STORIA DELLA COLONNA INFAME, di Alessandro Manzoni - pagina 13
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. Dovettero pure domandargli, che cosa ha da sminuire. Rispose più apertamente, e come prendendo coraggio: quell'unguento che ho detto, non ne ho fatto minga (mica), et quello che ho detto, l'ho detto per i tormenti. Gli minacciaron subito la rinnovazion della tortura; e ciò (lasciando da parte tutte l'altre violente irregolarità) senza aver messe in chiaro le contradizioni tra lui e il commissario, cioè senza poter dire essi medesimi se quella nuova tortura gliel'avrebbero data sulla sua confessione, o sulla deposizion dell'altro; se come a complice, o come a reo principale; se per un delitto commesso ad istigazione altrui, o del quale era stato l'istigatore; se per un delitto che lui aveva voluto pagar generosamente, o dal quale aveva sperato un miserabile guadagno.
A quella minaccia, rispose ancora: replico che quello che dissi hieri non è vero niente, et lo dissi per li tormenti.
Poi riprese: V.S.
mi lasci un puoco dire un'Aue Maria, et poi farò quello che il Signore me inspirarà; e si mise in ginocchio davanti a un'immagine del Crocifisso, cioè di Quello che doveva un giorno giudicare i suoi giudici.
Alzatosi dopo qualche momento, e stimolato a confermar la sua confessione, disse: in conscienza mia, non è vero niente.
Condotto subito nella stanza della tortura, e legato, con quella crudele aggiunta del canapo, l'infelicissimo disse: V.S.
non mi stij a dar più tormenti, che la verità che ho deposto, la voglio mantenere.
Slegato e ricondotto nella stanza dell'esame, disse di nuovo: non è vero niente.
Di nuovo alla tortura, dove di nuovo disse quello che volevano; e avendogli il dolore consumato fino all'ultimo quel poco resto di coraggio, mantenne il suo detto, si dichiarò pronto a ratificar la sua confessione; non voleva nemmeno che gliela leggessero.
A questo non acconsentirono: scrupolosi nell'osservare una formalità ormai inconcludente, mentre violavan le prescrizioni più importanti e più positive.
Lettogli l'esame, disse: è la verità tutto.
Dopo di ciò, perseveranti nel metodo di non proseguir le ricerche, di non affrontar le difficoltà, se non dopo i tormenti (ciò che la legge medesima aveva creduto di dover vietare espressamente, ciò che Diocleziano e Massimiano avevan voluto impedire!(70) ), pensaron finalmente a domandargli se non aveva avuto altro fine che di guadagnar con la vendita del suo elettuario.
Rispose: che sappia mi, quanto a me, non ho altro fine.
Che sappia mi! Chi, se non lui, poteva sapere cosa fosse passato nel suo interno? Eppure quelle così strane parole erano adattate alla circostanza: lo sventurato non avrebbe potuto trovarne altre che significassero meglio a che segno aveva, in quel momento, abdicato, per dir così, sé medesimo, e acconsentiva a affermare, a negare, a sapere quello soltanto, e tutto quello che fosse piaciuto a coloro che disponevan della tortura.
Vanno avanti, e gli dicono: che ha molto dell'inuerisimile che, solamente per hauer occasione il Commissario di lavorare assai, et lui Constituto di vendere il suo elettuario habbino procurato, con l'imbrattamento delle porte, la destruttione et morte della gente; perciò dica a che fine, et per che rispetto si sono mossi loro duoi a così fare, per un interesse così legiero.
Ora vien fuori quest'inverisimiglianza? Gli avevan dunque minacciata e data a più riprese la tortura per fargli ratificare una confessione inverisimile! L'osservazione era giusta, ma veniva tardi, diremo anche qui; giacché il rinnovarsi delle circostanze medesime, ci sforza quasi a usar le medesime parole.
Come non s'erano accorti che ci fosse inverisimiglianza nella deposizione del Piazza, se non quando ebbero, su quella deposizione, carcerato il Mora; così ora non s'accorgono che ci sia inverisimiglianza nella confession di questo, se non dopo avergli estorta una ratificazione che, in mano loro, diventa un mezzo sufficiente per condannarlo.
Vogliam supporre che realmente non se n'accorgessero che in questo momento? Come spiegheremo allora, come qualificheremo il ritener valida una tal confessione, dopo una tale osservazione? Forse il Mora diede una risposta più soddisfacente che non fosse stata quella del Piazza? La risposta del Mora fu questa: se il Commissario non lo sa lui, io non lo so; et bisogna che lui lo sappia, et da lui V.S.
lo saprà, per essere stato lui l'inuentore.
E si vede che questo rovesciarsi l'uno sull'altro la colpa principale, non era tanto per diminuire ognuno la sua, quanto per sottrarsi all'impegno di spiegar cose che non erano spiegabili.
E dopo una risposta simile, g'intimarono che per hauer lui Constituto fatto la suddetta compositione et unguento, di concerto del detto Commissario, et a lui doppo dato per ontare le muraglie delle case, nel modo et forma da lui Constituto et dal detto Commissario, deposto, a fine di far morire la gente, si come il detto Commissario ha confessato d'hauere per tal fine eseguito, esso Constituto si fa reo d'hauer procurato in tal modo la morte della gente, et che per hauer così fatto, sij incorso nelle pene imposte dalle leggi a chi procura et tenta di così fare.
Ricapitoliamo.
I giudici dicono al Mora: come è possibile che vi siate determinati a commettere un tal delitto, per un tal interesse? Il Mora risponde: il commissario lo deve sapere, per sé, e per me: domandatene a lui.
Li rimette a un altro, per la spiegazione d'un fatto dell'animo suo, perché possan chiarirsi come un motivo sia stato sufficiente a produrre in lui una deliberazione.
E a qual altro? A uno che non ammetteva un tal motivo, poiché attribuiva il delitto a tutt'altra cagione.
E i giudici trovano che la difficoltà è sciolta, che il delitto confessato dal Mora è diventato verisimile; tanto che ne lo costituiscono reo.
Non poteva esser l'ignoranza quella che faceva loro vedere inverisimiglianza in un tal motivo; non era la giurisprudenza quella che li portava a fare un tal conto delle condizioni trovate e imposte dalla giurisprudenza.
Cap.5
L'impunità e la tortura avevan prodotto due storie; e benché questo bastasse a tali giudici per proferir due condanne, vedremo ora come lavorassero e riuscissero, per quanto era possibile, a rifonder le due storie in una sola.
Vedremo poi, in ultimo, come mostrassero, col fatto, d'esser persuasi essi medesimi, anche di questa.
Il senato confermò e estese la decisione de' suoi delegati.
«Sentito ciò che risultava dalla confessione di Giangiacomo Mora, riscontrate le cose antecedenti, considerato ogni cosa,» meno l'esserci, per un solo delitto, due autori principali diversi, due diverse cagioni, due diversi ordini di fatti, «ordinò che il Mora suddetto...
fosse di nuovo interrogato diligentissimamente, però senza tortura, per fargli spiegar meglio le cose confessate, e ricavar da lui gli altri autori, mandanti, complici del delitto; e che dopo l'esame fosse costituito reo, con la narrativa del fatto, d'aver composto l'unguento mortifero, e datolo a Guglielmo Piazza; e gli fosse assegnato il termine di tre giorni per far le sue difese.
E in quanto al Piazza, fosse interrogato se aveva altro da aggiungere alla sua confessione, la quale si trovava mancante; e, non n'avendo, fosse costituito reo d'avere sparso l'unguento suddetto, e assegnatogli il medesimo termine per le difese.» Cioè: vedete di cavar dall'uno e dall'altro quello che si potrà: a ogni modo, sian costituiti rei, ognuno sulla sua confessione, benché siano due confessioni contrarie.
Cominciaron dal Piazza, e in quel giorno medesimo.
Da aggiungere, lui non aveva nulla, e non sapeva che n'avevan loro; e forse, accusando un innocente, non aveva preveduto che si creava un accusatore.
Gli domandano perché non ha deposto d'aver dato al barbiere della bava d'appestati, per comporre l'unguento.
Non gli ho dato niente, risponde; come se quelli che gli avevan creduta la bugia, dovessero credergli anche la verità.
Dopo un andirivieni d'altre interrogazioni, gli protestano che, per non hauer detta la verità intera, come hauea promesso, non può né deue godere della impunità che se gli era promessa.
Allora dice subito: Signore, è vero che il suddetto Barbiero mi ricercò a portargli quella materia, et io glie la portai, per fare il detto onto.
Sperava, con l'ammetter tutto, di ripescar la sua impunità.
Poi, o per farsi sempre più merito, o per guadagnar tempo, soggiunse che i danari promessigli dal barbiere dovevan venire da una persona grande, e che l'aveva saputo dal barbiere medesimo, ma senza potergli mai cavar di bocca chi fosse.
Non aveva avuto tempo d'inventarla.
Ne domandarono al Mora, il giorno dopo; e probabilmente il poverino l'avrebbe inventata lui, come avrebbe potuto, se fosse stato messo alla tortura.
Ma, come abbiam visto, il senato l'aveva esclusa per quella volta, affine, si vede, di render meno sfrontatamente estorta la nuova ratificazione che volevano della sua confessione antecedente.
Perciò, interrogato se lui Constituto fu il primo a ricercare il detto Commissario...
et gli promise quantità de danari; rispose: Signor no; e doue vole V.S.
che pigli mi (io) questa quantità de danari? Potevano infatti rammentarsi che, nella minutissima visita fattagli in casa quando l'arrestarono, il tesoro che gli avevan trovato, era un baslotto (una ciotola), con dentro cinque parpagliole (dodici soldi e mezzo).
Domandato della persona grande, rispose: V.S.
non vole già se non la verità, e la verità io l'ho detta quando sono stato tormentato, et ho detto anche d'avantaggio.
Ne' due estratti non è fatto menzione che abbia ratificata la confessione antecedente; se, come è da credere, glielo fecero fare, quelle parole erano una protesta, della quale lui forse non conosceva la forza; ma essi la dovevan conoscere.
