TUTTE LE NOVELLE, di Giovanni Verga - pagina 124
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- La verità...
la verità...
Non si può sapere la verità! - Don Erasmo, che si sentiva scoppiare, la buttò infine in faccia alla Borella e a due o tre altri fidati: - Non vogliono che si dica la verità!...
preti, sbirri, e quanti sono della baracca dei burattini!...
che menano gli imbecilli per il naso!...
proprio come le marionette!...
e tirano ad accopparvi una gestante con simili pagliacciate!...
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- Ma no! Ma no! Siamo state tutte alla predica...
C'ero anch'io...
A nessuna è successo niente...
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- Allora! Allora!...
-
Allora non sapeva che dire il povero don Erasmo, cogli occhi stralunati e la bocca amara.
Tornava a supplicare la moglie, prendendola colle buone, colla faccia atteggiata al riso, mentre preparava decotti e l'abbeverava di medicine: - Dilla al tuo maritino la verità...
Cos'è questo peccato? Che devo perdonarti? -
Come parlare a un muro.
Donna Santa non disserrava neppure i denti per inghiottire le medicine, alle volte; oppure, se parlava, tornava a battere la stessa solfa di castighi, di peccati gravi, di lingue di fuoco che aveva sempre dinanzi agli occhi.
- Ah? Non posso sapere nemmeno cosa è successo in casa mia, ah? - sbuffava allora furibondo don Erasmo rivolto a donna Orsola ch'era sempre lì, fra i piedi.
Lui che sapeva tutte le storie di casa altrui, gli scandali di donna Cristina, le scene della vedova Rametta che andava a piangere, la buon'anima, nelle braccia di questo o di quello! - Se ne facevano le belle risate col farmacista e don Marco Crippa.
- Gli pareva di vederlo, adesso, don Marco, strizzando l'occhio guercio, ora che la disgrazia toccata a lui faceva le spese della conversazione.
- Capite bene, donn'Orsola, che ho diritto di sapere infine cos'è successo in casa mia! -
- Cos'è successo? Che vedete? Non vedete che vaneggia, poveretta? Sono le parole della predica che le rimasero in mente...
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Giusto! perché le fossero rimaste in mente appunto quelle voleva sapere don Erasmo! In casa sua non ce n'erano mai state di simili porcherie!...
Che sapesse lui, almeno! Che sapesse lui, Cristo santo! - Lasciatemi stare, Cristo santo, o dico che siete d'accordo fra di voi! E tu spiegati, mannaggia!
- Che volete? Perdonatemi!...
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Ah no! Don Erasmo voleva prima sapere cosa dovesse perdonare! ...e chi ringraziare del tiro fattogli, se mai! ...del furto domestico! ...Sissignore, del furto domestico! Perché quando un galantuomo non è sicuro nemmeno in una casa come la sua, una vera fortezza, e con una moglie come la sua, che a fargli un tiro simile con siffatta moglie doveva essere stata inimicizia bell'e buona!...
Ma chi? compare Muzio, il solo che bazzicasse da lui...
a sessant'anni suonati!...
È vero che donna Santa non era più di primo pelo nemmeno lei, e il peccato poteva essere vecchio anch'esso...
E allora? Allora? Quei figlioli di cui s'era empita la casa in ossequio al settimo sacramento? C'era qualche ladro anche fra di loro...
Gennarino, o Sofia...
o Nicola?...
Tutti i santi del calendario c'erano in casa sua! Di tutte le età e di tutti i colori...
Anche coi capelli rossi come il notaio Zacco che stava lì di faccia, ed era capacissimo di avergli fatto quel tiro per pura e semplice birbonata, gratis et amore Dei!
Il pover'uomo perdeva la testa in quei sospetti, e si rodeva dentro, mentre gli toccava assistere l'ammalata, e correre di qua e di là per la casa in disordine, costretto a far tutto lui, la pappa per Concettina, lavare il muso ad Ettore - forse i ladri domestici, poveri innocenti!...
No, non poteva durare a quel modo! Donna Santa avrebbe parlato infine, avrebbe detto la verità, - se è vero che era una santa donna, - per scarico di coscienza.
Ma essa invece non confessò nulla, nemmeno in punto di morte, nemmeno al prete che venne a portarle il viatico.
Don Erasmo lo prese a quattr'occhi, dopo, seguendolo giù per la scala, colle gambe che gli vacillavano sotto, per conoscere infine questa benedetta verità...
- Se è vero che ci sia questo mondo di là...
Se è vero che bisogna andarvi colla coscienza pulita...
Specie di certi fatti che tolgono per sempre il sonno e l'appetito a un galantuomo...
Disposto a perdonare però...
da buon cristiano...
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Niente! Neppure al confessore aveva detto nulla sua moglie.
- Una vera santa, caro don Erasmo! Potete vantarvene...
- o che realmente sua moglie non avesse nulla da dire, o che anche le sante ci hanno il pelo sullo stomaco.
E se il dottor Brocca non poté togliersela allora, non se la tolse mai più quella spina dal cuore, quel dubbio amaro, quel sospetto che gli accendeva il sangue a ciascuno che venisse a cercarlo, o soltanto passasse per via, e lo coglieva di soprassalto se fermavasi un quarto d'ora nella farmacia, e gli metteva l'inferno in casa, gli avvelenava il pane stesso che mangiava a tavola, fra quella nidiata di marmocchi che ne divoravano dei cassoni pieni, chissà quanti a tradimento, e quella moglie che tornata da morte a vita avrebbe voluto tornare anche ad essere come era prima, tutta della casa e del marito, sempre fra preti e confessori.
- Come la fai questa confessione? Che andate a dirgli al confessore voi altre donne?...
Se non dite mai la verità!...
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La poveretta piangeva, si disperava, faceva mille proteste e mille giuramenti.
La cugina Orsola alle volte accorreva alle grida, e gli diceva il fatto suo:
- Ma che volete, infine, da lei?...
Volete che inventi dei peccati? Volete esser becco per forza? -
E gli toccava mandar giù anche questa e tacere! E gli toccava chinare il capo e cambiar discorso, quando si rideva degli altri mariti disgraziati, con don Marco Crippa e il farmacista.
LA VOCAZIONE DI SUOR AGNESE
Era venuta dopo, alla povera Agnese, la vocazione di prendere il velo, quando la sua famiglia, caduta in rovina, fu costretta a farla monaca per darle un tozzo di pane.
Prima era destinata al mondo.
A casa sua filavano e tessevano la biancheria pel corredo di lei, mentr'essa terminava l'educandato a Santa Maria degli Angeli.
Suo padre, don Basilio Arlotta, l'aveva già fidanzata col figliuolo del dottor Zurlo, un partitone che faceva gola a tutte le mamme del paese, malgrado la bassa nascita.
Bel giovane, bianco rosso e trionfante, egli faceva l'innamorato con tutte quante le ragazze.
Com'era figlio unico, e donna Agnesina Arlotta avrebbe portato la nobiltà nei Zurlo, s'era lasciato fidanzare a lei, e aveva preso gusto anche a scaldarle la testa, recitando la sua parte di primo amoroso del paese.
Babbo Zurlo che mirava al sodo, e a quella commedia ci credeva poco, diceva in cuor suo: - Il suggeritore lo faccio io.
Se don Basilio Arlotta non snocciola la dote in contanti, spengo i lumi e calo la tela -.
Don Basilio arrabattavasi appunto a mettere insieme la dote confacente alla nascita della sua Agnese, giacché di nobiltà in casa ce n'era assai, ma pochi beni di fortuna, e imbrogliati fra le liti per giunta.
Il pover'uomo che voleva far contenti tutti, e non ci vedeva dagli occhi per la figliuola ingolfavasi nelle spese: venti salme di maggese alle Terremorte seminate tutte in una volta; la lite di Palermo spinta innanzi a rotta di collo.
- Come chi dicesse un pazzo che giuoca ogni cosa su di una carta, a fin di bene, sia pure, per amor della famiglia; ma fu quella la sua rovina.
Lavorava come un cane, sempre in faccende, di qua e di là, con gente d'ogni colore che gridava e strepitava.
Partiva all'alba pei campi, e tornava a tarda sera, sfinito, coll'aria stravolta, sognando anche la notte i seminati in cui aveva messo il poco che gli rimaneva, e tutte le sue speranze.
- San Giovan Battista! - Anime del Purgatorio, aiutatemi voi! - Così pregava la Madonna dell'Idria, accendendole di nascosto ogni sabato la lampada, dinanzi all'immagine benedetta del Papa, perché facesse piovere.
Teneva nascoste ai suoi le lettere dell'avvocato che gli parlavano della causa.
In casa sforzavasi di mostrarsi allegro, il poveraccio.
Rispondeva alle occhiate timidamente ansiose della moglie: - Va bene - Non c'è male - Domeneddio non ci abbandonerà in questo punto...
- Si confessò e si comunicò a Pasqua; si mise in grazia di Dio, pregando coll'ostia in bocca per la buon'annata, per la vittoria della lite, per la buona riuscita del matrimonio che doveva far felice la sua creatura...
Essa pure, l'Agnesina, il bene che le volevano se lo meritava.
Buona, amorevole, ubbidiente, quando le avevano fatto vedere lo sposo attraverso la grata - una lontana parente - e la mamma le aveva detto all'orecchio: - È quello lì.
Ti piace? - Essa aveva chinato il viso, rosso qual brace:- Sì -.
Poi, successa la catastrofe, come le fecero intendere che bisognava rinunziare a don Giacomino e darsi a Dio, chinò il capo di nuovo e disse: - Sì -.
Era stato il giorno di Pasqua che glielo avevano fatto conoscere, quel cristiano.
L'aspettava, lo sapeva quasi.
Le avevano messo in capo quel brulichìo le confidenze delle amiche, le visite insolite delle parenti di lui, certe mezze parole della mamma...
Ah, che festa quella mattina che la mamma le aveva fatto dire di scendere in parlatorio, dopo le funzioni! Che dolcezza nel suono dell'organo, quante visioni nelle nuvolette azzurre che recavano sino al coro il profumo dell'incenso! Che batticuore in quell'attesa! Ogni cosa che rideva, ogni cosa che risplendeva d'oro e di sole, ogni cosa che sembrava trasalire allo scalpiccìo della gente che entrava in chiesa, quasi aspettasse, quasi sapesse già...
Non lo dimenticò più quel giorno di Pasqua, la poveretta.
Ancora, dopo tanti anni, quando udiva lo scampanìo allegro che correva su tutto il paese, le sembrava di rivedere il giardinetto tutto in fiore, le compagne appollaiate alle finestre, un cinguettìo di passeri, un chiacchierìo giulivo di voci note e care, un ronzìo nelle orecchie, uno sbalordimento, e lui, quel giovine, col sorriso già bell'e preparato, e la destra nel panciotto, e l'occhiata tenera che sembrava sfuggirgli suo malgrado, in mezzo ai suoi parenti, al di là della soglia del portone spalancato...
Le avevano pure fatto una gran festa all'uscire dal monastero, tutti i parenti, anche quelli di lui.
Il babbo era tanto contento quella sera! I dispiaceri e i bocconi amari se li teneva per sé, il poveretto.
Per gli altri invece aveva fatto preparare dolci e sorbetti che Dio sa quel che gli erano costati.
Dio e lui solo! E nessun altro.
- Né la ragazza per cui si faceva la festa, né il giovane che le avevano fatto sedere allato.
- Se don Giacomino avesse sospettato in quel momento quanti pasticci c'erano in quella casa, e come la dote che gli avevano promessa tenesse proprio al filo della buona o cattiva annata, avrebbe preso il cappello e sarebbe andato via, senza curarsi di far più l'innamorato.
E sarebbe stato meglio; ché allora la giovinetta non aveva ancora messa tutta l'anima sua in quel giovine, al vederlo tutti i giorni, quasi fosse già uno della famiglia, che veniva a farle visita, quasi anche lui non potesse stare un giorno senza vederla, e si metteva a sedere accanto a lei, e le diceva tante cose sottovoce.
E la mamma era contenta lei pure, e aspettava anche lei l'ora in cui egli soleva venire, e adornava colle sue mani la sua creatura.
Le avevano fatta una veste nuova color tortorella; l'avevano pettinata alla moda, colla divisa in mezzo.
Allora aveva dei bei capelli castagni, che gli piacevano tanto a lui.
Le diceva che sarebbe stato peccato doverli tagliare per farsi monaca.
Discorreva anche di tante altre cose, con la mamma o col babbo, di ciò che gli avrebbe assegnato suo padre, del come intendeva far fruttare la dote che gli avevano promesso, del modo in cui voleva che andasse la casa e tutto.
La mamma faceva segno ad Agnese di stare attenta e di badare a ciò che diceva lui, che doveva essere il padrone.
Un giorno egli le aveva regalato un bel paio d'orecchini, e aveva voluto metterglieli colle sue stesse mani, in presenza della mamma.
Come passavano quei giorni! Le ore in cui egli era lì, vicino a lei, le ore in cui essa l'aspettava, le ore in cui pensava a lui - le sue parole, il suono della sua voce, i menomi gesti, tutto - col cuore gonfio, colla testa piena di lui, china sul lavoro, agucchiando allato alla mamma.
La mamma sembrava che le penetrasse nell'anima, con quegli occhi amorosi che la covavano, se taceva, in tutto quel che diceva, fin nei consigli che le dava intorno al taglio di un corpetto o pel ricamo di un guanciale su cui dovevasi posare il capo della sua figliuola, accanto a quello dello sposo.
Ci pensava spesso la giovinetta, col viso chino, facendosi rossa fino al collo.
E la mamma sembrava che le leggesse il pensiero dolce negli occhi fissi ed assorti, che ne giubilasse anche lei, povera vecchia, senza alzare gli occhi dal lavoro, fingendo di non vedere, quando il giovane cercava di nascosto la mano tremante della ragazza, quella volta che approfittando della confusione di tutto il parentado venuto a farle visita le sfiorò il viso fra un uscio e l'altro, come a caso.
Venivano spesso i parenti e le amiche, tutti che pigliavano parte alla gioia comune.
C'era un'aria di festa nella casa, nei mobili ripuliti, nei mucchi di biancheria sparsi qua e là, nel va e vieni di sarte e di operaie, nelle donne che cantavano affaccendate.
Il babbo però aveva un certo modo di esser contento che toccava il cuore.
Gli spuntavano le lagrime, a volte, nell'abbracciare la figliuola.
Le diceva: - Che Dio ti benedica! Che Dio ti benedica, figliuola mia! - E le mani gli tremavano, accarezzando la sua Agnese, e rinfrancava la voce così dicendo, per dare ad intendere ai gonzi che dormiva su due guanciali, riguardo ai suoi interessi.
A San Giovanni che il paese intero bestemmiava Dio e i santi, lagnandosi della malannata, aveva il coraggio di dire soltanto lui: - Non c'è tanto male, poi.
Potrebbero andar peggio le cose.
Lì, a Terremorte, ci ho venti salme di maggese.
Calcoliamo pure sulla media...
Ho avuto buone notizie della lite, laggiù...
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Ma parlava così perché nel crocchio che stava a sentir la musica in piazza era pure la sua figliuola, seduta accanto allo sposo, colla veste di mérinos e il cappellino comprato a credenza.
Sembrava così intenta, la cara fanciulla, senza un pensiero e senza un sospetto al mondo! Il dottor Zurlo invece aveva certi occhi inquisitori, e insisteva con certe domande indiscrete che facevano sudar freddo il povero don Basilio: - E quanto credete che vi daranno le Terremorte? E che n'è della causa? Vi siete messo in una grossa impresa, voi.
Io nei vostri panni non dormirei più la notte...
Con una malannata simile! Le meglio famiglie non sanno come va a finire, vi dico! A metter su casa ci penserà bene ogni galantuomo, quest'anno! - Per poco non si sfogò col figliuolo che non badava ad altro, lui, in quel momento, pigliando fuoco ai begli occhi di donna Agnesina, eccitato dalla musica che suonava e dalla bella serata tepida.
Però don Giacomino non era sciocco neppur lui.
Oltreché, nei piccoli paesi tosto o tardi si vengono a scoprire gli imbrogli di ciascuno.
Il povero don Basilio Arlotta friggeva proprio come il pesce nella padella, assediato dai creditori, stretto da tanti bisogni, le spese della causa, il fitto delle terre, le paghe dei contadini.
Correva da questo a quell'altro, s'arrapinava in ogni guisa, cercava di far fronte alla tempesta, dava la faccia al vento contrario almeno, pagava di persona.
Quando, al tempo della messe, fu colto da una perniciosa che fu a un pelo di portarselo via - e sarebbe stato meglio per lui - non diceva altro, nel delirio: - Lasciatemi alzare.
Non posso stare a godermela in letto.
Bisogna che vada.
Bisogna che cerchi...
So io!...
So io!...
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E lo sapevano anche gli altri, primo di tutti don Giacomino, il quale batteva freddo colla sposa e si faceva tirar le orecchie per tornare in casa di lei, ogni volta; tanto che donna Agnesina piangeva notte e giorno, e sua madre non sapeva che pensare.
Le povere donne avevano ancora gli occhi chiusi sul precipizio che inghiottiva la casa, perché don Basilio cercava ancora di nascondere il sole collo staccio, soltanto per risparmiare loro più che poteva quel dolore che se lo mangiava vivo.
Ogni giorno che tardavano a conoscere il vero stato delle cose era sempre un giorno di meno di quelli che passava lui!...
