STORIA DELLA COLONNA INFAME, di Alessandro Manzoni - pagina 17
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Come! un huomo di mia qualità, che ho speso la vita in seruitio di Sua Maestà, in diffesa di questo stato, nato da huomini che hanno fatto l'istesso, haueuo io da fare, né da pensar cosa che a loro, né a me portasse tanta nota et infamia? et torno a dire che questo è falso, et è la più grande impostura che ad huomo sij mai stata fatta.
Fa piacere il sentir l'innocenza sdegnata parlare un tal linguaggio; ma fa orrore il rammentarsi l'innocenza, davanti a quegli uomini stessi, spaventata, confusa, disperata, bugiarda, calunniatrice; l'innocenza imperterrita, costante, veridica, e condannata ugualmente.
Il Padilla fu assolto, non si sa quando per l'appunto, ma sicuramente più d'un anno dopo, poiché l'ultime sue difese furono presentate nel maggio del 1632.
E, certo, l'assolverlo non fu grazia; ma i giudici, s'avvidero che, con questo, dichiaravano essi medesimi ingiuste tutte le loro condanne? giacché non crederei che ce ne siano state altre, dopo quell'assoluzione.
Riconoscendo che il Padilla non aveva punto dato danari per pagar le sognate unzioni, si rammentaron degli uomini che avevan condannati per aver ricevuto danari da lui, per questo motivo? Si rammentarono d'aver detto al Mora che una tal cagione ha più del verisimile...
che non è per hauer occasione di vendere, lui Constituto il suo elettuario, et il Commissario d'hauer modo di più lavorare? Si rammentarono che, nell'esame seguente, persistendo lui a negarla, gli avevan detto che si troua pure essere la verità? Che avendola negata ancora, nel confronto col Piazza, gli avevan data la tortura, perché la confessasse, e un'altra tortura, perché la confessione estorta dalla prima diventasse valida? Che, d'allora in poi, tutto il processo era camminato su quella supposizione? Ch'era stata espressa, sottintesa in tutte le loro interrogazioni, confermata in tutte le risposte, come la cagione finalmente scoperta e riconosciuta, come la vera, l'unica cagion del delitto del Piazza, del Mora, e poi degli altri condannati? Che la grida pubblicata, pochi giorni dopo il supplizio di que' due primi, dal gran cancelliere, col parer del senato, li diceva «arrivati a stato tale d'empietà, di tradir per danari la propria Patria»? E vedendo finalmente svanir quella cagione (giacché nel processo non s'era mai fatto menzione d'altri danari che di quelli del Padilla), pensarono che del delitto non rimanevano altri argomenti che confessioni, ottenute nella maniera che loro sapevano, e ritrattate tra i sacramenti e la morte? confessioni, prima in contradizion tra loro, e ormai scoperte in contradizion col fatto? Assolvendo insomma, come innocente, il capo, conobbero che avevan condannati, come complici, degl'innocenti?
Tutt'altro, almeno per quel che comparve in pubblico: il monumento e la sentenza rimasero; i padri di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami; i figli che aveva resi così atrocemente orfani, rimasero legalmente spogliati.
E in quanto a quello che sia passato nel cuor de' giudici, chi può sapere a quali nuovi argomenti sia capace di resistere un inganno volontario, e già agguerrito contro l'evidenza? E dico un inganno divenuto più caro e prezioso che mai; giacché, se prima il riconoscerli innocenti era per que' giudici un perder l'occasione di condannare, ormai sarebbe stato un trovarsi terribilmente colpevoli; e le frodi, le violazioni della legge, che sapevano d'aver commesse, ma che volevan creder giustificate dalla scoperta di così empi e funesti malfattori, non solo sarebbero ricomparse nel loro nudo e laido aspetto di frodi e di violazioni della legge, ma sarebbero comparse come produttrici d'un orrendo assassinio.
Un inganno finalmente, mantenuto e fortificato da un'autorità sempre potente, benché spesso fallace, e in quel caso stranamente illusoria, poiché in gran parte non era fondata che su quella de' giudici medesimi: voglio dire l'autorità del pubblico che li proclamava sapienti, zelanti, forti, vendicatori e difensori della patria.
