STORIA DELLA COLONNA INFAME, di Alessandro Manzoni - pagina 4
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In questo errore, diremmo quasi invidiabile, quando è compagno di grandi e benefiche imprese, ci par che sia caduto, con altri uomini insigni del suo tempo, l'autore dell'Osservazioni sulla tortura.
Quanto è forte e fondato nel dimostrar l'assurdità, l'ingiustizia e la crudeltà di quell'abbominevole pratica, altrettanto ci pare che vada, osiam dire, in fretta nell'attribuire all'autorità degli scrittori ciò ch'essa aveva di più odioso.
E non è certamente la dimenticanza della nostra inferiorità che ci dia il coraggio di contradir liberamente, come siamo per fare, l'opinion d'un uomo così illustre, e sostenuta in un libro così generoso; ma la confidenza nel vantaggio d'esser venuti dopo, e di poter facilmente (prendendo per punto principale ciò che per lui era affatto accessorio) guardar con occhio più tranquillo, nel complesso de' suoi effetti, e nella differenza de' tempi, come cosa morta, e passata nella storia, un fatto ch'egli aveva a combattere, come ancor dominante, come un ostacolo attuale a nuove e desiderabilissime riforme.
E a ogni modo, quel fatto è talmente legato col suo e nostro argomento, che l'uno e l'altro eravam naturalmente condotti a dirne qualcosa in generale: il Verri perché, dall'essere quell'autorità riconosciuta al tempo dell'iniquo giudizio, induceva che ne fosse complice, e in gran parte cagione; noi perché, osservando ciò ch'essa prescriveva o insegnava ne' vari particolari, ce ne dovrem servire come d'un criterio, sussidiario ma importantissimo, per dimostrar più vivamente l'iniquità, dirò così, individuale del giudizio medesimo.
«È certo», dice l'ingegnoso ma preoccupato scrittore, «che niente sta scritto nelle leggi nostre, né sulle persone che possono mettersi alla tortura, né sulle occasioni nelle quali possano applicarvisi, né sul modo di tormentare, se col foco o col dislogamento e strazio delle membra, né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero delle volte da ripeterlo; tutto questo strazio si fa sopra gli uomini coll'autorità del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati.(5) »
Ma in quelle leggi nostre stava scritta la tortura; ma in quelle d'una gran parte d'Europa(6) , ma nelle romane, ch'ebbero per tanto tempo nome e autorità di diritto comune, stava scritta la tortura.
La questione dev'esser dunque, se i criminalisti interpreti (così li chiameremo, per distinguerli da quelli ch'ebbero il merito e la fortuna di sbandirli per sempre) sian venuti a render la tortura più o meno atroce di quel che fosse in mano dell'arbitrio, a cui la legge l'abbandonava quasi affatto; e il Verri medesimo aveva, in quel libro medesimo, addotta, o almeno accennata, la prova più forte in loro favore.
«Farinaccio istesso,» dice l'illustre scrittore, «parlando de' suoi tempi, asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species(7) .»
Ho detto: in loro favore; perché l'intimazione ai giudici d'astenersi dall'inventar nuove maniere di tormentare, e in generale le riprensioni e i lamenti che attestano insieme la sfrenata e inventiva crudeltà dell'arbitrio, e l'intenzion, se non altro, di reprimerla e di svergognarla, non sono tanto del Farinacci, quanto de' criminalisti, direi quasi, in genere.
Le parole stesse trascritte qui sopra, quel dottore le prende da uno più antico, Francesco dal Bruno, il quale le cita come d'uno più antico ancora, Angelo d'Arezzo, con altre gravi e forti, che diamo qui tradotte: «giudici, arrabbiati e perversi, che saranno da Dio confusi; giudici ignoranti, perché l'uom sapiente abborrisce tali cose, e dà forma alla scienza col lume delle virtù(8) ».
Prima di tutti questi, nel secolo XIII, Guido da Suzara, trattando della tortura, e applicando a quest'argomento le parole d'un rescritto di Costanzo, sulla custodia del reo, dice esser suo intento «d'imporre qualche moderazione ai giudici che incrudeliscono senza misura.(9) »
Nel secolo seguente, Baldo applica il celebre rescritto di Costantino contro il padrone che uccide il servo, «ai giudici che squarcian le carni del reo, perché confessi»; e vuole che, se questo muore ne' tormenti, il giudice sia decapitato, come omicida(10).
Più tardi, Paride dal Pozzo inveisce contro que' giudici che, «assetati di sangue, anelano a scannare, non per fine di riparazione né d'esempio, ma come per un loro vanto (propter gloriam eorum); e sono per ciò da riguardarsi come omicidi(11)».
«Badi il giudice di non adoprar tormenti ricercati e inusitati; perché chi fa tali cose è degno d'esser chiamato carnefice piuttosto che giudice,» scrive Giulio Claro(12) .
«Bisogna alzar la voce (clamandum est) contro que' giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti,» scrive Antonio Gomez(13) .
Diletto e gloria! quali passioni, in qual soggetto! Voluttà nel tormentare uomini, orgoglio nel soggiogare uomini imprigionati! Ma almeno quelli che le svelavano, non si può credere che intendessero di favorirle.
A queste testimonianze (e altre simili se ne dovrà allegare or ora) aggiungeremo qui, che, ne' libri su questa materia, che abbiam potuti vedere, non ci è mai accaduto di trovar lamenti contro de' giudici che adoprassero tormenti troppo leggieri.
E se, in quelli che non abbiam visti, ci si mostrasse una tal cosa, ci parrebbe una curiosità davvero.
Alcuni de' nomi che abbiam citati, e di quelli che avremo a citare, son messi dal Verri in una lista di «scrittori, i quali se avessero esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de' raffinati loro spasimi in lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza e la barbarie non allontanasse le persone sensate e colte dall'esaminarli, non potevano essere riguardati se non coll'occhio medesimo col quale si rimira il carnefice, cioè con orrore e ignominia(14) ».
