LA COSCIENZA DI ZENO, di Italo Svevo - pagina 70
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Egli voleva subito ritornare al lavoro mentre io m'accingevo di mettermi sulla via del ritorno, ma poi si pentí e mi corse dietro.
Raggiuntomi, a voce molto bassa, mi domandò:
- Lei non ha sentito niente? Dicono sia scoppiata la guerra.
- Già! Lo sappiamo tutti! Da un anno circa, - risposi io.
- Non parlo di quella, - disse lui spazientito.
- Parlo di quella con...
- e fece un segno dalla parte della vicina frontiera italiana.
- Lei non ne sa nulla? - Mi guardò ansioso della risposta.
- Capirai, - gli dissi io con piena sicurezza, - che se io non so nulla vuol proprio dire che nulla c'è.
Vengo da Trieste e le ultime parole che sentii colà significavano che la guerra è proprio definitivamente scongiurata.
A Roma hanno ribaltato il Ministero che voleva la guerra e ci hanno ora il Giolitti.
Egli si rasserenò immediatamente:
- Perciò queste patate che stiamo coprendo e che promettono tanto bene saranno poi nostre! Vi sono tanti di quei chiacchieroni a questo mondo! - Con la manica della camicia s'asciugò il sudore che gli colava dalla fronte.
Vedendolo tanto contento, tentai di renderlo piú contento ancora.
Amo tanto le persone felici, io.
Perciò dissi delle cose che veramente non amo di rammentare.
Asserii che se anche la guerra fosse scoppiata, non sarebbe stata combattuta colà.
C'era prima di tutto il mare dove era ora si battessero, eppoi oramai in Europa non mancavano dei campi di battaglia per chi ne voleva.
C'erano le Fiandre e varii dipartimenti della Francia.
Avevo poi sentito dire - non sapevo piú da chi - che a questo mondo c'era oramai tale un bisogno di patate che le raccoglievano accuratamente anche sui campi di battaglia.
Parlai molto, sempre guardando Teresina che piccola, minuta, s'era accovacciata sulla terra per tastarla prima di applicarvi la vanga.
Il contadino perfettamente tranquillizzato ritornò al suo lavoro.
Io, invece, avevo consegnato una parte della mia tranquillità a lui e ne restava a me molto di meno.
Era certo che a Lucinico eravamo troppo vicini alla frontiera.
Ne avrei parlato ad Augusta.
Avremmo forse fatto bene di ritornare a Trieste e forse andare anche piú in là o in qua.
Certamente Giolitti era ritornato al potere, ma non si poteva sapere se, arrivato lassú, avrebbe continuato a vedere le cose nella luce in cui le vedeva quando lassú c'era qualcuno d'altro.
Mi rese anche piú nervoso l'incontro casuale con un plotone di soldati che marciava sulla strada in direzione di Lucinico.
Erano dei soldati non giovini e vestiti ed attrezzati molto male.
Dal loro fianco pendeva quella che noi a Trieste dicevamo la Durlindana, quella baionetta lunga che in Austria, nell'estate del 1915, avevano dovuto levare dai vecchi depositi.
Per qualche tempo camminai dietro di loro inquieto d'essere presto a casa.
Poi mi seccò un certo odore di selvatico frollo che emanava da loro e rallentai il passo.
La mia inquietudine e la mia fretta erano sciocche.
Era pure sciocco d'inquietarsi per aver assistito all'inquietudine di un contadino.
Oramai vedevo da lontano la mia villa ed il plotone non c'era piú sulla strada.
Accelerai il passo per arrivare finalmente al mio caffelatte.
Fu qui che cominciò la mia avventura.
Ad uno svolto di via, mi trovai arrestato da una sentinella che urlò:
- Zurück! - mettendosi addirittura in posizione di sparare.
Volli parlargli in tedesco giacché in tedesco aveva urlato, ma egli del tedesco non conosceva che quella sola parola che ripeté sempre piú minacciosamente.