E del rimanente, da Bartolo, anzi dalla Glossa, fino al Farinacci, era stata, ed era sempre dottrina comune, e come assioma della giurisprudenza, che «la confessione fatta ne' tormenti che fossero dati senza indizi legittimi, rimaneva nulla e invalida, quand'anche fosse poi ratificata mille volte senza tormenti: etiam quod millies sponte sit ratificata(76) ».
Dopo di ciò, fu a lui e al Piazza pubblicato, come allora si diceva, il processo (cioè comunicati gli atti), e dato il termine di due giorni a far le loro difese: e non si vede perché uno di meno di quello che aveva decretato il senato.
Fu all'uno e all'altro assegnato un difensore d'ufizio: quello assegnato al Mora se ne scusò.
Il Verri attribuisce, per congettura, quel rifiuto a una cagione che pur troppo non è strana in quel complesso di cose.
«Il furore», dice, «era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante il difender questa disgraziata vittima.(77) » Ma nell'estratto stampato, che il Verri non doveva aver visto, è registrata la cagion vera, forse non meno strana, e, da una parte, anche più trista.
Lo stesso giorno, due di luglio, il notaio Mauri, chiamato a difendere il detto Mora, disse: io non posso accettare questo carico, perché, prima sono Notaro criminale, a chi non conviene accettar patrocinij, et poi anche perché non sono né Procuratore, né Avocato; anderò bene a parlarli, per darli gusto (per fargli piacere), ma non accettarò il patrocinio.
A un uomo condotto ormai appiè del supplizio (e di qual supplizio! e in qual maniera!), a un uomo privo d'aderenze, come di lumi, e che non poteva aver soccorso se non da loro, o per mezzo loro, davano per difensore uno che mancava delle qualità necessarie a un tal incarico, e n'aveva delle incompatibili! Con tanta leggerezza procedevano! mettiam pure che non c'entrasse malizia.
E toccava a un subalterno a richiamarli all'osservanza delle regole più note, e più sacrosante!
Tornato, disse: sono stato dal Mora, il quale mi ha detto liberamente che non ha fallato, et che quello che ha detto, l'ha detto per i tormenti; et perché gli ho detto liberamente che non voleuo né poteuo sostener questo carico di diffenderlo, mi ha detto che almeno il Sig.
Presidente sij servito (si degni) di prouederli d'un diffensore, et che non voglia permettere che habbi da morire indiffeso. Di tali favori, e con tali parole, l'innocenza supplicava l'ingiustizia! Gliene nominarono infatti un altro.
Quello assegnato al Piazza, «comparve e chiese a voce che gli fosse fatto vedere il processo del suo cliente; e avutolo, lo lesse».
Era questo il comodo che davano alle difese? Non sempre, poiché l'avvocato del Padilla, che divenne, come or ora vedremo, il concreto della persona grande buttata là in astratto e in aria, ebbe a sua disposizione il processo medesimo, tanto da farne copiar quella buona parte che è venuta per quel mezzo a nostra notizia.
Sullo spirar del termine, i due sventurati chiesero una proroga: «il senato concesse loro tutto il giorno seguente, e non più: et non ultra».
Le difese del Padilla furon presentate in tre volte: una parte il 24 di luglio 1631; la quale «fu ammessa senza pregiudizio della facoltà di presentar più tardi il rimanente»; l'altra il 13 d'aprile 1632; e l'ultima il 10 di maggio dell'anno medesimo: era allora arrestato da circa due anni.
Lentezza dolorosa davvero, per un innocente; ma, paragonata alla precipitazione usata col Piazza e col Mora, per i quali non fu lungo che il supplizio, una tal lentezza è una parzialità mostruosa.
Quella nuova invenzione del Piazza sospese però il supplizio per alcuni giorni, pieni di bugiarde speranze, ma insieme di nuove crudeli torture, e di nuove funeste calunnie.
L'auditore della Sanità fu incaricato di ricevere, in gran segreto, e senza presenza di notaio, una nuova deposizione di costui; e questa volta fu lui che promosse l'abboccamento, per mezzo del suo difensore, facendo intendere che aveva qualcosa di più da rivelare intorno alla persona grande.
Pensò probabilmente che, se gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla fuga, così larga all'entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un tal rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli.
E siccome, tra le molte e varie congetture ch'eran girate per le bocche della gente, intorno agli autori di quel funesto imbrattamento del 18 di maggio (ché la violenza del giudizio fu dovuta in gran parte all'irritazione, allo spavento, alla persuasione prodotta da quello: e quanto i veri autori di esso furon più colpevoli di quello che conoscessero loro medesimi!), s'era anche detto che fossero ufiziali spagnoli, così lo sciagurato inventore trovò anche qui qualcosa da attaccarsi.
L'esser poi il Padilla figliuolo del comandante del castello, e l'aver quindi un protettor naturale, che, per aiutarlo, avrebbe potuto disturbare il processo, fu probabilmente ciò che mosse il Piazza a nominar lui piuttosto che un altro: se pure non era il solo ufiziale spagnolo che conoscesse, anche di nome.
Dopo l'abboccamento, fu chiamato a confermar giudizialmente la sua nuova deposizione.
Nell'altra aveva detto che il barbiere non gli aveva voluto nominar la persona grande.
Ora veniva a sostenere il contrario; e per diminuire, in qualche maniera, la contradizione, disse che non gliel'aveva nominata subito.
Finalmente mi disse doppo il spatio di quattro o cinque giorni, che questo capo grosso era un tale di Padiglia, il cui nome non mi raccordo, benché me lo disse; so bene, et mi raccordo precisamente che disse esser figliolo del Sig.
Castellano nel Castello di Milano.
Danari, però, non solo non disse d'averne ricevuti dal barbiere, ma protestò di non saper nemmeno se questo n'avesse avuti dal Padilla.
Fu fatta sottoscrivere al Piazza questa deposizione, e spedito subito l'auditore della Sanità a comunicarla al governatore, come riferisce il processo; e sicuramente a domandargli se consentirebbe, occorrendo, a consegnare all'autorità civile il Padilla, ch'era capitano di cavalleria, e si trovava allora all'esercito, nel Monferrato.
Tornato l'auditore, e fatta subito confermar di nuovo la deposizione al Piazza, s'andò di nuovo addosso all'infelice Mora.
Il quale, all'istanze per fargli dire che lui aveva promesso danari al commissario, e confidatogli che aveva una persona grande, e dettogli finalmente chi fosse, rispose: non si trouarà mai in eterno: se io lo sapessi, lo direi, in conscienza mia. Si viene a un nuovo confronto, e si domanda al Piazza, se è vero che il Mora gli ha promesso danari, dichiarando che tutto ciò faceua d'ordine et commissione del Padiglia, figliolo del signor Castellano di Milano.
Il difensor del Padilla osserva, con gran ragione, che, «sotto pretesto di confronto», fecero così conoscere al Mora «quello che si desiderava dicesse».
Infatti, senza questo, o altro simil mezzo, non sarebbero certamente riusciti a fargli buttar fuori quel personaggio.
La tortura poteva bensì renderlo bugiardo, ma non indovino.
Il Piazza sostenne quel che aveva deposto.
E voi volete dir questo? esclamò il Mora.
Sì, che lo voglio dire, che è la verità, replicò lo sventurato impudente: et sono a questo mal termine per voi, et sapete bene che mi diceste questo sopra l'uschio della vostra bottega.
Il Mora, che aveva forse sperato di poter, con l'aiuto del difensore, mettere in chiaro la sua innocenza, e ora prevedeva che nuove torture gli avrebbero estorta una nuova confessione, non ebbe nemmeno la forza d'opporre un'altra volta la verità alla bugia.
Disse soltanto: patientia! per amor di voi, morirò.
Infatti, rimandato subito il Piazza, intimano a lui, che dica hormai la verità; e appena ha risposto: Signore, la verità l'ho detta; gli minacciano la tortura: il che si farà sempre senza pregiuditio di quello che è convitto, et confesso, et non altrimenti.
Era una formola solita; ma l'averla adoprata in questo caso fa vedere fino a che segno la smania di condannare gli avesse privati della facoltà di riflettere.
Come mai la confessione d'avere indotto il Piazza al delitto con la promessa de' danari che si avrebbero dal Padilla, poteva non far pregiudizio alla confessione d'essersi lasciato indurre al delitto dal Piazza, per la speranza di guadagnar col preservativo?
Messo alla tortura, confermò subito tutto quello che aveva detto il commissario; ma non bastando questo ai giudici, disse che infatti il Padilla gli aveva proposto di fare un ontione da ongere le Porte et Cadenazzi, promessigli danari quanti ne volesse, datigliene quanti n'aveva voluti.
Noi altri, che non abbiamo, né timor d'unzioni, né furore contro untori, né altri furiosi da soddisfare, vediamo chiaramente, e senza fatica, come sia venuta, e da che sia stata mossa una tal confessione.
Ma, se ce ne fosse bisogno, n'abbiamo anche la dichiarazione di chi l'aveva fatta.
Tra le molte testimonianze che il difensor del Padilla poté raccogliere, c'è quella d'un capitano Sebastiano Gorini, che si trovava, in quel tempo (non si sa per qual cagione) nelle stesse carceri, e che parlava spesso con un servitore dell'auditor della Sanità, stato messo per guardia a quell'infelice.
Depone così: «mi disse detto servitore, sendo se non (appena) all'hora stato detto Barbiere rimenato dall'esame: V.S.
non sa che il Barbiere m'ha detto adesso adesso, che nell'esame che ha fatto, ha dato fuori (buttato fuori) il Sig.
Don Gioanni figliolo del Sig.
Castellano? Et io, ciò sentendo, restai stupito, et li dissi: è vero questo? Et esso servitore mi replicò che era vero; ma che era anche vero che lui protestava di non raccordarsi di non hauer forsi mai parlato con alcuno spagnuolo, et che se li hauessero mostrato detto Sig.
Don Gioanni, non l'haurebbe né anche conosciuto.