Certo, l'orrore per quello che rivelano, non può esser troppo; è giustissimo questo sentimento anche per quello che ammettevano; ma se, per quello che ci misero, o ci vollero metter del loro, l'orrore sia un giusto sentimento, e l'ignominia una giusta retribuzione, il poco che abbiam visto, deve bastare almeno a farne dubitare.
È vero che ne' loro libri, o, per dir meglio, in qualcheduno, sono, più che nelle leggi, descritte le varie specie di tormenti; ma come consuetudini invalse e radicate nella pratica, non come ritrovati degli scrittori.
E Ippolito Marsigli, scrittore e giudice del secolo decimoquinto, che ne fa un'atroce, strana e ributtante lista, allegando anche la sua esperienza, chiama però bestiali que' giudici che ne inventan di nuovi.(15)
Furono quegli scrittori, è vero, che misero in campo la questione del numero delle volte che lo spasimo potesse esser ripetuto; ma (e avremo occasion di vederlo) per impor limiti e condizioni all'arbitrio, profittando dell'indeterminate e ambigue indicazioni che ne somministrava il diritto romano.
Furon essi, è vero, che trattaron del tempo che potesse durar lo spasimo; ma non per altro che per imporre, anche in questo, qualche misura all'instancabile crudeltà, che non ne aveva dalla legge, «a certi giudici, non meno ignoranti che iniqui, i quali tormentano un uomo per tre o quattr'ore,» dice il Farinacci(16) ; «a certi giudici iniquissimi e scelleratissimi, levati dalla feccia, privi di scienza, di virtù, di ragione, i quali, quand'hanno in loro potere un accusato, forse a torto (forte indebite), non gli parlano che tenendolo al tormento; e se non confessa quel ch'essi vorrebbero, lo lascian lì pendente alla fune, per un giorno, per una notte intera,» aveva detto il Marsigli(17) , circa un secolo prima.
In questi passi, e in qualche altro de' citati sopra, si può anche notare come alla crudeltà cerchino d'associar l'idea dell'ignoranza.
E per la ragion contraria, raccomandano, in nome della scienza, non meno che della coscienza, la moderazione, la benignità, la mansuetudine.
Parole che fanno rabbia, applicate a una tal cosa; ma che insieme fanno vedere se l'intento di quegli scrittori era d'aizzare il mostro, o d'ammansarlo.
Riguardo poi alle persone che potessero esser messe alla tortura, non vedo cos'importi che niente ci fosse nelle leggi propriamente nostre, quando c'era molto, relativamente al resto di questa trista materia, nelle leggi romane, le quali erano in fatto leggi nostre anch'esse.
«Uomini», prosegue il Verri, «ignoranti e feroci, i quali senza esaminare donde emani il diritto di punire i delitti, qual sia il fine per cui si puniscono, quale la norma onde graduare la gravezza dei delitti, qual debba esser la proporzione tra i delitti e le pene, se un uomo possa mai costringersi a rinunziare alla difesa propria, e simili principii, dai quali, intimamente conosciuti, possono unicamente dedursi le naturali conseguenze più conformi alla ragione ed al bene della società; uomini, dico, oscuri e privati, con tristissimo raffinamento ridussero a sistema e gravemente pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini, con quella tranquillità medesima colla quale si descrive l'arte di rimediare ai mali del corpo umano: e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e si fece un serio e placido oggetto di studio, e si accolsero alle librerie legali i crudeli scrittori che insegnarono a sconnettere con industrioso spasimo le membra degli uomini vivi, e a raffinarlo colla lentezza e coll'aggiunta di più tormenti, onde rendere più desolante e acuta l'angoscia e l'esterminio.»
Ma come mai ad uomini oscuri e ignoranti poté esser concessa tanta autorità? dico oscuri al loro tempo, e ignoranti riguardo ad esso; ché la questione è necessariamente relativa; e si tratta di vedere, non già se quegli scrittori avessero i lumi che si posson desiderare in un legislatore, ma se n'avessero più o meno di coloro che prima applicavan le leggi da sé, e in gran parte se le facevan da sé.
E come mai era più feroce l'uomo che lavorava teorie, e le discuteva dinanzi al pubblico, dell'uomo ch'esercitava l'arbitrio in privato, sopra chi gli resisteva?
In quanto poi alle questioni accennate dal Verri, guai se la soluzione della prima, «donde emani il diritto di punire i delitti», fosse necessaria per compilar con discrezione delle leggi penali; poiché si poté bene, al tempo del Verri, crederla sciolta; ma ora (e per fortuna, giacché è men male l'agitarsi nel dubbio, che il riposar nell'errore) è più controversa che mai.
E l'altre, dico in generale tutte le questioni d'un'importanza più immediata, e più pratica, erano forse sciolte e sciolte a dovere, erano almeno discusse, esaminate quando gli scrittori comparvero? Vennero essi forse a confondere un ordine stabilito di più giusti e umani principi, a balzar di posto dottrine più sapienti, a turbar, dirò così, il possesso a una giurisprudenza più ragionata e più ragionevole? A questo possiamo risponder francamente di no, anche noi; e ciò basta all'assunto.
Ma vorremmo che qualcheduno di quelli che ne sanno, esaminasse se piuttosto non furon essi che, costretti, appunto perché privati e non legislatori, a render ragione delle loro decisioni, richiamaron la materia a princìpi generali, raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi nelle leggi romane, e cercandone altri nell'idea universale del diritto; se non furon essi che, lavorando a costruir, con rottami e con nuovi materiali, una pratica criminale intera ed una, prepararono il concetto, indicarono la possibilità, e in parte l'ordine, d'una legislazion criminale intera ed una; essi che, ideando una forma generale, aprirono ad altri scrittori, dai quali furono troppo sommariamente giudicati, la strada a ideare una generale riforma.
In quanto finalmente all'accusa, così generale e così nuda, d'aver raffinato i tormenti, abbiamo in vece veduto che fu cosa dalla maggior parte di loro espressamente detestata e, per quanto stava in loro, proibita.
Molti de' luoghi che abbiam riferiti possono anche servire a lavarli in parte dalla taccia d'averne trattato con quell'impassibile tranquillità.
Ci si permetta di citarne un altro che parrebbe quasi un'anticipata protesta.
