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Sol degli eroici fatti alfin ricopre,
Del cui santo splendor non è beato
Il deserto ch'io dico in alcun lato.
27
Maraviglia è colà che s'appresenti
Maurizio di Sassonia alla tua vista,
Che con mille vergogne e tradimenti
Gran parte a' suoi di libertade acquista,
Egmont, Orange, a lor grandezza intenti
Lor patria liberando oppressa e trista,
E quel miglior che invia con braccio forte
Il primo duca di Firenze a morte.
28
Né loco d'ammirar vi si ritrova,
Se d'ammirar colui non vi par degno,
Che redando grandezze antiche innova,
Non già virtudi, e che di tanto regno
Se minor dimostrando in ogni prova,
Par che mirar non sappia ad alcun segno,
Cittadi alternamente acquista e perde,
E il fior d'Europa in Affrica disperde.
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Non di cor generoso e non abbietto,
Non infedel né pio, crudo né mite,
Non dell'iniquo amante e non del retto,
Or servate promesse ed or tradite,
Al grande, al bel non mai volto l'affetto,
Non agevoli imprese e non ardite,
Due prenci imprigionati in suo potere
Né liberi sa far, né ritenere.
30
Alfin di tanto suon, tanta possanza
Nessuno effetto riuscir si vede,
Anzi il gran fascio che sue forze avanza
Gitta egli stesso e volontario cede,
La cui mole che invan passò l'usanza
Divide e perde infra più d'uno erede;
Poi chiuso in monacali abiti involto
Gode prima che morto esser sepolto.
31
O costanza, o valor de' prischi tempi!
Far gran cose di nulla era vostr'arte,
Nulla far di gran cose età di scempi
Apprese da quel dì che il nostro marte
Costantin, pari ai più nefandi esempi,
Donò col nostro scettro ad altra parte.
Tal differenza insiem han del romano
Vero imperio gli effetti, e del germano.
32
Non d'onore appo noi, ma d'odio e sdegno
Han gara i sommi di quel secol bruno.
Né facilmente a chi dovuto il regno
Dell'odio sia giudicherebbe alcuno,
Se tu, portento di superbia e pegno
D'ira del ciel, non superassi ognuno,
O secondo Filippo, austriaca pianta,
Di cui Satan maestro ancor si vanta.
33
Tant'odio quanto è sul tuo capo accolto
De' tuoi pari di tempo e de' nepoti,
Altro mai non portò vivo o sepolto,
O ne' prossimi giorni o ne' remoti.
Tu nominato ogni benigno volto
Innaspri ed ogni cor placido scoti,
Stupendo in ricercar nell'ira umana
La più vivace ed intima fontana.
34
Dopo te quel grandissimo incorono
Duca d'Alba che quasi emulo ardisce
Contender teco, e il general perdono,
Tutti escludendo, ai Batavi bandisce.
Nobile esempio e salutar, che al trono
De' successori tuoi tanto aggradisce,
A cui d'Olanda il novo sdegno e il tanto
Valor si debbe ed il tuo giogo infranto.
35
Ma di troppo gran tratto allontanato
Son da Topaia, e là ritorno in fretta,
Dove accolto, o lettori, in sul mercato
Un infinito popolo m'aspetta,
Che un infinito cicalar di stato
Ode o presume udir, loda o rigetta,
E si consiglia o consigliarsi crede,
E fa leggi o di farle ha certa fede.
36
Chi dir potria le pratiche, i maneggi,
Le discordie, il romor, le fazioni
Che soglion accader quando le greggi
Procedono a sì fatte elezioni,
Per empier qual si sia specie di seggi,
Non che sforniti rifornire i troni?
Tutto ciò fra coloro intervenia,
E da me volentier si passa via.
37
E la conclusion sola toccando,
Dico che dopo un tenzonare eterno
All'alba ed alle squille, or disputando
Dello stato di fuori, or dell'interno,
Novella monarchia fu per comando
Del popol destinata al lor governo:
Una di quelle che temprate in parte
Son da statuti che si chiaman carte.
38
Se d'Inghilterra più s'assomigliasse
Allo statuto o costituzione,
Com'oggi il nominiamo, o s'accostasse
A quel di Francia o d'altra nazione,
Con parlamenti o corti alte o pur basse,
Di pubblica o di regia elezione,
Doppio o semplice alfin, come in Ispagna,
Lo statuto de' topi o carta magna,
39
Da tutto quel che degli antichi ho letto
Dintorno a ciò, raccor non si potria.
Questo solo affermar senza sospetto
D'ignoranza si può né di bugia,
Essere stato il prence allora eletto
Da' topi, e la novella signoria,
Quel che, se in verso non istesse male,
Avrei chiamato costituzionale.
