STORIA DELLA COLONNA INFAME, di Alessandro Manzoni - pagina 18
...
.
Dopo il Muratori, troviamo uno scrittore più rinomato di lui come storico, e (ciò che in un fatto di questa sorte parrebbe dover rendere il suo giudizio più degno d'osservazione di qualunque altro) storico giureconsulto, e, come dice di sé medesimo, «più giureconsulto che politico(79) », Pietro Giannone.
Noi però non riferiremo questo giudizio, perché è troppo poco che l'abbiam riferito: è quello del Nani che il lettore ha veduto poco fa, e che il Giannone ha copiato, parola per parola, citando questa volta il suo autore appiè di pagina(80).
Dico: questa volta; perché il copiarlo che ha fatto senza citarlo, è cosa degna d'esser notata, se, come credo, non lo fu ancoral(81)i .
Il racconto, per esempio, della sollevazione della Catalogna, e della rivoluzione del Portogallo, nel 1640 è, nella storia del Giannone, trascritto da quella del Nani, per più di sette pagine in 4°, con pochissime omissioni, o aggiunte, o variazioni, la più considerabile delle quali è d'aver diviso in capitoli e in capoversi un testo che nello scritto originale andava tutto di seguito(82).
Ma chi mai s'immaginerebbe che l'avvocato napoletano, dovendo raccontare altre sollevazioni, non di Barcellona, né di Lisbona, ma quella di Palermo, del 1647, e quella di Napoli, contemporanea e più celebre, per la singolarità e per l'importanza degli avvenimenti, e per Masaniello, non trovasse da far meglio, né da far più che di prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta, dall'opera del cavaliere e procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a pensare soprattutto dopo aver lette le parole con le quali il Giannone entra in quel racconto? e son queste: «Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più autori: alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura: altri con troppo sottili minuzie distraendo i leggitori, non ne fecero nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento, ed il fine: noi per ciò, seguendo gli scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla lor giusta e natural positura.» Eppure ognuno può vedere, facendo il confronto, come, subito dopo queste sue parole, il Giannone metta mano a quelle del Nani(83) , frammischiandoci ogni tanto, e specialmente sul principio, qualcheduna delle sue, facendo qua e là qualche cambiamento, alle volte per necessità, e nella stessa maniera che uno, il qual compri biancheria usata, leva il segno dell'antico padrone, e ci mette il suo.
Così, dove il veneziano dice: «in quel regno», il napoletano sostituisce: «in questo regno»; dove il contemporaneo dice che vi «restano le fazioni quasi che intiere», il postero, che vi «restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni».
È vero che, oltre queste piccole aggiunte o variazioni, si trovano anche in quel lunghissimo squarcio, come pezzi messi a rimendo, alcuni brani più estesi, che non son del Nani.
Ma, cosa veramente da non credersi, son presi da un altro quasi tutti, e quasi parola per parola: è roba di Domenico Parrino(84) , scrittore (alla rovescia di molt'altri) oscuro, ma letto molto, e fors'anche più di quello che sperava lui medesimo, se, in Italia e fuori, è letta quanto lodata la «Storia civile del regno di Napoli», che porta il nome di Pietro Giannone.
Ché, senza allontanarci da que' due periodi di storia de' quali s'è fatto qui menzione, se, dopo le sollevazioni catalana e portoghese, il Giannone, trascrive dal Nani la caduta del favorito Olivares, trascrive poi dal Parrino il richiamo del duca di Medina vicerè di Napoli, che ne fu la conseguenza, e i ritrovati di questo per cedere il più tardi che fosse possibile il posto al successore Enriquez de Cabrera.
Dal Parrino ugualmente, in gran parte, il governo di questo; e poi dall'uno e dall'altro, a intarsiatura, il governo del duca d'Arcos, per tutto quel tempo che precedette le sollevazioni di Palermo e di Napoli, e come abbiam detto, il progresso e la fine di queste, sotto il governo di D.
Giovanni d'Austria, e del conte d'Oñatte.
Poi dal Parrino solo, sempre a lunghi pezzi, o a pezzettini frequenti, la spedizione di quel vicerè contro Piombino e Portolongone; poi il tentativo del duca di Guisa contro Napoli; poi la peste del 1656.
