messo da banda una volta; si cerchi un altro confessore...
- Ma essa aveva sempre la speranza...
- Speranza si chiama vossignoria.
Essa chiamasi suor Crocifissa -.
LA CACCIA AL LUPO
Una sera di vento e pioggia, vero tempo da lupi, Lollo capitò all'improvviso a casa sua, come la mala nuova.
Picchiò prima pian piano, sporse dall'uscio la faccetta inquieta, e infine si decise ad entrare, giallo al par dello zafferano, e tutto grondante d'acqua.
Fuori l'ira di Dio, lui con quella faccia, e a quell'ora insolita: sua moglie, poveretta, cominciò a tremare come una foglia, ed ebbe appena il fiato di biascicare:
- Che fu?...
Che avvenne? ...
-
Ma Lollo non rispose nemmeno - Crepa -.
Uomo di poche chiacchiere, specie quando aveva le lune a rovescio.
Masticò sa lui che parole tra i denti, e seguitò a guardare intorno cogli occhietti torbidi.
Il lume era sulla tavola, il letto bell'e rifatto, tanto di stanga all'uscio di cucina, dove polli e galline, spaventati anch'essi pel temporale, certo, facevano un gran schiamazzo, tanto che la donna diveniva sempre più smorta, e non osava guardare in faccia il marito.
- Va bene, - disse lui.
- In un momento mi sbrigo -.
Appese a un chiodo lo scapolare, posò sulla tavola l'agnella che ci aveva sotto, così legata per le quattro zampe, e sedé a gambe larghe, curvo, colle mani ciondoloni fra le cosce, senza dir altro.
La moglie intanto gli metteva dinanzi pane, vino, e la pipa carica anche, che non sapeva più quel che si facesse, in quel turbamento.
- A che pensi? Dove hai la testa? - brontolò Lollo.
- Una cosa alla volta, bestia! -
Masticava adagio, facendo i bocconi grossi, colle spalle al muro e il naso sulla grazia di Dio.
Di tanto in tanto volgeva il capo, e dava un'occhiata all'agnella, che cercava di liberarsi, belando, e picchiava della testa sulla tavola .
- Chetati, chetati! - brontolò Lollo infine.
- Chetati, che ancora c'è tempo.
- Ma che volete fare? Parlate almeno! -
Egli la guardò quasi non avesse udito, con quegli occhietti spenti che non dicevano nulla, accendendo la pipa tranquillamente, tanto che la povera donna smarrivasi sempre più, e a un tratto si buttò ginocchioni per slacciargli le ciocie fradice.
- No, - disse lui, respingendola col piede.
- No, torno ad uscire.
- Con questo tempo? - sospirò lei, tirando un gran respiro.
- Non importa il tempo...
Anzi!...
Anzi!...
-
Quando parlava così, con quella faccia squallida, e gli occhi falsi che vi fuggivano, quell'omettino magro e rattrappito faceva proprio paura - in quella solitudine - con quel tempaccio che non si sarebbe udito "Cristo aiutami!".
La moglie sparecchiava, in silenzio.
Lui fumava e sputacchiava di qua e di là.
A un tratto la gallina nera si mise a chiocciare, malaugurosa.
- S'è visto oggi Michelangelo? - domandò Lollo.
- No...
no...
- balbettò la moglie, che fu ad un pelo di lasciarsi cader di mano la grazia di Dio.
- Gli ho detto di scavare la fossa...
Una bella fossa grande...
L'avrà già fatto.
- Oh, Gesummaria! Perché?...
perché?...
- C'è un lupo...
qui vicino...
Voglio pigliarlo -.
Ella istintivamente volse una rapida occhiata all'uscio della cucina, e fissò gli occhi smarriti in volto al marito, che non la guardava neppure, chino sulla sua pipa, assaporandola, quasi assaporasse già il piacere di cogliere la mala bestia.
Ella, facendosi sempre più pallida, colle labbra tremanti, mormorava: - Gesù!...
Gesù!...
- Non aver paura.
Voglio pigliarlo in trappola...
senza rischiarci la pelle...
Ah, no! Sarebbe bella!...
con chi viene a rubarvi il fatto vostro...
rischiarci la pelle anche! Ho già avvisato Zango e Buonocore.
Ci hanno il loro interesse pure -.
Fosse il vinetto che gli scioglieva la lingua, o provasse gusto a rimasticare pian piano la bile che doveva averci dentro, non la finiva più, grattandosi il mento rugoso, appisolandosi quasi sulla pipa, ciarlando come una vecchia gazza.
