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Dare al sordido lido alcuna via.
Ma gli augelli scacciava uno spavento
Ed un fetor che dalla nebbia uscia.
Pure ai nostri non fur d'impedimento
Queste cose, il cui volo ivi finia,
Che quel funereo padiglione eterno
Copria de' bruti il generale inferno.
42
Colà rompendo la selvaggia notte
Gli stanchi volatori abbassar l'ale
E quella terra calpestar che inghiotte
Puro e semplice l'io d'ogni animale,
E posersi a seder su le dirotte
Ripe ove il piè non porse altro mortale,
Levando gli occhi alla feral montagna
Che il mezzo empiea dell'arida campagna.
43
D'un metallo immortal massiccio e grave
Quel monte il dosso nuvoloso ergea,
Nero assai più che per versate lave
Non par da presso la montagna etnea,
Tornito e liscio e fra quell'ombre cave
Un monumento sepolcral parea:
Tali alcun sogno a noi per avventura
Spettacoli creò fuor di natura.
44
Girava il monte più di cento miglia
E per tutto il suo giro alle radici
Eran bocche diverse a maraviglia
Di grandezza tra lor ma non d'uffici.
Degli estinti animali ogni famiglia
Dalle balene ai piccoli lombrici,
Alle pulci, agl'insetti onde ogni umore
Han pieno altri animai dentro e di fuore,
45
Microscopici o in tutto anche nascosti
All'occhio uman quanto si voglia armato
Ha quivi la sua bocca. E son disposti
Quei fori sì che de' maggiori allato
I minori per ordine son posti.
Della maggior balena e smisurato
È il primo, e digradando a mano a mano
L'occhio s'aguzza in su gli estremi invano.
46
Porte son questi d'altrettanti inferni
Che ad altrettanti generi di bruti
Son ricetti durabili ed eterni
Dell'anime che i corpi hanno perduti.
Quivi però da tutti i lidi esterni
Venian radendo l'aria intenti e muti
Spirti d'ogni maniera, e quella bocca
Prendea ciascun ch'alla sua specie tocca.
47
Cervi, bufali, scimmie, orsi e cavalli,
Ostriche, seppie, muggini ed ombrine,
Oche, struzzi, pavoni e pappagalli,
Vipere e bacherozzi e chioccioline,
Forme affollate per gli aerei calli
Empiean del tetro loco ogni confine,
Volando, perché il volo anche è virtude
Propria dell'alme di lor membra ignude.
48
Ben quivi discernean Dedalo e il conte
Queste forme che al Sol non avean viste,
Bench'alle spalle ai fianchi ed alla fronte
Sempre al lor volo assai ne fur commiste,
Che d'ogni valle, o poggio, o selva, o fonte
Van per l'alto ad ogni ora anime triste,
Verso quel loco che l'eterna sorte
Lor seggio destinò dopo la morte.
49
Ma come solamente all'aure oscure
Del suo foco la lucciola si tinge,
E spariscono al Sol quelle figure
Che la lanterna magica dipinge,
Così le menti assottigliate e pure
Di quel vel che vivendo le costringe
Sparir naturalmente al troppo lume,
Né parer che nell'ombra han per costume.
50
E di qui forse avvien che le sepolte
Genti di notte comparir son use,
E che dal giorno, fuor che rade volte,
Soglion le visioni essere escluse.
Vuole alcun che le umane alme disciolte
In un di questi inferni anco sien chiuse,
Posto là come gli altri in quella sede
Che la grandezza in ordine richiede.
51
E che Virgilio e tutti quei che diero
All'uman seme un eremo in disparte
favoleggiasser seguitando Omero,
E lo stil proprio de' poeti e l'arte,
Essendo del mortal genere in vero
Più feconda che l'uom la maggior parte.
Io di questo per me non mi frammetto:
Però l'istoria a seguitar m'affretto.
CANTO OTTAVO
1
La ragion perché i morti ebber sotterra
L'albergo lor non m'è del tutto nota.
Dei corpi intendo ben, perch'alla terra
Riede la spoglia esanime ed immota;
Ma lo spirto immortal ch'indi si sferra
Non so ben perché al fondo anche percota.
Pur s'altre autorità non fosser pronte,
Ciò la leggenda attesteria del conte.
2
Attonito a mirar lunga fiata
La novità dell'infernal soggiorno
Stette il buon Leccafondi, e dell'andata
La cagione obbliava ed il ritorno.
Ma Dedalo il riscosse, e rigirata
Ch'ebbero in parte la montagna intorno,
La bocca ritrovà r là dove a torme
De' topi estinti concorrean le forme.