La colonna infame fu atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell'occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina Rosa,
L'infernal dea che alla eletta stava(75) ,
intonò il grido della carnificina: sicché non c'è più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa.
Allo sbocco di via della Vetra sul corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio dov'era quella del povero Mora.
Vediamo ora, se il lettore ha la bontà di seguirci in quest'ultima ricerca, come un giudizio temerario di colei, dopo aver tanto potuto sui tribunali, abbia, per loro mezzo, regnato anche ne' libri.
Cap.7
Tra i molti scrittori contemporanei all'avvenimento, scegliamo il solo che non sia oscuro, e che non n'abbia parlato a seconda affatto della credenza comune, Giuseppe Ripamonti, già tante volte citato.
E ci par che possa essere un esempio curioso della tirannia che un'opinion dominante esercita spesso sulla parola di quelli di cui non ha potuto assoggettar la mente.
Non solo non nega espressamente la reità di quegl'infelici (né, fino al Verri, ci fu chi lo facesse in uno scritto destinato al pubblico); ma pare più d'una volta che la voglia espressamente affermare; giacché, parlando del primo interrogatorio del Piazza, chiama «malizia» la sua, e «avvedutezza» quella de' giudici; dice che, «con le molte contradizioni, palesava il delitto nell'atto che voleva negarlo»; del Mora dice parimenti, che, «fin che poté reggere alla tortura, negava, al solito di tutti i rei, e che finalmente raccontò la cosa com'era: exposuit omnia cum fide».
E nello stesso tempo, cerca di fare intendere il contrario, accennando, timidamente e di fuga, qualche dubbio sulle circostanze più importanti; dirigendo, con una parola, la riflession del lettore al punto giusto; mettendo in bocca a qualche imputato parole più atte a dimostrar la sua innocenza, di quelle che aveva sapute trovar lui medesimo; mostrando finalmente quella compassione che non si prova se non per gl'innocenti.
Parlando della caldaia trovata in casa del Mora, dice: «fece principalmente grand'impressione una cosa forse innocente e accidentale, del resto schifosa, e che poteva parer qualcosa di quello che si cercava».
Parlando del primo confronto, dice che il Mora «invocava la giustizia di Dio contro una frode, contro una maligna invenzione, contro un'insidia nella quale si poteva far cadere qualunque innocente».
Lo chiama «sventurato padre di famiglia, che, senza saperlo, portava su quell'infausto capo l'infamia e la rovina sua e de' suoi».
Tutte le riflessioni che abbiamo esposte poco fa, e quelle di più che si posson fare, sulla contradizion manifesta tra l'assoluzion del Padilla, e la condanna degli altri, il Ripamonti le accenna con un vocabolo: «gli untori furon puniti ciò non ostante: unctores puniti tamen».
Quanto non dice quell'avverbio, o congiunzione che sia! E aggiunge: «la città sarebbe rimasta inorridita di quella mostruosità di supplizi, se tutto non fosse parso meno del delitto».
Ma il luogo dove fa intender più chiaramente il suo sentimento, è dove protesta di non volerlo dire.
Dopo aver raccontato vari casi di persone cadute in sospetto d'untori, senza che ne seguissero processi, «mi trovo», dice, «a un passo difficile e pericoloso, a dover dichiarare se, oltre quelli così a torto presi per untori, io creda che ci siano stati untori davvero...
Né la difficoltà nasce dall'incertezza della cosa, ma dal non essermi lasciata la libertà di far quello che pur si pretende da ogni scrittore, cioè ch'esprima i suoi veri sentimenti.
Ché se io dicessi che non ci furono untori, che senza ragione si va a immaginar malizia degli uomini in ciò che fu punizion di Dio, si griderebbe subito che la storia è empia, che l'autore non rispetta un giudizio solenne.
Tanto l'opinion contraria è radicata nelle menti, e la plebe credula al solito, e la nobiltà superba son pronti a difenderla, come quello che possano aver di più caro e di più sacro.