Poi dal Nani la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola appendice dove sono accennati gli effetti di essa nel regno di Napoli(85).
Voltaire, parlando, nel «Secolo di Luigi XIV», de' tribunali istituiti da quel re, in Metz e in Brisac, dopo la pace di Nimega, per decidere delle sue proprie pretensioni sopra territori di stati vicini, nomina, in una nota, il Giannone con gran lode, com'era da aspettarsi, ma per fargli una critica.
Ecco la traduzione di quella nota: «Giannone, così celebre per la sua utile storia di Napoli, dice che questi tribunali erano stabiliti a Tournay.
Sbaglia frequentemente negli affari che non son del suo paese.
Dice, per esempio, che, a Nimega, Luigi XIV fece la pace con la Svezia; e in vece questa era sua alleata(86) .» Ma, lasciando da parte la lode, la critica, in questo caso, non è dovuta al Giannone, il quale, come in tant'altri casi, non fece nemmen la fatica di sbagliare.
È vero che nel libro dell'uomo «così celebre», si leggono queste parole: «Seguì poscia la pace fra la Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore» (nelle quali, del rimanente, non saprei se non ci sia ambiguità piuttosto che errore); e quest'altre: «Aprirono poscia», i francesi, «due tribunali, l'uno in Tournay, e l'altro in Metz; ed arrogandosi una giurisdizione non mai udita nel mondo sopra i principi lor vicini, fecero non solamente aggiudicare alla Francia, con titolo di dipendenze, tutto il paese che saltò loro in capriccio ne' confini della Fiandra e dell'Imperio, ma se ne posero per via di fatto in possessione, costringendo gli abitanti a riconoscere il re Cristianissimo per sovrano, prescrivendo termini, ed esercitando tutti quegli atti di signoria che sono soliti i principi di praticare co' sudditi.» Ma son parole di quel povero ignorato Parrino(87) , e non già stralciate da quel suo pezzo di storia, ma portate via insieme con esso: ché spesso il Giannone, in vece di star lì a cogliere un frutto qua e uno là, leva l'albero addirittura, e lo trapianta nel suo giardino.
Tutta, si può dire, la relazion della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran parte, e con molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in Napoli del marchese de los Veles, nel tempo del quale quella pace fu conclusa, e col quale il Parrino chiude la sua opera, e il Giannone il penultimo libro della sua.
E probabilmente (stavo per dir di certo), chi si divertisse a farne il confronto intero, per tutto il periodo antecedente della dominazione spagnola in Napoli, con la quale comincia il lavoro del Parrino, troverebbe per tutto, quello che noi abbiam trovato in varie parti, e, se non m'inganno, senza veder mai citato il nome di quel tanto saccheggiato scrittore(88) .
Così dal Sarpi, senza citarlo punto, prende il Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua digressione; come mi fu fatto osservare da una dotta e gentile persona.
E chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice un fenomeno.
Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente rara, come fu raro il coraggio; ma unica la felicità di restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un grand'uomo.
E questa circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci faccia perdonare dal benigno lettore una digressione(89) , lunga, per dir la verità, in una parte accessoria d'un piccolo scritto.
Chi non conosce il frammento del Parini sulla colonna infame? Ma chi non si maraviglierebbe di non vederne fatta menzione in questo luogo?
Ecco dunque i pochi versi di quel frammento ne' quali il celebre poeta fa pur troppo eco alla moltitudine e all'iscrizione:
Quando, tra vili case e in mezzo a poche
Rovine, i' vidi ignobil piazza aprirsi.
Quivi romita una colonna sorge
In fra l'erbe infeconde e i sassi e il lezzo,
Ov'uom mai non penetra, però ch'indi
Genio propizio all'insubre cittade
Ognun rimove, alto gridando: lungi,
O buoni cittadin, lungi, che il suolo
Miserabile infame non v'infetti.
Era questa veramente l'opinion del Parini? Non si sa; e l'averla espressa, così affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perché allora era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre un'impressione, o forte, o piacevole.
Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva nascere, perché i poeti, nessun credeva che dicessero davvero.
Non c'è da replicare: solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e del motivo.
Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che richiese per degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente abborriti, una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda.
Ma che? le sue «Osservazioni», scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804, con altre sue opere, edite e inedite, nella raccolta degli «Scrittori classici italiani d'economia politica».