Et soggiongendo, esso servitore, disse: io li dissi perché dunque lo haueua dato fuori? et lui disse che l'haueua dato fuori per hauerlo sentito nominare là, et che perciò rispondeua a tutto quello che sentiva, o che li veniua così in bocca.» Questo valse (e ne sia ringraziato il cielo) a favor del Padilla; ma vogliam noi credere che i giudici, i quali avevan messo, o lasciato mettere per guardia al Mora un servitore di quell'auditor così attivo, così investigatore, non risapessero, se non tanto tempo dopo, e accidentalmente da un testimonio, quelle parole così verisimili, dette senza speranza, un momento dopo quelle così strane che gli aveva estorte il dolore?
E perché, tra tante cose dell'altro mondo, parve strana anche ai giudici quella relazione tra il barbier milanese e il cavaliere spagnolo; e domandarono chi c'era stato di mezzo, alla prima disse ch'era stato uno de' suoi, fatto e vestito così e così.
Ma incalzato a nominarlo, disse: Don Pietro di Saragoza.
Questo almeno era un personaggio immaginario.
Ne furon poi fatte (dopo il supplizio del Mora, s'intende) le più minute e ostinate ricerche.
S'interrogarono soldati e ufiziali, compreso il comandante stesso del castello, don Francesco de Vargas, succeduto allora al padre del Padilla: nessuno l'aveva mai sentito nominare.
Se non che si trovò finalmente, nelle carceri del podestà, un Pietro Verdeno, nativo di Saragozza, accusato di furto.
Costui, esaminato, disse che in quel tempo era a Napoli; messo alla tortura, sostenne il suo detto; e non si parlò più di Don Pietro di Saragozza.
Sempre incalzato da nuove domande, il Mora aggiunse che lui aveva poi fatto la proposta al commissario, il quale aveva anche lui avuto danari per questo, da non so chi. E certo non lo sapeva; ma vollero saperlo i giudici.
Lo sventurato, rimesso alla tortura, nominò pur troppo una persona reale, un Giulio Sanguinetti, banchiere: «il primo venuto in mente all'uomo che inventava per lo spasimo(73) ».
Il Piazza, che aveva sempre detto di non aver ricevuto danari, interrogato di nuovo, disse subito di sì.
(Il lettore si rammenterà, forse meglio de' giudici, che, quando visitaron la casa di costui, danari gliene trovaron meno che al Mora, cioè punto.) Disse dunque d'averne avuti da un banchiere; e non avendogli i giudici nominato il Sanguinetti, ne nominò lui un altro: Girolamo Turcone.
E questo e quello e vari loro agenti furono arrestati, esaminati, messi alla tortura; ma, stando fermi a negare, furon finalmente rilasciati.
Il 21 di luglio, furono al Piazza e al Mora comunicati gli atti posteriori alla ripresa del processo, e dato un nuovo termine di due giorni a far le loro difese.
L'uno e l'altro scelsero questa volta un difensore, col consiglio probabilmente di quelli ch'erano stati loro assegnati d'ufizio.
Il 23 dello stesso mese, fu arrestato il Padilla; cioè, come è attestato nelle sue difese, gli fu detto dal commissario generale della cavalleria, che, per ordine dello Spinola, dovesse andare a costituirsi prigioniero nel castello di Pomate; come fece.
Il padre, e si rileva dalle difese medesime, fece istanza, per mezzo del suo luogotenente, e del suo segretario, perché si sospendesse l'esecuzione della sentenza contro il Piazza e il Mora, fin che fossero stati confrontati con don Giovanni.
Gli fu fatto rispondere «che non si poteva sospendere, perché il popolo esclamava...» (eccolo nominato una volta quel civium ardor prava jubentium; la sola volta che si poteva senza confessare una vergognosa e atroce deferenza, giacché si trattava dell'esecuzion d'un giudizio, non del giudizio medesimo.
Ma cominciava allora soltanto a esclamare il popolo? o allora soltanto cominciavano i giudici a far conto delle sue grida?) «...ma che in ogni caso il signor Don Francesco non si pigliasse fastidio, perché gente infame, com'erano questi duoi, non potevano col suo detto pregiudicare alla reputatione del signor Don Giovanni».
E il detto d'ognuno di que' due infami valse contro l'altro! E i giudici l'avevan tante volte chiamato verità! E nella sentenza medesima decretarono che, dopo l'intimazion di essa, fossero l'uno e l'altro tormentati di nuovo su ciò che riguardava i complici! E le loro deposizioni promossero torture, e quindi confessioni, e quindi supplizi; e se non basta, anche supplizi senza confessioni!
«Et così», conclude la deposizione del segretario suddetto, «tornassimo dal signor Castellano, et li facessimo la relatione di quant'era passato; et lui non disse altro, ma restò mortificato; la qual mortificatione fu tale, che fra pochi giorni se ne morse.»
Quell'infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo.
E se qualcosa potesse accrescer l'orrore, lo sdegno, la compassione, sarebbe il veder que' disgraziati, dopo l'intimazione d'una tal sentenza, confermare, anzi allargare le loro confessioni, e per la forza delle cagioni medesime che gliele avevano estorte.
La speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che quella mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma presenti e evitabili, li fecero, e ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone.
Così, con la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que' giudici, non solo a fare atrocemente morir degl'innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli.
Nelle difese del Padilla, si trovano, ed è un sollievo, le proteste che fecero della loro e dell'altrui innocenza, appena furono affatto certi di dover morire, e di non dover più rispondere.
Quel capitano citato poco fa, depose che, trovandosi vicino alla cappella dov'era stato messo il Piazza, lo sentì che «strepitava, et diceva che moriva al torto, et che era stato assassinato sotto promessa», e rifiutava il ministero di due cappuccini venuti per disporlo a morir cristianamente.
«Et in quanto a me,» soggiunge, «m'accorgei che lui haueua speranza che si douesse retrattare la sua causa...
et andai dal detto Commissario, pensando di far atto di carità col persuaderlo a disporsi a ben morire in gratia di Dio; come in effetto posso dire che mi riuscì; poiché li Padri non toccorono il punto che toccai io, qual fu che l'accertai di non hauer mai visto, né sentito dire che il Senato retrattasse cause simili, dopo seguita la condanna...
Finalmente tanto dissi, che s'acquietò...
et doppo che fu acquietato, diede alcuni sospiri, et poi disse come haueua dato fuori indebitamente molti innocenti.» Tanto lui, quanto il Mora, fecero poi stendere dai religiosi che gli assistevano una ritrattazion formale di tutte l'accuse che la speranza o il dolore gli avevano estorte.
L'uno e l'altro sopportarono quel lungo supplizio, quella serie e varietà di supplizi, con una forza che, in uomini vinti tante volte dal timor della morte e dal dolore; in uomini i quali morivan vittime, non di qualche gran causa, ma d'un miserabile accidente, d'un errore sciocco, di facili e basse frodi; in uomini che, diventando infami, rimanevano oscuri, e all'esecrazion pubblica non avevan da opporre altro che il sentimento d'un'innocenza volgare, non creduta, rinnegata tante volte da loro medesimi; in uomini (fa male il pensarci, ma si può egli non pensarci?) che avevano una famiglia, moglie, figliuoli, non si saprebbe intendere, se non si sapesse che fu rassegnazione: quel dono che, nell'ingiustizia degli uomini, fa veder la giustizia di Dio, e nelle pene, qualunque siano, la caparra, non solo del perdono, ma del premio.
L'uno e l'altro non cessaron di dire, fino all'ultimo, fin sulla rota, che accettavan la morte in pena de' peccati che avevan commessi davvero.
Accettar quello che non si potrebbe rifiutare! parole che possono parer prive di senso a chi nelle cose guardi soltanto l'effetto materiale; ma parole d'un senso chiaro e profondo per chi considera, o senza considerare intende, che ciò che in una deliberazione può esser più difficile, ed è più importante, la persuasion della mente, e il piegarsi della volontà, è ugualmente difficile, ugualmente importante, sia che l'effetto dipenda da esso, o no; nel consenso, come nella scelta.
Quelle proteste potevano atterrire la coscienza de' giudici; potevano irritarla.
Essi riusciron pur troppo a farle smentire in parte, nel modo che sarebbe stato il più decisivo, se non fosse stato il più illusorio; cioè col far che accusassero sé medesimi, molti che da quelle proteste erano stati così autorevolmente scolpati.
Di quest'altri processi toccheremo soltanto, come abbiam detto, qualcosa, e soltanto d'alcuni, per venire a quello del Padilla; cioè a quello che, come per l'importanza del reato è il principale, così, per la forma e per l'esito, è la pietra del paragone per tutti gli altri.
Cap.6
I due arrotini, sciaguratamente nominati dal Piazza, e poi dal Mora, erano stati imprigionati fino dal 27 di giugno; ma non furon mai confrontati, né con l'uno né con l'altro, e neppure esaminati, prima dell'esecuzione della sentenza, che fu il primo d'agosto.
L'undici fu esaminato il padre; il giorno dopo, messo alla tortura, col solito pretesto di contradizioni e d'inverisimiglianze, confessò, cioè inventò una storia, alterando, come il Piazza, un fatto vero.
Fecero l'uno e l'altro come que' ragni, che attaccano i capi del loro filo a qualcosa di solido, e poi lavoran per aria.
Gli avevan trovata un'ampolla d'un sonnifero datogli, anzi composto in casa sua, dal Baruello suo amico; disse ch'era un onto per fare che moressero la gente; un estratto di rospi e di serpi, con certe polvere che io non so che polvere siano.
Oltre il Baruello, nominò come complice qualche altra persona di comune conoscenza, e per capo il Padilla.
Avrebbero i giudici voluto attaccar questa storia a quella de' due che avevano assassinati, e far per ciò dire a costui, che aveva ricevuto da loro onto et danari.
Se avesse negato semplicemente, avevan la tortura; ma la prevenne con questa singolare risposta: Signor no, che non è vero; ma se mi date li tormenti perché io neghi questa particolarità, sarò forzato a dire che è vero, benché non sij. Non potevan più, senza farsi troppo apertamente beffe della giustizia e dell'umanità, adoprar come esperimento un mezzo del quale eran così solennemente avvertiti che l'effetto sarebbe certo.