Mettersi in guerra con tanti, sarebbe un'impresa dura e inutile; e per ciò, senza negare, né affermare, né pender più da una parte che dall'altra, mi ristringerò a riferir l'opinioni altrui(76).» Chi domandasse se non sarebbe stata cosa più ragionevole, come più facile, il non parlarne affatto, sappia che il Ripamonti era istoriografo della città; cioè uno di quegli uomini, ai quali, in qualche caso, può essere comandato e proibito di scriver la storia.
Un altro istoriografo, ma in un campo più vasto, Batista Nani, veneziano, che in questo caso non poteva esser condotto da nessun riguardo a dire il falso, fu condotto a crederlo dall'autorità d'un'iscrizione e d'un monumento.
«Se ben veramente», dice, «l'immaginazione de' popoli, alterata dallo spavento, molte cose si figurava, ad ogni modo il delitto fu scoperto e punito, stando ancora in Milano l'iscrizioni e le memorie degli edifici abbattuti, dove que' mostri si congregavano.(77)» Chi, non conoscendo altro di quello scrittore, prendesse questo ragionamento per misura del suo giudizio, s'ingannerebbe di molto.
In varie ambascerie importanti, e in varie cariche domestiche, aveva avuto campo di conoscer gli uomini e le cose; e dà prova nella sua storia d'esserci non volgarmente riuscito.
Ma i giudizi criminali, e la povera gente, quand'è poca, non si riguardano come materia propriamente della storia; sicché, non c'è da maravigliarsi che, occorrendo al Nani di parlare incidentemente di quel fatto, non ci guardasse tanto per la minuta.
Se alcuno gli avesse citata un'altra colonna, e un'altra iscrizione di Milano, come prova d'una sconfitta ricevuta da' veneziani (sconfitta tanto vera, quanto il delitto di que' mostri), certo il Nani si sarebbe messo a ridere.
Fa più maraviglia e più dispiacere il trovar lo stesso argomento e gli stessi improperi, in uno scritto d'un uomo molto più celebre, e con gran ragione.
Il Muratori, nel «Trattato del governo della peste», dopo avere accennato diverse storie di quel genere, «ma nessun caso», dice, «è più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630, furono prese parecchie persone, che confessarono un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate.
Ne esiste tuttavia (e l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame posta ov'era la casa di quegli inumani carnefici.
Il perché grande attenzion ci vuole affinché non si rinnovassero più simili esecrande scene.» E quello che, non toglie il dispiacere, ma lo muta, è il veder che la persuasione del Muratori non era così risoluta come queste sue parole.
Ché, venendo poi a discorrere (e si vede che è ciò che gli preme davvero) de' mali orribili che posson nascere dal figurarsi e dal credere tali cose senza fondamento, dice: «si giunge ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli».
Non par egli che voglia alludere ai nostri disgraziati? E quello che lo fa creder di più, è che attacca subito con quelle parole che abbiam già citate nello scritto antecedente, e che, per esser poche, trascriviam qui di nuovo: «Ho trovato gente savia in Milano, che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città, e fecero tanto strepito nella peste del 1630(78) .» Non si può, dico, fare a meno di non sospettare che il Muratori credesse piuttosto sciocche favole quelle che chiama «esecrande scene», e (ciò che è più grave) innocenti assassinati quelli che chiama «inumani carnefici».
Sarebbe uno di que' casi tristi e non rari, in cui uomini tutt'altro che inclinati a mentire, volendo levar la forza a qualche errore pernicioso, e temendo di far peggio col combatterlo di fronte, hanno creduto bene di dir prima la bugia, per poter poi insinuare la verità.
Dopo il Muratori, troviamo uno scrittore più rinomato di lui come storico, e (ciò che in un fatto di questa sorte parrebbe dover rendere il suo giudizio più degno d'osservazione di qualunque altro) storico giureconsulto, e, come dice di sé medesimo, «più giureconsulto che politico(79) », Pietro Giannone.
Noi però non riferiremo questo giudizio, perché è troppo poco che l'abbiam riferito: è quello del Nani che il lettore ha veduto poco fa, e che il Giannone ha copiato, parola per parola, citando questa volta il suo autore appiè di pagina(80).