E l'editore rende ragione di questo ritardo, nelle «Notizie» premesse all'opere suddette.
«Si credette», dice, «che l'estimazione del senato potesse restar macchiata dall'antica infamia.» Effetto comunissimo, a que' tempi, dello spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che non aveva fatti.
Ora un tale spirito non troverebbe l'occasione d'estendersi tanto nel passato, giacché, in quasi tutto il continente d'Europa, i corpi son di data recente, meno pochi, meno uno soprattutto, il quale, non essendo stato istituito dagli uomini, non può essere né abolito, né surrogato.
Oltre di ciò, questo spirito è combattuto e indebolito più che mai dallo spirito d'individualità: l'io si crede troppo ricco per accattar dal noi.
E in questa parte, è un rimedio; Dio ci liberi di dire: in tutto.
A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la manifestazione d'una verità resa importante dal credito in cui era l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire; ma c'era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto.
Il padre dell'illustre scrittore era presidente del senato.
Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta.
(1) Ut mos vulgo, quamvis falsis, reum subdere, Tacit.
Ann.
I, 39.
(2) Verri, Osservazioni sulla tortura, § VI.
(3) Staututa criminalia; Rubrica generalis de forma citiationis in criminalibus; De tormentis, seu quaestionibus.
(4) Cod.
Lib.
IX; Tit.
XLI, De quaestionibus, 1.
8.
(5) Verri, Osservazioni sulla tortura, § XIII.
(6) La pratica criminale dell'Inghilterra, non cercando la prova del delitto o dell'innocenza nell'interrogatorio del reo, escluse indirettamente, ma necessariamente, quel mezzo fallace e crudele d'aver la sua confessione.
Francesco Casoni (De tormentis, cap, I, 3) e Antonio Gomez (Variarum resolutionum etc., tom.
3, cap.
13, de tortura reorum cap.
4) attestano che, almeno al loro tempo, la tortura non era in uso nel regno d'Aragona.
Giovanni Loccenio (Synopsis juris Sueco-gothici), citato da Ottone Taber (Tractat.
de tortura, et indiicis delictorum, cap.
2, 18) attesta il medesimo della Svezia; né so se alcun altro paese d'Europa sia andato immune da quel vergognoso flagello, o se ne sia liberato prima del secolo scorso.
(7) Verri, Oss.
§ VIII.
- Farin.
Praxis et Theor.
criminalis, Quaest.
XXXVIII, 56.
(8) Fran.
a Bruno, De indiciis et tortura, part.
II, quaest.
II, 7.
(9) Guid.
de Suza, De Tormentis, 1.
- Cod.
IX, tit.
4, De custodia reorum; 1.
(10) Baldi, ad lib.
IX Cod.
tit XIV, De emendatione servorum, 3.
(11) Par.
de Puteo, De syndicatu; in verbo: Crudelitas officialis, 5.
(12) J.
Clari, Sementiarum receptarum, Lib V, § fin.
Quaest.
LXIV, 36.
(13) Gomez, Variar.
resol.
t.
3, c.
13, De tortura reorum, 5.
(14) Oss.
§ XIII.
(15) Hipp.
de Marsiliis, ad Tit.
Dig.
de quaestionibus; leg.
In criminibus, 29.
(16) Praxis, etc.
Quaest.
XXXVIII, 54.
(17) Pratica causarum criminalium; in verbo: Expedita; 86.
(18) Quaest.
XXXVIII, 38.
(19) Oss.
§ VIII.
(20) Sent.
rec.
lib.
V, quaest, LXIV, 12.
Venet.
1640; ex typ.
Barietana, p.
537.
(21) Ven.
apud Hier.
Polum, 1580, f.
172 - Ibid.
apud P.
Ugolinum, 1595.
f.
180.
(22) Verri, loc.
cit.
- Clar, loc.
cit.
13.
(23) Ibid., Quaest.
XXXI, 9.
(24) Bartol.
ad Dig.
lib.
XLVIII, tit.
XVIII, I.
22.
(25) Et generaliter omne quod non determinatur a iure, relinquitur arbitrio iudicantis.
De tormentis, 30.
(26) Et deo lex super indiciis gravat coscientias iudicum.
De Syndicatu, in verbo: Mandavit, 18.