- Vuoi sapere come si fa?...
Ecco: gli si prepara il suo bravo trabocchetto...
un bel letto sprimacciato di frasche e foglie...
l'agnella legata là sopra...
che lo tira la carne fresca, il mariolo!...
E se ne viene come a nozze, al sentire il belato e la carne fresca...
Col muso al vento, se ne viene, e gli occhi lucenti di voglia...
Ma appena cade nella trappola, poi, diventa un minchione, che chi gliene può fare, gliene fa: sassi, legnate, acqua bollente! -
L'agnella, come se capisse il discorso, ricominciò a belare, con una voce tremola che sembrava il pianto di un bambino, e toccava il cuore.
Sobbalzava di nuovo a scosse, rizzando il capo, e tornava a batterlo sulla tavola come un martello.
- Basta! basta, per carità! - esclamò la donna, giungendo le mani, quasi fuori di sé.
- No, l'agnella non la tocca neppure, appena si trova preso in trappola con essa...
Le gira intorno, nella buca...
gira e rigira...
tutta la notte, per cercar di fuggirla anche...
la tentazione...
Come capisse che è finita, e bisogna domandar perdono a Dio e agli uomini...
Bisogna vederlo, appena spunta il giorno, con quella faccia rivolta in su, che aspetta i cani e i cacciatori, con gli occhi che ardono come due tizzoni...
-
Si alzò finalmente, adagio adagio, e si mise a girondolare per la stanza, come un fantasma, strascicando le ciocie fradice, frucacchiando qua e là, col lume in mano.
- Ma che cercate? Che volete? - chiese la povera moglie, annaspandogli dietro affannata.
Egli rispose con una specie di grugnito, e cacciò il lume sotto il letto.
- Ecco, ecco, l'ho trovato -.
Il turbine in quel momento parve portarsi via la casa.
Uno scompiglio in cucina: la donna che strillava, attaccata all'uscio: una ventata soffiò sul lume a un tratto, e buona notte.
- Santa Barbara! Santa Barbara!...
Aspettate...
Cerco gli zolfanelli...
Dove siete? Dove andate? Rispondete almeno!
- Zitta - disse Lollo ch'era corso a stangare la porta di casa.
- Zitta, non ti muovere, tu! -
E si diede a battere l'acciarino sull'esca, verde come lo zolfanello che aveva acceso, tanto che alla povera moglie tremava il lume in mano.
Egli tornò a girondolare, cheto cheto.
Prese un bastoncello di rovere, lo intaccò da un capo e vi legò una funicella di pelo di capra.
La moglie, che le erano tornati gli spiriti vitali al veder dileguarsi il temporale, e mostrava di stare attenta anzi a quel lavoro, coi gomiti sulla tavola, e il mento fra le mani, volle sapere: - Che è questo?
- Questo?...
Che è questo? - mugolò lui, soffiando e fischettando.
- Questo è il biscotto per chiuder la bocca la lupo...
Ce ne vorrebbe un altro per te, ce ne vorrebbe! Ah, ah!...
Ridi adesso?...
T'è tornato il rossetto in viso?...
Voi altre donne avete sette spiriti, come i gatti...
-
Essa lo guardava fisso fisso, per indovinare quel che covasse sotto quel ghigno: gli si strusciava addosso, proprio come una gatta, col seno palpitante, e il sorriso pallido in bocca.
- Sta ferma, sta ferma, che fai versare l'olio...
L'olio porta disgrazia...
- Sì, che porta disgrazia! - proruppe lei.
- Ma che avete infine? Parlate!
- Tò! Tò! Ecco che vai in collera ora!...
Le sai tutte, le sai!...
Vuoi sapere anche come si fa a pigliarlo? Ecco qua: gli si cala questo gingillo nella buca; il lupo, sciocco, l'addenta; allora, lesto, gli si passa la funicella all'altro capo del bastone, e si lega dietro la testa.
L'affare è fatto.
Dopo, il lupo potete prenderlo e tirarlo su, che non fa più male...
E ne fate quel che volete...
Ma bisogna aspettare a giorno chiaro...
Ora vo a preparare la trappola...
- V'aspetto adunque? Tornate? -
Lollo andò a staccare lo scapolare grugnendo: - Uhm!...
uhm!...
- E tornò a prendere l'agnella: - Vedremo...
Il gusto è a vederlo in trappola...
che ne fate poi quel che volete...
senza dar conto a nessuno...