Dico: questa volta; perché il copiarlo che ha fatto senza citarlo, è cosa degna d'esser notata, se, come credo, non lo fu ancoral(81)i .
Il racconto, per esempio, della sollevazione della Catalogna, e della rivoluzione del Portogallo, nel 1640 è, nella storia del Giannone, trascritto da quella del Nani, per più di sette pagine in 4°, con pochissime omissioni, o aggiunte, o variazioni, la più considerabile delle quali è d'aver diviso in capitoli e in capoversi un testo che nello scritto originale andava tutto di seguito(82).
Ma chi mai s'immaginerebbe che l'avvocato napoletano, dovendo raccontare altre sollevazioni, non di Barcellona, né di Lisbona, ma quella di Palermo, del 1647, e quella di Napoli, contemporanea e più celebre, per la singolarità e per l'importanza degli avvenimenti, e per Masaniello, non trovasse da far meglio, né da far più che di prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta, dall'opera del cavaliere e procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a pensare soprattutto dopo aver lette le parole con le quali il Giannone entra in quel racconto? e son queste: «Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più autori: alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura: altri con troppo sottili minuzie distraendo i leggitori, non ne fecero nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento, ed il fine: noi per ciò, seguendo gli scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla lor giusta e natural positura.» Eppure ognuno può vedere, facendo il confronto, come, subito dopo queste sue parole, il Giannone metta mano a quelle del Nani(83) , frammischiandoci ogni tanto, e specialmente sul principio, qualcheduna delle sue, facendo qua e là qualche cambiamento, alle volte per necessità, e nella stessa maniera che uno, il qual compri biancheria usata, leva il segno dell'antico padrone, e ci mette il suo.
Così, dove il veneziano dice: «in quel regno», il napoletano sostituisce: «in questo regno»; dove il contemporaneo dice che vi «restano le fazioni quasi che intiere», il postero, che vi «restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni».
È vero che, oltre queste piccole aggiunte o variazioni, si trovano anche in quel lunghissimo squarcio, come pezzi messi a rimendo, alcuni brani più estesi, che non son del Nani.
Ma, cosa veramente da non credersi, son presi da un altro quasi tutti, e quasi parola per parola: è roba di Domenico Parrino(84) , scrittore (alla rovescia di molt'altri) oscuro, ma letto molto, e fors'anche più di quello che sperava lui medesimo, se, in Italia e fuori, è letta quanto lodata la «Storia civile del regno di Napoli», che porta il nome di Pietro Giannone.
Ché, senza allontanarci da que' due periodi di storia de' quali s'è fatto qui menzione, se, dopo le sollevazioni catalana e portoghese, il Giannone, trascrive dal Nani la caduta del favorito Olivares, trascrive poi dal Parrino il richiamo del duca di Medina vicerè di Napoli, che ne fu la conseguenza, e i ritrovati di questo per cedere il più tardi che fosse possibile il posto al successore Enriquez de Cabrera.
Dal Parrino ugualmente, in gran parte, il governo di questo; e poi dall'uno e dall'altro, a intarsiatura, il governo del duca d'Arcos, per tutto quel tempo che precedette le sollevazioni di Palermo e di Napoli, e come abbiam detto, il progresso e la fine di queste, sotto il governo di D.
Giovanni d'Austria, e del conte d'Oñatte.
Poi dal Parrino solo, sempre a lunghi pezzi, o a pezzettini frequenti, la spedizione di quel vicerè contro Piombino e Portolongone; poi il tentativo del duca di Guisa contro Napoli; poi la peste del 1656.
Poi dal Nani la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola appendice dove sono accennati gli effetti di essa nel regno di Napoli(85).
Voltaire, parlando, nel «Secolo di Luigi XIV», de' tribunali istituiti da quel re, in Metz e in Brisac, dopo la pace di Nimega, per decidere delle sue proprie pretensioni sopra territori di stati vicini, nomina, in una nota, il Giannone con gran lode, com'era da aspettarsi, ma per fargli una critica.
Ecco la traduzione di quella nota: «Giannone, così celebre per la sua utile storia di Napoli, dice che questi tribunali erano stabiliti a Tournay.
Sbaglia frequentemente negli affari che non son del suo paese.