«Non posso che dar nelle furie», scrive il Farinacci, (non possum nisi vehementer excandescere) «contro que' giudici che tengono per lungo tempo legato il reo, prima di sottoporlo alla tortura; e con quella preparazione la rendon più crudele.(18) »
Da queste testimonianze, e da quello che sappiamo essere stata la tortura negli ultimi suoi tempi, si può francamente dedurre che i criminalisti interpreti la lasciarono molto, ma molto, men barbara di quello che l'avevan trovata.
E certo sarebbe assurdo l'attribuire a una sola causa una tal diminuzione di male; ma, tra le molte, mi par che sarebbe anche cosa poco ragionevole il non contare il biasimo e le ammonizioni ripetute e rinnovate pubblicamente, di secolo in secolo, da quelli ai quali pure s'attribuisce un'autorità di fatto sulla pratica de' tribunali.
Cita poi il Verri alcune loro proposizioni; le quali non basterebbero per fondarci sopra un generale giudizio storico, quand'anche fossero tutte esattamente citate.
Eccone, per esempio, una importantissima, che non lo è: «Il Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizii contro un uomo, e si può metterlo alla tortura(19)».
Se quel dottore avesse parlato così, sarebbe piuttosto una singolarità che un argomento; tanto una tal dottrina è opposta a quella d'una moltitudine d'altri dottori.
Non dico di tutti, per non affermar troppo più di quello che so; benché, dicendolo, non temerei d'affermar più di quello che è.
Ma in realtà il Claro disse, anche lui, il contrario; e il Verri fu probabilmente indotto in errore dall'incuria d'un tipografo, il quale stampò: Nam sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc ut torqueri possit(20) , in vece di Non sufficit, come trovo in due edizioni anteriori(21) .
E per accertarsi dell'errore, non è neppur necessario questo confronto, giacché il testo continua così: «se tali indizi non sono anche legittimamente provati»; frase che farebbe ai cozzi con l'antecedente, se questa avesse un senso affermativo.
E soggiunge subito: «ho detto che non basta (dixi quoque non sufficere) che ci siano indizi, e che siano legittimamente provati, se non sono anche sufficienti alla tortura.
Ed è una cosa che i giudici timorati di Dio devono aver sempre davanti agli occhi, per non sottoporre ingiustamente alcuno alla tortura: cosa del resto che li sottopone essi medesimi a un giudizio di revisione.
E racconta l'Afflitto d'aver risposto al re Federigo, che nemmen lui, con l'autorità regia, poteva comandare a un giudice di mettere alla tortura un uomo, contro il quale non ci fossero indizi sufficienti».
Così il Claro; e basterebbe questo per esser come certi, che dovette intender tutt'altro che di rendere assoluto l'arbitrio con quell'altra proposizione che il Verri traduce così: «in materia di tortura e d'indizi, non potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all'arbitrio del giudice(22) ».
La contradizione sarebbe troppo strana; e lo sarebbe di più, se è possibile, con quello che l'autor medesimo dice altrove: «benché il giudice abbia l'arbitrio, deve però stare al diritto comune...
e badino bene gli ufiziali della giustizia, di non andar avanti tanto allegramente (ne nimis animose procedant), con questo pretesto dell'arbitrio(23)».
Cosa intese dunque, con quelle parole: remittitur arbitrio judicis che il Verri traduce: «tutto si rimette all'arbitrio del giudice»?
Intese...
Ma che dico? e perché cercare in questo un'opinion particolare del Claro? Quella proposizione, egli non faceva altro che ripeterla, giacché era, per dir così, proverbiale tra gl'interpreti; e già due secoli prima, Bartolo la ripeteva anche lui, come sentenza comune: Doctores communiter dicunt quod in hoc (quali siano gl'indizi sufficienti alla tortura) non potest dari certa doctrina, sed relinquitur arbitrio judicis(24) .
E con questo non intendevan già di proporre un principio, di stabilire una teoria, ma d'enunciar semplicemente un fatto; cioè che la legge, non avendo determinato gl'indizi, gli aveva per ciò stesso lasciati all'arbitrio del giudice.
Guido da Suzara, anteriore a Bartolo d'un secolo circa, dopo aver detto o ripetuto anche lui, che gl'indizi son rimessi all'arbitrio del giudice, soggiunge: «come, in generale, tutto ciò che non è determinato dalla legge(25) ».
E per citarne qualcheduno de' meno antichi, Paride dal Pozzo, ripetendo quella comune sentenza, la commenta così: «a ciò che non è determinato dalla legge, né dalla consuetudine, deve supplire la religion del giudice; e perciò la legge sugl'indizi mette un gran carico sulla sua coscienza(26)i ».
E il Bossi, criminalista del secolo XVI, e senator di Milano: «Arbitrio non vuol dir altro (in hoc consistit) se non che il giudice non ha una regola certa dalla legge, la quale dice soltanto non doversi cominciar dai tormenti, ma da argomenti verisimili e probabili.
Tocca dunque al giudice a esaminare se un indizio sia verisimile e probabile(27) ».
Ciò ch'essi chiamavano arbitrio, era in somma la cosa stessa che, per iscansar quel vocabolo equivoco e di tristo suono, fu poi chiamata poter discrezionale: cosa pericolosa, ma inevitabile nell'applicazion delle leggi, e buone e cattive; e che i savi legislatori cercano, non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad alcune determinate e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in quelle più che possono.
E tale, oso dire, fu anche l'intento primitivo, e il progressivo lavoro degl'interpreti, segnatamente riguardo alla tortura, sulla quale il potere lasciato dalla legge al giudice era spaventosamente largo.
Già Bartolo, dopo le parole che abbiam citate sopra, soggiunge: «ma io darò le regole che potrò».
Altri ne avevan date prima di lui; e i suoi successori ne diedero di mano in mano molte più, chi proponendone qualcheduna del suo, chi ripetendo e approvando le proposte da altri; senza lasciar però di ripeter la formola ch'esprimeva il fatto della legge, della quale non erano, alla fine, che interpreti.