Anzi vi danno il premio al municipio!...
Tu sta cheta, sta cheta - ripeté mettendosi l'agnella sotto il braccio.
- Sta cheta che il lupo non ti tocca.
Ha da pensare ai casi suoi, piuttosto -.
Uscì così dicendo, senza dar retta alla moglie, e chiuse l'uscio di fuori.
- Che mi chiudete a chiave? - strillò la donna picchiando dietro l'uscio.
- Eh? Che fate? -
Lollo non rispose, e si allontanò fra l'acqua e il vento.
- Oh Vergine santissima! - esclamò la poveretta aggirandosi per la stanza colle mani nei capelli.
S'aprì invece l'uscio della cucina e comparve Michelangelo, pallido come un morto, che non si reggeva in piedi.
- Presi!...
Siamo presi! - balbettò lei con un filo di voce.
- Ci ha chiusi a catenaccio! -
Lui da prima voleva fare il bravo.
Tirò su i calzoni per la cintola, incrocicchiò le braccia sul petto, tentò di balbettare qualche cosa per far animo alla povera donna: - Va bene!...
son qui...
t'aspetto!...
- Poi, tutt'a un tratto, fosse il naturale suo proprio che lo vincesse, o il nervoso che gli metteva addosso il va e vieni di lei che pareva proprio una bestia presa in gabbia, scappò a correre anche lui all'impazzata, di qua e di là per la stanza, in punta di piedi, pallido, stralunato, tentò e ritentò la porta, scosse l'inferriata della finestra, s'arrampicò sulla tavola e sul letto per dar la scalata al tetto annaspando colle braccia tremanti, cieco di paura e di rabbia.
Infine s'arrese, trafelato, guardando bieco la complice, accusandola d'averlo attirato nel precipizio.
- Ah! - scattò allora su lei, colle mani ai fianchi.
- È questa la ricompensa?
- Zitta! - esclamò lui spaventato, chiudendole la bocca colla mano.
- Zitta!...
Non vedi che abbiamo la morte sul collo?
- Doveva cogliermi un accidente, quando mi siete venuto fra i piedi! - seguitò a sbraitare la donna.
- Doveva cogliermi una febbre maligna!
- Ssss!...
- fece lui colle mani e la voce stizzosa.
- Ssss! -.
Si udiva solo il vento, e l'acqua che scrosciava sul tetto.
Lei si teneva il capo fra le mani, e lui stava a guardarla, inebetito.
- Ma che disse? Che fece? - biascicò infine.
- Alle volte...
Ci è parso perché siamo in sospetto...
- No! - rispose la moglie di Lollo.
- È certo! È certo che sapeva!...
- E allora?...
allora?...
- scattò su Michelangelo, tornando ad alzarsi come fuori di sé.
Il lume, a cui mancava l'olio, cominciava a spegnersi.
Egli furioso scuoteva di nuovo porta e finestra, rompendosi le unghie per scalzar l'intonaco, mugolando come una bestia presa al laccio.
- Ave Maria, aiutatemi voi! - supplicava invece la donna.
- Prima dovevi dire le avemarie...
prima!...
- esclamò infine lui.
E cominciò a sfogarsi dicendole ogni sorta d'improperi.
FRAMMENTO II
Nella città straniera, stranieri l'uno all'altra, s'erano trovati accanto alla stessa tavola d'albergo e alla medesima rappresentazione teatrale che attirava da ogni parte gli zingari della gran vita.
Ella fine e delicata come un fiore - egli baldo e rapace come un uccello da preda.
E appena si guardarono in viso la prima volta tornarono a guardarsi, ella facendosi sempre pallida.
- E dopo, nella semioscurità del teatro che concentrava una sensazione estraumana, lo sfolgorio delle scene, e l'ebbrezza delle piene orchestre, egli si impadronì risoluto delle piccole mani tremanti, e le tenne strette quanto durò la loro stagione d'amore.
Dolce stagione che dileguò al pari della visione scenica! - Dolce musica che respirava - gli incanti svaniti colla grazia un po' triste e la tenerezza penetrante delle cose che non son più - là, in quell'altro teatro di un altro paese dove si erano trovati insieme l'ultima volta, ancora accanto, e pure tanto lontani!
Milano, 10 giugno 1900
"NEL CARROZZONE DEI PROFUGHI" (FRAMMENTO III)
Nel carrozzone dei profughi, due povere donne sedute accanto, col fagotto della roba che avevano avuto al Municipio sulle ginocchia, si narravano i loro guai.