Dice, per esempio, che, a Nimega, Luigi XIV fece la pace con la Svezia; e in vece questa era sua alleata(86) .» Ma, lasciando da parte la lode, la critica, in questo caso, non è dovuta al Giannone, il quale, come in tant'altri casi, non fece nemmen la fatica di sbagliare.
È vero che nel libro dell'uomo «così celebre», si leggono queste parole: «Seguì poscia la pace fra la Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore» (nelle quali, del rimanente, non saprei se non ci sia ambiguità piuttosto che errore); e quest'altre: «Aprirono poscia», i francesi, «due tribunali, l'uno in Tournay, e l'altro in Metz; ed arrogandosi una giurisdizione non mai udita nel mondo sopra i principi lor vicini, fecero non solamente aggiudicare alla Francia, con titolo di dipendenze, tutto il paese che saltò loro in capriccio ne' confini della Fiandra e dell'Imperio, ma se ne posero per via di fatto in possessione, costringendo gli abitanti a riconoscere il re Cristianissimo per sovrano, prescrivendo termini, ed esercitando tutti quegli atti di signoria che sono soliti i principi di praticare co' sudditi.» Ma son parole di quel povero ignorato Parrino(87) , e non già stralciate da quel suo pezzo di storia, ma portate via insieme con esso: ché spesso il Giannone, in vece di star lì a cogliere un frutto qua e uno là, leva l'albero addirittura, e lo trapianta nel suo giardino.
Tutta, si può dire, la relazion della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran parte, e con molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in Napoli del marchese de los Veles, nel tempo del quale quella pace fu conclusa, e col quale il Parrino chiude la sua opera, e il Giannone il penultimo libro della sua.
E probabilmente (stavo per dir di certo), chi si divertisse a farne il confronto intero, per tutto il periodo antecedente della dominazione spagnola in Napoli, con la quale comincia il lavoro del Parrino, troverebbe per tutto, quello che noi abbiam trovato in varie parti, e, se non m'inganno, senza veder mai citato il nome di quel tanto saccheggiato scrittore(88) .
Così dal Sarpi, senza citarlo punto, prende il Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua digressione; come mi fu fatto osservare da una dotta e gentile persona.
E chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice un fenomeno.
Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente rara, come fu raro il coraggio; ma unica la felicità di restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un grand'uomo.
E questa circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci faccia perdonare dal benigno lettore una digressione(89) , lunga, per dir la verità, in una parte accessoria d'un piccolo scritto.
Chi non conosce il frammento del Parini sulla colonna infame? Ma chi non si maraviglierebbe di non vederne fatta menzione in questo luogo?
Ecco dunque i pochi versi di quel frammento ne' quali il celebre poeta fa pur troppo eco alla moltitudine e all'iscrizione:
Quando, tra vili case e in mezzo a poche
Rovine, i' vidi ignobil piazza aprirsi.
Quivi romita una colonna sorge
In fra l'erbe infeconde e i sassi e il lezzo,
Ov'uom mai non penetra, però ch'indi
Genio propizio all'insubre cittade
Ognun rimove, alto gridando: lungi,
O buoni cittadin, lungi, che il suolo
Miserabile infame non v'infetti.
Era questa veramente l'opinion del Parini? Non si sa; e l'averla espressa, così affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perché allora era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre un'impressione, o forte, o piacevole.
Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva nascere, perché i poeti, nessun credeva che dicessero davvero.
Non c'è da replicare: solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e del motivo.
Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che richiese per degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente abborriti, una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda.
Ma che? le sue «Osservazioni», scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804, con altre sue opere, edite e inedite, nella raccolta degli «Scrittori classici italiani d'economia politica».
E l'editore rende ragione di questo ritardo, nelle «Notizie» premesse all'opere suddette.
«Si credette», dice, «che l'estimazione del senato potesse restar macchiata dall'antica infamia.» Effetto comunissimo, a que' tempi, dello spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che non aveva fatti.
Ora un tale spirito non troverebbe l'occasione d'estendersi tanto nel passato, giacché, in quasi tutto il continente d'Europa, i corpi son di data recente, meno pochi, meno uno soprattutto, il quale, non essendo stato istituito dagli uomini, non può essere né abolito, né surrogato.