Tacque dell'usciere che venne a sequestrare quel po' di raccolta alle Terremorte.
Tacque della scena terribile coi contadini che l'avevano minacciato colle forche, vedendo in pericolo le loro giornate.
Alla moglie che scopava già il granaio pel frumento che doveva venire dalle Terremorte, disse d'averlo venduto sull'aia.
Come essa aspettava i denari della vendita disse che glieli avevano promessi a Natale.
- Domani - Doman l'altro - Alla fine del mese -.
Il pover'uomo pigliava tempo con tutti, balbettando delle bugie alle quali quasi quasi credeva anche lui, tanto aveva perduta la testa.
- Alla vendemmia - Alla raccolta delle olive - E l'usciere era stato pure nelle vigne e nell'oliveto.
Finalmente, nella novena di Natale, che le donne avevano fatto voto di digiunare tutti i nove giorni perché Gesù Bambino facesse succedere il matrimonio senza intoppi, scoppiò la bomba.
In casa Arlotta avevano fatto il pane quella mattina.
L'Agnese, tutta contenta, stava anche preparando per don Giacomino certe paste che le avevano insegnate al Monastero.
E lui stava a vedere, sopra pensieri, piluccando di tanto in tanto un pizzico di pasta frolla e dicendole sbadatamente, soltanto per dire qualche cosa, che essa aveva le mani più bianche del fior di farina...
- lì, in cucina, dinanzi al forno, col cappello in testa, proprio come uno della famiglia - quando comparve Menica, la serva, col fascio di sermenti ch'era scesa a prendere in corte, e l'aria sconvolta: - Signora! signora!...
- Nell'anticamera udivasi la voce di don Basilio che pregava e scongiurava.
La signora corse subito a vedere e non tornò più, senza curarsi che lasciava soli don Giacomino colla figliuola.
La povera ragazza, si strinse allora allo sposo, quasi sapesse già che non le rimaneva altro aiuto ed altro conforto: - Cos'è stato, don Giacomino, per l'amor di Dio!...
-
Ah, quando vide il babbo con quella faccia! La faccia che doveva avere in punto di morte.
Barcollava come un ubbriaco; andava di qua e di là senza sapere quel che facesse, chiudendo le imposte e le finestre, perché la gente che passava non vedesse l'usciere in casa sua.
Imbattendosi a un tratto nel fidanzato di sua figlia, don Basilio lo guardò stralunato, col sudore dell'agonia in viso.
Giunse le mani e aprì la bocca senza dir nulla.
Allora don Giacomino si mise a cercare il bastone e il pastrano senza dir nulla, facendo ancora finta di non saper niente di niente, per cortesia, ed anche per evitare una scena che gli seccava, borbottando:
- Scusate...
Sono d'incomodo...
Mi dispiace...
-
Ma come don Basilio voleva continuare a fare la commedia dell'uomo tranquillo, coi goccioloni dell'agonia in fronte e pallido più di un morto: - Ma, don Giacomino!...
Figuratevi!...
Un momento e li sbrigo subito...
Passate un momento in camera mia colle donne...
- don Giacomino si fermò a guardarlo, verde dalla bile, sul punto di spiattellargli in faccia: - A che giuoco giuochiamo? Finiamola adesso questa commedia! Se lo sanno tutti che siete rovinato! Mi meraviglio di voi che volete imbrogliare un galantuomo...
-
Ma tacque ancora per prudenza.
Soltanto non ci furono Cristi per trattenerlo.
Né la vista dell'Agnesina che gli faceva la scena dello svenimento.
Né le lagrime della madre che lo supplicava tremante: - Don Giacomino...
Figliuolo mio!...
- Egli disse che tornava subito, per cavarsi d'impiccio: - Mi dispiace.
Non posso, proprio!...
Un momento.
Vado e torno -.
Tornò invece il notaio Zurlo, a restituire i regali che venivano dalla sposa: il berretto di velluto e pantofole ricamate, facendo il viso compunto per procura del figliuolo, un viso fra il padre nobile e il burbero benefico, tornando a dire anche lui: - Mi dispiace davvero!...
Era il mio più gran desiderio.
Ma voi non ci avete colpa, donna Agnesina!...
Ne troverete degli altri coi vostri meriti...
-
E volle lasciarle anche una carezza paterna sulla guancia, con due dita, sorridendo bonariamente.
Ma come vide barcollare la ragazza, bianca al par di un cencio, si asciugò persino gli occhi col fazzoletto e conchiuse:
- Che disgrazia, figliuola mia!...
Scusate se vi chiamo così.
Vi tenevo già per figlia mia!...
Che crepacuore mi avete dato...
-
Ecco com'era venuta la vocazione alla povera donna Agnese.
Il cappellano del monastero la citava in esempio alle altre novizie che mostravansi sbigottite nel punto di pronunciare i voti solenni: - Guardate suor Agnese Arlotta! Specchiatevi su di lei che ha provato quel che c'è nel mondo.
C'è l'inganno e la finzione.
- Imbrogliami che t'imbroglio.
- Una cosa sulle labbra e un'altra nel cuore.
- E poi che resta alla fine di tante angustie, di tanti pasticci? Un pugno di polvere! Vanitas vanitatum!...
-
Così, a poco a poco, la poveretta s'era distaccata completamente dalle cose terrene, e s'era affezionata invece all'altare che aveva in cura, al confessore che la guidava sul cammino della salvazione, al cantuccio del dormitorio dov'era il suo letto da tanti anni, al posto che occupava al coro e nel refettorio, al suono della campana che regolava tutte le sue faccenduole, sempre eguali, alle pietanze che tornavano invariabilmente secondo il giorno della settimana, alla stessa ora, nello stesso piatto.
Il suo mondo finiva lì, al cornicione della casa dirimpetto che affacciavasi sopra il muro del giardino, al pezzetto di collina che si vedeva dalla finestra, al gomito della stradicciuola che metteva capo al parlatorio.
Le ore e le stagioni si succedevano nel monastero allo stesso modo, col sole che scendeva più o meno basso sul cornicione, colla collina che era verde o brulla, coi polli che razzolavano nella stradicciuola, o si radunavano all'uscio del pollaio.
Anche le voci dei vicini erano tutte note.
Allorché andò via la tessitrice che stava di faccia alla chiesuola fu un avvenimento, quando non si udì più il battere del pettine ogni mattina.
Suor Agnese non ebbe pace finché non riescì a sapere dal sagrestano dov'era andata e perché era andata via, quella cristiana.
Non che cercasse il pettegolezzo, ma per semplice curiosità, massime da che era divenuta sorda.
Siamo fatti di carne infine, e il mondo ostinavasi a insinuarsi sin là, pian piano, coi sermoni del confessore, colle chiacchiere del sagrestano, coi discorsi dei parenti che venivano in parlatorio, colle liti fra le monache, e gl'intrighi che nascevano quando trattavasi di eleggere le cariche pel triennio.
Oh allora!
Suor Gabriella, ch'era la superbia in persona, si faceva umile come un agnello pasquale; e suor Maria Faustina, otto giorni prima, aveva sulla faccia arcigna un sorriso amabile.
Fra le suore poi erano conciliaboli a tutte le ore, durante la ricreazione, o quando si riunivano nel tinello a preparare i dolci e le paste per la solennità, a Pasqua o a Natale.
Tanto più che suor Agnese non aveva nulla da fare, perché non aveva né fior di farina, né zucchero, né denari per comprarne, né parenti a cui mandare in regalo i dolci.
Sua madre, buon'anima, era morta da un pezzo; e anche don Basilio, quantunque fosse campato vecchio nei guai, perché Dio aveva voluto dargli il purgatorio in terra - e anche la zia caritatevole, che aveva sborsato le cento e venti onze della dote perché donna Agnese potesse farsi monaca.
- Pace alle anime loro, di tutti quanti, compreso don Giacomino, che era morto carico di figliuoli, e gli avevano fatto i funerali a Santa Maria degli Angeli.
Sia fatta la volontà di Dio! a suor Agnese, povera vecchia, il Signore le accordava la grazia.
Colle sei onze all'anno della dote, e il piatto che le passava il convento, meno di trenta centesimi al giorno, essa riusciva a mantenersi lei, la lavandaia, e la conversa di cui non poteva fare a meno pei suoi acciacchi.
Risparmiava sulle due paia di scarpe e sulla tonaca nuova che le spettavano ogni anno.
Vendeva le noci e le mandorle della tavola che non poteva rosicchiare.
Di due ova ne mangiava una lei, e l'altro, metà per una fra la serva e la lavandaia.
Aveva anche combinato che a tavola teneva un fornello allato al piatto, e la sua porzione di minestra tornava a farla bollire perché crescesse e potesse bastare alle due donne che avevano sempre una fame da lupi.
Essa campava d'aria, povera vecchia.
Talché a furia di privazioni tirava innanzi anche lei, e arrivava a cavare di quel poco anche il caffè e il biscotto pel confessore, ogni mattina.
Veramente avrebbe avuto anche lei l'ambizioncella di tenere il pastorale, almeno una volta in tanti anni.
Ma alle cariche erano nominate sempre quelle monache che sapevano intrigare meglio, e trovavano appoggio nel parentado di fuori.
Basta, taceva e ringraziava la Divina Provvidenza.
- Che le mancava, grazie a Dio? Mentre fuori, nel mondo, c'erano tanti guai! - Col buon esempio, e simili belle parole, confortava pure quelle novizie che in convento ci venivano tirate proprio pei capelli, senza vocazione.
Una di queste però, maleducata e villana, le rispose un bel giorno chiaro e tondo:
- Sapete com'è? La mia vocazione è di sposare don Peppino Bèrtola, per amore o per forza -.
GLI INNAMORATI
Innamorati lo erano davvero.
- Bruno Alessi voleva Nunziata; la ragazza non diceva di no; erano vicini di casa e dello stesso paese.
Insomma parevano destinati, e la cosa si sarebbe fatta se non fossero stati quei maledetti interessi che guastano tutto.
Quando due passeri, o mettiamo anche due altre bestie del buon Dio, si cercano per fare il nido, forse che stanno a domandarsi: - Tu cosa mi porti in dote, e tu cosa mi dài? -
La Nunziata, cioè mastro Nunzio Marzà suo padre, doveva avere un bel gruzzolo, dopo quarant'anni che teneva merceria aperta, e quindi Alessi pretendeva cento onze insieme alla ragazza.
- La gallina si pela dopo morta - ribatteva mastro Nunzio.
- Io non intendo lasciarmi spogliare in vita.
- La moglie va colla dote - picchiava Bruno Alessi.
- Io non voglio maritarmi a credenza -.
Veramente questo lo faceva dire dai suoi vecchi, com'è naturale, e lui badava a scaldare i ferri colla giovane.
Il diavolo è tentatore, e le donne hanno il giudizio corto.
A poco a poco la povera Nunziata prese fuoco come un pugno di stoppa, e ci rimise il sonno e l'appetito.
- Bene, - disse mastro Nunzio.
- T'insegnerò io il giudizio -.
E giù legnate da levare il pelo, se la sorprendeva alla finestra, o la vedeva fare altre sciocchezze.
Cogli Alessi invece usava politica, e stavano insieme a tirare sul prezzo, senza troppa furia.
Al giovanotto però quel negozio non andava a sangue, sia che ci avesse la fregola addosso, o perché le cose lunghe diventano serpi.
Poi voleva mettere una bella calzoleria, e pensare agli interessi propri, invece di lavorare a bottega dal padre.
- Senti, - disse alla ragazza - Qui ci menano a spasso, per fare i loro comodi.
Bisogna finirla -.
Giacché Marzà aveva un bel picchiare la figliuola, e sprangare usci e finestre.
Il diavolo è anche sottile, e Bruno Alessi ne sapeva una più del diavolo.
Fingeva di andare a vendere scarpe e stivali per le fiere, lì intorno, e poi, mentre mastro Nunzio dormiva tranquillo fra due guanciali, veniva di notte a stuzzicargli la figliuola.
- Maria santissima! Cosa mi fate fare! - piagnucolava Nunziata col grembiule agli occhi.
- Se mi vuoi bene, te lo dirò io -.
Però la ragazza non voleva sentirla quella faccenda di spiccare il volo con lui, e dopo, quando il pasticcio era fatto, mastro Nunzio avrebbe dovuto adattarsi a mandarlo giù.
Era una buona figliuola infine, dello stesso sangue dei Marzà, e stando dietro il banco aveva imparato cosa vuol dire negozio, e come vanno a finire certe cose.
Ma soffia e soffia, Bruno, che non pensava ad altro, seppe scaldarle la testa, e farle perdere quel po' di senno che le restava ancora.
La finestra era bassa, e rizzandosi sulla punta dei piedi egli le arrivava al collo.
Allora, per parlarsi all'orecchio, perché non udisse mastro Nunzio che dormiva lì accanto, pigliavano fuoco tutt'e due, e la ragazza ci si squagliava come la neve.
Lui le aveva mostrato anche un trincetto che portava addosso, e minacciava di fare una tragedia con quello.
- M'ucciderò sotto i tuoi occhi! Verrà tutto il paese a vedere il sangue! Allora sarai contenta! Allora vedrai se ti voglio bene sì o no! -
E bisognava vedere che faccia! Nunziata a quell'uscita sbigottiva, e tornava a balbettare tutta tremante:
- Oh Madonna santa! cosa mi fate fare!...
- Bene.
Quand'è così, vuol dire proprio che non mi ami.
È meglio finirla!...
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Per abbreviare, gnor padre che picchiava la ragazza tutto il giorno, l'innamorato che veniva a farle di notte le stesse scene di amore e di gelosia, Nunziata raccolse quattro stracci in un fagotto, e andò a raggiungere Bruno che l'aspettava nella viuzza.
- Però giuratemi che mi sposerete subito! - gli disse prima di tutto.
- Giuratemi innanzi a Dio! -
Bruno le giurò tutto quel che voleva, lì, su due piedi, al cospetto di Dio che vedeva e sentiva, lassù: una mano sul petto e l'altra che chiamava angeli e santi testimoni: - Non lo sai che t'amo più della pupilla degli occhi miei? Non dobbiamo essere marito e moglie? - Poi volle portarle lui il fagotto.
- Hai preso gli ori? - le chiese pure.
Essa non aveva preso gli ori, perch'era tutta sottosopra.
- Hai fatto una sciocchezza, - conchiuse Bruno.
- Tuo padre te li metterà sul conto della dote -.
Mastro Nunzio il mattino trovando l'uscio aperto si mise a gridare al ladro.
Papà Alessi, che passava di là a caso, in quel punto, lo tirò dentro pel braccio e gli disse:
- Non fare strepiti.
Non facciamo ridere la gente.
Vostra figlia è in casa di mia cugina Menica, rispettata e onorata come una regina -.
Il povero Marzà s'era messo a sedere colle gambe rotte.
Ma tosto si rimise.
Compare Alessi gli offrì una presa, accostò una scranna lui pure, e infine intavolò il discorso.
- Bene.
Ora che facciamo?
- Dite voi, - rispose Marzà asciutto asciutto.
- Io lo so cosa devo fare.
- È una disgrazia, non dico di no.
Gli altri rompono e tocca pagare a noi.
- Chi rompe paga, e chi ne ha ne spende -.
Compare Alessi era uomo navigato anche lui, e capì il latino.
- A me non importa infine, - conchiuse mettendosi colle spalle al muro.
- E a me neppure.
- Scusate, scusate.
Si tratta di vostra figlia.
È il sangue vostro.
- E voi, quando vi esce il sangue dal naso, che state a cercare dov'è andato a cadere? -
Toccò a mastro Alessi stavolta di rimanere con tanto di naso e la bocca aperta.
- Allora dite voi.
Come si fa?
- Si fa così, che la Nunziata è minorenne, e vostro figlio andrà in carcere.
- Ah! ah!...
Va bene allora! Quand'è così vi saluto tanto! -
Papà Alessi si alzò lentamente, e fece anche finta d'andarsene, come quando si capisce bene che il negozio non si combina.
Pure, vedendo mastro Nunzio fermo come un macigno, con quella faccia tosta di negadebiti, non poté frenarsi dal rinfacciargli, stando sull'uscio:
- E vi terrete la figliuola...
così?
- Non mi avete detto ch'è onorata come una regina? Ho quattro soldi.
Le troverò bene un marito a modo mio.
- Ah! per quei quattro soldi! - esclamò l'altro infuriato.
- Vendete vostra figlia per cento onze!...
Sentite! Scusate! È sangue vostro, sì o no? Siete cristiano? Siete padre, o cosa siete?
- Ah, compare bello! E voi ve lo fate cavare il sangue per gli altri? -
Mastro Alessi se ne andò davvero stavolta, e corse subito a far scappare Bruno prima che la giustizia venisse a cercarlo.
Nunziata invece, che mangiava a ufo dalla cugina Menica, e neppure il curato aveva potuto persuadere Marzà a sborsare le cento onze, dovette tornare a casa mogia mogia, e sentirsi dire:
- Vedi se volevano te o il mio denaro? Hai capito adesso? -
Intanto passavano i giorni, e Bruno, temendo di cadere nelle unghie della giustizia, andava pel mondo cercando fortuna, e riducendosi povero e pezzente.
Mastro Nunzio, che era padre e cristiano alla fin fine, gli avrebbe pur dato la figliuola, ed anche un po' di roba.
Ma cento onze di denaro, no, finch'era vivo! - E Bruno dal canto suo si ostinava invece: - O colle cento onze, o niente -.
