[Pagina precedente]...e intendendo, ecco son giunto,
Potete ormai veder che non per mia
Frode o sciocchezza avvien che tali appunto
Si pingan nella vostra fantasia
De' topi gli antichissimi parenti
Quali i popoli son che abbiam presenti:
22
Ma procede da ciò, che il nostro stato
Antico è veramente e primitivo
Non degli uomini sol, ma in ogni lato
D'ogni animal che in aria o in terra è vivo.
Perché ingiusto saria che condannato
Fosse di sua natura a un viver privo
Quasi d'ogni contento e pien di mali
L'interminato stuol degli animali.
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Per tanto in civiltà , data secondo
Il grado naturale a ciascheduna,
Tutte le specie lor vennero al mondo,
E tutte poscia da cotal fortuna
Per lor proprio fallir caddero in fondo,
E infelici son or; né causa alcuna
Ha il ciel però dell'esser lor sì tristo
Il qual bene al bisogno avea provvisto.
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E se colma d'angoscia e di paura
Del topolin la vita ci apparisce,
Il qual mirando mai non s'assicura,
Fugge e per ogni crollo inorridisce,
Corruzion si creda e non natura
La miseria che il topo oggi patisce,
A cui forse il menà r quei casi in parte
Che seguitando narran queste carte.
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E la dispersion della sua schiatta
Ebbe forse d'allor cominciamento,
La qual raminga in su la terra è fatta.
Perduto il primo e proprio alloggiamento.
Come il popol giudeo, che mal s'adatta
Esule, sparso, a cento sedi, e cento,
E di Solima il tempio e le campagne
Di Palestina si rammenta e piagne.
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Ma il novello signor giurato ch'ebbe
Servar esso e gli eredi eterno il patto,
Incoronato fu come si debbe,
E il manto si vestì di pel di gatto,
E lo scettro impugnò, che d'auro crebbe,
Nella cui punta il mondo era ritratto,
Perché credeva allor del mondo intero
La specie soricina aver l'impero.
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Dato alla plebe fu cacio con polta,
E vin vecchio gittà r molte fontane,
Gridando ella per tutto allegra e folta
Viva la carta e viva Rodipane,
Tal ch'eccheggiando quell'alpestre volta
Carta per tutto ripeteva e pane,
Cose al governo delle culte genti,
Chi le sa ministrar, sufficienti.
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Re de' topi costui con nuovo nome,
O suo trovato fosse o de' soggetti.
S'intitolò, non di Topaia, come
Propriamente in addietro s'eran detti
I portatori di quell'auree some.
Cosa molto a notar, che negli effetti
Differisce d'assai, benché non paia,
S'alcun sia re de' topi o di Topaia.
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La noto ancor, però che facilmente
Nella cronologia non poco errato
Potrebbe andar chi non ponesse mente
A questo metafisico trovato,
E creder che costui primieramente
Rodipan fra quei re fosse nomato,
Quando un Rodipan terzo avanti a questo
Da libri e da monete è manifesto,
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Primo fra' re de' topi, ma contando
Quei di Topaia ancor, s'io bene estimo,
Fu quarto Rodipan. Questo ignorando
Può la cronologia da sommo ad imo
Andar sossopra. A ciò dunque ovviando
Notate che costui Rodipan primo,
E il notin gli eruditi e i filotopi,
Fra i re de' topi fu, non fra i re topi.
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Non era il festeggiar finito ancora
Quando giunse dal campo il messaggero,
Non aspettato ormai, che la dimora
Sua lunga aveane sgombro ogni pensiero;
Né desiato più, che insino allora
Soleano i sogni più gradir che il vero.
Sogni eran gli ozi brevi e l'allegria,
Ver ciò che il conte a rapportar venia.
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Immantinente poi che divulgato
Fu per fama in Topaia il suo ritorno,
Interrotto il concorso ed acchetato
Il giulivo romor fu d'ogni intorno.
Tristo annunzio parea quel che bramato
E sospirato avean pur l'altro giorno,
Perché già per obblio fatte sicure
Destava l'alme ai dubbi ed alle cure.
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Prestamente il legato a Rodipane
L'umor del granchio e l'aspre leggi espose,
E nel maggior consiglio la dimane
Per mandato del re l'affar propose.
Parver l'esposte leggi inique e strane,
Fatti sopra vi fur comenti e chiose,
Alfin per pace aver dentro e di fuore
A tutto consentir parve il migliore.
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Tornò nel campo ai rigidi contratti
Il conte con famigli e con arnesi,
E l'accordo fermò secondo i patti
Che già per le mie rime avete intesi.