Ma con l'andar del tempo, e con l'avanzar del lavoro, vollero modificare anche il linguaggio; e n'abbiam l'attestato dal Farinacci, posteriore ai citati qui, anteriore però all'epoca del nostro processo, e allora autorevolissimo.
Dopo aver ripetuto, e confermato con un subisso d'autorità, il principio, che «l'arbitrio non si deve intender libero e assoluto, ma legato dal diritto e dall'equità»; dopo averne cavate, e confermate con altre autorità, le conseguenze, che «il giudice deve inclinare alla parte più mite, e regolar l'arbitrio con la disposizion generale delle leggi, e con la dottrina de' dottori approvati, e che non può formare indizi a suo capriccio»; dopo aver trattato, più estesamente, credo, e più ordinatamente che nessuno avesse ancor fatto, di tali indizi, conclude: «puoi dunque vedere che la massima comune de' dottori - gl'indizi alla tortura sono arbitrari al giudice - è talmente, e anche concordemente ristretta da' dottori medesimi, che non a torto molti giurisperiti dicono doversi anzi stabilir la regola contraria, cioè che gl'indizi non sono arbitrari al giudice(28) ».
E cita questa sentenza di Francesco Casoni: «è error comune de' giudici il credere che la tortura sia arbitraria; come se la natura avesse creati i corpi de' rei perché essi potessero straziarli a loro capriccio(29) ».
Si vede qui un momento notabile della scienza, che, misurando il suo lavoro, n'esige il frutto; e dichiarandosi, non aperta riformatrice (ché non lo pretendeva, né le sarebbe stato ammesso), ma efficace ausiliaria della legge, consacrando la propria autorità con quella d'una legge superiore ed eterna, intima ai giudici di seguir le regole che ha trovate, per risparmiar degli strazi a chi poteva essere innocente, e a loro delle turpi iniquità.
Triste correzioni d'una cosa che, per essenza, non poteva ricevere una buona forma; ma tutt'altro che argomenti atti a provar la tesi del Verri: «né gli orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa patire...
ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla(30) ».
Ci si permetta in ultimo qualche osservazione sopra un altro luogo da lui citato; ché l'esaminarli tutti sarebbe troppo in questo luogo, e non abbastanza certamente per la questione.
«Basti un solo orrore per tutti; e questo viene riferito dal celebre Claro milanese, che è il sommo maestro di questa pratica: - Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine d'indurla ad accusarsi del delitto, e che con un tal mezzo un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi d'un omicidio, e la condusse a perdere la testa.
- Acciocché non si sospetti che quest'orrore contro la religione, la virtù e tutti i più sacri principii dell'uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris dicit quod judex potest, etc.(31) ».
Orrore davvero; ma per veder che importanza possa avere in una question di questa sorte, s'osservi che, enunciando quell'opinione, Paride dal Pozzo(32) non proponeva già un suo ritrovato; raccontava, e pur troppo con approvazione, un fatto d'un giudice, cioè uno de' mille fatti che produceva l'arbitrio senza suggerimento di dottori; s'osservi che il Baiardi, il quale riferisce quell'opinione, nelle sue aggiunte al Claro (non il Claro medesimo), lo fa per detestarla anche lui, e per qualificare il fatto di finzione diabolica(33) ; s'osservi che non cita alcun altro il quale sostenesse un'opinion tale, dal tempo di Paride dal Pozzo al suo, cioè per lo spazio d'un secolo.
E andando avanti, sarebbe più strano che ce ne fosse stato alcuno.
E quel Paride dal Pozzo medesimo, Dio ci liberi di chiamarlo, col Giannone, eccellente giureconsulto(34) ; ma l'altre sue parole che abbiam riferite sopra, basterebbero a far veder che queste bruttissime non bastano a dare una giusta idea nemmen delle dottrine di questo solo.
Non abbiam certamente la strana pretensione d'aver dimostrato che quelle degl'interpreti, prese nel loro complesso, non servirono, né furon rivolte a peggiorare.
Questione interessantissima, giacché si tratta di giudicar l'effetto e l'intento del lavoro intellettuale di più secoli, in una materia così importante, anzi così necessaria all'umanità; questione del nostro tempo, giacché, come abbiamo accennato, e del resto ognun sa, il momento in cui si lavora a rovesciare un sistema, non è il più adattato a farne imparzialmente la storia; ma questione da risolversi, o piuttosto storia da farsi, con altro che con pochi e sconnessi cenni.
Questi bastan però, se non m'inganno, a dimostrar precipitata la soluzione contraria; come erano, in certo modo, una preparazion necessaria al nostro racconto.
Ché in esso noi avremo spesso a rammaricarci che l'autorità di quegli uomini non sia stata efficace davvero; e siam certi che il lettore dovrà dir con noi: fossero stati ubbiditi!
Cap.3
E per venir finalmente all'applicazione, era insegnamento comune, e quasi universale de' dottori, che la bugia dell'accusato nel rispondere al giudice, fosse uno degl'indizi legittimi, come dicevano, alla tortura.
Ecco perché l'esaminatore dell'infelice Piazza gli oppose, non essere verisimile che lui non avesse sentito parlare di muri imbrattati in porta Ticinese, e che non sapesse il nome de' deputati coi quali aveva avuto che fare.
Ma insegnavan forse che bastasse una bugia qualunque?
«La bugia, per fare indizio alla tortura, deve riguardar le qualità e le circostanze sostanziali del delitto, cioè che appartengano ad esso, e dalle quali esso si possa inferire; altrimenti no: alias secus.»
«La bugia non fa indizio alla tortura, se riguarda cose che non aggraverebbero il reo, quando le avesse confessate.»
E bastava, secondo loro, che il detto dell'accusato paresse al giudice bugia, perché questo potesse venire ai tormenti?
«La bugia per fare indizio alla tortura dev'esser provata concludentemente, o dalla propria confession del reo, o da due testimoni...
essendo dottrina comune che due sian necessari a provare un indizio remoto, quale è la bugia(35) ».
Cito, e citerò spesso il Farinacci, come uno de' più autorevoli allora, e come gran raccoglitore dell'opinioni più ricevute.
Alcuni però si contentavano d'un testimonio solo, purché fosse maggiore d'ogni eccezione.