Però la Nunziata, piangendo giorno e notte, indusse il padre a discorrerne fra loro e Bruno, in famiglia, e ciascuno avrebbe dette le sue ragioni.
- Ma non sarà qualche tranello poi? - osservò Bruno, come la zia Menica andò a fargli l'imbasciata.
- Posso fidarmi di quel birbante?
- Ti accompagno io, - tagliò corto la zia.
- Mastro Nunzio è un galantuomo -.
La sera stessa, dopo chiusa la bottega, si riunirono nella merceria loro quattro, lei, Bruno e i Marzà, per dire ciascuno la sua ragione.
Bruno stava zitto e grullo, mastro Nunzio guardava in terra.
Nunziata versava il vino nei bicchieri, e toccò quindi a comare Menica parlare:
- Bisogna finirla.
È una porcheria.
Tutto il paese non discorre d'altro.
Io non me ne vado di qui se prima non si conclude il matrimonio -.
Nunziata allora si mise a piangere.
Bruno guardava ora lei e ora suo padre.
La ragazza infine, vedendo che non diceva nulla, prese a sfogarsi:
- Ditelo voi stessa, comare Menica!...
Dopo avermi lusingata per tanto tempo! Dopo tanti giuramenti! E quello che ho fatto per lui...
che sarebbe meglio buttarmi nel pozzo, adesso!
- Io non mi tiro indietro, - borbottò lui.
- Per me non manca.
- Dunque per chi manca? - conchiuse la zia Menica, guardando ora il padre ed ora la figlia.
Nessuno aprì più bocca, finché Bruno s'alzò in piedi, e prese un bicchiere dal banco.
- Guardate! - disse.
- Che questa grazia di Dio possa mutarsi in veleno se dico bugia! Della dote non me ne importa nulla.
Quanto a me la sposerei anche senza camicia.
- Questo no, - interruppe la zia Menica.
- Mastro Nunzio conosce il suo dovere.
- Bene.
Dunque quello che dà lo dà a sua figlia.
Voglio le 100 onze nel suo interesse.
Ci ha lavorato anche lei, colla merceria, sì o no? -
Qui Nunziata prese le sue parti, e disse che era vero.
Ci aveva spesa tutta la bella gioventù dietro a quel banco, dacché era morta la buon'anima di sua madre.
Se fosse stata ancora al mondo, quella, non avrebbe fatto penare la sua creatura per 100 onze di più o di meno.
E lì a intenerirsi tutti, e buttarsi piangendo al collo di mastro Nunzio, lei, lo sposo e anche la zia Menica, sinché il babbo dopo aver pestato e ripestato che la gallina si pela dopo morta, che i denari hanno le ali, e quando Bruno Alessi avesse mangiato quelli della dote gli toccava poi a lui mantenere marito e moglie, pure si lasciò andare a promettere le 100 onze, purché ci fosse la sua brava cautela.
Nunziata ballava e rideva, comare Menica baciava in terra, ma qui Bruno mostrò il malanimo, che le 100 onze le voleva in mano, perché - metterle alla Banca, no: se le portano via.
- Comprare un pezzo di terra, neppure: non danno frutto.
- Invece col contante in mano lui avrebbe messo un bel negozio.
- Il negozio è quello che volete fare con questa sciocca che vi crede e si lascia prendere alle vostre commedie! - interruppe nel bel mezzo il vecchio più arrabbiato di prima.
- No! - rispose Nunziata aprendo gli occhi a un tratto, e asciugandosi le lagrime.
- No, che non mi lascio prendere! -
E in tal modo sfumarono matrimonio ed amore.
Bruno rinfacciò a Nunziata, prima d'andarsene: - Così dicevate di buttarvi nel pozzo? - Lei, di rimando: - Come vi siete ucciso voi col trincetto, tal quale -.
Mastro Nunzio chiuse l'uscio, e la figliuola se ne andò a letto furiosa.
Se non fosse stata la vergogna di essersi lasciata cogliere in trappola da quel bel galantuomo, ed era difficile trovarne un altro, avrebbe voluto maritarsi subito subito, per dispetto, anche con uno di mezzo alla strada.
Ma suo padre, coi suoi denari, le trovò invece Nino Badalone, un pezzo di marito che ne valeva due, e non aveva tante arie e tante pretese.
Nunziata si fece pregare alquanto, per decenza, e poi disse di sì.
- Giacché piace a voi, sono contenta io pure -.
Nino Badalone era contento anche lui.
Veniva alla merceria quasi ogni sera; portava qualche regaluccio, e faceva l'innamorato come e meglio di qualcun altro.
Mentre Marzà serviva gli avventori, o schiacciava un pisolino dietro il banco, Nino soffiava all'orecchio della ragazza le stesse cose che le aveva dette Bruno: - Bene mio! - Cuore mio! - E lei ci pigliava gusto egualmente, e la notte poi fra le coltri, diceva fra sé e sé: - È lo stesso, tal quale -.
Bruno invece, ch'era rimasto a bocca asciutta, pensava dal canto suo: - Voglio vedere come va a finire! -
Passava e ripassava per la stradetta, col garofano in bocca; si sgolava di notte a cantarle dietro l'uscio canzoni d'amore e di sdegno, e quando incontrava la Nunziata, alla messa, invece di farla arrossire, come pretendeva, e di confonderla colle sue occhiatacce, era lui piuttosto che restava minchione e doveva chinare il capo.
- Ma con quell'altro voglio vedermela davvero - brontolava poi sputando veleno.
- Voglio mangiargli il fegato! Voglio berne il sangue -.
Di buoni amici ce n'è sempre a questo mondo; sicché cotesti sproloqui arrivarono all'orecchio di Badalone.
Costui era stato soldato, e sapeva il fatto suo.
- Bene, - rispose, - vedremo! Chi è buon cane mangia alla scodella -.
La domenica di carnevale dai Bozzo ci era un po' di festino.
Bruno vi andò lui pure, colla fisarmonica, per svagarsi, ed anche perché sapeva che Mastro Nunzio vi avrebbe condotto la figliuola, e voleva vedere come andava a finire.
Mentre dunque suonava la fisarmonica e faceva ballare gli amici, arrivò infatti mastro Nunzio, colla Nunziata in gala, e dietro Badalone gonfio come un tacchino.
Se Bruno Alessi in quel momento non fece uno sproposito e poté andare innanzi colla sonata, fu proprio un miracolo, ed anche per non lasciare in asso i ballerini.
Per giunta Badalone prese subito la sposa a braccetto, senza dire né uno né due, e si mise a ballargli sotto il mostaccio - polche, valzeri, contradanze - Nunziata che si dimenava con bel garbo e gli faceva il visavì, e lui saltando come un puledro, tutto rosso e scalmanato.
Il povero Bruno intanto gli toccava portare il tempo e inghiottire veleno.
Infine lasciò il posto a Zacco, ch'era lì pronto colla cornamusa, e volle fare quattro salti anche lui.
- Permettete, amico? - disse a Badalone, toccandosi pulitamente il berretto.
Quello screanzato invece lo squadrò prima ben bene, e poi rispose asciutto:
- Non permetto.
Perché? -
Gli disse anche quel "perché", che fa montare la mosca al naso! Fortuna che Bruno Alessi era un galantuomo, e non voleva più averci a fare colla giustizia.
Ma gli giurò in cuor suo: - Ti farò becco, com'è vero Dio! -.
E volle piantar subito ballo e ballerini.
Non ci furono cristi.
Se ne vedono civette al mondo! Sfacciate come quella lì, che ridono a Cajo e a Tizio, e passano da una mano all'altra peggio dei cani di strada che fanno festa a tutti.
Ma un tradimento simile Bruno non se lo aspettava, dopo tanto amore e tante pene, e tutto ciò che aveva fatto per l'ingrata! Questo voleva dirle, a quattr'occhi, appena la coglieva un momento sola, dovesse azzuffarsi poi con Badalone.
Infatti Nunziata se lo vide capitare in casa con quel proposito, il giorno dopo, mentre stava affacciata a veder le maschere.
Era vestito da pulcinella, per non farsi scorgere, ma essa lo riconobbe tosto, che il cuore non è fatto di sasso, e voleva chiudergli l'uscio sul naso.
- Ah, così mi ricevete? - diss'egli.
- Questa mi toccava?
- Bene, parlate, - rispose lei.
- Non m'importa di vostro padre.
Non ho paura di nessun altro.
Voglio dirvi il fatto mio.
- Bene, dite, e finiamola subito -.
Bruno s'era preparato il suo bel discorso, ma al vedersi trattare in quel modo non trovò più le parole.
Bugiarda! Traditora! L'aveva venduto per 100 onze, come Gesù all'orto! E gli rideva sul muso anche! Allora, disperato, si strappò la maschera, e mostrò anche di frugarsi addosso per cercare il trincetto.
- Ah! Volete ammazzarvi un'altra volta? - rispose lei continuando a ridere.
In quel punto sopraggiunse Nino, colle mani in tasca, e quella sua andatura dinoccolata.
Appena vide il Bruno, che lo seccava, infine, gli assestò una pedata sotto le reni, e questo fu il primo saluto.
- Bada che ha il trincetto addosso! - gridò la giovane spaventata.
Bruno si rivoltò come una furia.
Voleva mangiargli il fegato.
Voleva berne il sangue.
Ma poi se la diede a gambe, e Nino l'accompagnò ancora a pedate sino in fondo alla stradetta.
FRA LE SCENE DELLA VITA
Quante volte, nei drammi della vita, la finzione si mescola talmente alla realtà da confondersi insieme a questa, e diventar tragica, e l'uomo che è costretto a rappresentare una parte, giunge ad investirsene sinceramente, come i grandi attori! - Quante altre amare commedie e quanti tristi commedianti!
Ho visto la commedia del dolore al letto di un'agonizzante.
Un caso di corte d'Assise, se era vero, come dicevano i vicini, che Matteo Sbarra non moriva, no, di un calcio di mulo; ma fosse stato il compare Niscima che l'aveva ucciso a tradimento, con una badilata nella testa, quando seppe di quell'altro tradimento che Matteo Sbarra gli faceva con la moglie - un compare, un amicone che spartiva con loro il pane e il lavoro, e si sarebbe fatto ammazzare per tutt'e due! - Niscima piangeva, sua moglie piangeva, strappandosi i capelli, fosse amore, o fosse timore della giustizia.
- O compare, che giornata spuntò oggi per tutti noi! - O che fuoco ci ho qui dentro, compare bello! - E il giudice istruttore era presente; e la stanza era piena di vicini che sapevano e non sapevano; e il mulo, legato lì fuori, non poteva parlare.
Matteo Sbarra, col singhiozzo alla gola, stava zitto anche lui, dinanzi al giudice, dinanzi ai testimoni, dinanzi al prete che gli dava l'assoluzione dei suoi peccati.
Guardava la comare, guardava il compare, cogli occhi torbidi, dove forse passava già la visione della vita eterna.
Ah! le mani di lei, che gli asciugavano adesso col fazzoletto il sangue e il sudore della morte! E le mani dell'amico che gli rassettavano il guanciale sotto il capo, lì, nello stesso letto matrimoniale dove l'aveva tratto in agguato - a colpo sicuro, se era vero che la donna ve l'aveva stretto altre volte fra le braccia, poiché Niscima sapeva bene che il maschio della selvaggina vi torna di nuovo sotto il fucile, al richiamo della femmina, fosse ferito e grondante sangue.
- La vicina Anna aveva udito dietro l'uscio il rumore della lotta brusca e violenta, appena il marito era arrivato a casa: le grida soffocate, il rantolo della donna, e l'anelito furioso di lui.
Cosa doveva fare, poveretta, se era vero che fosse colpevole? se è vero che Dio non paga il sabato, e ci castiga col nostro stesso peccato? - Perché l'hai fatto scappare, buona donna? Digli che torni.
Dovete averci un segnale fra di voi.
Fagli segno di venire, pel nome di Dio! - Ella mise il segnale: un fazzoletto rosso color di sangue: la videro altri vicini, più morta che viva, alla finestra.
Avevano ben ragione di strillare adesso tutti e due: - O compare mio, che fuoco mi lasciate qui dentro nel mio cuore! - Signor giudice, signori miei, uccidetemi qui stesso, dinanzi a lui, se fui io il traditore! - E la giustizia oscura che era nella coscienza dei testimoni muti, pensava forse: - Il morto è morto.
Bisogna salvare il vivo.
-
Quest'altra da tribunale correzionale invece: lui buttandosi fra le fiamme che aveva appiccato di nascosto al magazzino, dicevasi, onde salvarsi dal fallimento, e cercando di spegnerle colle sue stesse mani: le mani arse, i panni che gli fumigavano addosso, i capelli irti, il viso stravolto e terreo di un disperato o di un delinquente - e la moglie seminuda, i figliuoli atterriti che s'avvinghiavano a lui.
- Lasciatemi!...
perdio!...
È la rovina!...
Meglio la morte! - Il vocìo della folla, il crepitare dell'incendio, il getto delle pompe, lo squillare delle cornette dei pompieri.
- E dei visi arrossati, delle ombre nere che formicolavano nel chiarore ardente, le placche dei carabinieri che l'abbacinavano.
- Che vedeva egli, che sentiva in quel momento torbido? Le mani convulse che si stendevano verso di lui, fra il luccicare delle baionette; la fanciulla brancicata senza riguardo da cento sconosciuti, il figliuolo dibattendosi furioso fra i soldati: - Papà! papà mio! - E i sogghigni dei malevoli, il sussurro avverso della voce pubblica: - Trecentomila lire d'assicurazione!...
Si capisce!...
Tanto più che la barca faceva acqua da tutte le parti! - Due volte il forsennato tentò di rompere il cordone di truppa che isolava l'incendio, e due volte fu respinto urlante e traballante sul marciapiedi: - È la mia roba, vi dico!...
La mia roba!...
Lasciatemi morire! - E noi, papà? Siamo noi! Ascolta - Ah, figli miei! Poveri figli miei! - E il piangere che faceva, lì in mezzo alla strada, le lagrime che gli rigavano il viso sporco di fumo e di polvere - le lagrime della moglie e dei figli! Erano finte anche quelle? Erano complici pietosi ancor essi della turpe commedia? Piangevano sulla colpa del padre, o sulla loro rovina? Avevano letto prima in quel volto venerato ed amato le angustie segrete, le ansie, le lotte che il negoziante onorato e stimato fino a quel giorno aveva dovuto dissimulare fra loro, a tavola, in teatro, nell'intimità della famiglia e al cospetto del pubblico che bisognava illudere colle apparenze di una costante prosperità? Era la disperata necessità della menzogna istessa che li contaminava tutti adesso per la comune salvezza? Sino a qual punto erano finte le lagrime del colpevole, lì, sotto gli occhi della moglie e dei figli, la sua tenerezza, il suo orgoglio, le sue vittime, i suoi giudici primi e più inesorabili nel segreto della coscienza? Chi avrebbe potuto dirlo? - Voi uomo di banca, che giuocate alla Borsa col sigaro in bocca delle partite di vita o di morte, e di rovina per altri mille che hanno fede soltanto nella vostra bella indifferenza? - O voi uomo di toga, che avete fatto piangere i giudici per salvare l'omicida? - Tutt'a un tratto la folla, i soldati, gli stessi pompieri indietreggiarono atterriti, dinanzi all'orror dell'incendio, fra un urlo immenso.
Egli solo, il disgraziato, si strappò dalle braccia dei figli per slanciarsi nella voragine ardente, rovesciando quanti gli si opponevano, lottando come un forsennato contro tutti, respinto, percosso, tornando a cacciarsi avanti a testa bassa, grondante sangue, colla schiuma alla bocca, la bocca da cui usciva un grido che non aveva più nulla d'umano: - La cassa! I libri! -
Lo portarono a casa su di una barella, tutto una piaga e mezzo asfissiato.
Stette un mese fra morte e vita, coll'aspettativa del giudizio infame in quell'agonia, e gli occhi dei figli che lo interrogavano.
- Povera Lia, come sei pallida! E anche tu, Arturo! Anche tu! Vedete, sono tranquillo adesso, tra voi.
Vedete come sorrido, povere creature? - E poi ancora dinanzi ai giudici, seduto al posto dei malfattori, sotto l'interrogatorio e le testimonianze contrarie, e la difesa dell'avvocato che invocava in suo favore quarant'anni di probità intemerata, e il viso pallido del figliuolo che ascoltava fra l'uditorio, e le braccia tremanti delle sue donne che l'avvinsero all'uscita del tribunale.
- Assolto! Assolto! - Senza dir altro, un'altra parola, che rimase muta e gelida fra di loro, sempre!
E la commedia di tutti i giorni, nella casa patrizia, sotto lo stesso tetto, alla stessa tavola, al cospetto dei figli e dei domestici, rappresentata per vent'anni, colla disinvoltura del gran mondo, tra il marito offeso e la moglie colpevole, se il triste segreto era realmente fra di loro.
- La moglie di Cesare non deve essere neppure sospettata, - ed entrambi, legati alla medesima catena da un casato illustre, osservavano perfettamente il codice speciale della loro società.
Né il mondo ci aveva nulla da vedere.
Forse qualche capello bianco di più sulle tempie delicate di lei; ma non un riguardo, né un'attenzione di meno della cortesia implacabile del marito.