Anzi una non parlava più; guardava nella folla con certi occhi stralunati, quasi cercando la figlia che le avevano detto fosse stata salvata da un giovanotto quando trassero anche lei dalle fiamme e dalle macerie.
Una ragazza bella come il sole, che chi l'aveva vista una volta l'avrebbe riconosciuta fra mille.
L'avevano vista rifugiata sotto un portone - tra i feriti del Savoja - alla stazione.
Tutti l'avevano vista, fuori che lei! Dalla stazione aveva visto soltanto la sua casa che bruciava, per due ore, sinché il treno stette lì.
E ora, mentre cercava la sua creatura fra la gente, da otto giorni, e pensava a lei che forse la cercava e chiamava aiuto, vedeva ancora quella distruzione e quell'incendio come un rifugio, una disperata certezza.
- Ora son sola - diceva l'altra.
- Quando incontrai mio marito, qui, per caso, salvo anche lui, non mi pareva vero.
Ma avevo tre figli: una maritata, colla grazia di Dio, e il maggiore che mi portava a casa già la sua giornata...
Tutti! Tutti!...
Io mi ero alzata appunto pel più piccolo ch'era malato, quando successe il terremoto.
Il Signore non mi volle -.
Ne parlava tranquillamente, colla faccia gialla e la testa fasciata.
- Ora, quando lui sarà guarito andremo in America -.
L'altra alzò gli occhi, soltanto, e la guardò.
- Certo, che faremo qui?
- In America? - disse un altro profugo.
- Non sapete che vita da cani! Peggio dei cani li trattano i cristiani! -
Ella a sua volta guardò sbigottita colui, come a ripetere: - Che faremo qui?
- Qui siamo nati; qui sono le pietre delle nostre case! - dissero gli altri.
FRAMMENTO IV
Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna, non so.
Rammento solo due occhi pazzi e una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridìo generale, nera anch'essa, ma di un pallore cadaverico.
Dibattevasi per farsi largo nella ressa dei profughi giunti con le prime corse, che si accavallavano sul balcone del Municipio all'arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi e altri gemiti.
Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica, laggiù in fondo alla piazza.
Si spinse innanzi disperatamente, quasi volesse buttarsi giù e si mise a chiamare, a gridare, a chiedere chissà? un nome, una notizia di vita o di morte, qualcosa che l'altro soltanto poteva udire e comprendere in quel frastuono immenso, dall'altra estremità della piazza immensa, urlando.
E l'altro, di laggiù, vide lei sola, in quel formicolio umano, udì, indovinò il nome e la domanda ansiosa, e rispose certo con una parola, un segno che al di sopra della folla, della confusione, del frastuono giunsero diritti a lei, che si cacciò le mani nella criniera arruffata, senza una parola, senza un grido, e cadde, scomparve nell'ondata di altri che gridano e chiamano ansiosi, dolorosamente egoisti.
UNA CAPANNA E IL TUO CUORE
La capanna stavolta era l'Albergo della Stella.
Quando vi giunsi, fra quelle quattro case arrampicate in cima al monte, dopo una giornata afosa nelle bassure della zolfara, mi parve di essere davvero nelle stelle, all'ombra della tettoia sgangherata che faceva da angiporto.
- Una stanza? - uscì a dire l'ostessa asciugandosi il sugo di pomidoro dalle braccia.
- Ma ci abbiamo tutta la compagnia.
- Oh!
- Sicuro, quella delle operette.
Però, se si contenta della mia...
-
Passando pel baraccone tutto scompartimenti come una stalla, vidi infatti una bella giovane che si rizzò lesta dal tavolato dov'era distesa, e mi salutò arrossendo un poco anche sotto il rossetto della sera innanzi.
Dovetti accontentarmi, poiché non ci era altro, della stamberga con tanto di letto matrimoniale dell'ostessa, e mentre essa apparecchiava un po' di tavola "per quel che c'era", si udì un baccano dalla parte della compagnia.
- È la lavandaia che viene a fare le solite scenate, - disse l'ostessa.
- Gente senza educazione.
Ora vo a dire che ci sono dei forestieri -.
Ma fu inutile, e il diavoleto peggio di prima.
Appena fui seduto per mandar giù "un po' di quel che c'era", comparve sull'uscio la ragazza della compagnia.
- Scusi.
Avrebbe, per caso, due lire e settantacinque di spiccioli, in piacere?
- Ecco.