Ma che la bugia dovesse risultar da prove legali, e non da semplice congettura del giudice, era dottrina comune e non contradetta.
Tali condizioni eran dedotte da quel canone della legge romana, il quale proibiva (che cose s'è ridotti a proibire, quando se ne sono ammesse cert'altre!) di cominciar dalla tortura.
«E se concedessimo ai giudici», dice l'autor medesimo, «la facoltà di mettere alla tortura i rei senza indizi legittimi e sufficienti, sarebbe come in lor potere il cominciar da essa...
E per poter chiamarsi tali, devon gl'indizi esser verisimili, probabili, non leggieri, né di semplice formalità, ma gravi, urgenti, certi, chiari, anzi più chiari del sole di mezzogiorno, come si suol dire...
Si tratta di dare a un uomo un tormento, e un tormento che può decider della sua vita: agitur de hominis salute; e perciò non ti maravigliare, o giudice rigoroso, se la scienza del diritto e i dottori richiedono indizi così squisiti, e dicon la cosa con tanta forza, e la vanno tanto ripetendo(36) .»
Non diremo certamente che tutto questo sia ragionevole; giacché non può esserlo ciò che implica contradizione.
Erano sforzi vani, per conciliar la certezza col dubbio, per evitare il pericolo di tormentare innocenti, e d'estorcere false confessioni, volendo però la tortura come un mezzo appunto di scoprire se uno fosse innocente o reo, e di fargli confessare una data cosa.
La conseguenza logica sarebbe stata di dichiarare assurda e ingiusta la tortura; ma a questo ostava l'ossequio cieco all'antichità e al diritto romano.
Quel libriccino Dei delitti e delle pene, che promosse, non solo l'abolizion della tortura, ma la riforma di tutta la legislazion criminale, cominciò con le parole: «Alcuni avanzi di leggi d'un antico popolo conquistatore.» E parve, com'era, ardire d'un grand'ingegno: un secolo prima sarebbe parsa stravaganza.
Né c'è da maravigliarsene: non s'è egli visto un ossequio dello stesso genere mantenersi più a lungo, anzi diventar più forte nella politica, più tardi nella letteratura, più tardi ancora in qualche ramo delle Belle Arti? Viene, nelle cose grandi, come nelle piccole, un momento in cui ciò che, essendo accidentale e fattizio, vuol perpetuarsi come naturale e necessario, è costretto a cedere all'esperienza, al ragionamento, alla sazietà, alla moda, a qualcosa di meno, se è possibile, secondo la qualità e l'importanza delle cose medesime; ma questo momento dev'esser preparato.
Ed è già un merito non piccolo degl'interpreti, se, come ci pare, furon essi che lo prepararono, benché lentamente, benché senz'avvedersene, per la giurisprudenza.
Ma le regole che pure avevano stabilite, bastano in questo caso a convincere i giudici, anche di positiva prevaricazione.
Vollero appunto costoro cominciar dalla tortura.
Senza entrare in nulla che toccasse circostanze, né sostanziali né accidentali, del presunto delitto, moltiplicarono interrogazioni inconcludenti, per farne uscir de' pretesti di dire alla vittima destinata: non è verisimile; e, dando insieme a inverisimiglianze asserite la forza di bugie legalmente provate, intimar la tortura.
È che non cercavano una verità, ma volevano una confessione: non sapendo quanto vantaggio avrebbero avuto nell'esame del fatto supposto, volevano venir presto al dolore, che dava loro un vantaggio pronto e sicuro: avevan furia.
Tutto Milano sapeva (è il vocabolo usato in casi simili) che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l'avevan nelle mani, non l'avrebbero fatto confessar subito a lui!
Si dirà forse che, in faccia alla giurisprudenza, se non alla coscienza, tutto era giustificato dalla massima detestabile, ma allora ricevuta, che ne' delitti più atroci fosse lecito oltrepassare il diritto? Lasciamo da parte che l'opinion più comune, anzi quasi universale, de' giureconsulti, era (e se al ciel piace, doveva essere) che una tal massima non potesse applicarsi alla procedura, ma soltanto alla pena; «giacché,» per citarne uno, «benché si tratti d'un delitto enorme, non consta però che l'uomo l'abbia commesso; e fin che non consti, è dovere che si serbino le solennità del diritto(37) ».
E solo per farne memoria, e come un di que' tratti notabili con cui l'eterna ragione si manifesta in tutti i tempi, citeremo anche la sentenza d'un uomo che scrisse sul principio del secolo decimoquinto, e fu, per lungo tempo dopo, chiamato il Bartolo del diritto ecclesiastico, Nicolò Tedeschi, arcivescovo di Palermo, più celebre, fin che fu celebre, sotto il nome d'Abate Palermitano: «Quanto il delitto è più grave,» dice quest'uomo, «tanto più le presunzioni devono esser forti; perché, dove il pericolo è maggiore, bisogna anche andar più cauti(38) ».
Ma questo, dico, non fa al nostro caso (sempre riguardo alla sola giurisprudenza), poiché il Claro attesta che nel foro di Milano prevaleva la consuetudine contraria; cioè era, in que' casi, permesso al giudice d'oltrepassare il diritto, anche nell'inquisizione(39) .
«Regola», dice il Riminaldi, altro già celebre giureconsulto, «da non riceversi negli altri paesi»; e il Farinacci soggiunge: «ha ragione(40) ».
Ma vediamo come il Claro medesimo interpreti una tal regola: «si viene alla tortura, quantunque gl'indizi non siano in tutto sufficienti (in totum sufficientia), né provati da testimoni maggiori d'ogni eccezione, e spesse volte anche senza aver data al reo copia del processo informativo».
E dove tratta in particolare degl'indizi legittimi alla tortura, li dichiara espressamente necessari «non solo ne' delitti minori, ma anche ne' maggiori e negli atrocissimi, anzi nel delitto stesso di lesa maestà(41) ».
Si contentava dunque d'indizi meno rigorosamente provati, ma li voleva provati in qualche maniera; di testimoni meno autorevoli, ma voleva testimoni; d'indizi più leggieri, ma voleva indizi reali, relativi al fatto; voleva insomma render più facile al giudice la scoperta del delitto, non dargli la facoltà di tormentare, sotto qualunque pretesto, chiunque gli venisse nelle mani.