Se la dama, moglie e madre onorata e insospettata sino al declinare della giovinezza, era caduta tutt'a un tratto, e caduta male, giacché il pleonasmo è ammesso nel suo mondo, come una povera creatura delicata e fiera, avvezza soltanto a camminar a testa alta sui tappeti e che non sappia mettere le mani avanti, il marito la sorresse tosto con braccio fermo, perché continuasse a portare degnamente il nome suo e quello dei figli.
Certo è che essa non gridò né pianse, né fece piangere le anime caritatevoli sulla pietà del caso.
- E anche il marito ebbe gran parte di merito nel tenere la cosa in famiglia; poiché l'altro era un uomo di mondo lui pure, della stessa casta e quasi dello stesso casato, bel cavaliere e bel giuocatore alle carte e in amore, che correva alla rovina e alla morte col sorriso alle labbra e il fiore all'occhiello, e sapeva vivere - e morire, al bisogno, evitando ogni scandalo.
Egli non le aveva scritto che due o tre lettere, nei casi più urgenti, quando si era trovato proprio coll'acqua alla gola o colla rivoltella sotto il mento.
Il male fu che una di quelle lettere, la più breve e grave, l'ultima, cadde in mano del marito, mentre stavano per recarsi a una gran festa, e la carrozza aspettava a piè dello scalone, e la povera donna già pettinata e vestita, pallida come una morta, seduta dinanzi a un gran fuoco, aspettava i gioielli che aveva impegnati per l'amante, e che questi le aveva promesso di restituirle per quella sera a ogni costo.
- A ogni costo.
- Perciò le chiedeva scusa, scrivendole, se per la prima volta, e l'ultima, mancava alla sua parola.
La poveretta ne aveva già il triste presentimento, giacché aveva il cuore stretto da quella immensa angoscia ed era così pallida dinanzi a quel gran fuoco? Aveva visto balenare l'idea del suicidio, ed era stata la pietosa attrattiva che l'avea data a lui, quando lo aveva visto perdere tutto, calmo e impenetrabile, in una terribile partita? - Una terribile partita che faceva disertare il ballo e attirava anche le dame nella sala da giuoco.
Egli, incontrando gli occhi di lei, tristi e pietosi, le aveva detto allora con un pallido sorriso: - Perché viene a vedere queste brutte cose, duchessa? - E lei...
- Perché?...
Perché fa questo, Maurizio? - balbettò essa con un filo di voce.
Egli si strinse nelle spalle, chinandosi a baciarle la mano, e non rispose altro, fissandola in viso con gli occhi chiari e fermi, e decisi a tutto.
La notizia del suicidio correva già per i trivi sulla bocca dei venditori di giornali, allorché il duca entrò nello spogliatoio della moglie colla fatale lettera in mano.
Era fermo anche lui, e impenetrabile come quell'altro, nella rovina improvvisa di tutto ciò che aveva formato il suo orgoglio e la sua fede.
- Scusatemi, - le disse - se l'ho letta prima di accorgermi che non era diretta a me.
Ma riflettete che poteva capitare in mani peggiori.
Bruciatela insieme a tutte le altre che dovete avere, e datevi un po' di rosso, giacché non posso condurvi al ballo con quella faccia, senza renderci ridicoli voi ed io -.
Il ridicolo fu evitato.
Se pure i cacciatori di scandali si affollarono all'uscio, quando fu annunziata l'illustre coppia, e le amiche indulgenti si rivolsero a lei, allorché la notizia del suicidio cominciò a circolare nella festa, videro lei diritta e forte, senza battere palpebra sotto il colpo mortale che le picchiava alla testa, e gli sguardi dei curiosi, e le parole del marito che compiangeva "quel povero Maurizio" colla discrezione mondana che attutisce ogni stridere molesto.
Essa fu malata, e il duca non lasciò un sol giorno la stanza di lei.
Ricomparve ai teatri, ai ricevimenti, ammirata, inchinata, al braccio di quell'uomo di cui sentiva l'intima repulsione, accanto alla vergine candida e pura e al giovinetto di cui era l'orgoglio e la tenerezza.
Quando essi andarono sposi, il padre aveva detto loro: - Serbatevi degni del vostro nome, e dell'esempio che vi hanno dato i vostri -.
Dinanzi a loro, dinanzi a tutti, egli non dimenticò giammai, un giorno solo, per anni ed anni, di dare lo stesso esempio di devozione e di stima alla compagna della sua vita e della sua catena, rimasta sola con lui, nel palazzo immenso, sonoro e vuoto come una tomba.
Se mai il volgare sospetto fosse durato ancora nella mente di qualche domestico o di un familiare, egli volle smentirlo sino all'ultimo momento, sino al punto di morte, stringendo la mano della moglie singhiozzante, prostrata dinanzi a lui, dinanzi ai figli, dinanzi ai congiunti, mentre il prete gli dava la estrema unzione.
Soltanto nell'ultima convulsione di spasimo, respinse quella mano colla mano di ghiaccio.
Nel testamento lasciò un ricco legato "alla sua fedele compagna".
Quante altre! Quante! - Il sorriso procace della disgraziata che deve guadagnarsi il pranzo.
- Le lagrime dello scroccone che viene a chiedervi venti lire "in prestito".
- L'eleganza dello spiantato che cena colle paste del the.
- Gli occhi bassi della ragazza che cerca un marito.
- E la più desolante, infine, la commedia dell'amore, quando l'amore è morto, e resta la catena.
O braccia delicate che vi allacciaste all'amplesso stanche e illividite! Quando Alberto strinse in quella festa da ballo la piccola mano che doveva avvincergli così tenacemente la catena al collo, non sapeva che essa se ne sarebbe svincolata così presto.
E anche lui allora non sapeva di lasciarsi prendere all'ardore che simulava e alla lusinga delle proprie frasi galanti.
- Il sorriso trionfante di lei che si inebbriava all'omaggio di quel bell'avventuriero d'amore disputato e ammirato - il sottile eccitamento della danza - la carezza della musica che accompagnava la carezza delle parole - gli occhi bramosi che cercavano i suoi, e il fulgore ch'essa vi scorse allorché chinò il capo biondo ad assentire: - Sì! Sì! - con qual altra ebrezza e qual smarrimento negli occhi ella ascese la prima volta quella scala e spinse quell'uscio, premendosi forte il manicotto sul seno ansante! Con qual altro sbigottimento vi ritornò poi, guardandosi intorno e buttandosi a sedere appena entrata, col viso pallido e una ruga sottile fra le sopracciglia.
- Mi son fatta aspettare, non è vero? - No...
non importa ormai...
Sei qui!...
- Ah, son mezzo morta...
Sapeste!...
Mio marito!...
Quel portinaio che mi vede passare! - Insomma tutte quelle cose che non vedeva prima, quando aveva gli occhi abbacinati dal sogno d'oro.
- Lasciatemi, Alberto!...
Ve ne prego! Vi prego!...
- Vi lascio.
Scusatemi!
- Che vi piglia adesso? Vedete in che stato sono!...
Che faccio per voi!...
Gli occhi negli occhi, le mani nelle mani, e la bocca rosea che sorrideva stanca e si offriva sotto la veletta.
Ah, non era quella la bocca che una volta sfuggiva tremante e si era abbandonata avida al primo bacio! Gli si offriva anche adesso, pietosa menzogna, perché vedeva gli occhi ardenti dell'innamorato cercare in quelli di lei l'amore che non c'era più.
Egli non raccolse quel bacio, guardandola fiso: - O povera Maria! - disse tristamente.
Ella si era fatta rossa, fissandolo anche lei con gli occhi già inquieti.
Scorgeva forse il dubbio e l'incredulità atroce negli occhi di lui? - Povero amore! Povera Maria! - Non le disse altro, e l'accarezzò sui capelli, sorridendo anche lui.
Ma era bianco bianco, e il sorriso era amaro.
Allora essa avvinse nelle sue carezze quel pallore e quegli occhi, e vi si smarrì un istante ella pure, forse sinceramente, o volle smarrirvisi per compassione di lui.
O povero amore, che hai bisogno di batterti i fianchi colle ali! Povera amante discesa a rappresentare l'ignobile commedia! - No! No! - Egli indietreggiò barcollante, come se avesse ricevuto un urto al petto, fece qualche passo per la stanza, e tornò a sederlesi allato, cercando di sorriderle ancora, cercando le parole che non venivano.
- È tardi - diss'ella alzandosi.
- Saranno quasi le cinque.
Devo andarmene -.
Si alzò egli pure senza dir nulla.
Essa cercò il manicotto ed i guanti, si aggiustò il velo sul viso serio e freddo, senza una parola, senza guardarlo, e s'avviò all'uscio.
Egli l'apriva già.
- Fatemi il favore.
Se ci fosse qualcheduno per la scala...
- Aspettate -.
Uscì a spiare dal pianerottolo e rientrò tosto.
- Nessuno -.
L'amata esitò un istante e rialzò la veletta al di sopra della bocca.
L'amante finse di non vederla, e le strinse la mano.
- Addio dunque.
- Addio -.
Udì sino all'ultimo scalino il rumore dei passi di lei che altra volta si dileguavano furtivi, e dalla finestra la vide ferma e tranquilla sul marciapiedi, come una che non ci abbia più nulla da nascondere adesso, accennando a un cocchiere d'accostarsi, con un gesto grazioso della destra infilata nel manicotto.
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RACCONTI E BOZZETTI (1880-1922)
UN'ALTRA INONDAZIONE
Mi rammento, nell'ultima eruzione dell'Etna, di avere assistito ad uno di quei semplici episodi che vi colpiscono più profondamente della catastrofe istessa.
Era lo spettacolo di un casolare, in fondo alla valle, che la lava stava per seppellire.
Davanti al casolare, c'era un cortiletto, cinto da un muricciuolo, il quale aveva arrestato per poco la corrente, e le scorie gli si ammonticchiavano addosso adagio adagio; sembrava si gonfiassero, come un rettile immane irritato, e scoppiavano in larghi crepacci infuocati.
Allora il casolare ne era improvvisamente rischiarato, e si vedevano le finestre spalancate, una tettoia accanto alla porta, e un albero nel cortiletto.
L'immensa valle era tutta nera di scorie fumanti, che si squarciavano qua e là, e avvampavano nelle tenebre, e le scorie irrompevano da quei crepacci, con un acciottolio prolungato e sinistro, come di un'immensa distesa di tegole che rovinasse.
Una delle finestre del casolare si era illuminata, e dava un aspetto di cosa viva a quella casuccia abbandonata in mezzo a tanta desolazione; ma ciò che colpiva maggiormente era quel cortiletto deserto e sgombro d'ogni cosa, senza un cane, né una gallina, né un pezzo di legno, quasi spazzato da un vento furioso.
Di tanto in tanto vi si vedeva comparire un uomo, il quale sembrava nero nel riflesso ardente della lava, e piccin piccino per la grande distanza.
Egli si affacciava sotto la tettoia, e guardava.
Dal poggio dove eravamo, si scorgevano anche col cannocchiale altri uomini piccini e neri, che formicolavano sul tetto, e ne levavano le tegole, i travicelli, le imposte, tutto ciò che potevasi strappare di dosso alla povera casa, la quale pareva sempre più desolata a misura che la spogliavano nuda prima di abbandonarla.
E intanto dal poggio gli spettatori, seccati dalla cenere che li accecava, e dalle emanazioni che toglievano il respiro, s'impazientivano del lungo tempo che ci metteva la lava a soverchiare l'altezza del muricciuolo, e calcolavano, coll'orologio in mano, il tempo che ci avrebbe messo a circondare la casuccia.
Tutt'a un tratto l'albero accanto alla porta avvampò come una fiaccola, e la lava si rovesciò nel cortile.
E nella immensa valle nera non si vide altro che il rosseggiare qua e là delle lave che irrompevano, accompagnate dall'acciottolio sinistro delle scorie che precipitavano.
Alle volte, mentre la corrente infuocata si ammonticchiava a poco a poco per 50 metri d'altezza, non si udiva né si vedeva più nulla, tranne il fruscio soffocato della pioggia di cenere, che stampavasi come uno sterminato nuvolone nero sul pallido cielo di luna nuova, e le fiamme che si accendevano di tratto in tratto nella valle, e indicavano il corso della corrente di fuoco.
Ah! quanti alberi se ne andavano in quelle fiamme! e quanti filari di vigne zappati, potati, accarezzati, guardati cogli occhi assorti nei castelli in aria della povera gente! e quante cannucce con le immagini di sant'Agata miracolosa, che non erano valse ad arrestare il fuoco! e quante avemarie biascicate colle labbra tremanti!
E noi che correvamo ad assistere a quel triste spettacolo in brigate chiassose! e le strade della montagna che erano popolate di notte come alla vigilia di una festa, e i cocchieri che facevano scoppiettare allegramente le fruste perché non avevano né vigne né case, e la loro vigna era quella provvidenza dell'eruzione che avrebbe dovuto non finir più, se voleva Dio! e le bettole affollate e fumanti, e i campi lungo le siepi, e le storielle dettagliate del disastro che si raccontavano per renderne più piccante lo spettacolo a coloro che spendevano 20 lire per andarlo a vedere! - Quante ricchezze aveva ingoiate il fuoco, quanti campi aveva distrutto, quanto erano distanti i boschi del barone A.
e quanto potevano valere i nocciuoleti del marchese B.
minacciati dell'eruzione.
- Insomma i particolari più desolanti, come il pepe della pietanza, che vi facevano sospirare dal piacere pensando che non ci avevate nemmeno un palmo di terra da quelle parti.
Un tale, il giorno prima, vi possedeva una vigna che gli fruttava 3000 lire all'anno, una ricchezza, sebbene non avesse altro, per sé e per la sua numerosa famiglia.
Tutt'a un tratto vennero a dirgli che il fuoco si divorava la sua ricchezza, e lo lasciava povero e pazzo, come si dice.
Egli accorse a cavallo dell'asino, e trovò il vignaiuolo affaccendato a levare le imposte del palmento, e le tegole del tetto, le doghe delle botti, tutto ciò che si poteva salvare, come avevano fatto quei del casolare.
Il padrone, giungendo alla porta senz'uscio del palmento, dinanzi alla sua vigna che gli fumava e gli crepitava sotto gli occhi, filare per filare, domandò al vignaiuolo con la faccia bianca; - Perché avete levato le tegole e le imposte, e le doghe delle botti? - Per salvarle dal fuoco - rispose il contadino.
- Il fuoco fra tre ore sarà qui.
- Lasciate stare ogni cosa, - disse il padrone.
- Io non ho più bisogno di palmento, né avrò più cosa metterci nelle botti.
Io non ho più nulla .
- Egli non aveva nemmeno la zappa da camparsi la vita, come il suo vignaiuolo.
Poi baciò il cancello della vigna, che ancora rimaneva in piedi, e se n'andò, tirandosi dietro l'asinello.
Io non ho assistito a quella scena, ma essa mi è rimasta stampata dinanzi agli occhi più nettamente del casolare che ho visto distruggere dalle lave.
E quando mi avviene di sentire di qualche altra catastrofe, penso a quei poveretti che si sono voltati a guardare da lontano la vigna inondata e la casuccia distrutta, ed hanno detto; - Io non ho più cosa metterci nelle botti quest'anno, né nel granaio.
Io non ho più nulla, - come quel tale che aveva baciato per l'ultima volta il cancello della sua vigna, e se n'era andato tirandosi dietro l'asinello.
CASAMICCIOLA
Quando giunse la notizia del disastro che aveva colpito Ischia mi parve di rivedere l'isoletta, quale mi era sfilata dinanzi agli occhi attraverso gli alberi del battello a vapore, in una bella sera d'autunno.
La mensa era ancora apparecchiata sul ponte, e gli ultimi raggi del sole indoravano il marsala nei bicchieri.
Dei viaggiatori alcuni s'erano già levati, e passeggiavano su e giù.
Altri, coi gomiti sulla tovaglia, guardavano l'immensa distesa di mare che imbruniva sotto i caldi colori del tramonto su cui Ischia stampavasi verde e molle, e dove la riva s'insenava come una coppa.
Casamicciola, bianca, sembrava posare su di un cuscino di verdura.
A tavola due che tornavano dal Giappone discorrevano di seme di bachi.
Una coppia misteriosa era andata a rannicchiarsi a ridosso del tubo del vapore.
Un giovane che non aveva mangiato quasi, e stava seduto in un canto, pallido, col bavero del paletò rialzato, guardava l'isoletta con occhi pensierosi e lenti, in fondo alle occhiaie incavate.
Tutt'a un tratto sul profilo dell'isola che spiccava dalla luce diffusa del crepuscolo, apparve netto e distinto un fabbricato, quasi sorgesse d'incanto, e l'ultimo raggio di sole scintillò sui vetri, come l'accendesse.
Quel dettaglio del paesaggio che si animava all'improvviso apparve così chiaro e luminoso come se si fosse avvicinato d'un tratto.
Tutti si volsero ad ammirare lo spettacolo, e i negozianti di cartoni giapponesi tacquero un momento.
Soltanto la coppia ch'era andata a nascondersi dietro il fumajuolo non si mosse, e gli occhi del giovane pallido che teneva il bavero rialzato non si animarono neppure.
Così succede ogni dì; e due sole preoccupazioni bastano per sé stesse, l'amore e la malattia, l'origine e la fine della vita.
Quasi cotesta riflessione fosse venuta istintivamente a tutti in quel momento, si cominciò a parlare dell'azione benefica che hanno le acque e l'aria di Casamicciola, e dei malati che vanno a cercarvi la salute o la speranza.