Oltre di ciò, questo spirito è combattuto e indebolito più che mai dallo spirito d'individualità: l'io si crede troppo ricco per accattar dal noi.
E in questa parte, è un rimedio; Dio ci liberi di dire: in tutto.
A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la manifestazione d'una verità resa importante dal credito in cui era l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire; ma c'era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto.
Il padre dell'illustre scrittore era presidente del senato.
Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta.
(1) Ut mos vulgo, quamvis falsis, reum subdere, Tacit.
Ann.
I, 39.
(2) Verri, Osservazioni sulla tortura, § VI.
(3) Staututa criminalia; Rubrica generalis de forma citiationis in criminalibus; De tormentis, seu quaestionibus.
(4) Cod.
Lib.
IX; Tit.
XLI, De quaestionibus, 1.
8.
(5) Verri, Osservazioni sulla tortura, § XIII.
(6) La pratica criminale dell'Inghilterra, non cercando la prova del delitto o dell'innocenza nell'interrogatorio del reo, escluse indirettamente, ma necessariamente, quel mezzo fallace e crudele d'aver la sua confessione.
Francesco Casoni (De tormentis, cap, I, 3) e Antonio Gomez (Variarum resolutionum etc., tom.
3, cap.
13, de tortura reorum cap.
4) attestano che, almeno al loro tempo, la tortura non era in uso nel regno d'Aragona.
Giovanni Loccenio (Synopsis juris Sueco-gothici), citato da Ottone Taber (Tractat.
de tortura, et indiicis delictorum, cap.
2, 18) attesta il medesimo della Svezia; né so se alcun altro paese d'Europa sia andato immune da quel vergognoso flagello, o se ne sia liberato prima del secolo scorso.
(7) Verri, Oss.
§ VIII.
- Farin.
Praxis et Theor.
criminalis, Quaest.
XXXVIII, 56.
(8) Fran.
a Bruno, De indiciis et tortura, part.
II, quaest.
II, 7.
(9) Guid.
de Suza, De Tormentis, 1.
- Cod.
IX, tit.
4, De custodia reorum; 1.
(10) Baldi, ad lib.
IX Cod.
tit XIV, De emendatione servorum, 3.
(11) Par.
de Puteo, De syndicatu; in verbo: Crudelitas officialis, 5.
(12) J.
Clari, Sementiarum receptarum, Lib V, § fin.
Quaest.
LXIV, 36.
(13) Gomez, Variar.
resol.
t.
3, c.
13, De tortura reorum, 5.
(14) Oss.
§ XIII.
(15) Hipp.
de Marsiliis, ad Tit.
Dig.
de quaestionibus; leg.
In criminibus, 29.
(16) Praxis, etc.
Quaest.
XXXVIII, 54.
(17) Pratica causarum criminalium; in verbo: Expedita; 86.
(18) Quaest.
XXXVIII, 38.
(19) Oss.
§ VIII.
(20) Sent.
rec.
lib.
V, quaest, LXIV, 12.
Venet.
1640; ex typ.
Barietana, p.
537.
(21) Ven.
apud Hier.
Polum, 1580, f.
172 - Ibid.
apud P.
Ugolinum, 1595.
f.
180.
(22) Verri, loc.
cit.
- Clar, loc.
cit.
13.
(23) Ibid., Quaest.
XXXI, 9.
(24) Bartol.
ad Dig.
lib.
XLVIII, tit.
XVIII, I.
22.
(25) Et generaliter omne quod non determinatur a iure, relinquitur arbitrio iudicantis.
De tormentis, 30.
(26) Et deo lex super indiciis gravat coscientias iudicum.
De Syndicatu, in verbo: Mandavit, 18.
(27) Ægid Bossii, Tractatus varii; tit.
de indiciis ante torturam, 32.
(28) Ibid.
Quaest.
XXXVII, 193 ad 200.
(29) Francisci Casoni, Tractatus de tormentis; cap.
I, 10.
(30) Oss.
§ VIII.
(31) Ibid.