- Grazie.
Ora torno -.
Tornò infatti, collo stesso risolino di palcoscenico.
- Che vuole? Scusi tanto.
I nostri comici sono tutti fuori.
Appena tornano...
- Oh, faccia a suo comodo.
- Buon appetito allora - disse sorridendo anche al piatto che recava l'ostessa.
- E a lei pure, giacché vedo ch'è l'ora...
- Oh, noi...
I nostri uomini sono stati invitati a fare una scampagnata dai signori del paese...
- Se vuol favorire dunque...
- Anzi...
Molto gentile.
Se permette, lo dico anche alla mia amica ch'è napoletana e le piacciono tanto gli spaghetti.
- Tanto piacere anche la sua amica napoletana -.
L'ostessa non se lo fece neanche dire e tornò indietro per gli altri spaghetti.
La napoletana si fece pregare un po', di là, ma venne lei pure, col salutino del pubblico.
- Il nostro soprano.
Una voce! Dovrebbe venire a sentirci, domani sera.
- Domani sera spero di essere a casa mia, finalmente.
- Peccato! Qui non si recita che il sabato e la domenica sera, perché gli altri giorni il nostro pubblico è occupato nelle zolfare - .
Il soprano, più contegnoso, si occupava a mandar giù gli spaghetti in punta di forchetta, quasi fosse già il sabato o la domenica sera, dinanzi al pubblico .
- Una vera diva!...
E vederla in costume, con quel décolleté!...
- La diva protestò levando su la forchetta col gomitolo di spaghetti, o per poca modestia, o perché il décolleté non fosse troppo in bella vista.
- Eh, che male c'è se gli uomini hanno occhi per vedere...
e mandar giù le platee?...
È vero, sì o no? Ditelo anche voi -.
Voltandomi, vidi sull'uscio altri visetti che dicevano già di sì, in attesa pur esse.
- Venite, venite anche voi.
Il signore è così gentile...
-
E naturalmente venne anche l'ostessa, carica d'altri piatti.
- La signorina Fides, mezzo soprano.
- La signorina Vanda, contralto.
- La signorina Ines, contraltino, che al bisogno fa le parti d'amoroso.
Come vede i nostri uomini ci lasciano a trarci d'imbarazzo anche nelle parti d'amoroso.
- Vedremo se ci portano almeno dei fiori dalla loro scampagnata.
- Quelli sì, perché non si mangiano.
- Che delizia! - sospirò allora la diva.
- Che paesaggi avete da queste parti...
sotto questo sole!...
- A chi lo dice!
- No? Non è del paese lei?
- È che l'ho avuto tutto il giorno sulla testa, quel sole! -
Dopo gli spaghetti venne del baccalà, poi delle ova sode, poi del caciocavallo, insomma "un po' di quel che c'era"", e dei fichi d'India, già bell'e sbucciati dalle mani stesse della locandiera, chi ne volesse.
Le artiste dicevano sempre di sì; tanto che dopo i fichi d'India chiesero del cognac.
- Cognac non ce n'è.
Abbiamo della menta-sèlse.
Ma ora, dopo tavola...
- Non importa.
È per fare i brindisi -.
Prima naturalmente a me, ch'ero stato tanto gentile.
Poi sfilarono altri nomi e altri ricordi, che brillarono un istante in quegli occhietti lustri.
- A te!...
Sempre! - A quella prima notte...
di luna!...
- Tutta roba passata! - sentenziò la stella napoletana.
- Tout passe, tout lasse, tout casse...
- E volle anche spiegare il suo francese alle compagne che sgranavano gli occhi.
- Passa via...
ti lascio...
La canzone finisce sempre così.
- Sempre, no.
Tu lo sai bene...
- Ella si strinse nelle spalle.
- Il tuo avvocato...
- Un avvocato!
- Sissignore! E ha lasciato moglie e figliuoli per venire a fare il suggeritore.
- Un bell'affare! E quella megera s'è permesso anche di venire a farmi le scene, coi suoi mocciosi, in casa mia!
- Poveretti! Bisognava sentirli piangere...
- Al cuore non si comanda, - conchiuse una delle signorine Ines o Fides.
- Certo, se si sapesse prima...
-
- Prima - il caso - l'incontrarsi in quegli occhi che vi mangiano dalla platea quando vi viene la nota giusta.
- Le scioccheriole che vi contano all'uscita dal teatro - la scappatella che sembrava di passaggio, ahimé!...
Ciascuna rammentava la sua, in quel momento di vino tenero.