Invece il giovane dal paletò, pensava probabilmente, come si fa delle cose che si desiderano, alle gioie tranquille e ignote che dovevano esserci in quell'isoletta verde, fra quelle casette bianche, dietro quei vetri scintillanti.
E quando i vetri si spensero, e la casa si dileguò ad un tratto quasi al mutare di una lanterna magica, e i contorni dell'isoletta sfumarono nel mare livido, il suo volto si offuscò.
Adesso quella casetta bianca è forse distrutta, e degli occhi senza lagrime e senza sorriso ne contemplano le rovine, dalle occhiaie incavate, su dei visi pallidi.
I DINTORNI DI MILANO
L'impressione che si riceve dall'aspetto del paesaggio prima d'arrivare a Milano, per quaranta o cinquanta chilometri di ferrovia, è malinconica.
La pianura vi fugge dinanzi verso un orizzonte vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi scapitozzati, uniformi, che non finiscono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di alberelli, colle medesime cascine sull'orlo della strada, in mezzo al verde pallido delle praterie.
Verso sera, allorché sorge la nebbia, il sole tramonta senza pompa, e il paesaggio si vela di tristezza.
D'inverno un immenso strato di neve a perdita di vista, costantemente rigato da sterminate file d'alberi nudi, tirate colla lenza, a diritta, a sinistra, dappertutto, sino a perdersi nella nebbia.
Di tratto in tratto, al fischio improvviso della macchina, vi si affaccia allo sportello, e scappa come una visione un campanile di mattoni, un fienile isolato e solitario.
Sicché finalmente appena nella sconfinata pianura bianca, fra tutte quelle linee uniformi, vi appare del cielo smorto la guglia bianca del Duomo, il vostro pensiero si rifugia frettoloso nella vita allegra della grande città, in mezzo alla folla che si pigia sui marciapiedi, davanti ai negozi risplendenti di gas, sotto la tettoia sonora della Galleria, nella luce elettrica del Gnocchi, nella fantasmagoria di uno spettacolo alla Scala, dove sboccia come in una serra calda la festa della luce, dei colori e delle belle donne.
I dintorni di Milano sono modellati sulle linee severe di questo paesaggio.
Basta salire sul Duomo in un bel giorno di primavera per averne un'impressione complessiva.
È un'impressione grandiosa ma calma.
Al di là di quella vasta distesa di tetti e di campanili che vi circonda, tutta allo stesso livello, si spiega la pianura lombarda, di un verde tranquillo, spianata col cilindro, spartita colle seste, solcata da canali diritti, da strade più diritte ancora, da piantagioni segnate col filo, senza un'ondulazione di terreno e senza una linea capricciosa in gran parte.
L'occhio la percorre tutta in un tratto sino alla cinta delle Alpi ed alle colline della Brianza.
E se rimaneste un giorno intero lassù non ne avreste un'impressione nuova, né scoprireste un altro dettaglio.
È la stessa cosa percorrendo i dintorni immediati della città.
Sempre le stesse strade più o meno diritte, fiancheggiate dagli stessi alberi; il medesimo fossato da una parte, o il medesimo canale dall'altra, lo stesso muro grigio, rotto di tanto in tanto dal portone di una fabbrica, sormontato da un fumaiuolo nero che sporca il cielo azzurro, gli stessi orti chiusi tra filari di gelsi e divisi in scompartimenti di cavoli e lattughe senza mutar di prospettiva.
Sicché la cosa più difficile per un viandante pare che dovrebbe essere di riconoscere la sua strada fra quelle altre cento strade che si somigliano tutte, e per un proprietario di ritrovare il suo podere fra tutti quei poderi fatti sul medesimo stampo.
Nondimeno il milanese ha la passione della campagna.
Bisogna vederlo a San Giorgio o in qualche altra festa campestre per farsene un'idea.
Appena la stagione comincia a farsi mite e il ciglio dei fossati a verdeggiare, tutti corrono fuori del dazio, a godersi il verde sminuzzato a quadretti, e ad empirsi i polmoni di polvere.
Codesto è il motivo di tante osterie di campagna, di tante isole, di tanti giardini piantati in botti da petrolio.
Allora le strade melanconiche, i ciglioni intristiti, i quadrelli di verdura pallida formicolano di un'altra vita, risuonano di organetti, di chitarre, di allegria chiassosa e bonaria.
L'uniformità del fondo dà alcunché di piccante alla varietà delle macchiette.
Qui il paesaggio, in un orizzonte sconfinato, è circoscritto costantemente fra due file di alberi, lungo due muri polverosi, fra le sponde di un canale diritto, smorto, che sembra immobile, ombreggiato dacché spuntano i primi germogli sinché cadano le ultime foglie, e i raggi del sole non hanno più colori né festa.
La mucca che leva il muso grondante d'acqua, un gruppo di contadine che lavorano nei campi, e mettono sul prato la nota gaia delle loro gonnelle rosse, la carretta che va lentamente per la stradicciuola, un desco zoppicante sotto il pergolato di un'osteria, coll'operaio in maniche di camicia, e la sua donna coi gomiti sulla tovaglia e gli occhi imbambolati, due cavalli da lavoro accanto a una carretta colle stanghe in aria, davanti a una porta chiusa, sono tutti i quadri della campagna milanese, su di un fondo uniforme.
Lo spettacolo grandioso di un tramonto bisogna andare a vederlo in Piazza d'Armi, su quella bella spianata che corre dal Castello all'Arco del Sempione; e tuttavia l'effetto più grandioso gli viene dalle linee stupende del monumento, sul fondo opalino, e da quei cavalli di bronzo che si stampano come una visione del bello dell'arte, in alto, nella gloria degli ultimi raggi.
Ma la ineffabile melanconia di quell'ora non l'ho mai provata come in una delle Certose dei dintorni di Milano.
Colà, in mezzo a mirabili pagine d'arte, la luce muore nelle invetriate dipinte, vi sorprende uno strano sentimento della vanità dell'arte e della vita, un incubo del nulla che vi si stringe attorno da ogni parte, dalla campagna silenziosa e uniforme.
Io non ho mai passata un'ora più tetra come quella che provai in uno di quei cortiletti di verdura cupa della Certosa di Pavia, chiusi fra quattro mura di cimitero, e allietati da quattro file di bosso, nel caldo meriggio d'aprile, in cui non si udiva il ronzare delle mosche.
Di cotesta impressione alquanto melanconica del paesaggio milanese ne avete un effetto anche ai Giardini pubblici, dove mettendo sottosopra il tranquillo suolo lombardo sono riesciti a rendere un po' del vario e pittoresco che è la bellezza della campagna.
Il popolo però li ha cari, e nei giorni di festa e di sole ci reca in folla la sua allegria e la sua vita.
Tutto ciò infine prova che Milano è la città più città d'Italia.
Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre.
Il più bel fiore di quella campagna ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l'uomo ha fatto più della natura.
Che importa a Milano se non ha che 3 o 400 metri di passeggiata, da Porta Venezia al ponte della via Principe Umberto? I suoi equipaggi non sono splendidi quanto quelli della Riviera di Chiaja e delle Cascine? e la prima domenica di quaresima, quando il sole scintilla sugli arnesi lucenti, e sui colori delicati, per tutte quelle file di cocchi e di cavalli, in mezzo a quella folla elegante che formicola nei viali, col fondo maestoso di quelle Alpi ancora bianche di neve, il cielo trasparente e gli ippocastani già picchettati di verde, lo spettacolo non è bello? e quando il teatro alla Scala comincia ad essere troppo caldo anche per le spalle nude, e l'alba imbianca troppo presto sulle finestre delle sale da ballo, Milano non ha la sua Brianza per farvi trottare i suoi equipaggi? non ha i laghi per rovesciarvi la piena della sua vita elegante? non ha Varese per farvi correre i suoi cavalli? Le passeggiate e i dintorni di Milano sono un po' lontani, è vero; ma sono fra i più belli del mondo.
Io mi rammento ancora della prima gita che feci al Lago di Como, in una giornata soffocante di luglio, dopo una di quelle estati di lavoro e di orizzonti afosi che vi mettono in corpo la smania del verde e dei monti.
La prima torre sgangherata che scorsi in cima alla montagna posta a guardia del lago mi si stampò dinanzi agli occhi come un faro di pace, di riposo, di freschi orizzonti.
Il paesaggio era ancora uniforme.
Tutt'a un tratto, dalle alture di Gallarate, vi si svolge davanti un panorama che è una festa degli occhi.
Allorché vi trovate per la prima volta sul ponte del battello a vapore, rimanete un istante immobile, e colla sorpresa ingenua del piacere stampata in faccia, né più né meno di un contadino che capiti per sorpresa in una sala da ballo.
L'ammirazione è ancora d'impressione, vaga e complessiva.
Non è lo spettacolo grandioso del Lago Maggiore, né quello un po' teatrale del Lago di Lugano visto dalla Stazione.
È qualche cosa di più raccolto e penetrante.
Tutto il Lago di Como a prima vista è in quel bacino da Cernobbio a Blevio, e la prima idea netta che vi sorga è di sapere da che parte se n'esca.
A poco a poco comincia a sorgere in voi come un'esuberanza di vita, quasi un'esultanza di sensazioni e di sentimenti, a misura che lo svariato panorama si va svolgendo ai vostri occhi.
Sentite che il mondo è bello, e se mai non l'avete avuta, principia a spuntare in voi, come in un bambino, la curiosità di vederlo tutto, così grande e ricco e vario, di là di quelle cime brulle, oltre quei boschi che si arrampicano come un'immensa macchia bruna sui dossi arditi, dopo quei campanili che sorgono da un folto d'alberi, di quelle cascate che biancheggiano un istante nella fenditura di un burrone, di quelle ville posate come un gingillo, su di un cuscino di verdura, che vi creano in mente mille fantasie diverse, e la vostra immaginazione popola di figure leggiadre, dietro le stoie calate ed i vetri scintillanti, in quelle barchette leggiere che battono il remo silenzioso come un'ala, e si dileguano mollemente, con un cinguettìo lontano di voci fresche, strascinandosi dietro delle bandiere a colori vivaci.
È come un sogno in mezzo a cui passate, e vi sfila dinanzi Villa d'Este elegante, Carate civettuolo, Torno severo, e Balbianello superbo.
Poi come tutt'a un tratto vi si allarga dinanzi la Tremezzina quasi un riso di bella fanciulla, nell'ora in cui sulla Grigna digradano le ultime sfumature di un tramonto ricco di colori e Bellagio comincia a luccicare di fiammelle, e il ramo di Colico si fa smorto, di là di Varenna, e Lenno e San Giovanni vi mandano le prime squille dell'Avemaria, voi vi chinate sul parapetto a mirare le stelle che ad una ad una principiano a riflettersi sulla tranquilla superficie del lago, e appoggerete la fronte sulla mano sentendovi sorgere in petto del pari ad una ad una tutte le cose care e lontane che ci avete in cuore, e dalle quali non avreste voluto staccarvi mai.
NELLA STALLA (INONDAZIONE)
Le mucche, lungo le rastrelliere, si voltavano indietro, a fiutare quel tramestìo che si era fatto attorno alla lettiera della Bigia.
La pioggia batteva contro le impannate; e le bestie scuotevano le catene sonnolente: di quando in quando, nell'ombra cui non arrivavan mai a dissipare le lanterne polverose, si udiva il tonfo di quelle che si accovacciavano, ad una ad una nello strame alto, dei muggiti brevi e sommessi, un ruminare svogliato, il fruscìo della paglia.
Di tanto in tanto le mucche inquiete levavano il capo, tutte in una volta.
La Bigia aveva ai piedi un vitellino, ancora tutto molle e lucente nella lettiera, e lo leccava e lo lisciava muggendo sotto voce.
- Di fuori si udiva un rombo che cresceva, dappertutto.
Poco dopo accadde un gran trambusto nelle stanze superiori: dei passi precipitosi, e dei mobili che strascinavano sul pavimento.
Uno spalancare di usci e di finestre e delle voci che chiamavano nel cortile.
Quindi si udirono delle schioppettate e delle strida di donne che piangevano.
Il gallo, in cima alla scala, saettava il capo, spaventato, chiocciando.
Di fuori, il cane uggiolava.
Ad un tratto le bestie cominciarono a muggire tutte in una volta, fiutando verso l'uscio, cogli occhi spaventati, e tiravano forte le catene, come cercassero di strapparle.
Per tutta la corsìa oscura corse un volo pesante e schiamazzante di galline.
Immediatamente si udì il rombo vicino che scuoteva i muri, e sembrava montare verso le finestre.
La Bigia allora levava il muso fumante verso l'impannate, e metteva un muggito lungo e doloroso.
Poi ritornava a fiutare il vitellino, raccoccolato colle zampe sotto il ventre.
Il cane non uggiolava più.
Della gente correva pel cortile, delle voci affannate, delle grida.
L'uscio si spalancò all'improvviso, ed entrò un'ondata d'acqua sporca.
Allora nella stalla successe un trambusto, un rovinìo, tutta una fila di mucche avea strappata l'asse, alla quale erano legate, e scappava all'impazzata trascinandosela dietro, inciampando le une colle altre, mentre le galline fuggivano schiamazzando fra le loro gambe.
Nella corte su di un palo, ardeva un fascio di legna secca, e illuminava tutto intorno l'acqua nera, che luccicava dove cadevano le scintille.
- Le bestie irruppero dalla stalla come una valanga, rompendo, scavalcando ogni cosa, sguazzando nella pozzanghera, la Bigia in mezzo.
Poi tornò indietro, levando il muso, con lunghi muggiti, verso le finestre della cascina.
Andava e veniva per la corte colla coda ritta; infine si decise di rientrare nella stalla.
Il vitellino era là coll'acqua al collo, la madre tentava di spingerlo dolcemente verso l'uscio, scalpicciando in mezzo all'acqua.
Ad ogni momento levava il capo verso il soffitto come per chiamare aiuto.
Giunse un'altra ondata che gorgogliò al posto dove era il vitello, poi si agitò disperatamente e ribollì; la lanterna era sempre accesa nella stalla nera che sembrava barcollare.
Infine l'onda si allargò quieta ed immobile dappertutto.
Allora la Bigia scappò muggendo al vento, colla coda ritta, l'occhio pazzo di terrore, e si prese nell'oscurità profonda.
PASSATO! (RICORDI)
Qui, quando la città è più festosa e la folla più allegra, penso alla campagna lontana, laggiù, fra i miei monti, dietro il mare azzurro.
Penso ai sentieri verdeggianti, alle siepi odorose, alle lodole che brillano al sole, alla canzone solitaria che sale dai campi, monotona e triste come un ricordo d'altre patrie.
Penso a quell'ora dolce del tramonto, quando l'ultimo raggio indora le nevi della montagna, e il fumo svolgesi dai casolari, e le campane degli armenti risuonano nella valle, e la campagna si nasconde lentamente nella notte.
Penso a quell'ora calda di luglio quando il sole innonda la pianura riarsa, e il cielo fosco di caldura sembra pesare sulla terra, e il grillo nelle stoppie canta la canzone dell'ora silenziosa.
Penso alle notti profonde, alle lucciole innamorate, al coro dei vendemmiatori, al rumore lontano dei carri che sfilano nella pianura odorosa di fieno, ai cespugli immobili e neri come spettri nel raggio misterioso della luna.
Penso alle lunghe notti d'inverno spazzate dal vento e dagli acquazzoni, agli alberi che gemono nel temporale, e vi raccontano fantastiche storie cui sorridono gli occhi dei vostri cari, raccolti intorno alla lampada domestica.
Penso alla mia fanciullezza, che sembra sia tutta trascorsa in quella nota campagna; penso a quei colli, a quei valloni, a quei sentieri, a quella fontana, davanti alla quale è passata tanta gente, che veniva da lontano, a quel cespuglio su cui moriva il sole d'autunno quel giorno in cui vi passaste anche voi, con me, per l'ultima volta.
Quest'ultimo raggio di sole che mi è rimasto in cuore come un addio, come la vaga angoscia dei giorni spensierati dell'infanzia, che ci fa presentire le amarezze della vita, con un senso di vaga e dolorosa dolcezza.
Penso a quel sasso in cui ho segnato il primo amore de' miei tredici anni, quando non conoscevo ancora altri dolori all'infuori di quelli creatimi dalla mia fantasia.
Ora che il dolore so cosa sia, il dolore vero, quelle che vi immerge le unghie nella carne viva e vi ricerca le fibre del cuore, quello che vi divorava le lagrime, le sensazioni e le idee, quando la morte entrò nella vostra casa...; penso ancora a quei luoghi, a quelle scene serene che vi tornano dinanzi agli occhi feroci come un'ironia nell'ora terribile di quell'angoscia; penso al muricciolo di quella fontana al quale si sono appoggiati quelli che non son più, a quell'erba che si è piegata sotto i loro passi, a quelle pietre sulle quali si sono messi a sedere.
Ora l'erba è morta anch'essa, ed è risorta tante volte.
Il sole l'ha bruciata, e la pioggia fatta rinascere.
Quando le nuove gemme hanno verdeggiato nella siepe lì accanto, ne' bei giorni d'aprile, essi non sapevano più nulla di voi, miei cari!