(32) Paradis de Puteo, De syndicatu, in verbo: Et advertendum est; Judex debet esse subtilis in investiganda maleficii veritate.
(33) Ad Clart.
Sentent.
recept.
Quaest.
LXIV, 24, add.
80, 81.
(34) Istoria civile, etc., lib.
28, cap.
ult.
(35) Praxis et Theoricae criminalis, Quaest.
LII, 11, 13, 14.
(36) Ibid.
Quaest.
XXXVII, 2, 3, 4.
(37) P.
Follerii, Pract.
Crim., Cap.
Quod suffocavit, 52.
(38) Quando crimen est gravius, tanto praesumptiones debent esse vehementiores; quia ubi majus periculum, ibi cautius est agendum.
- Abbatis Panormitani, Commentarium in libros decretalium, De praesumptionibus, Cap.
XIV, 3.
(39) Clar.
Sent.
Rec.
lib.
V § 1, 9.
(40) Hipp.
Riminaldi, Consilia; LXXXVIII, 53.
- Farin.
Quaest.
XXXVII, 79.
(41) Clar.
Ib.
Lib.
V, § fin.
Quaest.
LXIV, 9.
(42) Reus evidentioribus argumentis oppressus, repeti in quaestionem potest.
Dig.
lib.
XLVIII, tit.
18, 1, 18.
(43) Numquid potest repeti quaestio? Videtur quod sic; ut Dig.
eo.
1.
Repeti.
Sed vos dicatis quod non potest repeti sine novi indiciis.
Odofredi, ad Cod.
lib.
IX, tit.
41, 1.
18.
(44) Cyni Pistoriensis, super Cod.
lib.
IX, tit.
41, l.
de tormetis, 8.
(45) Bart.
ad Dig.
loc.
cit.
(46) V.
Farinac.
Quest.
XXXVIII, 72, et seq.
(47) Oss.
§ III.
(48) Tractat.
var.; tit.
De tortura, 44.
(49) V.
Farinac.
Quest.
LXXXI, 277.
(50) Constitutiones dominii mediolanensis; De Senatoribus.
(51) Op.
cit.
tit.
De confessis per torturam, II.
(52) De peste, etc.
pag.
84.
(53) Oss.
§ IV.
(54) Quaest.
XLIII, 192.
V.
Summarium.
(55) Tractat.
var., tit.
De oppositionibus contra testes; 21.
(56) Et si consanguinei erant, pag.
87.
(57) Oss.
§ IV
(58) Dig.
Lib.
XXII, tit.
V, De testibus; I, 21, 2.
(59) V.
Farinacci, Quaest.
XLIII, 134, 135.
(60) Op.
cit.
Quaest.
XXI, 13.
(61) Op.
cit.
De indiciis et considerationibus ante torturam; 152.
(62) Arrotini di forbici per tagliar l'oro filato.
L'esserci una professione a parte per quell'industria secondaria, fa vedere come fiorisse ancora la principale.
(63) Antica interiezion milanese, corrispondente al toscano madiè, «particella usata dagli antichi, alla provenzale», dice la Crusca.
Significava in origine mio Dio; ed era una delle tante formole di giuramento, entrate per abuso nel discorso ordinario.
Ma in questo caso il Nome non sarebbe stato nominati in vano.
(64) Quaest.
XLIII, 172-174.
(65) Farinacci, Quaest.
XLIII; 185, 186.
(66) Plutarco, Vita d'Alessandro; traduzione del Pompei.
(67) Q.
Curtii, VI, II.
(68) Farinacci, Quaest.
L.
31; LXXXI; 40; LII, 150, 152.
(69) Res est (quaestio) fragilis et periculosa, et quae veritatem fallat.
Nam plerique, patientia sive duritia tormentorum, ita tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit, alii tanta sunt impatientia, ut quovis mentiri quam pati tormenta velint.
Dig.
, Lib.
XLVIII, tit.
XVIII, 1, I, 23.
(70) Nel rescritto citato sopra, alla pagina 766.
(71) Farinacci, Quaest.
XXXVII, 110.
(72) Oss.
§ IV.
(73) quorum capita...
fingenti inter dolores gemitusque occurrere.