40
Deputato a regnar fu Rodipane,
Genero al morto re Mangiaprosciutti.
Così quando Priamo alle troiane
Genti e di sua radice i tanti frutti
Mancà r, fuggendo a regioni estrane
Sotto il genero Enea convenner tutti:
Perché di regno alfin sola ci piace
La famiglia real creder capace.
41
E quella estinta, i prossimi di sangue
E poscia ad uno ad un gli altri parenti
Cerchiam di grado in grado insin che langue
Il regio umor negli ultimi attenenti.
Né questo in pace sol, ma quando esangue
Il regno è omai per aspri trattamenti,
Allor per aspra e sanguinosa via
Ricorre in armi a nova dinastia.
42
E quando per qualunque altra occorrenza
Mutando stato il pristino disgombra,
Di qualche pianta di real semenza
Sempre s'accoglie desioso all'ombra.
Qual pargoletto che rimasto senza
La gonna che il sostiene e che l'adombra,
Dopo breve ondeggiar tosto col piede,
Gridando, e con la man sopra vi riede.
43
O come ardita e fervida cavalla
Che di mano al cocchier per gioco uscita,
A gran salti ritorna alla sua stalla,
Dove sferza, e baston forse, l'invita;
O come augello il vol subito avvalla
Dalle altezze negate alla sua vita,
Ed alla fida gabbia ove soggiorna
Dagli anni acerbi, volontario torna.
44
Re cortese, per altro, amante e buono
Veggo questo in antico esser tenuto,
Memore ognor di quanto appiè del trono
Soggetto infra soggetti era vissuto:
Al popol in comun per lo cui dono,
E non del cielo, al regno era venuto,
Riconoscente; e non de' mali ignaro
Di questo o quel, né di soccorso avaro.
45
E lo statuto o patto che accettato
Dai cittadini avea con giuramento,
Trovo che incontro allo straniero armato
Difese con sincero intendimento,
Né perché loco gliene fosse dato,
Di restarsene sciolto ebbe talento.
Di questo, poi che la credenza eccede,
Interpongo l'altrui, non la mia fede.
CANTO QUARTO
1
Maraviglia talor per avventura,
Leggitori onorandi e leggitrici,
Cagionato v'avrà questa lettura.
E come son degli uomini i giudici
Facili per usanza e per natura,
Forse, benché benevoli ed amici,
Più d'un pensiero in mente avrete accolto,
Ch'essere io deggia o menzognero o stolto,
2
Perché le cose del topesco regno,
Che son per vetustà da noi lontane
Tanto che come appar da più d'un segno,
Agguaglian le antichissime indiane,
I costumi, il parlar, l'opre, l'ingegno,
E l'infime faccende e le sovrane,
Quasi ieri o l'altr'ier fossero state,
Simili a queste nostre ho figurate.
3
Ma con la maraviglia ogni sospetto
Come una nebbia vi torrà di mente
Il legger, s'anco non avete letto,
Quel che i savi han trovato ultimamente,
Speculando col semplice intelletto
Sopra la sorte dell'umana gente,
Che d'Europa il civil presente stato
Debbe ancor primitivo esser chiamato.
4
E che quei che selvaggi il volgo appella
Che nei più caldi e nei più freddi liti
Ignudi al sole, al vento, alla procella,
E sol di tetto natural forniti,
Contenti son da poi che la mammella
Lascià r, d'erbe e di vermi esser nutriti,
Temon l'aure, le frondi, e che disciolta
Dal Sol non caggia la celeste volta;
5
Non vita naturale e primitiva
Menan, come fin qui furon creduti,
Ma per corruzion sì difettiva,
Da una perfetta civiltà caduti,
Nella qual come in propria ed in nativa
I padri de' lor padri eran vissuti:
Perché stato sì reo, come il selvaggio,
Estimar natural non è da saggio:
6
Non potendo mai star che la natura,
Che al ben degli animali è sempre intenta,
E più dell'uom che principal fattura
Esser di quella par che si consenta
Da tutti noi, sì povera e sì dura
Vita ove pur pensando ei si sgomenta,
Come propria e richiesta e conformata
Abbia al genere uman determinata.
7
Né manco sembra che possibil sia
Che lo stato dell'uom vero e perfetto
Sia posto in capo di sì lunga via
Quanta a farsi civile appar costretto
Il gener nostro a misurare in pria,
U' son cent'anni un dì quanto all'effetto:
Sì lento è il suo cammin per quelle strade
Che il conducon dal bosco a civiltade.