Fu condannato a quel medesimo supplizio; dopo l'intimazion della sentenza, torturato, accusò un nuovo banchiere, e altri; in cappella, e sul patibolo, ritrattò ogni cosa.
Se di questo disgraziato, il Piazza e il Mora avessero detto solamente ch'era un poco di buono, si vede da vari fatti che saltan fuori nel processo, che non l'avrebbero calunniato.
Calunniaron però anche in questo, il suo figliuolo Gaspare; del quale è bensì riferito un fallo, ma è riferito da lui, e in tali momenti, e con tal sentimento, che ne risulta come una prova dell'innocenza e della rettitudine di tutta la sua vita.
Ne' tormenti, in faccia alla morte, le sue parole furon tutte meglio che da uom forte; furon da martire.
Non avendo potuto renderlo calunniator di sé stesso, né d'altri, lo condannarono (non si vede con quali pretesti) come convinto; e dopo l'intimazion della sentenza, l'interrogarono, come al solito, se aveva altri delitti, e chi erano i suoi compagni in quello per cui era stato condannato.
Alla prima domanda rispose: io non ho fatto né questo, né altri delitti; et moro perché una volta diedi d'un pugno sopra d'un occhio ad uno, mosso dalla collera.
Alla seconda: io non ho alcuni compagni, perché attendeuo a far li fatti miei; et se non l'ho fatto, non ho né anche hauuto compagni.
Minacciatagli la tortura, disse: V.S.
facci quello che vole, che non dirò mai quello che non ho fatto, né mai condannarò l'anima mia; et è molto meglio che patisca tre o quattro hore de tormenti, che andar nell'inferno a patire eternamente.
Messo alla tortura, esclamò nel primo momento: ah, Signore! non ho fatto niente: sono assassinato.
Poi soggiunse: questi tormenti forniranno presto; et al mondo di là bisogna starui sempre.
Furono accresciute le torture, di grado in grado, fino all'ultimo, e con le torture, l'istanze di dir la verità.
Sempre rispose: l'ho già detta; voglio saluar l'anima.
Dico che non voglio grauar la conscienza mia: non ho fatto niente.
Non si può qui far a meno di non pensare che se gli stessi sentimenti avessero data al Piazza la stessa costanza, il povero Mora sarebbe rimasto tranquillo nella sua bottega, tra la sua famiglia; e, al pari di lui, questo giovine ancor più degno d'ammirazione, che di compassione, e tant'altri innocenti non avrebbero nemmen potuto immaginarsi che spaventosa sorte sfuggivano.
Lui medesimo, chi sa? Certo per condannarlo, non confesso, e su que' soli indizi, e quando, non essendoci altre confessioni, il delitto stesso non era che una congettura, bisognava violare più svelatamente, più arditamente, ogni principio di giustizia, ogni prescrizion di legge.
A ogni modo, non potevano condannarlo a un più mostruoso supplizio; non potevano almeno farglielo soffrire in compagnia d'uno, guardando il quale dovesse dire ogni momento a sé stesso: l'ho condotto qui io.
Di tanti orrori fu cagione la debolezza...
che dico? l'accanimento, la perfidia di coloro che, riguardando come una calamità, come una sconfitta, il non trovar colpevoli, tentarono quella debolezza con una promessa illegale e frodolenta.
Abbiamo citato sopra l'atto solenne con cui una promessa simile fu fatta al Baruello, e abbiamo anche accennato di voler far vedere il conto diverso che i giudici ne facevano.
Per ciò principalmente racconterem qui in succinto la storia anche di questo meschino.
Accusato in aria, come s'è visto, prima dal Piazza d'essere un compagno del Mora, poi dal Mora d'essere un compagno del Piazza; poi dall'uno e dall'altro d'aver ricevuto danari per isparger l'unguento composto dal Mora con certe porcherie e peggio (e prima avevan protestato di non saper questo); poi dal Migliavacca, d'averne composto uno lui, con altre peggio che porcherie; costituito reo di tutte queste cose, come se ne facessero una, negò e sostenne bravamente i tormenti.
Mentre pendeva la sua causa, un prete (che fu un altro de' testimoni fatti citar dal Padilla), pregato da un parente di questo Baruello, lo raccomandò a un fiscale del senato; il quale venne poi a dirgli che il suo raccomandato era sentenziato a morte, con tutta quell'aggiunta di carnificine; ma insieme, che «il senato s'accontentava di proccurarli da S.E.
l'impunità».
E incaricò il prete che andasse a trovarlo, e vedesse di persuaderlo a dir la verità: «poiché il Senato vol sapere il fondamento di questo negocio, e pensa di saperlo da lui».
Dopo averlo condannato! e dopo quelle esecuzioni!
Il Baruello, sentita la crudele notizia, e la proposizione, disse: «faranno poi di me come hanno fatto del Commissario?» Avendogli il prete detto che la promessa gli pareva sincera, cominciò una storia: che un tale (il quale era morto) l'aveva condotto dal barbiere; e questo, alzato un telo del parato della stanza, che nascondeva un uscio, l'aveva introdotto in una gran sala, dov'eran molte persone a sedere, tra le quali il Padilla.
Al prete, che non aveva l'impegno di trovar de' rei, parvero cose strane; sicché l'interruppe, avvertendolo che badasse di non perdere il corpo e l'anima insieme; e se n'andò.
Il Baruello accettò l'impunità, corresse la storia; e comparso l'undici di settembre davanti ai giudici, raccontò loro che un maestro di scherma (vivo pur troppo) gli aveva detto esserci una buona occasione di diventar ricchi, facendo un servizio al Padilla; e l'aveva poi condotto sulla piazza del castello, dov'era arrivato il Padilla medesimo con altri, e l'aveva subito invitato ad essere uno di quelli che ungevano sotto i suoi ordini, per vendicar gl'insulti fatti a don Gonzalo de Cordova, nella sua partenza da Milano; e gli aveva dato danari, e un vasetto di quell'unto micidiale.
Dire che in questa storia, della quale qui accenniam soltanto il principio, ci fossero delle cose inverisimili, non sarebbe parlar propriamente; era tutto un monte di stravaganze, come il lettore ha potuto vedere da questo solo saggio.
Dell'inverisimiglianze però ce ne trovarono anche i giudici e, per di più, delle contradizioni: per ciò, dopo varie interrogazioni, seguite da risposte che imbrogliavan la cosa sempre più, gli dissero, che si esplichi meglio, perché si possa cavar cosa accertata da quello che dice.
Allora, o fosse un suo ritrovato per uscir d'impiccio in qualunque maniera, o fosse un vero accesso di frenesia, che ce n'era abbastanza cagioni, si mise a tremare, a storcersi, a gridare: aiuto! a voltolarsi per terra, a volersi nascondere sotto una tavola.
Fu esorcizzato, acquietato, stimolato a dire; e cominciò un'altra storia, nella quale fece entrare incantatori e circoli e parole magiche e il diavolo, ch'egli aveva riconosciuto per padrone.
Per noi basta l'osservare ch'eran cose nuove; e che, tra l'altre, ritrattò quello che aveva detto del vendicar l'ingiuria fatta a don Gonzalo, e asserì in vece che il fine del Padilla era di farsi padrone di Milano; e a lui prometteva di farlo uno de' primi.
Dopo varie interrogazioni, fu chiuso l'esame, se pure merita un tal nome; e dopo quello, n'ebbe tre altri; ne' quali, essendogli detto che il tal suo asserto non era verisimile, che il tal altro non era credibile, o rispose che infatti, la prima volta, non aveva detta la verità, o diede una spiegazione qualunque; e venendogli almen cinque volte buttata in faccia la deposizione del Migliavacca, in cui era accusato d'aver dato unguento da spargere ad altrettante persone delle quali, nella sua, non aveva parlato, rispose sempre che non era vero; e sempre i giudici passarono ad altro.
Il lettore che si rammenta come, alla prima inverisimiglianza che credettero bene di trovar nella deposizione del Piazza, lo minacciarono di levargli l'impunità; come alla prima aggiunta che fece a quella deposizione, al primo fatto allegato dal Mora contro di lui, e da lui negato, gliela levarono in effetto, per non hauer detta la verità intera, come haueua promesso; vedrà ancor più, se ce n'è bisogno, quanto servisse a coloro l'aver voluto piuttosto fare una giunteria al governatore, che chiedergli una facoltà, l'aver fatta una promessa in parole e di parole a quel Piazza, che doveva esser le primizie del sacrifizio offerto al furor popolare, e al loro.
Vogliam dir forse che sarebbe stata cosa giusta il mantener quell'impunità? Dio liberi! sarebbe come dire che colui aveva deposto un fatto vero.
Vogliam dir soltanto che fu violentemente ritirata, com'era stata illegalmente promessa; e che questo fu il mezzo di quello.
Del resto, non possiamo se non ripetere che non potevan far nulla di giusto nella strada che avevan presa, fuorché tornare indietro, fin ch'erano a tempo.
Quell'impunità (lasciando da parte la mancanza de' poteri) non avevano avuto il diritto di venderla al Piazza, come il ladro non ha il diritto di dar la vita al viandante: ha il dovere di lasciargliela.
Era un ingiusto supplimento a un'ingiusta tortura: l'una e l'altra volute, pensate, studiate dai giudici, piuttosto che far quello ch'era prescritto, non dico dalla ragione, dalla giustizia, dalla carità, ma dalla legge: verificare il fatto, facendolo spiegare alle due accusatrici, se pur la loro era accusa e non piuttosto congettura; lasciandolo spiegare all'imputato, se pur si poteva dire imputato; mettendo questo a confronto con quelle.
L'esito dell'impunità promessa al Baruello non si poté vedere, perché costui morì di peste il 18 di settembre, cioè il giorno dopo un confronto sostenuto impudentemente contro quel maestro di scherma, Carlo Vedano.
Ma quando sentì avvicinarsi la sua fine, disse a un carcerato che l'assisteva, e che fu un altro de' testimoni fatti citar dal Padilla: «fatemi a piacere di dire al Sig.