Liv.
XXIV, 5.
(74) Oss.
§ V, in fine.
(75) Caro, trad.
dell'Eneide, lib.
VII.
(76) pag.
107, 108.
(77) Nani, Historia veneta; parte I, lib.
VIII, Venezia, Lovisa, 1720, pag.
473.
(78) Lib.
I, cap X.
(79) Istoria civile, etc.
Introduzione.
(80) Istoria civile, lib.
XXXVI, cap 2.
(81) Il Fabroni (Vitae Italorum, etc., Petrus Jannonius), cita come scrittori dai quali il Giannone «ha preso i passi interi, invece di ricorrere ai documenti originali, e senza confessarlo schiettamente, il Costanzo, il Summonte, il Parrino, e principalmente il Bufferio».
Ma par difficile che da quest'ultimo (che non abbiam potuto trovare chi sia) prenda più che dal Costanzo, del quale, se «al principio risponde il fine e il mezzo», deve aver intarsiata mezza, a dir poco, la storia nella sua; e più che dal Parrino, del quale dovremo dir qualcosa or ora.
(82) Giannone.
Ist.
Civ.
lib.
XXXVI, cap V, e il primo capoverso del VI - Nani, Hist.
Ven.
parte I, lib.
XI, pag 651-661 dell'edizione citata.
(83) Giannone, lib.
XXXVII, cap.
II, III e IV.
- Nani, parte II, lib IV, pag.
146-157.
(84) Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del regno di Napoli, etc.
Napoli, 1692, tom.
2°; Duca d'Arcos.
Il testo del Nani corre, con pochissimi e minuti cambiamenti, come abbiam detto, per sette capoversi del Giannone, l'ultimo de' quali termina con le parole: «si richiedevano, e per supplire altrove, e per difendere il regno, grandissime provvisioni».
E lì entra il Parrino con le parole: «Il viceré duca d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del denaro», e via via, paucis mutatis, al solito, per due capoversi, e per mezzo circa il seguente.
Dopo, ritorna il Nani e va avanti, prima solo, per un bel pezzo, poi alternato, e, per dir così, a scacchi, col Parrino.
E c'è fino de' periodi, messi insieme bene o male, ma con pezzi dell'uno e dell'altro.
Eccone un esempio: «Così in un momento s'estinse quell'incendio che minacciava l'eccidio al regno; e ciò che apporto maggior maraviglia, fu la subita mutazione degli animi, che dalle uccisioni, da' rancori e dagli odj passarono immantinente a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza distinzione d'amici, o d'inimici (Parrino, tom.
II, pag.
425): fuorché alcuni pochi, i quali guidati dalla mala coscienza, si sottrassero colla fuga, tutti gli altri restituiti a' loro mestieri, maledicendo le confusioni passate, abbracciarono con giubilo la quiete presente (Nani, parte II, lib.
IV, pag 157 dell'ediz.
cit.)».
Giannone, lib.
XXXVII, cap IV, secondo capoverso.
(85) V.
Giannone, lib.
XXXVI, cap VI, e ultimo; tutto il lib.
XXXVII, che ha sette capitoli; e il preambolo del lib.
seg.
- Nani, parte I, lib XII, pag.
738; parte II, lib.
III; IV; VIII - Parrino, t.
II, pag.
296 e seg., t.
III, pag I e seg.
(86) Siecle de Louis XIV; chap.
XVII, Paix de Wyswick, not.
c.
(87) Giannone, lib.
XXXIX, cap.
ultimo, pag.
461 e 463 del t.
IV, Napoli, Niccolò Naso, 1723.
- Parrino, t.
III, pag.
553 e 567.
(88) Fu poi citato spesso appiè di pagina in qualche edizione fatta dopo la morte del Giannone; ma il lettore che non sa altro, deve immaginarsi che sia citato come testimonio de' fatti, non come autore del testo.
(89) Sarpi, Discorso dell'origine, etc.
dell'Uffizio dell'inquisizione; Opere varie, Helmstat (Venezia) t.
I, pag 340.
- Giannone, Ist.
Civ.
lib.
XV, cap.
ultimo.
...
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