8
Perché ingiusto e crudel sarebbe stato,
Né per modo nessun conveniente,
Che all'infelicità predestinato,
Non per suo vizio o colpa anzi innocente,
Per ordin primo e natural suo fato
Fosse un numero tal d'umana gente,
Quanta nascer convenne, e che morisse
Prima che a civiltà si pervenisse.
9
Resta che il viver zotico e ferino
Corruzion si creda e non natura,
E che ingiuria facendo al suo destino
Caggia quivi il mortal da grande altura,
Dico dal civil grado, ove il divino
Senno avea di locarlo avuto cura:
Perché se al ciel non vogliam fare oltraggio,
Civile ei nasce, e poi divien selvaggio.
10
Questa conclusion che ancor che bella
Parravvi alquanto inusitata e strana,
Non d'altronde provien se non da quella
Forma di ragionar diritta e sana
Ch'a priori in iscola ancora s'appella,
Appo cui ciascun'altra oggi par vana,
La qual per certo alcun principio pone,
E tutto l'altro a quel piega e compone.
11
Per certo si suppon che intenta sia
Natura sempre al ben degli animali,
E che gli ami di cor come la pia
Chioccia fa del pulcin che ha sotto l'ali:
E vedendosi al tutto acerba e ria
La vita esser che al bosco hanno i mortali,
Per forza si conchiude in buon latino
Che la città fu pria del cittadino.
12
Se libere le menti e preparate
Fossero a ciò che i fatti e la ragione
Sapessero insegnar, non inchinate
A questa più che a quella opinione,
Se natura chiamar d'ogni pietate
E di qual s'è cortese affezione
Sapesser priva, e de' suoi figli antica
E capital carnefice e nemica;
13
O se piuttosto ad ogni fin rivolta,
Che al nostro che diciamo o bene o male;
E confessar che de' suoi fini è tolta
La vista al riguardar nostro mortale,
Anzi il saper se non da fini sciolta
Sia veramente, e se ben v'abbia, e quale;
Diremmo ancor con ciascun'altra etade
Che il cittadin fu pria della cittade.
14
Non è filosofia se non un'arte
La qual di ciò che l'uomo è risoluto
Di creder circa a qualsivoglia parte,
Come meglio alla fin l'è conceduto,
Le ragioni assegnando empie le carte
O le orecchie talor per instituto,
Con più d'ingegno o men, giusta il potere
Che il maestro o l'autor si trova avere.
15
Quella filosofia dico che impera
Nel secol nostro senza guerra alcuna,
E che con guerra più o men leggera
Ebbe negli altri non minor fortuna,
Fuor nel prossimo a questo, ove se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna
Facoltà nostra a quelle cime il passo
Onde tosto inchinar l'è forza al basso.
16
In quell'età , d'un'aspra guerra in onta,
Altra filosofia regnar fu vista,
A cui dinanzi valorosa e pronta
L'età nostra arretrossi appena avvista
Di ciò che più le spiace e che più monta,
Esser quella in sostanza amara e trista;
Non che i principii in lei né le premesse
Mostrar false da se ben ben sapesse.
17
Ma false o vere, ma disformi o belle
Esser queste si fosse o no mostrato,
Le conseguenze lor non eran quelle
Che l'uom d'aver per ferme ha decretato,
E che per ferme avrà fin che le stelle
D'orto in occaso andran pel cerchio usato:
Perché tal fede in tali o veri o sogni
Per sua quiete par che gli bisogni.
18
Ed ancor più, perché da lunga pezza
È la sua mente a cotal fede usata,
Ed ogni fede a che sia quella avvezza
Prodotta par da coscienza innata:
Che come suol con grande agevolezza
l'usanza con natura esser cangiata,
Così vien facilmente alle persone
Presa l'usanza lor per la ragione.
19
Ed imparar cred'io che le più volte
Altro non sia, se ben vi si guardasse,
Che un avvedersi di credenze stolte
Che per lungo portar l'alma contrasse,
E del fanciullo racquistar con molte
Cure il saper ch'a noi l'età sottrasse;
Il qual già più di noi non sa né vede,
Ma di veder né di saper non crede.
20
Ma noi, s'è fuor dell'uso, ogni pensiero
Assurdo giudichiam tosto in effetto,
Né pensiam ch'un assurdo il mondo e il vero
Esser potrebbe al fral nostro intelletto:
E mistero gridiam, perch'a mistero
Riesce ancor qualunque uman concetto,
Ma i misteri e gli assurdi entro il cervello
Vogliam foggiarci come a noi par bello.
21
Or, leggitori miei, scendendo al punto
Al qual per lunga e tortuosa via
Sempre pur...
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