Io che sono rimasto, penso a quell'erba che non è più la stessa, a quelle pietre che dureranno ancora, mentre voi siete passati su di loro - e per sempre; penso che dell'altra erba spunta e muore fra le pietre della vostra fossa; e quando penso che lo strazio feroce di questo dolore non è più così vivo dentro di me, che ogni strappo dell'anima lentamente va rimarginandosi, mi viene uno sconforto amaro, un senso desolato del nulla, d'ogni cosa umana, se non dura nemmeno il dolore, e vorrei sdraiarmi su quell'erba, sotto quei sassi, anch'io nel sonno, nel gran sonno.
- IL CARNEVALE FALLO CON CHI VUOI; - PASQUA E NATALE FALLI CON I TUOI -
Così andava dicendo compar Menico, a ogni conoscente che incontrava, salutandolo "Viva Maria!" - Il paesetto rideva là al sole, col campanile aguzzo fra il grigio degli ulivi.
- Cosa ci portate a casa, per le feste? - gli chiese il vetturale che gli andava accanto sul basto dondoloni.
- Quel che dà la provvidenza, - rispose compare Menico ridendo fra di sé.
La bisaccia per la salita non gli pesava, tanto aveva il cuore leggiero; e gli facevano allegria financo i passeri che si lisciavano le penne, gonfi dal freddo, sulle spine della siepe.
La strada ora gli sembrava lunga, dopo tanto tempo.
- E vostra moglie che vi aspetta? - gli disse il vetturale.
Compare Menico fece cenno di sì, ridendo sempre fra di sé.
La casa era in fondo al paese.
Passò la fontana; passò la piazza; passò la beccheria, dove c'era gente che comprava carne, e da per tutto, a ogni cantonata, gli altarini parati a festa, cogli aranci e le ostie colorate.
Nelle case il suono delle cornamuse metteva allegria.
In fondo al vicoletto del Gallo si udiva un gridìo di ragazzi che giuocavano alle fossette, colle mani rosse.
Compar Menico guardava la finestra, da lontano, per vedere se sua moglie l'aspettava.
Ma la finestra era chiusa.
C'erano comare Lucia a sciorinare il bucato, e comare Narcisa, che filava al ballatoio per fare la gugliata lunga.
Lo sciancato andava zoppiconi a raccogliere le galline che fuggivano schiamazzando.
Compare Menico posò la bisaccia, che gli pesava, e sedette ad aspettare accanto all'uscio chiuso, senza accorgersi delle vicine che ridevano dei fatti suoi, nascoste dietro l'impannata.
Aspetta e aspetta, infine lo zio Sandro mosso a compassione gli si accostò passo passo, col fare indifferente e le mani dietro la schiena.
Dopo un pezzetto che stavano seduti accanto colle gambe larghe, guardando di qua e di là, lo zio Sandro domandò;
- Che aspettate la zia Betta, compar Menico?
- Sissignore, vossignoria.
Son venuto a fare il Natale.
E vedendo che avrebbe aspettato fino al giorno del giudizio, lo zio Sandro si decise a dirgli:
- O che non sapete nulla, dunque?
- Nossignore, zio Sandro.
Che cosa devo sapere?
- Che vostra moglie se n'è andata con Vito Scanna, e si è portata via la chiave -.
Compare Menico lo guardò stupefatto, grattandosi la testa.
Quindi balbettò:
- E dove se n'è andata?
- Io non lo so, compare Menico.
Credevo che lo sapeste.
- Nossignore, io non sapevo niente, - rispose il poveraccio ripigliando la bisaccia.
- Non sapevo che mi aspettava a casa questo bel regalo, la festa di Natale -.
Tutto il vicinato si scompisciava dalle risa, vedendo compare Menico che s'era fatta dare una scala per entrare dal tetto in casa sua, peggio di un ladro.
Egli stette rintanato in casa, festa e vigilia, senza aver animo di mettere il naso fuori.
- Questa ch'è la maniera di fare, servo di Dio? - gli diceva comare Senzia la vedova.
- La grazia di Dio che lasciate andare a male, tali giornate! e il crepacuore che covate per dar gusto ai vostri nemici! -
Egli non sapeva che dire, in verità; ora il compassionarlo che faceva la zia Senzia lo inteneriva, in mezzo a tutto quel ben di Dio che c'era in casa.
- Che gli mancava, gnà Senzia, ditelo voi? che gli mancava a quella buona donna per farmi questo tradimento?
- Noialtre donne, compare Menico, ci meritiamo il castigo di Dio, - rispondeva comare Senzia.
Quella era veramente una buona donna, che aveva cura del poveraccio, abbandonato al pari di un orfano, e gli teneva la chiave della casa allorché compare Menico se ne fu tornato in campagna come se le feste per lui non ci fossero mai state.
Lì, nel maggese, gli giungevano altre notizie della moglie; - L'abbiamo vista alla fiera di Mililli.
- Vito Scanna se l'è portata a incartar limoni nei giardini di Francofonte -.
Tutti gli facevano la predica: - La moglie giovane non va lasciata sola, compare Menico! -
Infine il torto cadeva su di lui.
In giugno, colla schiera dei mietitori assoldati dal capoccia, giunse al podere anche Vito Scanna, tutto cencioso, senz'altro bene che la sua falce.
- Guardate che non voglio scene fra di voi! - raccomandò il fattore.
- Ciascuno al suo lavoro, com'è dovere -.
Sicché gli toccò anche vedersi Scanna mattina e sera sotto il naso, mangiare e bere e cantare come la cicala, nelle ore calde, per non sentire il sole.
Un giorno che il sole gli scaldò la testa a tutti e due, e volevano bucarsi la pancia colla forca, per amore di quella donna, il fattore li minacciò di scacciarli su due piedi, e convenne aver pazienza.
Certo è che Betta doveva fare la mala vita, ora che Vito Scanna l'aveva abbandonata.
Il Signore l'aveva castigata, come soleva dire comare Senzia.
Zio Menico portava a casa vino, olio, frumento, al par della formica, nella casa senza padrona, dove la zia Senzia si godeva tutto.
- Solo come un cane non posso starci - diceva lui, il poveraccio, per scolparsi.
- Chi baderebbe alla casa e mi farebbe cuocere la minestra? -
Il curato, servo di Dio, cercava di toccargli il cuore, e far cessare lo scandalo, ora che sua moglie era sola e pentita.
- Aprite le braccia e perdonatele, come al figliuol Prodigo, adesso che s'avvicina il Santo Natale.
- Come posso vedermela di nuovo in casa, vossignoria, dopo il tradimento che mi ha fatto? - rispondeva lo zio Menico - senza pensare a Vito Scanna, che stavamo per ammazzarci colla forca, Dio libero, alla messe! -
Dall'altro canto comare Senzia, che mangiava la foglia, ogni volta che vedeva lo zio Menico parlare col curato, gli faceva un piagnisteo, lamentandosi che volevano abbandonarla nuda e cruda in mezzo a una strada.
- Allora vedrete che il castigo di Dio vi sta sul capo,- conchiudeva il prete.
- E la gente a sparlare di lui, che si ostinava a vivere nel peccato, come una bestia.
Il castigo di Dio lo colse infatti a Ragoleti con una febbre perniciosa, peggio di una schioppettata.
Lo portarono in paese su di un mulo, che aveva già la morte sulla faccia.
Sua moglie allora corse insieme al viatico, colla faccia pallida e torva, e siccome la zia Senzia era ancora lì, umile e atterrita, si mise i pugni nei fianchi, e la scacciò di casa sua come una mala bestia.
Ora ella era la padrona.
Compare Menico in un angolo non parlava e non contava più.
Appena chiusi gli occhi, la vigilia dell'Immacolata, sua moglie si vestì di nero da capo a piedi, senza perdere un minuto.
E coi vicini, i quali si erano accostati, in occasione della disgrazia, parlavano spesso del morto, poveretto, che aveva lavorato tutta la vita per fare un po' di roba, e grazie a Dio, lasciava la vedova nell'agiatezza.
Ma quando Vito Scanna tornava a ronzarle attorno, vestito di nuovo, come un moscone, essa si faceva la croce e gli diceva:
- Via di qua, pezzente! -
CARNE VENDUTA (FRAMMENTO I)
Su per la china, dalla città addormentata nell'alba chiara, saliva di tratto in tratto come il muggito del mare in burrasca, e nel porto la fregata si copriva di fumo.
Tornavano indietro contadini frettolosi, spingendosi innanzi le loro bestie, spiando il cammino con occhio inquieto.
Una comare che s'era fermata un momento a metter giù la cesta e ripigliar fiato, disse stendendo il braccio a indicar laggiù, verso la città; - Vengono!...
I soldati!...
La cavalleria!...
-
Più tardi erano passati dei soldati infatti: cacciatori neri, fantaccini di cui i calzoni rossi facevano come una ondata di sangue, nella via bianca, e per tutta la strada, di qua e di là, non si udiva altro che il tintinnio delle armi, in cadenza col passo grave e uniforme della moltitudine.
Neppure le galline s'erano arrischiate nell'aia, dinanzi al cortile, per paura del sacco e fuoco che dicevano.
Compare Nunzio, colle spalle appoggiate al muricciuolo, stava a guardia del suo orto.
Alla Lia, che s'era affacciata all'uscio, venuta l'ora di mangiare un boccone, aveva risposto di no, col capo.
Era più di un'ora che passavano dei soldati, prima in folla, come un armento in mezzo al polverone; poi a gruppi di dieci o venti, alla spicciolata, col fucile a bandoliera, e il chepì sulla nuca, stanchi e trafelati.
Alcuni chiedevano dell'acqua, rossi pavonazzi dall'arsura.
Uno, stanco morto, s'era messo a sedere all'ombra del mandorlo, col fucile fra le gambe.
- Vieni tanto da lontano? - gli chiese compare Nunzio.
L'altro levò il capo e lo guardò cogli occhi azzurri come il fiore del lino, senza comprendere e senza rispondere.
Aveva i capelli biondi come le spighe, e una carnagione bianca di fanciullo o di donna, dove non era arsa dal sole, sotto il collarino di cuoio, e l'uniforme sbottonata.
- Di dove sei? Non capisci nemmeno la lingua del paese dove vai? Che ci sei venuto a fare? - L'altro balbettò infine qualche parola che nessuno capiva, come una povera bestiola che non sa dire il suo bisogno.
- Poveretto! - disse la Lia.
- Carne venduta! - ribatté compare Nunzio.
Il soldato guardava lui, guardava la ragazza, e non aggiungeva altro.
Poi si alzò da sedere, affibbiò il cinturone, rimise in spalla il suo fucile, e se ne andò cogli altri.
- Va, vattene alla malora! - gli gridò dietro lo zio Nunzio.
- Tu e chi ti paga! -
Colla notte scese un gran silenzio, come succede al cadere del vento, prima della burrasca.
Solo, per quanto era lungo lo stradale, correva un uggiolìo di cani.
A un tratto, dietro le imposte sbarrate del casolare si udì un gran tramestìo, della gente in folla che correva, e delle voci alte e brusche, in mezzo al mormorio.
Verso l'alba si udirono pure le prime fucilate, e il cannone laggiù, e le campane che suonavano a martello, nella città.
Poi cannonate e fucilate scoppiarono vicine, furiose, come un uragano.
Il muro del pollaio crollò a un tratto, e sulle tegole le palle fioccavano fitte come una grandinata.
Insieme grida e urli disperati, dei colpi tirati a bruciapelo, dalle imposte, dalle finestre, e degli altri colpi che rispondevano, dalle siepi, da ogni albero vicino, dalla cresta dei muri, di lassù in cima allo stradale.
Una tempesta di colpi che squassò casa e villaggio, per più di un'ora, e si lasciò dietro uno strascico di gemiti e di rantoli, quando si dileguò infine, laggiù, verso il piano, distruggendo e bruciando ove passava, e i cadaveri sparsi, per la via, fra i seminati, lungo i muri, dietro le siepi.
All'ombra del mandorlo, in una pozza di sangue, giaceva il giovanetto biondo del giorno innanzi, colle braccia aperte, e cogli occhi azzurri spalancati che sembravano guardare l'azzurro del cielo che non era quello del suo paese.
- Poveretto! - tornò a dire la Lia.
- Carne venduta! - tornò a ribattere compare Nunzio.
- Che ci veniva a fare? -
OLOCAUSTO
Il sermone del Paradiso chiudeva il corso degli esercizi spirituali per le monache, dopo la sottile analisi delle colpe recondite, la fosca descrizione del gastigo, e gli anatemi contro il peccato.
La voce del predicatore adesso levavasi alta ed esultante nel sole di Pasqua che scintillava sulle dorature della vòlta.
Giù in chiesa una dozzina di donnicciuole pregavano inginocchiate dinanzi all'altare della Vergine splendente di ceri.
Dietro la grata del coro biancheggiavano confusamente i soggoli e i visi delle suore impalliditi nella clausura e nella penitenza; luccicavano degli occhi perduti nell'estasi di visioni luminose.
La voce del missionario, grave e calda, scendeva ai toni bassi come una confidenza e una carezza, saliva trionfante come un inno, modulava i pensieri e le aspirazioni di tutte quelle vergini tentate e sbigottite dal mondo, andava a ricercare le più intime fibre di quei cuori chiusi nelle sacre bende e li faceva palpitare avidamente, aveva tutti gli slanci, le trepidazioni, come dei sospiri d'amore e d'estasi che morivano ai piedi della croce, e facevano intravvedere quasi un balenìo d'ali iridescenti, dei brividi di carni rosse di cherubini che passavano fra nuvole trasparenti, in un'aureola, in ampie distese color di cielo e color d'oro.
L'uomo era tutto in quella voce, in quell'inno, in quella letizia: il viso scorgevasi appena, come trasfigurato, nell'ombra del pulpito: degli occhi luminosi, ardenti di fede, pieni di visioni celesti, il viso pallido ed ascetico, immateriale, il segno austero della tonsura sui capelli giovanili, e la mano bianca ed immacolata che accennava, essa sola in luce, fuori della nicchia scura, e pareva stendersi verso le peccatrici, per sollevarle al cielo in un amplesso di perdono e d'affetto, dopo essersi levata minacciosa a fulminare, dopo esser scesa a frugare nei cuori, dopo aver sentito palpitare la tentazione, e i fremiti e le ribellioni della carne.
Ora quella mano facevasi lieve, morbida e carezzevole, al pari della voce che addolcivasi in un mormorio affettuoso e in una promessa soave, nella quale passava l'alito di carità, di pietà immensa, e si umiliava, e implorava, e facevasi complice delle povere anime turbate e derelitte, per incoraggiarle, sostenerle e attirarle a Dio.
Egli parlava rivolto al coro, quasi attratto anch'esso dalla simpatia ardente che vi destava, come indovinasse i cuori che rispondevano al suo e gli si aprivano sitibondi.
Ivi pure delle teste tonsurate si chinavano, delle labbra tremavano commosse, dei veli candidi palpitavano sui seni incontaminati, sfiorati soltanto dai fremiti che sorgono nelle tenebre, nelle notti irrequiete e paurose.
Il sagrestano s'alzò d'appiè del pulpito e andò ad accendere le altre candele dell'altare - una gloria di fiammelle tremolanti, delle gocce di splendore nella mattinata limpida, nella gaiezza primaverile, nel profumo dei fiori, e dell'incenso, nel suono grave dell'organo che levavasi dalle profondità misteriose del coro - un canto alato, un inno di grazie e di gloria che irrompeva, e libravasi al cielo trionfante.
Fra le monache raccolte nel coro una voce bella e fresca intuonò il Tantum ergo, una voce di donna che sembrava cantare la giovinezza, l'amore, il sogno, l'azzurro, i fiori e la vita in quell'inno religioso, una voce che aveva le lagrime, le estasi, i sorrisi, la gioventù, la bellezza, e li deponeva trepidante ai piedi dell'altare.
Il frate orava in ginocchio, a capo chino.
Sembrava che a quel canto si riverberassero delle sfumature rosee sulla nuca bianca d'adolescenza casta e prolungata.
Egli stesso sembrava quasi immateriale fra le pieghe molli della tonaca nera che cadeva sui gradini dell'altare, simile a una veste muliebre.
Poi sorse un'irradiazione abbagliante, una gloria di raggi che ecclissò, nell'aureola dell'ostensorio gemmato, l'uomo segnato dalla stola d'oro, come in una croce, sulla cotta spumante di trine al pari di un abito da sposa.
Tutte le teste si prostrarono umiliate.
Le campane squillarono alte in un coro festante, insieme alle note gravi e sonore dell'organo che vibravano sotto la vòlta dorata della chiesa, irrompevano dalle finestre dipinte, pel cielo azzurro, nella primavera gioconda, sotto il sole radioso, mentre il canto moriva in un'estasi sovrumana.
Suor Crocifissa era rimasta accanto all'organo, colle mani ancora erranti sulla tastiera, le labbra palpitanti dell'inno d'amore mistico, smarrita nella visione interiore di quegli splendori che alla sua anima esaltata dalla musica, dalla reclusione, dal digiuno, dal cilicio e dalla preghiera in comune recavano uno sgomento e una dolcezza nuova della vita, un turbamento degli echi e degli incitamenti che venivano a morire sotto le mura del convento colla canzone errante, coi rumori del vicinato, colla carezza della luna che entrava dall'alta inferriata a posarsi sul lettuccio verginale, e tentava il mistero pudibondo della cella solitaria, e vi destava le curiosità timide, le fantasie vagabonde, e gli scrupoli vaghi che annidavansi nell'ombra.