Gli occhi ancora umidi, o pei ricordi di prima, o per quelli della scena.
- Così, senza saper come, la scioccheriola che mutavasi in duetto serio - o la passatina sotto la finestra che andava a finire nella stanzetta in due.
Poi il destarsi a bocca asciutta - o amara - o tra gli sbadigli e i - non mi seccare -, ch'è peggio.
- O peggio ancora la farsetta che minaccia di cambiarsi in tragedia...
- Come quando si dovette levar le tende in fretta e furia, tutta la compagnia che non c'entrava affatto...
E a un pelo di rimborsar gli abbonati per giunta! - conchiuse la signorina Fides.
- Oh, questa poi!...
- Sì, in un paesetto qui vicino, allorché quelli del partito contrario vollero giocare un tiro al sindaco che veniva a fare quattro chiacchiere con una di noi; e una bella notte, quando volle tornare a casa della moglie, gli fecero trovare murata la porta della locanda coi materiali della strada in riparazione.
Allora figuriamoci!...
-
Essa non aveva fatto alcun nome; ma tutte le altre guardavano sottecchi da una parte, ridendo, però col naso sul piatto.
La napoletana che invece aveva il naso in su, rimbeccò subito:
- Tu stai zitta, che di queste disgrazie non ne capitano certo pei tuoi begli occhi al tuo banchiere!
- Anche un banchiere?
- Sì, quello che scopa le tavole -.
Fides scattò inviperita: - Prima di scopare le tavole contava dei bei bigliettoni, quello!
- E te li buttava dietro in fiori per le serate e il braccialetto col sempre d'oro.
Per questo dovette fare i conti col principale, che gli sbatté in faccia lo sportello della banca, e te lo lasciò appeso al collo, col sempre del braccialetto! -
Io cercai di mettere qualche buona parola, anzi le loro parole stesse: - Cose che succedono.
Se si sapesse prima...
- Prima o poi, quello era un galantuomo e rimase un galantuomo.
Povero, ma onorato.
Perciò quando me lo vidi comparire dinanzi, con le tasche vuote ma tanto di cuore aperto...
ed anche le braccia, mentre mi diceva: "Eccomi...
Son qua...".
Ella singhiozzava quasi, col tovagliolo al viso, ripetendo quelle parole, tanto che le amiche le si strinsero intorno a confortarla, e la stessa napoletana volle ricordare come succedono queste cose:
- Si sa.
Ogni giorno che veniva, le ariette e i duettini...
Una bella seccatura a sentirli mattina e sera...
- Egli aveva una vocetta promettente allora - aggiunse la signorina Vanda.
- E per una disgrazia leggeva anche dei romanzi, tanto che gli pareva vero...
- Io glielo dissi - riprese Fides con gli occhi ancora umidi.
- E che vuoi fare adesso? "Son qua...
Son qua...".
Non sapeva dir altro, con quel viso pallido, e quelle braccia aperte...
Anch'io ero là...
E mi chiamo Fede...
La mano nella mano dunque...
- Ecco! Sino alla prima voltata.
- Voltata no, e neppure corda al collo - rispose Fides con gli occhi adesso asciutti.
- Io devo fare l'artista, e non posso voltare le spalle a questo e a quello se mi dicono che piaccio.
- O quando fanno dei regalucci.
- Bisogna mandare avanti la baracca anche -.
Quando gli uomini, a sera, tardi, dopo aver mangiato bene e bevuto meglio tornarono alla capanna ed al cuore, furono liti e questioni invece di fiori e paroline dolci.
La vocetta mezzo soprano di Fides che strillava: - Ah, sei stato a far l'assolo? Anch'io ci ho trovato qui per il duetto.
Prendi! -
L'avvocato perdeva il suo tempo a perorare di qua e di là, scusando queste e quelli e cercando di metter pace.
La napoletana gli sbatté con lo scarpone sul muso:
- Porco! Ci vorrebbero qui i tuoi mocciosi a piangerti per il pane, adesso! -
Me li vidi comparire dinanzi io pure, il giorno dopo; lui con la gota fasciata, a spiegarmi quel che doveva essere stato il po' di chiasso che forse avevo udito nella notte.
Ma la napoletana, ancora imbronciata, tagliò corto:
- Basta, basta.
Arrivederci dunque.
Il mondo è tondo, e chi non muore si rivede -.
Io non ho più rivisto quegli occhi rapaci e quel décolleté petulante.
- FINE -
...
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