Son cose che una teoria astratta non riceve, non inventa, non sogna neppure; bensì la passione le fa.
Intimò dunque l'iniquo esaminatore al Piazza: che dica la verità per qual causa nega di sapere che siano state onte le muraglie, et di sapere come si chiamino li deputati, che altrimente, come cose inuerisimili, si metterà alla corda, per hauer la verità di queste inuerisimilitudini.
- Se me la vogliono anche far attaccar al collo, lo faccino; che di queste cose che mi hanno interrogato non ne so niente, rispose l'infelice, con quella specie di coraggio disperato, con cui la ragione sfida alle volte la forza, come per farle sentire che, a qualunque segno arrivi, non arriverà mai a diventar ragione.
E si veda a che miserabile astuzia dovettero ricorrer que' signori, per dare un po' più di colore al pretesto.
Andarono, come abbiam detto, a caccia d'una seconda bugia, per poter parlarne con la formola del plurale; cercarono un altro zero, per ingrossare un conto in cui non avevan potuto fare entrar nessun numero.
È messo alla tortura; gli s'intima che si risolua di dire la verità; risponde, tra gli urli e i gemiti e l'invocazioni e le supplicazioni: l'ho detta, signore.
Insistono.
Ah per amor di Dio! grida l'infelice: V.S.
mi facci lasciar giù, che dirò quello che so; mi facci dare un po' d'aqua.
È lasciato giù, messo a sedere, interrogato di nuovo; risponde: io non so niente; V.S.
mi facci dare un poco d'aqua.
Quanto è cieco il furore! Non veniva loro in mente che quello che volevan cavargli di bocca per forza, avrebbe potuto addurlo lui come un argomento fortissimo della sua innocenza, se fosse stato la verità, come, con atroce sicurezza, ripetevano.
- Sì, signore, - avrebbe potuto rispondere: - avevo sentito dire che s'eran trovati unti i muri di via della Vetra; e stavo a baloccarmi sulla porta di casa vostra, signor presidente della Sanità! - E l'argomento sarebbe stato tanto più forte, in quanto, essendosi sparsa insieme la voce del fatto, e la voce che il Piazza ne fosse l'autore, questo avrebbe, insieme con la notizia, dovuto risapere il suo pericolo.
Ma questa osservazion così ovvia, e che il furore non lasciava venire in mente a coloro, non poteva nemmeno venire in mente all'infelice, perché non gli era stato detto di cosa fosse imputato.
Volevan prima domarlo co' tormenti; questi eran per loro gli argomenti verosimili e probabili, richiesti dalla legge; volevan fargli sentire quale terribile, immediata conseguenza veniva dal risponder loro di no; volevano che si confessasse bugiardo una volta, per acquistare il diritto di non credergli, quando avrebbe detto: sono innocente.
Ma non ottennero l'iniquo intento.
Il Piazza, rimesso alla tortura, alzato da terra, intimatogli che verrebbe alzato di più, eseguita la minaccia, e sempre incalzato a dir la verità, rispose sempre: l'ho detta; prima urlando, poi a voce bassa; finché i giudici, vedendo che ormai non avrebbe più potuto rispondere in nessuna maniera, lo fecero lasciar giù, e ricondurre in carcere.
Riferito l'esame in senato, il giorno 23, dal presidente della Sanità, che n'era membro, e dal capitano di giustizia, che ci sedeva quando fosse chiamato, quel tribunale supremo decretò che: «il Piazza, dopo essere stato raso, rivestito con gli abiti della curia, e purgato, fosse sottoposto alla tortura grave, con la legatura del canapo», atrocissima aggiunta, per la quale, oltre le braccia, si slogavano anche le mani; «a riprese, e ad arbitrio de' due magistrati suddetti; e ciò sopra alcune delle menzogne e inverisimiglianze risultanti dal processo».
Il solo senato aveva, non dico l'autorità, ma il potere d'andare impunemente tanto avanti per una tale strada.
La legge romana sulla ripetizion de' tormenti(42) , era interpretata in due maniere; e la men probabile era la più umana.
Molti dottori (seguendo forse Odofredo(43) , che è il solo citato da Cino di Pistoia(44) , e il più antico de' citati dagli altri) intesero che la tortura non si potesse rinnovare, se non quando fossero sopravvenuti nuovi indizi, più evidenti de' primi, e, condizione che fu aggiunta poi, di diverso genere.
Molt'altri, seguendo Bartolo(45) , intesero che si potesse, quando i primi indizi fossero manifesti, evidentissimi, urgentissimi; e quando, condizione aggiunta poi anche questa, la tortura fosse stata leggiera(46) .
Ora, né l'una, né l'altra interpretazione faceva punto al caso.
Nessun nuovo indizio era emerso; e i primi erano che due donne avevan visto il Piazza toccar qualche muro; e, ciò ch'era indizio insieme e corpo del delitto, i magistrati avevan visto alcuni segni di materia ontuosa su que' muri abbruciacchiati e affumicati, e segnatamente in un andito...
dove il Piazza non era entrato.
Di più, quest'indizi, quanto manifesti, evidenti e urgenti, ognun lo vede, non erano stati messi alla prova, discussi col reo.
Ma che dico? il decreto del senato non fa neppur menzione d'indizi relativi al delitto, non applica neppur la legge a torto; fa come se non ci fosse.
Contro ogni legge, contro ogni autorità, come contro ogni ragione, ordina che il Piazza sia torturato di nuovo, sopra alcune bugie e inverisimiglianze; ordina cioè a' suoi delegati di rifare, e più spietatamente, ciò che avrebbe dovuto punirli d'aver fatto.
Perciocché era (e poteva non essere?) dottrina universale, canone della giurisprudenza, che il giudice inferiore, il quale avesse messo un accusato alla tortura senza indizi legittimi, fosse punito dal superiore.
Ma il senato di Milano era tribunal supremo; in questo mondo, s'intende.