Podestà, che tutti quelli che ho incolpati gli ho incolpati al torto; et non è vero ch'io habbi chiapato danari dal figliuolo del Sig.
Castellano...
io ho da morire di questa infermità: prego quelli che ho incolpati al torto mi perdonino; et di gratia ditelo al Sig.
Podestà, se io ho d'andar saluo.
Et io subito», soggiunge il testimonio, «andai a referire al Sig.
Podestà quello che il Baruello m'haueua detto.»
Questa ritrattazione poté valere per il Padilla; ma il Vedano, il quale non era fin allora stato nominato che dal solo Baruello, fu atrocemente tormentato, quel giorno medesimo.
Seppe resistere; e fu lasciato stare (in prigione, s'intende) fino alla metà di gennaio dell'anno seguente.
Era, tra que' meschini, il solo che conoscesse davvero il Padilla, per aver tirato due volte di spada con lui, in castello; e si vede che questa circostanza fu quella che suggerì al Baruello di dargli una parte nella sua favola.
Non l'aveva però accusato d'aver composto, né sparso, né distribuito unguenti mortiferi; ma solamente d'essere stato di mezzo tra lui e il Padilla.
Non potevan quindi i giudici condannar come convinto un tale imputato, senza pregiudicar la causa di quel signore; e questo fu probabilmente quello che lo salvò.
Non fu interrogato di nuovo, se non dopo il primo esame del Padilla; e l'assoluzion di questo tirò dietro la sua.
Il Padilla, dal castello di Pizzighettone, dov'era stato trasferito, fu condotto a Milano il 10 di gennaio del 1631, e messo nelle carceri del capitano di giustizia.
Fu esaminato quel giorno medesimo; e se ci fosse bisogno d'una prova di fatto per esser certi che anche que' giudici potevano interrogar senza frodi, senza menzogne, senza violenze, non trovare inverisimiglianze dove non ce n'era, contentarsi di risposte ragionevoli, ammettere, anche in una causa d'unzioni venefiche, che un accusato potesse dir la verità, anche dicendo di no, si vedrebbe da questo esame, e dagli altri due che furon fatti al Padilla.
I soli che avessero deposto d'essersi abboccati con lui, il Mora e il Baruello, avevano anche indicati i tempi; il primo all'incirca, il secondo più precisamente.
Domandaron dunque i giudici al Padilla, quando fosse andato al campo: indicò il giorno; di dove fosse partito per andarci: da Milano; se a Milano fosse mai tornato in quell'intervallo: una volta sola, e c'era rimasto un giorno solo, che specificò ugualmente.
Non concordava con nessuna dell'epoche inventate dai due disgraziati.
Allora gli dicono, senza minacce, con buona maniera, che si metta a memoria se non si trovò in Milano nel tal tempo, nel tal altro: risponde ogni volta di no, rapportandosi sempre alla sua prima risposta.
Vengono alle persone, e ai luoghi.
Se aveva conosciuto un Fontana bombardiere: era il suocero del Vedano, e il Baruello l'aveva nominato come uno di quelli che s'eran trovati al primo abboccamento.
Risponde di sì.
Se conosceva il Vedano: di sì ugualmente.
Se sa dove sia la Vetra de' Cittadini e l'osteria de' sei ladri: era lì che il Mora aveva detto esser venuto il Padilla, condotto da don Pietro di Saragozza, a fargli la proposta d'avvelenar Milano.
Rispose che non conosceva né la strada, né l'osteria, neppur di nome.
Gli domandano di don Pietro di Saragozza: questo non solo non lo conosceva, ma era impossibile che lo conoscesse.
Gli domandano di certi due, vestiti alla francese; d'un cert'altro, vestito da prete: gente che il Baruello aveva detto esser venuti col Padilla all'abboccamento sulla piazza del castello.
Non sa di chi gli si parli.
Nel secondo esame, che fu l'ultimo di gennaio, gli domandan del Mora, del Migliavacca, del Baruello, d'abboccamenti avuti con loro, di danari dati, di promesse fatte; ma senza parlargli ancora della trama a cui tutto questo si riferiva.
Risponde che non ha mai avuto che far con costoro, che non gli ha mai nemmen sentiti nominare; replica che non era a Milano in que' diversi tempi.
Dopo più di tre mesi, consumati in ricerche dalle quali, come doveva essere, non si cavò il minimo costrutto, il senato decretò che il Padilla fosse costituito reo con la narrativa del fatto, pubblicatogli il processo, e datogli un termine alle difese.
In esecuzione di quest'ordine, fu chiamato ad un nuovo ed ultimo esame, il 22 di maggio.
Dopo varie domande espresse, su tutti i capi d'accusa, alle quali rispose sempre un no, e per lo più asciutto, vennero alla narrativa del fatto, cioè gli spiattellarono quella pazza novella, anzi quelle due.
La prima, che lui costituto aveva detto al barbiere Mora, vicino all'hostaria detta delli sei ladri, che facesse un ontione...
et che dovesse prender la detta ontione, et andar a bordegare (impiastrare); e che, in ricompensa, gli aveva dato molte doppie; e don Pietro di Saragozza, per suo ordine, aveva poi mandato il detto barbiere a riscotere altri danari dai tali e tali banchieri.
Ma questa è ragionevole in paragon dell'altra: che esso Sig.
Constituto aveva fatto chiamar sulla piazza del castello Stefano Baruello, gli aveva detto: buon giorno, Sig.
Baruello; è molto tempo che desideravo parlar con voi; e, dopo qualche altro complimento, gli aveva dato venticinque ducatoni veneziani, e un vaso d'unguento, dicendogli ch'era di quello che si faceva in Milano, ma che non era perfetto, e bisognava prendere delli ghezzi et zatti (de' ramarri e de' rospi) et del vino bianco, e metter tutto in una pentola, et farla bollire a concio a concio (adagino adagino), acciò questi animali possino morire arrabbiati.
Che un prete, qual viene nominato per Francese dal detto Baruello, e era venuto in compagnia del costituto, aveva fatto comparire uno in forma d'huomo, in habito di Pantalone, e fattolo al Baruello riconoscere per suo signore; e, scomparso che fu, il Baruello aveva domandato al costituto chi era colui, e quello gli aveva risposto ch'era il diavolo; e che, un'altra volta, lui costituto aveva dati al Baruello degli altri danari, e promessogli di farlo tenente della sua compagnia, se l'avesse servito bene.
A questo punto, il Verri (tanto un intento sistematico può far travedere anche i più nobili ingegni, e anche dopo che hanno veduto) conclude così: «Tale è la serie del fatto deposto contro il figlio del castellano, la quale, sebbene smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza e Baruello, che alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità), servì di base a un vergognosissimo(74) reato.» Ora, il lettore sa, e il Verri medesimo racconta che, di questi tre, due furon mossi a mentire dalle lusinghe dell'impunità, non dalla violenza della tortura.
Sentita quell'indegnissima filastrocca, il Padilla disse: di tutti questi huomini che V.S.
mi ha nominato, io non conosco altro che il Fontana et il Tegnone (era un soprannome del Vedano); et tutto quello che V.S.
ha detto che si legge in Processo per bocca di costoro, è la maggior falsità et mentita che si trouasse mai al mondo; né è da credere che un Cavagliero par mio hauesse, né trattato, né pensato attione tanto infame come è questa; et prego Dio et sua Santa Madre, se queste cose sono vere, che mi confondano adesso; et spero in Dio che farò conoscere la falsità di questi huomini, et che sarà palese al mondo tutto.
Gli replicarono, per formalità e senza insistenza, che si risolvesse di dir la verità; e gl'intimarono il decreto del senato che lo costituiva reo d'aver composto e distribuito unguento venefico, e assoldato de' complici.
Io mi meraviglio molto, riprese, che il Senato sij venuto a resoluttione così grande, vedendosi et trouandosi che questa è una mera impostura et falsità, fatta non solo a me, ma alla Giustitia istessa.
Come! un huomo di mia qualità, che ho speso la vita in seruitio di Sua Maestà, in diffesa di questo stato, nato da huomini che hanno fatto l'istesso, haueuo io da fare, né da pensar cosa che a loro, né a me portasse tanta nota et infamia? et torno a dire che questo è falso, et è la più grande impostura che ad huomo sij mai stata fatta.
Fa piacere il sentir l'innocenza sdegnata parlare un tal linguaggio; ma fa orrore il rammentarsi l'innocenza, davanti a quegli uomini stessi, spaventata, confusa, disperata, bugiarda, calunniatrice; l'innocenza imperterrita, costante, veridica, e condannata ugualmente.
Il Padilla fu assolto, non si sa quando per l'appunto, ma sicuramente più d'un anno dopo, poiché l'ultime sue difese furono presentate nel maggio del 1632.
E, certo, l'assolverlo non fu grazia; ma i giudici, s'avvidero che, con questo, dichiaravano essi medesimi ingiuste tutte le loro condanne? giacché non crederei che ce ne siano state altre, dopo quell'assoluzione.
Riconoscendo che il Padilla non aveva punto dato danari per pagar le sognate unzioni, si rammentaron degli uomini che avevan condannati per aver ricevuto danari da lui, per questo motivo? Si rammentarono d'aver detto al Mora che una tal cagione ha più del verisimile...
che non è per hauer occasione di vendere, lui Constituto il suo elettuario, et il Commissario d'hauer modo di più lavorare? Si rammentarono che, nell'esame seguente, persistendo lui a negarla, gli avevan detto che si troua pure essere la verità? Che avendola negata ancora, nel confronto col Piazza, gli avevan data la tortura, perché la confessasse, e un'altra tortura, perché la confessione estorta dalla prima diventasse valida? Che, d'allora in poi, tutto il processo era camminato su quella supposizione? Ch'era stata espressa, sottintesa in tutte le loro interrogazioni, confermata in tutte le risposte, come la cagione finalmente scoperta e riconosciuta, come la vera, l'unica cagion del delitto del Piazza, del Mora, e poi degli altri condannati? Che la grida pubblicata, pochi giorni dopo il supplizio di que' due primi, dal gran cancelliere, col parer del senato, li diceva «arrivati a stato tale d'empietà, di tradir per danari la propria Patria»? E vedendo finalmente svanir quella cagione (giacché nel processo non s'era mai fatto menzione d'altri danari che di quelli del Padilla), pensarono che del delitto non rimanevano altri argomenti che confessioni, ottenute nella maniera che loro sapevano, e ritrattate tra i sacramenti e la morte? confessioni, prima in contradizion tra loro, e ormai scoperte in contradizion col fatto? Assolvendo insomma, come innocente, il capo, conobbero che avevan condannati, come complici, degl'innocenti?