Ella sentiva ora una bramosia calda, un desiderio quasi carnale di mondarsi l'anima e lo spirito di quelle allucinazioni peccaminose, di difendersi dal mondo, di agguerrirsi contro la tentazione, coll'aiuto di quell'uomo il quale discerneva la via della colpa coi suoi occhi luminosi e insinuavasi nei cuori colla voce soave, e scacciava il peccato colla mano fine e bianca, e parlava dell'amore eterno con accento d'innamorato.
- Accostarsi a lui, essere con lui, confondersi in lui.
- Avere in quell'uomo purificato dal sacramento il consigliere, il conforto, l'amico, il confidente, il perdono, la verità e la luce.
Una suora la toccò dolcemente sull'omero.
Ella si scosse e la seguì vacillante, cogli occhi ardenti di fede, premendo colle mani ceree in croce sul seno il cuore che sbigottiva di passione, chinando il capo umiliato dall'umana miseria nella benda che chiudeva le trecce recise e incorniciava il viso di un'altra bianchezza fredda, sbattuta, stirata d'angoscia, illividita da vigilie tormentose, come la sua povera anima sbigottita, e chiese alla superiora il permesso di confessarsi al predicatore.
L'abbadessa acconsentì, alzando la mano a benedire, leggendo forse le stesse inquietudini dolorose che avevano provato la sua giovinezza trascorsa in quelle sopracciglia lunghe e nere, e in quelle labbra dolorose, soltanto vive nel viso mortificato ed austero.
Lì, attraverso la grata del confessionario che aguzzava il mistero e rincorava la coscienza trepida, aprirgli il cuore, tutto, coi suoi palpiti, colle sue angosce, coi suoi pudori.
Parlare d'amore con lui, parlargli di colpa e di perdizione, dirgli quello che non avrebbe osato mormorare sottovoce, da sola ai piedi del crocifisso muto.
Udire il suono delle proprie parole, colla fronte ardente su quella grata di ferro dietro alla quale lui ascolatava.
Intravvedere il riflesso dei propri pensieri, delle proprie allucinazioni, dei propri terrori su quella testa china.
Vedere arrossire e impallidire del pari quella fronte pura.
Aver lì, sotto il proprio anelito concitato, quel sacerdote, quella coscienza, quell'intelletto, quella carità, quel turbamento, quella simpatia, quell'uomo, trasfigurato dall'abito sacro, legato dal vingolo indissolubile, segnato fra gli eletti dalla tonsura religiosa, agitato al par di lei, sbigottito come lei, palpitante come lei, mentre la sua voce velata giungeva a lei come attraverso la lapide di una tomba, per consigliare, per sorreggere, per consolare, sommessa, confidente, nel mistero, nel segreto delizioso della chiesa deserta.
E vederlo trasalire sotto l'angoscia della passione di lei, vederlo arrossire al riverbero della sua vergogna, vedere il soffio infocato della sua parola che implorava aiuto, scendere sino in fondo a quell'uomo, e destare in lui le debolezze istesse perché ne sentisse la miseria e la pietà, e rifiorirgli nei brividi e nei pallori improvvisi della carne.
Sentirsi ricercare nel più profondo del cuore e delle viscere da quella voce dolce e insinuante, nel più vivo, nel segreto, dove s'annidiavano e rabbrividivano pensieri, e desideri, e palpiti ch'essa stessa non avrebbe neppur sospettato - la confusione dolce, il rossore trepido, l'abbandono del pudore violentato, - e darsi tutta a lui come in uno smarrimento dei sensi.
Scorgere in lui, nel consigliere, nel ministro, nel forte, la simpatia di quelle debolezze, la pietà di quei dolori; sentire nella sua voce commossa l'eco e il fascino trepido delle medesime inquietudini - con una tenerezza trepida per lui, maggiormente esposto al pericolo, votato alla lotta col peccato, solo nel mondo, nella tentazione, senza altra difesa che quell'abito che trasfigurava l'uomo, e il segno irrevocabile della tonsura come un marchio di castità sui capelli castagni - con un desiderio materno di stringersi al petto quel viso impallidito e sbattuto dalle medesime angosce, quel capo tonsurato in cui bollivano le stesse febbri, onde proteggerlo e difenderlo.
Egli ascoltava, raccolto, colla fronte velata dalla mano scarna, gli occhi vaghi e senza sguardo.
Passavano dei bagliori di tanto in tanto in quegli occhi pensierosi, dei fantasmi che dileguavano dinanzi alla volontà severa, dei fremiti destati da quell'alito caldo e profumato di donna, dalla parola commossa, l'ombra di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutti gli allettamenti, le effusioni, le dolcezze, gli struggimenti, le febbri, le estasi.
Con lei rifaceva l'aspro cammino che avevano fatto verso la croce quei piedi delicati.
Rivedeva la fanciullezza orfana, l'adolescenza precocemente mortificata, la gioventù scolorita e trista, l'agonia dello spirito e le ribellioni della carne.
Fuori, il cielo azzurro, l'ampia distesa dei prati, il sole, la luce, l'aria, lontani, perduti in un mondo al quale non apparteneva più, - e la gran rinunzia di tutto ciò, per sempre! - E pensava qual eco dovesse avere fra quelle mura claustrali la voce di un uomo o il pianto di un bambino, il brivido che doveva portarvi il profumo di un fiore o un raggio di primavera.
- Le fronti pallide che trasalivano, gli occhi spenti che guardavano lontano, le labbra che mormoravano inconsciamente accenti desolati.
E sentiva una grande pietà, una gran tenerezza per quelle povere anime che tendevano al cielo strette ancora fra i legami della terra, per quei gemiti d'agonia che si tradivano nella parola esitante e supplichevole, per quelle mani tremanti che si stendevano verso di lui, che cercavano di aggrapparsi alla vita, al perdono, alla fede, alla costanza, e che doveva lasciarsi cadere ai piedi, insensibile e inesorabile, che doveva abbandonare dietro di sé continuando sulla terra il suo pellegrinaggio d'apostolato, e scuotendo i lembi della sua tonaca perché non si contaminasse a quella seduzione, - anch'esso solitario, legato soltanto dalla disciplina dell'ordine alla fredda famiglia religiosa, senza genitori, senza casa, senza patria, passando sulla terra cogli occhi rivolti al cielo, fallendo se inciampava, se le spine del cammino gli insanguinavano le carni, o le voci del mondo penetravano nelle sue orecchie, se la vita batteva nelle sue arterie o tumultuava nel suo cuore, se la tentazione di quell'incognita, il ricordo di quella sconosciuta che si era data a lui in ispirito, in un momento di mistico abbandono, veniva a turbare la sua fantasia o a fargli tremare la preghiera sulle labbra.
Un campanello squillò.
Il prete cinse la stola fulgida che lo sollevava dalla terra, e si accinse a comunicarla.
Ella genuflessa dinanzi allo sportellino aperto della grata annichilivasi nella contemplazione degli splendori celesti che apriva la sfera d'oro.
Un languore soave, una calma infinita, una dolcezza ineffabile per tutto l'essere: la battaglia vinta, il cuore librantesi nella fede, il conforto, la forza, l'ardore di quell'ostia consacrata che scendeva nel suo petto e si confondeva col suo sangue - l'ostia che le posava lui stesso sulle labbra trepide, colle mani trepide, mormorando soavemente le parole sacramentali, chinando gli occhi, dolci, come velati da una visione interiore nelle occhiaie profonde e misteriose, sul viso sbattuto ed emaciato anch'esso.
- Egli la vide quel momento solo, in quell'abbandono, in quella bramosia arcana, in quell'estasi, colle pupille smarrite, il viso trasfigurato, in un'irradiazione candida di veli, sporgendo le labbra avide e innamorate.
Essa chinò il capo, nell'atto di ringraziamento, in un torpore e in uno sfinimento delizioso di tutta se stessa.
La chiesa tornò vuota e silenziosa come una tomba.
Il missionario era andato via per sempre, continuando il suo viaggio di carità, lasciando a lei la benedizione di quella pace e di quella fede.
Essa lo accompagnava col pensiero per strade e per paesi sconosciuti; vedeva ancora quegli occhi dolci, quel viso emaciato, quella tonaca fluttuante dietro la sua persona esile, in altre chiese risonanti della sua parola, dinanzi ad altre monache palpitanti; lo seguiva nei rumori che giungevano dalla via, nelle notti stellate, nel cielo che stendevasi al di là delle inferriate claustrali.
Era un grande sconforto, un isolamento più tristo, come un abbandono.
Poi, quando la sua coscienza inquieta cominciò a ridestarsi, pregò una delle sorelle anziane che aveva sofferto e dubitato come lei d'intercedere presso l'antico confessore, il quale si rifiutava a confessarla geloso che essa gli avesse preferito una volta il predicatore di passaggio.
Era un vecchio incanutito nel confessionario, con dei grandi occhi chiari e penetranti, abituati a guardare nelle tenebre dei cuori, e il pallore delle lunghe confidenze e delle attese pazienti sulle guance incavate.
- No.
Io non servo di ripiego...
M'ha messo da banda una volta; si cerchi un altro confessore...
- Ma essa aveva sempre la speranza...
- Speranza si chiama vossignoria.
Essa chiamasi suor Crocifissa -.
LA CACCIA AL LUPO
Una sera di vento e pioggia, vero tempo da lupi, Lollo capitò all'improvviso a casa sua, come la mala nuova.
Picchiò prima pian piano, sporse dall'uscio la faccetta inquieta, e infine si decise ad entrare, giallo al par dello zafferano, e tutto grondante d'acqua.
Fuori l'ira di Dio, lui con quella faccia, e a quell'ora insolita: sua moglie, poveretta, cominciò a tremare come una foglia, ed ebbe appena il fiato di biascicare:
- Che fu?...
Che avvenne? ...
-
Ma Lollo non rispose nemmeno - Crepa -.
Uomo di poche chiacchiere, specie quando aveva le lune a rovescio.
Masticò sa lui che parole tra i denti, e seguitò a guardare intorno cogli occhietti torbidi.
Il lume era sulla tavola, il letto bell'e rifatto, tanto di stanga all'uscio di cucina, dove polli e galline, spaventati anch'essi pel temporale, certo, facevano un gran schiamazzo, tanto che la donna diveniva sempre più smorta, e non osava guardare in faccia il marito.
- Va bene, - disse lui.
- In un momento mi sbrigo -.
Appese a un chiodo lo scapolare, posò sulla tavola l'agnella che ci aveva sotto, così legata per le quattro zampe, e sedé a gambe larghe, curvo, colle mani ciondoloni fra le cosce, senza dir altro.
La moglie intanto gli metteva dinanzi pane, vino, e la pipa carica anche, che non sapeva più quel che si facesse, in quel turbamento.
- A che pensi? Dove hai la testa? - brontolò Lollo.
- Una cosa alla volta, bestia! -
Masticava adagio, facendo i bocconi grossi, colle spalle al muro e il naso sulla grazia di Dio.
Di tanto in tanto volgeva il capo, e dava un'occhiata all'agnella, che cercava di liberarsi, belando, e picchiava della testa sulla tavola .
- Chetati, chetati! - brontolò Lollo infine.
- Chetati, che ancora c'è tempo.
- Ma che volete fare? Parlate almeno! -
Egli la guardò quasi non avesse udito, con quegli occhietti spenti che non dicevano nulla, accendendo la pipa tranquillamente, tanto che la povera donna smarrivasi sempre più, e a un tratto si buttò ginocchioni per slacciargli le ciocie fradice.
- No, - disse lui, respingendola col piede.
- No, torno ad uscire.
- Con questo tempo? - sospirò lei, tirando un gran respiro.
- Non importa il tempo...
Anzi!...
Anzi!...
-
Quando parlava così, con quella faccia squallida, e gli occhi falsi che vi fuggivano, quell'omettino magro e rattrappito faceva proprio paura - in quella solitudine - con quel tempaccio che non si sarebbe udito "Cristo aiutami!".
La moglie sparecchiava, in silenzio.
Lui fumava e sputacchiava di qua e di là.
A un tratto la gallina nera si mise a chiocciare, malaugurosa.
- S'è visto oggi Michelangelo? - domandò Lollo.
- No...
no...
- balbettò la moglie, che fu ad un pelo di lasciarsi cader di mano la grazia di Dio.
- Gli ho detto di scavare la fossa...
Una bella fossa grande...
L'avrà già fatto.
- Oh, Gesummaria! Perché?...
perché?...
- C'è un lupo...
qui vicino...
Voglio pigliarlo -.
Ella istintivamente volse una rapida occhiata all'uscio della cucina, e fissò gli occhi smarriti in volto al marito, che non la guardava neppure, chino sulla sua pipa, assaporandola, quasi assaporasse già il piacere di cogliere la mala bestia.
Ella, facendosi sempre più pallida, colle labbra tremanti, mormorava: - Gesù!...
Gesù!...
- Non aver paura.
Voglio pigliarlo in trappola...
senza rischiarci la pelle...
Ah, no! Sarebbe bella!...
con chi viene a rubarvi il fatto vostro...
rischiarci la pelle anche! Ho già avvisato Zango e Buonocore.
Ci hanno il loro interesse pure -.
Fosse il vinetto che gli scioglieva la lingua, o provasse gusto a rimasticare pian piano la bile che doveva averci dentro, non la finiva più, grattandosi il mento rugoso, appisolandosi quasi sulla pipa, ciarlando come una vecchia gazza.
- Vuoi sapere come si fa?...
Ecco: gli si prepara il suo bravo trabocchetto...
un bel letto sprimacciato di frasche e foglie...
l'agnella legata là sopra...
che lo tira la carne fresca, il mariolo!...
E se ne viene come a nozze, al sentire il belato e la carne fresca...
Col muso al vento, se ne viene, e gli occhi lucenti di voglia...
Ma appena cade nella trappola, poi, diventa un minchione, che chi gliene può fare, gliene fa: sassi, legnate, acqua bollente! -
L'agnella, come se capisse il discorso, ricominciò a belare, con una voce tremola che sembrava il pianto di un bambino, e toccava il cuore.
Sobbalzava di nuovo a scosse, rizzando il capo, e tornava a batterlo sulla tavola come un martello.
- Basta! basta, per carità! - esclamò la donna, giungendo le mani, quasi fuori di sé.
- No, l'agnella non la tocca neppure, appena si trova preso in trappola con essa...
Le gira intorno, nella buca...
gira e rigira...
tutta la notte, per cercar di fuggirla anche...
la tentazione...
Come capisse che è finita, e bisogna domandar perdono a Dio e agli uomini...
Bisogna vederlo, appena spunta il giorno, con quella faccia rivolta in su, che aspetta i cani e i cacciatori, con gli occhi che ardono come due tizzoni...
-
Si alzò finalmente, adagio adagio, e si mise a girondolare per la stanza, come un fantasma, strascicando le ciocie fradice, frucacchiando qua e là, col lume in mano.
- Ma che cercate? Che volete? - chiese la povera moglie, annaspandogli dietro affannata.
Egli rispose con una specie di grugnito, e cacciò il lume sotto il letto.
- Ecco, ecco, l'ho trovato -.
Il turbine in quel momento parve portarsi via la casa.
Uno scompiglio in cucina: la donna che strillava, attaccata all'uscio: una ventata soffiò sul lume a un tratto, e buona notte.
- Santa Barbara! Santa Barbara!...
Aspettate...
Cerco gli zolfanelli...
Dove siete? Dove andate? Rispondete almeno!
- Zitta - disse Lollo ch'era corso a stangare la porta di casa.
- Zitta, non ti muovere, tu! -
E si diede a battere l'acciarino sull'esca, verde come lo zolfanello che aveva acceso, tanto che alla povera moglie tremava il lume in mano.
Egli tornò a girondolare, cheto cheto.
Prese un bastoncello di rovere, lo intaccò da un capo e vi legò una funicella di pelo di capra.
La moglie, che le erano tornati gli spiriti vitali al veder dileguarsi il temporale, e mostrava di stare attenta anzi a quel lavoro, coi gomiti sulla tavola, e il mento fra le mani, volle sapere: - Che è questo?
- Questo?...
Che è questo? - mugolò lui, soffiando e fischettando.
- Questo è il biscotto per chiuder la bocca la lupo...
Ce ne vorrebbe un altro per te, ce ne vorrebbe! Ah, ah!...
Ridi adesso?...
T'è tornato il rossetto in viso?...
Voi altre donne avete sette spiriti, come i gatti...
-
Essa lo guardava fisso fisso, per indovinare quel che covasse sotto quel ghigno: gli si strusciava addosso, proprio come una gatta, col seno palpitante, e il sorriso pallido in bocca.
- Sta ferma, sta ferma, che fai versare l'olio...
L'olio porta disgrazia...
- Sì, che porta disgrazia! - proruppe lei.
- Ma che avete infine? Parlate!
- Tò! Tò! Ecco che vai in collera ora!...
Le sai tutte, le sai!...
Vuoi sapere anche come si fa a pigliarlo? Ecco qua: gli si cala questo gingillo nella buca; il lupo, sciocco, l'addenta; allora, lesto, gli si passa la funicella all'altro capo del bastone, e si lega dietro la testa.
L'affare è fatto.
Dopo, il lupo potete prenderlo e tirarlo su, che non fa più male...
E ne fate quel che volete...
Ma bisogna aspettare a giorno chiaro...
Ora vo a preparare la trappola...
- V'aspetto adunque? Tornate? -
Lollo andò a staccare lo scapolare grugnendo: - Uhm!...
uhm!...
- E tornò a prendere l'agnella: - Vedremo...