E il senato di Milano, da cui il pubblico aspettava la sua vendetta, se non la salute, non doveva essere men destro, men perseverante, men fortunato scopritore, di Caterina Rosa.
Ché tutto si faceva con l'autorità di costei; quel suo: all'hora mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli, com'era stato il primo movente del processo, così n'era ancora il regolatore e il modello; se non che colei aveva cominciato col dubbio, i giudici con la certezza.
E non paia strano di vedere un tribunale farsi seguace ed emulo d'una o di due donnicciole; giacché, quando s'è per la strada della passione, è naturale che i più ciechi guidino.
Non paia strano il veder uomini i quali non dovevan essere, anzi non eran certamente di quelli che vogliono il male per il male, vederli, dico, violare così apertamente e crudelmente ogni diritto; giacché il credere ingiustamente, è strada a ingiustamente operare, fin dove l'ingiusta persuasione possa condurre; e se la coscienza esita, s'inquieta, avverte, le grida d'un pubblico hanno la funesta forza (in chi dimentica d'avere un altro giudice) di soffogare i rimorsi; anche d'impedirli.
Il motivo di quelle odiose, se non crudeli prescrizioni, di tosare, rivestire, purgare, lo diremo con le parole del Verri.
«In quei tempi credevasi che o ne' capelli e peli, ovvero nel vestito, o persino negli intestini trangugiandolo, potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde rasandolo, spogliandolo e purgandolo ne venisse disarmato(47) ».
E questo era veramente de' tempi; la violenza era un fatto (con diverse forme) di tutti i tempi, ma una dottrina di nessun tempo.
Quel secondo esame non fu che una ugualmente assurda e più atroce ripetizione del primo, e con lo stesso effetto.
L'infelice Piazza, interrogato prima, e contradetto con cavilli, che si direbbero puerili, se a nulla d'un tal fatto potesse convenire un tal vocabolo, e sempre su circostanze indifferenti al supposto delitto, e senza mai accennarlo nemmeno, fu messo a quella più crudele tortura che il senato aveva prescritta.
N'ebbero parole di dolor disperato, parole di dolor supplichevole, nessuna di quelle che desideravano, e per ottener le quali avevano il coraggio di sentire, di far dire quell'altre.
Ah Dio mio! ah che assassinamento è questo! ah Signor fiscale!...
Fatemi almeno appiccar presto...
Fatemi tagliar via la mano...
Ammazzatemi; lasciatemi almeno riposar un poco.
Ah! signor Presidente! ...
Per amor di Dio, fatemi dar da bere; ma insieme: non so niente, la verità l'ho detta. Dopo molte e molte risposte tali, a quella freddamente e freneticamente ripetuta istanza di dir la verità, gli mancò la voce, ammutolì; per quattro volte non rispose; finalmente poté dire ancora una volta, con voce fioca; non so niente; la verità l'ho già detta. Si dovette finire, e ricondurlo di nuovo, non confesso, in carcere.
E non c'eran più nemmen pretesti, né motivo di ricominciare: quella che avevan presa per una scorciatoia, gli aveva condotti fuor di strada.
Se la tortura avesse prodotto il suo effetto, estorta la confession della bugia, tenevan l'uomo; e, cosa orribile! quanto più il soggetto della bugia era per sé indifferente, e di nessuna importanza, tanto più essa sarebbe stata, nelle loro mani, un argomento potente della reità del Piazza, mostrando che questo aveva bisogno di stare alla larga dal fatto, di farsene ignaro in tutto, in somma di mentire.
Ma dopo una tortura illegale, dopo un'altra più illegale e più atroce, o grave, come dicevano, rimettere alla tortura un uomo, perché negava d'aver sentito parlare d'un fatto, e di sapere il nome de' deputati d'una parrocchia, sarebbe stato eccedere i limiti dello straordinario.
Eran dunque da capo, come se non avessero fatto ancor nulla; bisognava venire, senza nessun vantaggio, all'investigazion del supposto delitto, manifestare il reato al Piazza, interrogarlo.
E se l'uomo negava? se, come aveva dato prova di saper fare, persisteva a negare anche ne' tormenti? I quali avrebbero dovuto essere assolutamente gli ultimi, se i giudici non volevano appropriarsi una terribil sentenza d'un loro collega, morto quasi da un secolo, ma la cui autorità era viva più che mai, il Bossi citato sopra.
«Più di tre volte,» dice, «non ho mai visto ordinar la tortura, se non da de' giudici boia: nisi a carnificibus(48) .» E parla della tortura, ordinata legalmente!
Ma la passione è pur troppo abile e coraggiosa a trovar nuove strade, per iscansar quella del diritto, quand'è lunga e incerta.
Avevan cominciato con la tortura dello spasimo, ricominciarono con una tortura d'un altro genere.
D'ordine del senato (come si ricava da una lettera autentica del capitano di giustizia al governatore Spinola, che allora si trovava all'assedio di Casale), l'auditor fiscale della Sanità, in presenza d'un notaio, promise al Piazza l'impunità, con la condizione (e questo si vede poi nel processo) che dicesse interamente la verità.
Così eran riusciti a parlargli dell'imputazione, senza doverla discutere; a parlargliene, non per cavar dalle sue risposte i lumi necessari all'investigazion della verità, non per sentir quello che ne dicesse lui; ma per dargli uno stimolo potente a dir quello che volevan loro.
La lettera che abbiamo accennata, fu scritta il 28 di giugno, cioè quando il processo aveva, con quell'espediente, fatto un gran passo.
«Ho giudicato conuenire,» comincia, «che V.E.
sapesse quello che si è scoperto nel particolare d'alcuni scelerati che, a' giorni passati, andauano ungendo i muri et le porte di questa città.» E non sarà forse senza curiosità, né senza istruzione, il veder come cose tali sian raccontate da quelli che le fecero.
«Hebbi», dice dunque, «commissione dal Senato di formar processo, nel quale, per il detto d'alcune donne, e d'un huomo degno di fede, restò aggrauato un Guglielmo Piazza, huomo plebeio, ma ora Commissario della Sanità, ch'esso, il venerdì alli 21 su l'aurora, hauesse unto i muri di una contrada posta in Porta Ticinese, chiamata la Vetra de' Cittadini.»