Tutt'altro, almeno per quel che comparve in pubblico: il monumento e la sentenza rimasero; i padri di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami; i figli che aveva resi così atrocemente orfani, rimasero legalmente spogliati.
E in quanto a quello che sia passato nel cuor de' giudici, chi può sapere a quali nuovi argomenti sia capace di resistere un inganno volontario, e già agguerrito contro l'evidenza? E dico un inganno divenuto più caro e prezioso che mai; giacché, se prima il riconoscerli innocenti era per que' giudici un perder l'occasione di condannare, ormai sarebbe stato un trovarsi terribilmente colpevoli; e le frodi, le violazioni della legge, che sapevano d'aver commesse, ma che volevan creder giustificate dalla scoperta di così empi e funesti malfattori, non solo sarebbero ricomparse nel loro nudo e laido aspetto di frodi e di violazioni della legge, ma sarebbero comparse come produttrici d'un orrendo assassinio.
Un inganno finalmente, mantenuto e fortificato da un'autorità sempre potente, benché spesso fallace, e in quel caso stranamente illusoria, poiché in gran parte non era fondata che su quella de' giudici medesimi: voglio dire l'autorità del pubblico che li proclamava sapienti, zelanti, forti, vendicatori e difensori della patria.
La colonna infame fu atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell'occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina Rosa,
L'infernal dea che alla eletta stava(75) ,
intonò il grido della carnificina: sicché non c'è più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa.
Allo sbocco di via della Vetra sul corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio dov'era quella del povero Mora.
Vediamo ora, se il lettore ha la bontà di seguirci in quest'ultima ricerca, come un giudizio temerario di colei, dopo aver tanto potuto sui tribunali, abbia, per loro mezzo, regnato anche ne' libri.
Cap.7
Tra i molti scrittori contemporanei all'avvenimento, scegliamo il solo che non sia oscuro, e che non n'abbia parlato a seconda affatto della credenza comune, Giuseppe Ripamonti, già tante volte citato.
E ci par che possa essere un esempio curioso della tirannia che un'opinion dominante esercita spesso sulla parola di quelli di cui non ha potuto assoggettar la mente.
Non solo non nega espressamente la reità di quegl'infelici (né, fino al Verri, ci fu chi lo facesse in uno scritto destinato al pubblico); ma pare più d'una volta che la voglia espressamente affermare; giacché, parlando del primo interrogatorio del Piazza, chiama «malizia» la sua, e «avvedutezza» quella de' giudici; dice che, «con le molte contradizioni, palesava il delitto nell'atto che voleva negarlo»; del Mora dice parimenti, che, «fin che poté reggere alla tortura, negava, al solito di tutti i rei, e che finalmente raccontò la cosa com'era: exposuit omnia cum fide».
E nello stesso tempo, cerca di fare intendere il contrario, accennando, timidamente e di fuga, qualche dubbio sulle circostanze più importanti; dirigendo, con una parola, la riflession del lettore al punto giusto; mettendo in bocca a qualche imputato parole più atte a dimostrar la sua innocenza, di quelle che aveva sapute trovar lui medesimo; mostrando finalmente quella compassione che non si prova se non per gl'innocenti.
Parlando della caldaia trovata in casa del Mora, dice: «fece principalmente grand'impressione una cosa forse innocente e accidentale, del resto schifosa, e che poteva parer qualcosa di quello che si cercava».
Parlando del primo confronto, dice che il Mora «invocava la giustizia di Dio contro una frode, contro una maligna invenzione, contro un'insidia nella quale si poteva far cadere qualunque innocente».
Lo chiama «sventurato padre di famiglia, che, senza saperlo, portava su quell'infausto capo l'infamia e la rovina sua e de' suoi».
Tutte le riflessioni che abbiamo esposte poco fa, e quelle di più che si posson fare, sulla contradizion manifesta tra l'assoluzion del Padilla, e la condanna degli altri, il Ripamonti le accenna con un vocabolo: «gli untori furon puniti ciò non ostante: unctores puniti tamen».
Quanto non dice quell'avverbio, o congiunzione che sia! E aggiunge: «la città sarebbe rimasta inorridita di quella mostruosità di supplizi, se tutto non fosse parso meno del delitto».
Ma il luogo dove fa intender più chiaramente il suo sentimento, è dove protesta di non volerlo dire.
Dopo aver raccontato vari casi di persone cadute in sospetto d'untori, senza che ne seguissero processi, «mi trovo», dice, «a un passo difficile e pericoloso, a dover dichiarare se, oltre quelli così a torto presi per untori, io creda che ci siano stati untori davvero...
Né la difficoltà nasce dall'incertezza della cosa, ma dal non essermi lasciata la libertà di far quello che pur si pretende da ogni scrittore, cioè ch'esprima i suoi veri sentimenti.
Ché se io dicessi che non ci furono untori, che senza ragione si va a immaginar malizia degli uomini in ciò che fu punizion di Dio, si griderebbe subito che la storia è empia, che l'autore non rispetta un giudizio solenne.
Tanto l'opinion contraria è radicata nelle menti, e la plebe credula al solito, e la nobiltà superba son pronti a difenderla, come quello che possano aver di più caro e di più sacro.
Mettersi in guerra con tanti, sarebbe un'impresa dura e inutile; e per ciò, senza negare, né affermare, né pender più da una parte che dall'altra, mi ristringerò a riferir l'opinioni altrui(76).» Chi domandasse se non sarebbe stata cosa più ragionevole, come più facile, il non parlarne affatto, sappia che il Ripamonti era istoriografo della città; cioè uno di quegli uomini, ai quali, in qualche caso, può essere comandato e proibito di scriver la storia.
Un altro istoriografo, ma in un campo più vasto, Batista Nani, veneziano, che in questo caso non poteva esser condotto da nessun riguardo a dire il falso, fu condotto a crederlo dall'autorità d'un'iscrizione e d'un monumento.
«Se ben veramente», dice, «l'immaginazione de' popoli, alterata dallo spavento, molte cose si figurava, ad ogni modo il delitto fu scoperto e punito, stando ancora in Milano l'iscrizioni e le memorie degli edifici abbattuti, dove que' mostri si congregavano.(77)» Chi, non conoscendo altro di quello scrittore, prendesse questo ragionamento per misura del suo giudizio, s'ingannerebbe di molto.
In varie ambascerie importanti, e in varie cariche domestiche, aveva avuto campo di conoscer gli uomini e le cose; e dà prova nella sua storia d'esserci non volgarmente riuscito.
Ma i giudizi criminali, e la povera gente, quand'è poca, non si riguardano come materia propriamente della storia; sicché, non c'è da maravigliarsi che, occorrendo al Nani di parlare incidentemente di quel fatto, non ci guardasse tanto per la minuta.
Se alcuno gli avesse citata un'altra colonna, e un'altra iscrizione di Milano, come prova d'una sconfitta ricevuta da' veneziani (sconfitta tanto vera, quanto il delitto di que' mostri), certo il Nani si sarebbe messo a ridere.
Fa più maraviglia e più dispiacere il trovar lo stesso argomento e gli stessi improperi, in uno scritto d'un uomo molto più celebre, e con gran ragione.
Il Muratori, nel «Trattato del governo della peste», dopo avere accennato diverse storie di quel genere, «ma nessun caso», dice, «è più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630, furono prese parecchie persone, che confessarono un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate.
Ne esiste tuttavia (e l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame posta ov'era la casa di quegli inumani carnefici.
Il perché grande attenzion ci vuole affinché non si rinnovassero più simili esecrande scene.» E quello che, non toglie il dispiacere, ma lo muta, è il veder che la persuasione del Muratori non era così risoluta come queste sue parole.
Ché, venendo poi a discorrere (e si vede che è ciò che gli preme davvero) de' mali orribili che posson nascere dal figurarsi e dal credere tali cose senza fondamento, dice: «si giunge ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli».
Non par egli che voglia alludere ai nostri disgraziati? E quello che lo fa creder di più, è che attacca subito con quelle parole che abbiam già citate nello scritto antecedente, e che, per esser poche, trascriviam qui di nuovo: «Ho trovato gente savia in Milano, che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città, e fecero tanto strepito nella peste del 1630(78) .» Non si può, dico, fare a meno di non sospettare che il Muratori credesse piuttosto sciocche favole quelle che chiama «esecrande scene», e (ciò che è più grave) innocenti assassinati quelli che chiama «inumani carnefici».
Sarebbe uno di que' casi tristi e non rari, in cui uomini tutt'altro che inclinati a mentire, volendo levar la forza a qualche errore pernicioso, e temendo di far peggio col combatterlo di fronte, hanno creduto bene di dir prima la bugia, per poter poi insinuare la verità.
Dopo il Muratori, troviamo uno scrittore più rinomato di lui come storico, e (ciò che in un fatto di questa sorte parrebbe dover rendere il suo giudizio più degno d'osservazione di qualunque altro) storico giureconsulto, e, come dice di sé medesimo, «più giureconsulto che politico(79) », Pietro Giannone.
Noi però non riferiremo questo giudizio, perché è troppo poco che l'abbiam riferito: è quello del Nani che il lettore ha veduto poco fa, e che il Giannone ha copiato, parola per parola, citando questa volta il suo autore appiè di pagina(80).
Dico: questa volta; perché il copiarlo che ha fatto senza citarlo, è cosa degna d'esser notata, se, come credo, non lo fu ancoral(81)i .