3
Ivi dinanzi all'inamabil soglia
Dipartirsi convenne ai due viventi,
Per non poter, benché n'avesse voglia,
Dedalo penetrar fra' topi spenti,
Non sol vivendo, ma né men se spoglia
Anima andasse fra le morte genti:
Che non cape pur mezza in quella porta
La figura dell'uom viva né morta.
4
Maggiori inferni e dalla sua statura
Ben visitati avea l'uom forte e saggio,
E vedutili, fuor nella misura,
Conformi esser tra lor, di quel viaggio
Predetta aveva al topo ogni avventura,
Ch'or gli ridisse, e fecegli coraggio,
E messol dentro al sempiterno orrore,
Ad aspettarlo si fermò di fuore.
5
Io vidi in Roma su le liete scene
Che il nome appresso il volgo han di Fiano,
In una grotta ove sonar catene
S'ode e un lamento pauroso e strano,
Discender Cassandrin dalle serene
Aure per forza con un lume in mano,
Che con tremule note in senso audace
Parlando, spegne per tremar la face.
6
Poco altrimenti all'infernal discesa
Posesi di Topaia il cavaliere,
Salvo che non avea lucerna accesa,
Ch'ai topi per veder non è mestiere;
Né minacciando gia, che in quella impresa
Vedeva il minacciar nulla valere,
E pur volendo, credo che a gran pena
Bastata a questo gli saria la lena.
7
Tacito discendeva in compagnia
Di molte larve i sotterranei fondi.
Senza precipitar quivi la via
Mena ai più ciechi abissi e più profondi.
Can Cerbero latrar non vi s'udia,
Sferze fischiar né rettili iracondi,
Non si vedevan barche e non paludi,
Né spiriti aspettar sull'erba ignudi.
8
Senza custode alcuno era l'entrata
Ed aperta la via perpetuamente,
Che da persone vive esser tentata
La non può mai che malagevolmente,
E per l'uso de' morti apparecchiata
Fu dal principio suo naturalmente,
Onde non è ragion farvisi altrui
Ostacolò al calar ne' regni bui.
9
E dell'uscir di là nessun desio
Provano i morti, se ben hanno il come;
Che spiccato che fu de' topi l'io,
Non si rappicca alle corporee some,
E ritornando dall'eterno obblio,
Sanno ben che rizzar farian le chiome;
E fuggiti da ognuno e maledetti
Sarian per giunta da' parenti stretti.
10
Premii né pene non trovò nel regno
De' morti il conte, ovver di ciò non danno
Le sue storie antichissime alcun segno,
E maraviglia in questo a me non fanno,
Che i morti aver quel ch'alla vita è degno,
Piacere eterno ovvero eterno affanno,
Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero,
Non che il prisco Israele, il dotto Omero.
11
Sapete che se in lui fu lungamente
Creduta ritrovar questa dottrina,
Avvenne ciò perché l'umana mente,
Quei dogmi ond'ella si nutrì bambina
Veri non crede sol ma d'ogni gente
Natii, quantunque antica o pellegrina.
Dianzi in Omero errar di ciò la fama
Scoprimmo: ed imparar questo si chiama.
12
Né mai selvaggio alcun di premii o pene
Destinate agli spenti ebbe sentore,
Né già dopo il morir delle terrene
Membra l'alme credé viver di fuore.
Ma palpitare ancor le fredde vene,
E in somma non morir colui che more.
Perch'un rozzo del tutto e quasi infante
La morte a concepir non è bastante.
13
Però questa caduca e corporale
Vita, non altra, e il breve uman viaggio
In modi e luoghi incogniti immortale
Dopo il fato durar crede il selvaggio
E lo stato i sepolti anco aver tale,
Qual ebber quei di sopra al lor passaggio,
Tali i bisogni e non in parte alcuna
Gli esercizi mutati o la fortuna.
14
Ond'ei sotterra con l'esangue spoglia
Ripon cibi e ricchezze e vestimenti,
Chiude le donne e i servi acciò non toglia
Il sepolcro al defunto i suoi contenti,
Cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia
Arte ch'egli adoprasse appartenenti,
Massime se il destin gli avea prescritto
Che con la man si procacciasse il vitto.
15
E questo è quello universal consenso
Che in testimon della futura vita
Con eloquenza e con sapere immenso
Da dottori gravissimi si cita,
D'ogni popol più rozzo e più milenso,
D'ogni mente infingarda e inerudita:
Il non poter nell'orba fantasia
La morte immaginar che cosa sia.
16
Son laggiù nel profondo immense file
Di seggi ove non può lima o scarpello,
Seggono i morti in ciaschedun sedile
Con le mani appoggiate a un bastoncello,
Confusi insiem l'ignobile e il gentile
Come di mano in man gli ebbe l'avello.