(27) Ægid Bossii, Tractatus varii; tit.
de indiciis ante torturam, 32.
(28) Ibid.
Quaest.
XXXVII, 193 ad 200.
(29) Francisci Casoni, Tractatus de tormentis; cap.
I, 10.
(30) Oss.
§ VIII.
(31) Ibid.
(32) Paradis de Puteo, De syndicatu, in verbo: Et advertendum est; Judex debet esse subtilis in investiganda maleficii veritate.
(33) Ad Clart.
Sentent.
recept.
Quaest.
LXIV, 24, add.
80, 81.
(34) Istoria civile, etc., lib.
28, cap.
ult.
(35) Praxis et Theoricae criminalis, Quaest.
LII, 11, 13, 14.
(36) Ibid.
Quaest.
XXXVII, 2, 3, 4.
(37) P.
Follerii, Pract.
Crim., Cap.
Quod suffocavit, 52.
(38) Quando crimen est gravius, tanto praesumptiones debent esse vehementiores; quia ubi majus periculum, ibi cautius est agendum.
- Abbatis Panormitani, Commentarium in libros decretalium, De praesumptionibus, Cap.
XIV, 3.
(39) Clar.
Sent.
Rec.
lib.
V § 1, 9.
(40) Hipp.
Riminaldi, Consilia; LXXXVIII, 53.
- Farin.
Quaest.
XXXVII, 79.
(41) Clar.
Ib.
Lib.
V, § fin.
Quaest.
LXIV, 9.
(42) Reus evidentioribus argumentis oppressus, repeti in quaestionem potest.
Dig.
lib.
XLVIII, tit.
18, 1, 18.
(43) Numquid potest repeti quaestio? Videtur quod sic; ut Dig.
eo.
1.
Repeti.
Sed vos dicatis quod non potest repeti sine novi indiciis.
Odofredi, ad Cod.
lib.
IX, tit.
41, 1.
18.
(44) Cyni Pistoriensis, super Cod.
lib.
IX, tit.
41, l.
de tormetis, 8.
(45) Bart.
ad Dig.
loc.
cit.
(46) V.
Farinac.
Quest.
XXXVIII, 72, et seq.
(47) Oss.
§ III.
(48) Tractat.
var.; tit.
De tortura, 44.
(49) V.
Farinac.
Quest.
LXXXI, 277.
(50) Constitutiones dominii mediolanensis; De Senatoribus.
(51) Op.
cit.
tit.
De confessis per torturam, II.
(52) De peste, etc.
pag.
84.
(53) Oss.
§ IV.
(54) Quaest.
XLIII, 192.
V.
Summarium.
(55) Tractat.
var., tit.
De oppositionibus contra testes; 21.
(56) Et si consanguinei erant, pag.
87.
(57) Oss.
§ IV
(58) Dig.
Lib.
XXII, tit.
V, De testibus; I, 21, 2.
(59) V.
Farinacci, Quaest.
XLIII, 134, 135.
(60) Op.
cit.
Quaest.
XXI, 13.
(61) Op.
cit.
De indiciis et considerationibus ante torturam; 152.
(62) Arrotini di forbici per tagliar l'oro filato.
L'esserci una professione a parte per quell'industria secondaria, fa vedere come fiorisse ancora la principale.
(63) Antica interiezion milanese, corrispondente al toscano madiè, «particella usata dagli antichi, alla provenzale», dice la Crusca.
Significava in origine mio Dio; ed era una delle tante formole di giuramento, entrate per abuso nel discorso ordinario.
Ma in questo caso il Nome non sarebbe stato nominati in vano.
(64) Quaest.
XLIII, 172-174.
(65) Farinacci, Quaest.
XLIII; 185, 186.
(66) Plutarco, Vita d'Alessandro; traduzione del Pompei.
(67) Q.
Curtii, VI, II.
(68) Farinacci, Quaest.
L.
31; LXXXI; 40; LII, 150, 152.
(69) Res est (quaestio) fragilis et periculosa, et quae veritatem fallat.
Nam plerique, patientia sive duritia tormentorum, ita tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit, alii tanta sunt impatientia, ut quovis mentiri quam pati tormenta velint.
Dig.
, Lib.
XLVIII, tit.
XVIII, 1, I, 23.
(70) Nel rescritto citato sopra, alla pagina 766.