Il racconto, per esempio, della sollevazione della Catalogna, e della rivoluzione del Portogallo, nel 1640 è, nella storia del Giannone, trascritto da quella del Nani, per più di sette pagine in 4°, con pochissime omissioni, o aggiunte, o variazioni, la più considerabile delle quali è d'aver diviso in capitoli e in capoversi un testo che nello scritto originale andava tutto di seguito(82).
Ma chi mai s'immaginerebbe che l'avvocato napoletano, dovendo raccontare altre sollevazioni, non di Barcellona, né di Lisbona, ma quella di Palermo, del 1647, e quella di Napoli, contemporanea e più celebre, per la singolarità e per l'importanza degli avvenimenti, e per Masaniello, non trovasse da far meglio, né da far più che di prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta, dall'opera del cavaliere e procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a pensare soprattutto dopo aver lette le parole con le quali il Giannone entra in quel racconto? e son queste: «Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più autori: alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura: altri con troppo sottili minuzie distraendo i leggitori, non ne fecero nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento, ed il fine: noi per ciò, seguendo gli scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla lor giusta e natural positura.» Eppure ognuno può vedere, facendo il confronto, come, subito dopo queste sue parole, il Giannone metta mano a quelle del Nani(83) , frammischiandoci ogni tanto, e specialmente sul principio, qualcheduna delle sue, facendo qua e là qualche cambiamento, alle volte per necessità, e nella stessa maniera che uno, il qual compri biancheria usata, leva il segno dell'antico padrone, e ci mette il suo.
Così, dove il veneziano dice: «in quel regno», il napoletano sostituisce: «in questo regno»; dove il contemporaneo dice che vi «restano le fazioni quasi che intiere», il postero, che vi «restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni».
È vero che, oltre queste piccole aggiunte o variazioni, si trovano anche in quel lunghissimo squarcio, come pezzi messi a rimendo, alcuni brani più estesi, che non son del Nani.
Ma, cosa veramente da non credersi, son presi da un altro quasi tutti, e quasi parola per parola: è roba di Domenico Parrino(84) , scrittore (alla rovescia di molt'altri) oscuro, ma letto molto, e fors'anche più di quello che sperava lui medesimo, se, in Italia e fuori, è letta quanto lodata la «Storia civile del regno di Napoli», che porta il nome di Pietro Giannone.
Ché, senza allontanarci da que' due periodi di storia de' quali s'è fatto qui menzione, se, dopo le sollevazioni catalana e portoghese, il Giannone, trascrive dal Nani la caduta del favorito Olivares, trascrive poi dal Parrino il richiamo del duca di Medina vicerè di Napoli, che ne fu la conseguenza, e i ritrovati di questo per cedere il più tardi che fosse possibile il posto al successore Enriquez de Cabrera.
Dal Parrino ugualmente, in gran parte, il governo di questo; e poi dall'uno e dall'altro, a intarsiatura, il governo del duca d'Arcos, per tutto quel tempo che precedette le sollevazioni di Palermo e di Napoli, e come abbiam detto, il progresso e la fine di queste, sotto il governo di D.
Giovanni d'Austria, e del conte d'Oñatte.
Poi dal Parrino solo, sempre a lunghi pezzi, o a pezzettini frequenti, la spedizione di quel vicerè contro Piombino e Portolongone; poi il tentativo del duca di Guisa contro Napoli; poi la peste del 1656.
Poi dal Nani la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola appendice dove sono accennati gli effetti di essa nel regno di Napoli(85).
Voltaire, parlando, nel «Secolo di Luigi XIV», de' tribunali istituiti da quel re, in Metz e in Brisac, dopo la pace di Nimega, per decidere delle sue proprie pretensioni sopra territori di stati vicini, nomina, in una nota, il Giannone con gran lode, com'era da aspettarsi, ma per fargli una critica.
Ecco la traduzione di quella nota: «Giannone, così celebre per la sua utile storia di Napoli, dice che questi tribunali erano stabiliti a Tournay.
Sbaglia frequentemente negli affari che non son del suo paese.
Dice, per esempio, che, a Nimega, Luigi XIV fece la pace con la Svezia; e in vece questa era sua alleata(86) .» Ma, lasciando da parte la lode, la critica, in questo caso, non è dovuta al Giannone, il quale, come in tant'altri casi, non fece nemmen la fatica di sbagliare.
È vero che nel libro dell'uomo «così celebre», si leggono queste parole: «Seguì poscia la pace fra la Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore» (nelle quali, del rimanente, non saprei se non ci sia ambiguità piuttosto che errore); e quest'altre: «Aprirono poscia», i francesi, «due tribunali, l'uno in Tournay, e l'altro in Metz; ed arrogandosi una giurisdizione non mai udita nel mondo sopra i principi lor vicini, fecero non solamente aggiudicare alla Francia, con titolo di dipendenze, tutto il paese che saltò loro in capriccio ne' confini della Fiandra e dell'Imperio, ma se ne posero per via di fatto in possessione, costringendo gli abitanti a riconoscere il re Cristianissimo per sovrano, prescrivendo termini, ed esercitando tutti quegli atti di signoria che sono soliti i principi di praticare co' sudditi.» Ma son parole di quel povero ignorato Parrino(87) , e non già stralciate da quel suo pezzo di storia, ma portate via insieme con esso: ché spesso il Giannone, in vece di star lì a cogliere un frutto qua e uno là, leva l'albero addirittura, e lo trapianta nel suo giardino.
Tutta, si può dire, la relazion della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran parte, e con molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in Napoli del marchese de los Veles, nel tempo del quale quella pace fu conclusa, e col quale il Parrino chiude la sua opera, e il Giannone il penultimo libro della sua.
E probabilmente (stavo per dir di certo), chi si divertisse a farne il confronto intero, per tutto il periodo antecedente della dominazione spagnola in Napoli, con la quale comincia il lavoro del Parrino, troverebbe per tutto, quello che noi abbiam trovato in varie parti, e, se non m'inganno, senza veder mai citato il nome di quel tanto saccheggiato scrittore(88) .
Così dal Sarpi, senza citarlo punto, prende il Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua digressione; come mi fu fatto osservare da una dotta e gentile persona.
E chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice un fenomeno.
Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente rara, come fu raro il coraggio; ma unica la felicità di restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un grand'uomo.
E questa circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci faccia perdonare dal benigno lettore una digressione(89) , lunga, per dir la verità, in una parte accessoria d'un piccolo scritto.
Chi non conosce il frammento del Parini sulla colonna infame? Ma chi non si maraviglierebbe di non vederne fatta menzione in questo luogo?
Ecco dunque i pochi versi di quel frammento ne' quali il celebre poeta fa pur troppo eco alla moltitudine e all'iscrizione:
Quando, tra vili case e in mezzo a poche
Rovine, i' vidi ignobil piazza aprirsi.
Quivi romita una colonna sorge
In fra l'erbe infeconde e i sassi e il lezzo,
Ov'uom mai non penetra, però ch'indi
Genio propizio all'insubre cittade
Ognun rimove, alto gridando: lungi,
O buoni cittadin, lungi, che il suolo
Miserabile infame non v'infetti.
Era questa veramente l'opinion del Parini? Non si sa; e l'averla espressa, così affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perché allora era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre un'impressione, o forte, o piacevole.
Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva nascere, perché i poeti, nessun credeva che dicessero davvero.
Non c'è da replicare: solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e del motivo.
Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che richiese per degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente abborriti, una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda.
Ma che? le sue «Osservazioni», scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804, con altre sue opere, edite e inedite, nella raccolta degli «Scrittori classici italiani d'economia politica».
E l'editore rende ragione di questo ritardo, nelle «Notizie» premesse all'opere suddette.
«Si credette», dice, «che l'estimazione del senato potesse restar macchiata dall'antica infamia.» Effetto comunissimo, a que' tempi, dello spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che non aveva fatti.
Ora un tale spirito non troverebbe l'occasione d'estendersi tanto nel passato, giacché, in quasi tutto il continente d'Europa, i corpi son di data recente, meno pochi, meno uno soprattutto, il quale, non essendo stato istituito dagli uomini, non può essere né abolito, né surrogato.
Oltre di ciò, questo spirito è combattuto e indebolito più che mai dallo spirito d'individualità: l'io si crede troppo ricco per accattar dal noi.
E in questa parte, è un rimedio; Dio ci liberi di dire: in tutto.
A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la manifestazione d'una verità resa importante dal credito in cui era l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire; ma c'era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto.
Il padre dell'illustre scrittore era presidente del senato.
Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta.
(1) Ut mos vulgo, quamvis falsis, reum subdere, Tacit.
Ann.
I, 39.
(2) Verri, Osservazioni sulla tortura, § VI.
(3) Staututa criminalia; Rubrica generalis de forma citiationis in criminalibus; De tormentis, seu quaestionibus.
(4) Cod.
Lib.
IX; Tit.
XLI, De quaestionibus, 1.
8.
(5) Verri, Osservazioni sulla tortura, § XIII.
(6) La pratica criminale dell'Inghilterra, non cercando la prova del delitto o dell'innocenza nell'interrogatorio del reo, escluse indirettamente, ma necessariamente, quel mezzo fallace e crudele d'aver la sua confessione.
Francesco Casoni (De tormentis, cap, I, 3) e Antonio Gomez (Variarum resolutionum etc., tom.
3, cap.
13, de tortura reorum cap.
4) attestano che, almeno al loro tempo, la tortura non era in uso nel regno d'Aragona.
Giovanni Loccenio (Synopsis juris Sueco-gothici), citato da Ottone Taber (Tractat.
de tortura, et indiicis delictorum, cap.
2, 18) attesta il medesimo della Svezia; né so se alcun altro paese d'Europa sia andato immune da quel vergognoso flagello, o se ne sia liberato prima del secolo scorso.
(7) Verri, Oss.
§ VIII.
- Farin.
Praxis et Theor.
criminalis, Quaest.
XXXVIII, 56.
(8) Fran.
a Bruno, De indiciis et tortura, part.
II, quaest.
II, 7.
(9) Guid.
de Suza, De Tormentis, 1.