Soscriver non sapea, né legger gli atti
Il granchio, arti discare a' suoi paesi;
Ma lesse e confermò con la sua mano
Un ranocchio che allor gli era scrivano.
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Ratto uno stuol di trentamila lanzi
Ver Topaia lietissimo si mosse,
A doppie paghe e più che doppi pranzi,
Benché rato l'accordo ancor non fosse,
E nella terra entrò, dietro e dinanzi
Schernito per le vie con le più grosse
Beffe che immaginar sapea ciascuno,
Non s'avvedendo quelli in modo alcuno.
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Nel superbo castel furo introdotti,
Dove l'insegna lor piantata, e sciolta,
Poser mano a votar paiuoli e botti,
E sperar pace i topi un'altra volta.
Lieti i giorni tornà r, liete le notti,
Ch'ambo sovente illuminar con molta
Spesa fece il comun per l'allegria
Dell'acquistata nuova monarchia.
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Ma quel che più rileva, a far lo stato
Prospero quanto più far si potesse
Del popolo in comune e del privato
Fama è che cordialmente il re si desse.
Il qual subito poi che ritornato
Fu Leccafondi, consiglier lo elesse,
Ministro dell'interno e principale
Strumento dell'impero in generale.
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Questi a rimover l'ombra ed all'aumento
Di civiltà rivolse ogni sua cura,
Sapendo che con altro fondamento
Prosperità di regni in piè non dura,
E che civile e saggia, il suo contento
La plebe stessa ed il suo ben procura
Meglio d'ogni altro, né favor né dono,
Fuor ch'esser franca, l'è mestier dal trono.
39
E bramò che sapesse il popol tutto
Leggere e computar per disciplina
Stimando ciò, cred'io, maggior costrutto,
Che non d'Enrico quarto la gallina.
Quindi nella città fe' da per tutto
Tante scole ordinar, che la mattina
Piazze, portici e vie per molti dì
Non d'altro risonà r che d'a b c.
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Crescer più d'una cattedra o lettura
Anco gli piacque a ciaschedun liceo,
Con più dote che mai per avventura
Non ebbe professor benché baggeo.
Dritto del topo, dritto di natura,
Ed ogni dritto antegiustinianeo,
E fuvvi col civil, col criminale
Esposto il dritto costituzionale.
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E già per la fidanza ond'è cagione
All'alme un convenevol reggimento,
D'industria a rifiorir la nazione
Cominciava con presto accrescimento.
Compagnie di ricchissime persone
Cercar da grandi spese emolumento,
D'orti, bagni, ginnasi e ciascun giorno
Vedevi il loco novamente adorno.
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Vendite nuove ed utili officine
Similmente ogni dì si vedean porre,
Merci del loco e merci pellegrine
In copia grande ai passeggeri esporre,
Stranie commodità far cittadine,
Nuovi teatri il popolo raccorre,
Qui strade a raccorciar la plebe intenta,
LÃ d'un palagio a por le fondamenta.
43
Concorde intanto la città con bianchi
Voti il convegno ricevuto avea,
E che di quello dal signor de' granchi
Fosse fatto altrettanto s'attendea.
Andando e ritornando eran già stanchi
Più messi, e nulla ancor si conchiudea,
Tanto che in fin dei principali in petto
Nascea, benché confuso, alcun sospetto.
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Senzacapo re granchio il più superbo
De' prenci di quel tempo era tenuto,
Nemico ostinatissimo ed acerbo
Del nome sol di carta o di statuto,
Che il poter ch'era in lui senza riserbo
Partir con Giove indegno avria creduto.
Se carta alcun sognò dentro il suo regno
Egli in punirlo esercitò l'ingegno.
45
E cura avea che veramente fosse
Con perfetto rigor la pena inflitta,
Né dalle genti per pietà commosse
Qualche parte di lei fosse relitta,
E il numero e il tenor delle percosse
Ricordava e la verga a ciò prescritta.
Buon sonator per altro anzi divino
La corte il dichiarò di violino.
46
Questi poiché con involute e vaghe
Risposte ebbe gran tempo ascoso il vero,
Al capitan di quei che doppie paghe
Già da' topi esigean senza mistero
Ammessi senza pugna e senza piaghe,
Mandò, quando gli parve, un suo corriero.
Avea quel capitan fra i parlatori
Della gente de' granchi i primi onori.
47
Forte nei detti sì che per la forte
Loquela il dimandar Boccaferrata.
Il qual venuto alle reali porte
Chiese udienza insolita e privata.
Ed intromesso, fe', come di corte,
Riverenza per granchio assai garbata:
Poi disse quel che riposato alquanto
Racconterò, lettor, nell'altro canto.