E l'uomo degno di fede, messo lì subito per corroborar l'autorità delle donne, aveva detto d'aver rintoppato il Piazza, il quale io salutai, et lui mi rese il saluto. Questo era stato aggravarlo! come se il delitto imputatogli fosse stato d'essere entrato in via della Vetra.
Non parla poi il capitano di giustizia della visita fatta da lui per riconoscere il corpo del delitto; come non se ne parla più nel processo.
«Fu dunque», prosegue, «incontinente preso costui.» E non parla della visita fattagli in casa, dove non si trovò nulla di sospetto.
«Et essendosi maggiormente nel suo esame aggravato,» (s'è visto!) «fu messo ad una graue tortura, ma non confessò il delitto.»
Se qualcheduno avesse detto allo Spinola, che il Piazza non era stato interrogato punto intorno al delitto, lo Spinola avrebbe risposto: - Sono positivamente informato del contrario: il capitano di giustizia mi scrive, non questa cosa appunto, ch'era inutile; ma un'altra che la sottintende, che la suppone necessariamente; mi scrive che, messo ad una grave tortura, non lo confessò.
- Se l'altro avesse insistito, - come! - avrebbe potuto dire l'uomo celebre e potente, - volete voi che il capitano di giustizia si faccia beffe di me, a segno di raccontarmi, come una notizia importante, che non è accaduto quello che non poteva accadere? - Eppure era proprio così: cioè, non era che il capitano di giustizia volesse farsi beffe del governatore; era che avevan fatta una cosa da non potersi raccontare nella maniera appunto che l'avevan fatta; era, ed è, che la falsa coscienza trova più facilmente pretesti per operare, che formole per render conto di quello che ha fatto.
Ma sul punto dell'impunità, c'è in quella lettera un altro inganno che lo Spinola avrebbe potuto, anzi dovuto conoscer da sé, almeno per una parte, se avesse pensato ad altro che a prender Casale, che non prese.
Prosegue essa così: «finché d'ordine del Senato (anco per esecutione della grida ultimamente fatta in questo particolare pubblicare da V.E.), promessa dal Presidente della Sanità a costui l'impunità, confessò finalmente, etc.».
Nel capitolo XXXI dello scritto antecedente, s'è fatto menzione d'una grida, con la quale il tribunale della Sanità prometteva premio e impunità a chi rivelasse gli autori degl'imbrattamenti trovati sulle porte e sui muri delle case, la mattina del 18 di maggio; e s'è anche accennata una lettera del tribunale suddetto al governatore, su quel fatto.
In essa, dopo aver protestato che quella grida era stata pubblicata, con participatione del Sig.
Gran Cancelliere, il quale faceva le veci del governatore, pregavan questo di corroborarla con altra sua, con promessa di maggior premio.
E il governatore ne fece infatti promulgare una, in data del 13 di giugno, con la quale promette a ciascuna persona che, nel termine di giorni trenta, metterà in chiaro la persona o le persone che hanno commesso, fauorito, aiutato cotal delitto, il premio, etc.
et se quel tale sarà dei complici, gli promette anco l'impunità della pena.
Ed è per l'esecuzione di questa grida, così espressamente circoscritta a un fatto del 18 di maggio, che il capitano di giustizia dice essersi promessa l'impunità all'uomo accusato d'un fatto del 21 di giugno, e lo dice a quel medesimo che l'aveva, se non altro, sottoscritta! Tanto pare che si fidassero sull'assedio di Casale! giacché sarebbe troppo strano il supporre che travedessero essi medesimi a quel segno.
Ma che bisogno avevano d'usare un tal raggiro con lo Spinola?
Il bisogno d'attaccarsi alla sua autorità, di travisare un atto irregolare e abusivo, e secondo la giurisprudenza comune, e secondo la legislazion del paese.
Era, dico, dottrina comune che il giudice non potesse, di sua autorità propria, concedere impunità a un accusato(49) .
E nelle costituzioni di Carlo V, dove sono attribuiti al senato poteri ampissimi, s'eccettua però quello di «concedere remissioni di delitti, grazie o salvocondotti; essendo cosa riservata al principe(50) ».
E il Bossi già citato, il quale, come senator di Milano in quel tempo, fu uno de' compilatori di quelle costituzioni, dice espressamente: «questa promessa d'impunità appartiene al principe solo(51) ».
Ma perché mettersi nel caso d'usare un tal raggiro, quando potevan ricorrere a tempo al governatore, il quale aveva sicuramente dal principe un tal potere, e la facoltà di trasmetterlo? E non è una possibilità immaginata da noi: è quello che fecero essi medesimi, all'occasione d'un altro infelice, involto più tardi in quel crudele processo.
L'atto è registrato nel processo medesimo, in questi termini: Ambrosio Spinola, etc.
In conformità del parere datoci dal Senato con lettera dei cinque del corrente, concederete impunità, in virtù della presente, a Stefano Baruello, condannato come dispensatore et fabricatore delli onti pestiferi, sparsi per questa Città, ad estintione del Popolo, se dentro del termine che li sarà statuito dal detto Senato, manifestarà li auttori et complici di tale misfatto.
Al Piazza l'impunità non fu promessa con un atto formale e autentico; furon parole dettegli dall'auditore della Sanità, fuor del processo.
E questo s'intende: un tal atto sarebbe stato una falsità troppo evidente, se s'attaccava alla grida, un'usurpazion di potere, se non s'attaccava a nulla.
Ma perché, aggiungo, levarsi in certo modo la possibilità di mettere in forma solenne un atto di tanta importanza?
Questi perché non possiam certo saperli positivamente; ma vedrem più tardi cosa servisse ai giudici l'aver fatto così.
A ogni modo, l'irregolarità d'un tal procedere era tanto manifesta, che il difensor del Padilla la notò liberamente.
Benché, come protesta con gran ragione, non avesse bisogno d'uscir da ciò che riguardava direttamente il suo cliente, per iscolparlo dalla pazza accusa; benché, senza ragione, e con poca coerenza, ammetta un delitto reale, e de' veri colpe
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