- Cod.
IX, tit.
4, De custodia reorum; 1.
(10) Baldi, ad lib.
IX Cod.
tit XIV, De emendatione servorum, 3.
(11) Par.
de Puteo, De syndicatu; in verbo: Crudelitas officialis, 5.
(12) J.
Clari, Sementiarum receptarum, Lib V, § fin.
Quaest.
LXIV, 36.
(13) Gomez, Variar.
resol.
t.
3, c.
13, De tortura reorum, 5.
(14) Oss.
§ XIII.
(15) Hipp.
de Marsiliis, ad Tit.
Dig.
de quaestionibus; leg.
In criminibus, 29.
(16) Praxis, etc.
Quaest.
XXXVIII, 54.
(17) Pratica causarum criminalium; in verbo: Expedita; 86.
(18) Quaest.
XXXVIII, 38.
(19) Oss.
§ VIII.
(20) Sent.
rec.
lib.
V, quaest, LXIV, 12.
Venet.
1640; ex typ.
Barietana, p.
537.
(21) Ven.
apud Hier.
Polum, 1580, f.
172 - Ibid.
apud P.
Ugolinum, 1595.
f.
180.
(22) Verri, loc.
cit.
- Clar, loc.
cit.
13.
(23) Ibid., Quaest.
XXXI, 9.
(24) Bartol.
ad Dig.
lib.
XLVIII, tit.
XVIII, I.
22.
(25) Et generaliter omne quod non determinatur a iure, relinquitur arbitrio iudicantis.
De tormentis, 30.
(26) Et deo lex super indiciis gravat coscientias iudicum.
De Syndicatu, in verbo: Mandavit, 18.
(27) Ægid Bossii, Tractatus varii; tit.
de indiciis ante torturam, 32.
(28) Ibid.
Quaest.
XXXVII, 193 ad 200.
(29) Francisci Casoni, Tractatus de tormentis; cap.
I, 10.
(30) Oss.
§ VIII.
(31) Ibid.
(32) Paradis de Puteo, De syndicatu, in verbo: Et advertendum est; Judex debet esse subtilis in investiganda maleficii veritate.
(33) Ad Clart.
Sentent.
recept.
Quaest.
LXIV, 24, add.
80, 81.
(34) Istoria civile, etc., lib.
28, cap.
ult.
(35) Praxis et Theoricae criminalis, Quaest.
LII, 11, 13, 14.
(36) Ibid.
Quaest.
XXXVII, 2, 3, 4.
(37) P.
Follerii, Pract.
Crim., Cap.
Quod suffocavit, 52.
(38) Quando crimen est gravius, tanto praesumptiones debent esse vehementiores; quia ubi majus periculum, ibi cautius est agendum.
- Abbatis Panormitani, Commentarium in libros decretalium, De praesumptionibus, Cap.
XIV, 3.
(39) Clar.
Sent.
Rec.
lib.
V § 1, 9.
(40) Hipp.
Riminaldi, Consilia; LXXXVIII, 53.
- Farin.
Quaest.
XXXVII, 79.
(41) Clar.
Ib.
Lib.
V, § fin.
Quaest.
LXIV, 9.
(42) Reus evidentioribus argumentis oppressus, repeti in quaestionem potest.
Dig.
lib.
XLVIII, tit.
18, 1, 18.
(43) Numquid potest repeti quaestio? Videtur quod sic; ut Dig.
eo.
1.
Repeti.
Sed vos dicatis quod non potest repeti sine novi indiciis.
Odofredi, ad Cod.
lib.
IX, tit.
41, 1.
18.
(44) Cyni Pistoriensis, super Cod.
lib.
IX, tit.
41, l.
de tormetis, 8.
(45) Bart.
ad Dig.
loc.
cit.
(46) V.
Farinac.
Quest.
XXXVIII, 72, et seq.
(47) Oss.
§ III.
(48) Tractat.
var.; tit.
De tortura, 44.
(49) V.
Farinac.
Quest.
LXXXI, 277.
(50) Constitutiones dominii mediolanensis; De Senatoribus.
(51) Op.
cit.
tit.
De confessis per torturam, II.
(52) De peste, etc.
pag.
84.
(53) Oss.
§ IV.
(54) Quaest.
XLIII, 192.
V.
Summarium.
(55) Tractat.
var., tit.
De oppositionibus contra testes; 21.
(56) Et si consanguinei erant, pag.
87.
(57) Oss.
§ IV
(58) Dig.
Lib.
XXII, tit.
V, De testibus; I, 21, 2.
(59) V.
Farinacci, Quaest.
XLIII, 134, 135.
(60) Op.
cit.
Quaest.
XXI, 13.
(61) Op.
cit.
De indiciis et considerationibus ante torturam; 152.
(62) Arrotini di forbici per tagliar l'oro filato.
L'esserci una professione a parte per quell'industria secondaria, fa vedere come fiorisse ancora la principale.
(63) Antica interiezion milanese, corrispondente al toscano madiè, «particella usata dagli antichi, alla provenzale», dice la Crusca.
Significava in origine mio Dio; ed era una delle tante formole di giuramento, entrate per abuso nel discorso ordinario.
Ma in questo caso il Nome non sarebbe stato nominati in vano.
(64) Quaest.
XLIII, 172-174.
(65) Farinacci, Quaest.
XLIII; 185, 186.
(66) Plutarco, Vita d'Alessandro; traduzione del Pompei.
(67) Q.
Curtii, VI, II.
(68) Farinacci, Quaest.
L.
31; LXXXI; 40; LII, 150, 152.
(69) Res est (quaestio) fragilis et periculosa, et quae veritatem fallat.
Nam plerique, patientia sive duritia tormentorum, ita tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit, alii tanta sunt impatientia, ut quovis mentiri quam pati tormenta velint.
Dig.
, Lib.
XLVIII, tit.
XVIII, 1, I, 23.
(70) Nel rescritto citato sopra, alla pagina 766.
(71) Farinacci, Quaest.
XXXVII, 110.
(72) Oss.
§ IV.
(73) quorum capita...
fingenti inter dolores gemitusque occurrere.
Liv.
XXIV, 5.
(74) Oss.
§ V, in fine.
(75) Caro, trad.
dell'Eneide, lib.
VII.
(76) pag.
107, 108.
(77) Nani, Historia veneta; parte I, lib.
VIII, Venezia, Lovisa, 1720, pag.
473.
(78) Lib.
I, cap X.
(79) Istoria civile, etc.
Introduzione.
(80) Istoria civile, lib.
XXXVI, cap 2.
(81) Il Fabroni (Vitae Italorum, etc., Petrus Jannonius), cita come scrittori dai quali il Giannone «ha preso i passi interi, invece di ricorrere ai documenti originali, e senza confessarlo schiettamente, il Costanzo, il Summonte, il Parrino, e principalmente il Bufferio».
Ma par difficile che da quest'ultimo (che non abbiam potuto trovare chi sia) prenda più che dal Costanzo, del quale, se «al principio risponde il fine e il mezzo», deve aver intarsiata mezza, a dir poco, la storia nella sua; e più che dal Parrino, del quale dovremo dir qualcosa or ora.
(82) Giannone.
Ist.
Civ.
lib.
XXXVI, cap V, e il primo capoverso del VI - Nani, Hist.
Ven.
parte I, lib.
XI, pag 651-661 dell'edizione citata.
(83) Giannone, lib.
XXXVII, cap.
II, III e IV.
- Nani, parte II, lib IV, pag.
146-157.
(84) Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del regno di Napoli, etc.
Napoli, 1692, tom.
2°; Duca d'Arcos.
Il testo del Nani corre, con pochissimi e minuti cambiamenti, come abbiam detto, per sette capoversi del Giannone, l'ultimo de' quali termina con le parole: «si richiedevano, e per supplire altrove, e per difendere il regno, grandissime provvisioni».
E lì entra il Parrino con le parole: «Il viceré duca d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del denaro», e via via, paucis mutatis, al solito, per due capoversi, e per mezzo circa il seguente.
Dopo, ritorna il Nani e va avanti, prima solo, per un bel pezzo, poi alternato, e, per dir così, a scacchi, col Parrino.
E c'è fino de' periodi, messi insieme bene o male, ma con pezzi dell'uno e dell'altro.
Eccone un esempio: «Così in un momento s'estinse quell'incendio che minacciava l'eccidio al regno; e ciò che apporto maggior maraviglia, fu la subita mutazione degli animi, che dalle uccisioni, da' rancori e dagli odj passarono immantinente a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza distinzione d'amici, o d'inimici (Parrino, tom.
II, pag.
425): fuorché alcuni pochi, i quali guidati dalla mala coscienza, si sottrassero colla fuga, tutti gli altri restituiti a' loro mestieri, maledicendo le confusioni passate, abbracciarono con giubilo la quiete presente (Nani, parte II, lib.
IV, pag 157 dell'ediz.
cit.)».
Giannone, lib.
XXXVII, cap IV, secondo capoverso.
(85) V.
Giannone, lib.
XXXVI, cap VI, e ultimo; tutto il lib.
XXXVII, che ha sette capitoli; e il preambolo del lib.
seg.
- Nani, parte I, lib XII, pag.
738; parte II, lib.
III; IV; VIII - Parrino, t.
II, pag.
296 e seg., t.
III, pag I e seg.
(86) Siecle de Louis XIV; chap.
XVII, Paix de Wyswick, not.
c.
(87) Giannone, lib.
XXXIX, cap.
ultimo, pag.
461 e 463 del t.
IV, Napoli, Niccolò Naso, 1723.
- Parrino, t.
III, pag.
553 e 567.
(88) Fu poi citato spesso appiè di pagina in qualche edizione fatta dopo la morte del Giannone; ma il lettore che non sa altro, deve immaginarsi che sia citato come testimonio de' fatti, non come autore del testo.
(89) Sarpi, Discorso dell'origine, etc.
dell'Uffizio dell'inquisizione; Opere varie, Helmstat (Venezia) t.
I, pag 340.
- Giannone, Ist.
Civ.
lib.
XV, cap.
ultimo.
...
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