(71) Farinacci, Quaest.
XXXVII, 110.
(72) Oss.
§ IV.
(73) quorum capita...
fingenti inter dolores gemitusque occurrere.
Liv.
XXIV, 5.
(74) Oss.
§ V, in fine.
(75) Caro, trad.
dell'Eneide, lib.
VII.
(76) pag.
107, 108.
(77) Nani, Historia veneta; parte I, lib.
VIII, Venezia, Lovisa, 1720, pag.
473.
(78) Lib.
I, cap X.
(79) Istoria civile, etc.
Introduzione.
(80) Istoria civile, lib.
XXXVI, cap 2.
(81) Il Fabroni (Vitae Italorum, etc., Petrus Jannonius), cita come scrittori dai quali il Giannone «ha preso i passi interi, invece di ricorrere ai documenti originali, e senza confessarlo schiettamente, il Costanzo, il Summonte, il Parrino, e principalmente il Bufferio».
Ma par difficile che da quest'ultimo (che non abbiam potuto trovare chi sia) prenda più che dal Costanzo, del quale, se «al principio risponde il fine e il mezzo», deve aver intarsiata mezza, a dir poco, la storia nella sua; e più che dal Parrino, del quale dovremo dir qualcosa or ora.
(82) Giannone.
Ist.
Civ.
lib.
XXXVI, cap V, e il primo capoverso del VI - Nani, Hist.
Ven.
parte I, lib.
XI, pag 651-661 dell'edizione citata.
(83) Giannone, lib.
XXXVII, cap.
II, III e IV.
- Nani, parte II, lib IV, pag.
146-157.
(84) Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del regno di Napoli, etc.
Napoli, 1692, tom.
2°; Duca d'Arcos.
Il testo del Nani corre, con pochissimi e minuti cambiamenti, come abbiam detto, per sette capoversi del Giannone, l'ultimo de' quali termina con le parole: «si richiedevano, e per supplire altrove, e per difendere il regno, grandissime provvisioni».
E lì entra il Parrino con le parole: «Il viceré duca d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del denaro», e via via, paucis mutatis, al solito, per due capoversi, e per mezzo circa il seguente.
Dopo, ritorna il Nani e va avanti, prima solo, per un bel pezzo, poi alternato, e, per dir così, a scacchi, col Parrino.
E c'è fino de' periodi, messi insieme bene o male, ma con pezzi dell'uno e dell'altro.
Eccone un esempio: «Così in un momento s'estinse quell'incendio che minacciava l'eccidio al regno; e ciò che apporto maggior maraviglia, fu la subita mutazione degli animi, che dalle uccisioni, da' rancori e dagli odj passarono immantinente a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza distinzione d'amici, o d'inimici (Parrino, tom.
II, pag.
425): fuorché alcuni pochi, i quali guidati dalla mala coscienza, si sottrassero colla fuga, tutti gli altri restituiti a' loro mestieri, maledicendo le confusioni passate, abbracciarono con giubilo la quiete presente (Nani, parte II, lib.
IV, pag 157 dell'ediz.
cit.)».
Giannone, lib.
XXXVII, cap IV, secondo capoverso.
(85) V.
Giannone, lib.
XXXVI, cap VI, e ultimo; tutto il lib.
XXXVII, che ha sette capitoli; e il preambolo del lib.
seg.
- Nani, parte I, lib XII, pag.
738; parte II, lib.
III; IV; VIII - Parrino, t.
II, pag.
296 e seg., t.
III, pag I e seg.
(86) Siecle de Louis XIV; chap.
XVII, Paix de Wyswick, not.
c.
(87) Giannone, lib.
XXXIX, cap.
ultimo, pag.
461 e 463 del t.
IV, Napoli, Niccolò Naso, 1723.
- Parrino, t.
III, pag.
553 e 567.
(88) Fu poi citato spesso appiè di pagina in qualche edizione fatta dopo la morte del Giannone; ma il lettore che non sa altro, deve immaginarsi che sia citato come testimonio de' fatti, non come autore del testo.
(89) Sarpi, Discorso dell'origine, etc.
dell'Uffizio dell'inquisizione; Opere varie, Helmstat (Venezia) t.
I, pag 340.
- Giannone, Ist.
Civ.
lib.
XV, cap.
ultimo.
...
[Pagina successiva]