Il gusto è a vederlo in trappola...
che ne fate poi quel che volete...
senza dar conto a nessuno...
Anzi vi danno il premio al municipio!...
Tu sta cheta, sta cheta - ripeté mettendosi l'agnella sotto il braccio.
- Sta cheta che il lupo non ti tocca.
Ha da pensare ai casi suoi, piuttosto -.
Uscì così dicendo, senza dar retta alla moglie, e chiuse l'uscio di fuori.
- Che mi chiudete a chiave? - strillò la donna picchiando dietro l'uscio.
- Eh? Che fate? -
Lollo non rispose, e si allontanò fra l'acqua e il vento.
- Oh Vergine santissima! - esclamò la poveretta aggirandosi per la stanza colle mani nei capelli.
S'aprì invece l'uscio della cucina e comparve Michelangelo, pallido come un morto, che non si reggeva in piedi.
- Presi!...
Siamo presi! - balbettò lei con un filo di voce.
- Ci ha chiusi a catenaccio! -
Lui da prima voleva fare il bravo.
Tirò su i calzoni per la cintola, incrocicchiò le braccia sul petto, tentò di balbettare qualche cosa per far animo alla povera donna: - Va bene!...
son qui...
t'aspetto!...
- Poi, tutt'a un tratto, fosse il naturale suo proprio che lo vincesse, o il nervoso che gli metteva addosso il va e vieni di lei che pareva proprio una bestia presa in gabbia, scappò a correre anche lui all'impazzata, di qua e di là per la stanza, in punta di piedi, pallido, stralunato, tentò e ritentò la porta, scosse l'inferriata della finestra, s'arrampicò sulla tavola e sul letto per dar la scalata al tetto annaspando colle braccia tremanti, cieco di paura e di rabbia.
Infine s'arrese, trafelato, guardando bieco la complice, accusandola d'averlo attirato nel precipizio.
- Ah! - scattò allora su lei, colle mani ai fianchi.
- È questa la ricompensa?
- Zitta! - esclamò lui spaventato, chiudendole la bocca colla mano.
- Zitta!...
Non vedi che abbiamo la morte sul collo?
- Doveva cogliermi un accidente, quando mi siete venuto fra i piedi! - seguitò a sbraitare la donna.
- Doveva cogliermi una febbre maligna!
- Ssss!...
- fece lui colle mani e la voce stizzosa.
- Ssss! -.
Si udiva solo il vento, e l'acqua che scrosciava sul tetto.
Lei si teneva il capo fra le mani, e lui stava a guardarla, inebetito.
- Ma che disse? Che fece? - biascicò infine.
- Alle volte...
Ci è parso perché siamo in sospetto...
- No! - rispose la moglie di Lollo.
- È certo! È certo che sapeva!...
- E allora?...
allora?...
- scattò su Michelangelo, tornando ad alzarsi come fuori di sé.
Il lume, a cui mancava l'olio, cominciava a spegnersi.
Egli furioso scuoteva di nuovo porta e finestra, rompendosi le unghie per scalzar l'intonaco, mugolando come una bestia presa al laccio.
- Ave Maria, aiutatemi voi! - supplicava invece la donna.
- Prima dovevi dire le avemarie...
prima!...
- esclamò infine lui.
E cominciò a sfogarsi dicendole ogni sorta d'improperi.
FRAMMENTO II
Nella città straniera, stranieri l'uno all'altra, s'erano trovati accanto alla stessa tavola d'albergo e alla medesima rappresentazione teatrale che attirava da ogni parte gli zingari della gran vita.
Ella fine e delicata come un fiore - egli baldo e rapace come un uccello da preda.
E appena si guardarono in viso la prima volta tornarono a guardarsi, ella facendosi sempre pallida.
- E dopo, nella semioscurità del teatro che concentrava una sensazione estraumana, lo sfolgorio delle scene, e l'ebbrezza delle piene orchestre, egli si impadronì risoluto delle piccole mani tremanti, e le tenne strette quanto durò la loro stagione d'amore.
Dolce stagione che dileguò al pari della visione scenica! - Dolce musica che respirava - gli incanti svaniti colla grazia un po' triste e la tenerezza penetrante delle cose che non son più - là, in quell'altro teatro di un altro paese dove si erano trovati insieme l'ultima volta, ancora accanto, e pure tanto lontani!
Milano, 10 giugno 1900
"NEL CARROZZONE DEI PROFUGHI" (FRAMMENTO III)
Nel carrozzone dei profughi, due povere donne sedute accanto, col fagotto della roba che avevano avuto al Municipio sulle ginocchia, si narravano i loro guai.
Anzi una non parlava più; guardava nella folla con certi occhi stralunati, quasi cercando la figlia che le avevano detto fosse stata salvata da un giovanotto quando trassero anche lei dalle fiamme e dalle macerie.
Una ragazza bella come il sole, che chi l'aveva vista una volta l'avrebbe riconosciuta fra mille.
L'avevano vista rifugiata sotto un portone - tra i feriti del Savoja - alla stazione.
Tutti l'avevano vista, fuori che lei! Dalla stazione aveva visto soltanto la sua casa che bruciava, per due ore, sinché il treno stette lì.
E ora, mentre cercava la sua creatura fra la gente, da otto giorni, e pensava a lei che forse la cercava e chiamava aiuto, vedeva ancora quella distruzione e quell'incendio come un rifugio, una disperata certezza.
- Ora son sola - diceva l'altra.
- Quando incontrai mio marito, qui, per caso, salvo anche lui, non mi pareva vero.
Ma avevo tre figli: una maritata, colla grazia di Dio, e il maggiore che mi portava a casa già la sua giornata...
Tutti! Tutti!...
Io mi ero alzata appunto pel più piccolo ch'era malato, quando successe il terremoto.
Il Signore non mi volle -.
Ne parlava tranquillamente, colla faccia gialla e la testa fasciata.
- Ora, quando lui sarà guarito andremo in America -.
L'altra alzò gli occhi, soltanto, e la guardò.
- Certo, che faremo qui?
- In America? - disse un altro profugo.
- Non sapete che vita da cani! Peggio dei cani li trattano i cristiani! -
Ella a sua volta guardò sbigottita colui, come a ripetere: - Che faremo qui?
- Qui siamo nati; qui sono le pietre delle nostre case! - dissero gli altri.
FRAMMENTO IV
Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna, non so.
Rammento solo due occhi pazzi e una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridìo generale, nera anch'essa, ma di un pallore cadaverico.
Dibattevasi per farsi largo nella ressa dei profughi giunti con le prime corse, che si accavallavano sul balcone del Municipio all'arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi e altri gemiti.
Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica, laggiù in fondo alla piazza.
Si spinse innanzi disperatamente, quasi volesse buttarsi giù e si mise a chiamare, a gridare, a chiedere chissà? un nome, una notizia di vita o di morte, qualcosa che l'altro soltanto poteva udire e comprendere in quel frastuono immenso, dall'altra estremità della piazza immensa, urlando.
E l'altro, di laggiù, vide lei sola, in quel formicolio umano, udì, indovinò il nome e la domanda ansiosa, e rispose certo con una parola, un segno che al di sopra della folla, della confusione, del frastuono giunsero diritti a lei, che si cacciò le mani nella criniera arruffata, senza una parola, senza un grido, e cadde, scomparve nell'ondata di altri che gridano e chiamano ansiosi, dolorosamente egoisti.
UNA CAPANNA E IL TUO CUORE
La capanna stavolta era l'Albergo della Stella.
Quando vi giunsi, fra quelle quattro case arrampicate in cima al monte, dopo una giornata afosa nelle bassure della zolfara, mi parve di essere davvero nelle stelle, all'ombra della tettoia sgangherata che faceva da angiporto.
- Una stanza? - uscì a dire l'ostessa asciugandosi il sugo di pomidoro dalle braccia.
- Ma ci abbiamo tutta la compagnia.
- Oh!
- Sicuro, quella delle operette.
Però, se si contenta della mia...
-
Passando pel baraccone tutto scompartimenti come una stalla, vidi infatti una bella giovane che si rizzò lesta dal tavolato dov'era distesa, e mi salutò arrossendo un poco anche sotto il rossetto della sera innanzi.
Dovetti accontentarmi, poiché non ci era altro, della stamberga con tanto di letto matrimoniale dell'ostessa, e mentre essa apparecchiava un po' di tavola "per quel che c'era", si udì un baccano dalla parte della compagnia.
- È la lavandaia che viene a fare le solite scenate, - disse l'ostessa.
- Gente senza educazione.
Ora vo a dire che ci sono dei forestieri -.
Ma fu inutile, e il diavoleto peggio di prima.
Appena fui seduto per mandar giù "un po' di quel che c'era", comparve sull'uscio la ragazza della compagnia.
- Scusi.
Avrebbe, per caso, due lire e settantacinque di spiccioli, in piacere?
- Ecco.
- Grazie.
Ora torno -.
Tornò infatti, collo stesso risolino di palcoscenico.
- Che vuole? Scusi tanto.
I nostri comici sono tutti fuori.
Appena tornano...
- Oh, faccia a suo comodo.
- Buon appetito allora - disse sorridendo anche al piatto che recava l'ostessa.
- E a lei pure, giacché vedo ch'è l'ora...
- Oh, noi...
I nostri uomini sono stati invitati a fare una scampagnata dai signori del paese...
- Se vuol favorire dunque...
- Anzi...
Molto gentile.
Se permette, lo dico anche alla mia amica ch'è napoletana e le piacciono tanto gli spaghetti.
- Tanto piacere anche la sua amica napoletana -.
L'ostessa non se lo fece neanche dire e tornò indietro per gli altri spaghetti.
La napoletana si fece pregare un po', di là, ma venne lei pure, col salutino del pubblico.
- Il nostro soprano.
Una voce! Dovrebbe venire a sentirci, domani sera.
- Domani sera spero di essere a casa mia, finalmente.
- Peccato! Qui non si recita che il sabato e la domenica sera, perché gli altri giorni il nostro pubblico è occupato nelle zolfare - .
Il soprano, più contegnoso, si occupava a mandar giù gli spaghetti in punta di forchetta, quasi fosse già il sabato o la domenica sera, dinanzi al pubblico .
- Una vera diva!...
E vederla in costume, con quel décolleté!...
- La diva protestò levando su la forchetta col gomitolo di spaghetti, o per poca modestia, o perché il décolleté non fosse troppo in bella vista.
- Eh, che male c'è se gli uomini hanno occhi per vedere...
e mandar giù le platee?...
È vero, sì o no? Ditelo anche voi -.
Voltandomi, vidi sull'uscio altri visetti che dicevano già di sì, in attesa pur esse.
- Venite, venite anche voi.
Il signore è così gentile...
-
E naturalmente venne anche l'ostessa, carica d'altri piatti.
- La signorina Fides, mezzo soprano.
- La signorina Vanda, contralto.
- La signorina Ines, contraltino, che al bisogno fa le parti d'amoroso.
Come vede i nostri uomini ci lasciano a trarci d'imbarazzo anche nelle parti d'amoroso.
- Vedremo se ci portano almeno dei fiori dalla loro scampagnata.
- Quelli sì, perché non si mangiano.
- Che delizia! - sospirò allora la diva.
- Che paesaggi avete da queste parti...
sotto questo sole!...
- A chi lo dice!
- No? Non è del paese lei?
- È che l'ho avuto tutto il giorno sulla testa, quel sole! -
Dopo gli spaghetti venne del baccalà, poi delle ova sode, poi del caciocavallo, insomma "un po' di quel che c'era"", e dei fichi d'India, già bell'e sbucciati dalle mani stesse della locandiera, chi ne volesse.
Le artiste dicevano sempre di sì; tanto che dopo i fichi d'India chiesero del cognac.
- Cognac non ce n'è.
Abbiamo della menta-sèlse.
Ma ora, dopo tavola...
- Non importa.
È per fare i brindisi -.
Prima naturalmente a me, ch'ero stato tanto gentile.
Poi sfilarono altri nomi e altri ricordi, che brillarono un istante in quegli occhietti lustri.
- A te!...
Sempre! - A quella prima notte...
di luna!...
- Tutta roba passata! - sentenziò la stella napoletana.
- Tout passe, tout lasse, tout casse...
- E volle anche spiegare il suo francese alle compagne che sgranavano gli occhi.
- Passa via...
ti lascio...
La canzone finisce sempre così.
- Sempre, no.
Tu lo sai bene...
- Ella si strinse nelle spalle.
- Il tuo avvocato...
- Un avvocato!
- Sissignore! E ha lasciato moglie e figliuoli per venire a fare il suggeritore.
- Un bell'affare! E quella megera s'è permesso anche di venire a farmi le scene, coi suoi mocciosi, in casa mia!
- Poveretti! Bisognava sentirli piangere...
- Al cuore non si comanda, - conchiuse una delle signorine Ines o Fides.
- Certo, se si sapesse prima...
-
- Prima - il caso - l'incontrarsi in quegli occhi che vi mangiano dalla platea quando vi viene la nota giusta.
- Le scioccheriole che vi contano all'uscita dal teatro - la scappatella che sembrava di passaggio, ahimé!...
Ciascuna rammentava la sua, in quel momento di vino tenero.
Gli occhi ancora umidi, o pei ricordi di prima, o per quelli della scena.
- Così, senza saper come, la scioccheriola che mutavasi in duetto serio - o la passatina sotto la finestra che andava a finire nella stanzetta in due.
Poi il destarsi a bocca asciutta - o amara - o tra gli sbadigli e i - non mi seccare -, ch'è peggio.
- O peggio ancora la farsetta che minaccia di cambiarsi in tragedia...
- Come quando si dovette levar le tende in fretta e furia, tutta la compagnia che non c'entrava affatto...
E a un pelo di rimborsar gli abbonati per giunta! - conchiuse la signorina Fides.
- Oh, questa poi!...
- Sì, in un paesetto qui vicino, allorché quelli del partito contrario vollero giocare un tiro al sindaco che veniva a fare quattro chiacchiere con una di noi; e una bella notte, quando volle tornare a casa della moglie, gli fecero trovare murata la porta della locanda coi materiali della strada in riparazione.
Allora figuriamoci!...
-
Essa non aveva fatto alcun nome; ma tutte le altre guardavano sottecchi da una parte, ridendo, però col naso sul piatto.
La napoletana che invece aveva il naso in su, rimbeccò subito:
- Tu stai zitta, che di queste disgrazie non ne capitano certo pei tuoi begli occhi al tuo banchiere!
- Anche un banchiere?
- Sì, quello che scopa le tavole -.
Fides scattò inviperita: - Prima di scopare le tavole contava dei bei bigliettoni, quello!
- E te li buttava dietro in fiori per le serate e il braccialetto col sempre d'oro.
Per questo dovette fare i conti col principale, che gli sbatté in faccia lo sportello della banca, e te lo lasciò appeso al collo, col sempre del braccialetto! -
Io cercai di mettere qualche buona parola, anzi le loro parole stesse: - Cose che succedono.
Se si sapesse prima...
- Prima o poi, quello era un galantuomo e rimase un galantuomo.
Povero, ma onorato.
Perciò quando me lo vidi comparire dinanzi, con le tasche vuote ma tanto di cuore aperto...
ed anche le braccia, mentre mi diceva: "Eccomi...
Son qua...".
Ella singhiozzava quasi, col tovagliolo al viso, ripetendo quelle parole, tanto che le amiche le si strinsero intorno a confortarla, e la stessa napoletana volle ricordare come succedono queste cose:
- Si sa.
Ogni giorno che veniva, le ariette e i duettini...
Una bella seccatura a sentirli mattina e sera...
- Egli aveva una vocetta promettente allora - aggiunse la signorina Vanda.
- E per una disgrazia leggeva anche dei romanzi, tanto che gli pareva vero...
- Io glielo dissi - riprese Fides con gli occhi ancora umidi.
- E che vuoi fare adesso? "Son qua...
Son qua...".
Non sapeva dir altro, con quel viso pallido, e quelle braccia aperte...
Anch'io ero là...
E mi chiamo Fede...
La mano nella mano dunque...
- Ecco! Sino alla prima voltata.
- Voltata no, e neppure corda al collo - rispose Fides con gli occhi adesso asciutti.
- Io devo fare l'artista, e non posso voltare le spalle a questo e a quello se mi dicono che piaccio.
- O quando fanno dei regalucci.
- Bisogna mandare avanti la baracca anche -.
Quando gli uomini, a sera, tardi, dopo aver mangiato bene e bevuto meglio tornarono alla capanna ed al cuore, furono liti e questioni invece di fiori e paroline dolci.
La vocetta mezzo soprano di Fides che strillava: - Ah, sei stato a far l'assolo? Anch'io ci ho trovato qui per il duetto.
Prendi! -
L'avvocato perdeva il suo tempo a perorare di qua e di là, scusando queste e quelli e cercando di metter pace.
La napoletana gli sbatté con lo scarpone sul muso:
- Porco! Ci vorrebbero qui i tuoi mocciosi a piangerti per il pane, adesso! -
Me li vidi comparire dinanzi io pure, il giorno dopo; lui con la gota fasciata, a spiegarmi quel che doveva essere stato il po' di chiasso che forse avevo udito nella notte.
Ma la napoletana, ancora imbronciata, tagliò corto:
- Basta, basta.
Arrivederci dunque.
Il mondo è tondo, e chi non muore si rivede -.
Io non ho più rivisto quegli occhi rapaci e quel décolleté petulante.
- FINE -
...
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