CANTO QUINTO
1
Signor, disse, che tale esser chiamato
Dei pel sangue che porti entro le vene,
Il qual certo sappiam che derivato
Da sorgente real ne' tuoi perviene
E perché di sposar fosti degnato,
Colei che sola in vita ancor mantiene,
Caduti tutti gli altri augusti frutti,
La famiglia del re Mangiaprosciutti;
2
Degno quant'altro alcun di regio trono
T'estima il signor mio per ogni punto,
Ma il sentiero, a dir ver, crede non buono
Per cui lo scettro ad impugnar sei giunto.
Tai che a poter ben darlo atti non sono,
T'hanno ai ben meritati onori assunto.
Ma re fare o disfar, come ben sai,
Altro ch'a' re non s'appartenne mai.
3
Se vedovo per morte il seggio resta
Che legittimamente era tenuto,
Né la succession sia manifesta
Per discendenza o regio altro statuto,
Né men per testamento in quella o in questa
Forma dal morto re sia provveduto,
Spontaneamente al derelitto regno
S'adopran gli altri re di por sostegno.
4
O un successore è dato a quella sede
Che sia da lor concordemente eletto,
O partono essi re pieni di fede
L'orbo stato fra lor con pari affetto,
O chi primo il può far primo succede
Per lo più chi più forte è con effetto,
Cause genealogiche allegando,
E per lo più con l'arme autenticando.
5
Re novo, di lor man pesato e scosso,
Dare i sudditi a se mai non fur visti,
Né fora assurdo al mio parer men grosso
Che se qualche lavor de' nostri artisti,
Come orologio da portare indosso
O cosa tal che per danar s'acquisti,
Il compratore elegger si vedesse,
Che lei portare e posseder potesse.
6
Negli scettri non han ragione o voto
I popoli nessuno o ne' diademi,
Ch'essi non fer, ma Dio, siccome è noto.
Anzi s'anco talvolta in casi estremi
Resta il soglio deserto non che vòto
Per popolari fremiti e per semi
D'ire o per non so qual malinconia,
Onde spenta riman la monarchia,
7
Al popol che di lei fu distruttore
Cercan rimedio ancor l'altre corone,
E legittimo far quel mal umore
Quasi e rettificar l'intenzione
Destinato da lor novo signore
Dando a quel con le triste o con le buone,
Né sopportan giammai che da se stesso
Costituirsi un re gli sia conesso.
8
Che se pur fu da Brancaforte ingiunto
A' tuoi di provveder d'un re novello,
Non volea questo dir ch'eletto a punto
Fosse il creato re questo né quello,
Ma non altro dar lor se non l'assunto
Che i più capaci del real mantello
Proponessero a' piè de' potentati,
Che gli avriano a bell'agio esaminati.
9
Or dunque avendo alla virtù rispetto,
Signor, che manifesta in te dimora,
E sopra tutto a quei che prima ho detto
Pregi onde teco il gener tuo s'onora,
Non della elezion solo il difetto
Supplire ed emendar, ma vuole ancora
La maestà del mio padrone un segno
Darti dell'amor suo forse più degno.
10
Perché non pur con suo real diploma
Che valevol fia sempre ancor che tardo,
E di color che collegati ei noma
Che il daran prontamente a suo riguardo,
Riponendoti il serto in su la chioma
Legittimo farà quel ch'è bastardo,
Che legittimità , cosa volante,
Vien dal cielo o vi riede in un istante:
11
Ma il poco onesto e non portabil patto
Che il popolo a ricever ti costrinse,
A cui ben vede il mio signor che un atto
Discorde assai dal tuo voler t'avvinse,
Sconcio a dir vero e tal che quasi affatto
La maestà di questo trono estinse,
A potere annullar de' topi in onta
Compagnia t'offerisce utile e pronta.
12
Non solo i nostri trentamila forti
Che nel suo nome tengono il castello
Alla bell'opra ti saran consorti
Di render lustro al tuo real cappello,
Ma cinquecentomila che ne' porti
De' ranocchi hanno stanza, io vo dir quello
Esercito già noto a voi che sotto
Brancaforte in quei lochi or s'è ridotto,
13
E che per volontà del signor nostro
Così fermato in prossime contrade
Aspetta per veder nel regno vostro
Che movimento o cosa nova accade,
Tosto che un cenno tuo gli sarà mostro,
Il cammin prenderà della cittade,
Dove i topi o ravvisti o con lor danno
A servir prestamente torneranno.
14
Fatto questo, il diploma a te spedito
Sarà , di quel tenor che si conviene.
E un patto fra' due re fia sta...
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