Poi ch'una fila è piena, immantinente
Da più novi occupata è la seguente.
17
Nessun guarda il vicino o gli fa motto.
Se visto avete mai qualche pittura
Di quelle usate farsi innanzi a Giotto,
O statua antica in qualche sepoltura
Gotica, come dice il volgo indotto,
Di quelle che a mirar fanno paura,
Con le facce allungate e sonnolenti
E l'altre membra pendule e cadenti,
18
Pensate che tal forma han per l'appunto
L'anime colaggiù nell'altro mondo,
E tali le trovò poi che fu giunto
Il topo nostro eroe nel più profondo.
Tremato sempre avea fino a quel punto
Per la discesa, il ver non vi nascondo,
Ma come vide quel funereo coro
Per poco non restò morto con loro.
19
Forse con tal, non già con tanto orrore
Visto avete in sua carne ed in suoi panni
Federico secondo imperatore
In Palermo giacer da secent'anni
Senza naso né labbra, e di colore
Quale il tempo può far con lunghi danni,
Ma col brando alla cinta e incoronato,
E con l'imago della terra allato.
20
Poscia che dal terror con gran fatica
A poco a poco ritornato il conte
Oso fu di mirar la schiera antica
Negli occhi mezzo chiusi e nella fronte,
Cercando se fra lor persona amica
Riconoscesse alle fattezze conte,
Gran tempo andò con le pupille errando
Di contanti nessun raffigurando.
21
Sì mutato d'ognuno era il sembiante,
E sì tra lor conformi apparian tutti,
Che a gran pena gli venne in sul davante
Riconosciuto in fin Mangiaprosciutti,
Rubatocchi e poche altre anime sante
Di cari amici suoi testè distrutti:
A cui principalmente il sermon volto
Narrò perché a cercarli avesse tolto.
22
Ma gli convenne incominciar dal primo
Assalto che dai granchi ebbero i suoi,
Novo agli scesi anzi quel tempo all'imo
Essendo quel che occorso era da poi.
Ben ciascun giorno dal terrestre limo
Discendon topi al mondo degli eroi,
Ma non fan motto, che alla gente morta
Questa vita di qua niente importa.
23
Narrato ch'ebbe alla distesa il tutto,
La tregua, il novo prence e lo statuto,
Il brutto inganno dei nemici, e il brutto
Galoppar dell'esercito barbuto,
Addimandò se la vergogna e il lutto
Ove il popol de' topi era caduto
Sgombro sarebbe per la man de' molti
Collegati da lui testè raccolti.
24
Non è l'estinto un animal risivo,
Anzi negata gli è per legge eterna
La virtù per la quale è dato al vivo
Che una sciocchezza insolita discerna,
Sfogar con un sonoro e convulsivo
Atto un prurito della parte interna.
Però, del conte la dimanda udita,
Non risero i passati all'altra vita.
25
Ma primamente allor su per la notte
Perpetua si diffuse un suon giocondo,
Che di secolo in secolo alle grotte
Più remote pervenne insino al fondo.
I destini tremà r non forse rotte
Fosser le leggi imposte all'altro mondo,
E non potente l'accigliato Eliso,
Udito il conte, a ritenere il riso.
26
Il conte, ancor che la paura avesse
De' suoi pensieri il principal governo,
Visto poco mancar che non ridesse
Di se l'antico tempo ed il moderno,
E tutto per tener le non concesse
Risa sudando travagliar l'inferno,
Arrossito saria, se col rossore
Mostrasse il topo il vergognar di fuore.
27
E confuso e di cor tutto smarrito,
Con voce il più che si poteva umile,
E in atto ancor dimesso e sbigottito,
Mutando al dimandar figura e stile,
Interrogò gli spirti a qual partito
Appigliar si dovesse un cor gentile
Per far dell'ignominia ov'era involta
La sua stirpe de' topi andar disciolta.
28
Come un liuto rugginoso e duro
Che sia molti anni già muto rimaso,
Risponde con un suon fioco ed oscuro
A chi lo tenta o lo percota a caso,
Tal con un profferir torbo ed impuro
Che fean mezzo le labbra e mezzo il naso,
Rompendo del tacer l'abito antico
Risposer l'ombre a quel del mondo aprico.
29
E gli ordinà r che riveduto il sole
Di penetrar fra' suoi trovasse via,
Che poi ch'entrar della terrestre mole
Potea nel cupo, anche colà potria.
Ivi in pensieri, in opre ed in parole
Seguisse quel che mostro gli saria
Per lavar di sua gente il disonore
Dal general di nome Assaggiatore.
30
Era...
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