Bisognava andare zurück ed io guardandomi sempre dietro nel timore che l'altro, per farsi intendere meglio, sparasse, mi ritirai con una certa premura che non m'abbandonò neppure quando il soldato non vidi piú.
Ma ancora non avevo rinunciato di arrivare subito alla mia villa.
Pensai che varcando la collina alla mia destra, sarei arrivato molto dietro la sentinella minacciosa.
L'ascesa non fu difficile specie perché l'alta erba era stata curvata da molta gente che doveva essere passata per di là prima di me.
Certamente doveva esservi stata costretta dalla proibizione di passare per la strada.
Camminando riacquistai la mia sicurezza e pensai che al mio arrivo a Lucinico mi sarei subito recato a protestare dal capovilla per il trattamento che avevo dovuto subire.
Se permetteva che i villeggianti fossero trattati cosí, presto a Lucinico non ci sarebbe venuto nessuno!
Ma arrivato alla cima della collina, ebbi la brutta sorpresa di trovarla occupata da quel plotone di soldati dall'odore di selvatico.
Molti soldati riposavano all'ombra di una casetta di contadini che io conoscevo da molto tempo e che a quell'ora era del tutto vuota; tre di essi parevano messi a guardia, ma non verso il versante da cui io ero venuto, e alcuni altri stavano in un semi circolo dinanzi ad un ufficiale che dava loro delle istruzioni che illustrava con una carta topografica ch'egli teneva in mano.
Io non possedevo neppure un cappello che potesse servirmi per salutare.
Inchinandomi varie volte e col mio piú bel sorriso, m'appressai all'ufficiale il quale, vedendomi, cessò di parlare coi suoi soldati e si mise a guardarmi.
Anche i cinque mammelucchi che lo circondavano mi regalavano tutta la loro attenzione.
Sotto tutti quegli sguardi e sul terreno non piano era difficilissimo di moversi.
L'ufficiale urlò:
- Was will der dumme Kerl hier? - (Che cosa vuole quello scimunito?).
Stupito che senz'alcuna provocazione mi si offendesse cosí, volli dimostrarmi offeso virilmente ma tuttavia con la discrezione del caso, deviai di strada e tentai di arrivare al versante che m'avrebbe portato a Lucinico.
L'ufficiale si mise ad urlare che, se facevo un solo passo di piú, m'avrebbe fatto tirare adosso.
Ridivenni subito molto cortese e da quel giorno a tutt'oggi che scrivo, rimasi sempre molto cortese.
Era una barbarie d'essere costretto di trattare con un tomo simile, ma intanto si aveva il vantaggio ch'egli parlava correntemente il tedesco.
Era un tale vantaggio che, ricordandolo, riusciva piú facile di parlargli con dolcezza.
Guai se bestia come era non avesse neppur compreso il tedesco.
Sarei stato perduto.
Peccato che io non parlavo abbastanza correntemente quella lingua perché altrimenti mi sarebbe stato facile di far ridere quell'arcigno signore.
Gli raccontai che a Lucinico m'aspettava il mio caffelatte da cui ero diviso soltanto dal suo plotone.
Egli rise, in fede mia rise.
Rise sempre bestemmiando e non ebbe la pazienza di lasciarmi finire.
Dichiarò che il caffelatte di Lucinico sarebbe stato bevuto da altri e quando sentí che oltre al caffè c'era anche mia moglie che m'aspettava, urlò:
- Auch Ihre Frau wird von anderen gegessen werden.
- (Anche vostra moglie sarà mangiata da altri).
Egli era oramai di miglior umore di me.
Pare poi gli fosse spiaciuto di avermi dette delle parole che, sottolineate dal riso clamoroso dei cinque mammalucchi, potevano apparire offensive; si fece serio e mi spiegò che non dovevo sperare di rivedere per qualche giorno Lucinico ed anzi in amicizia mi consigliava di non domandarlo piú perché bastava quella domanda per compromettermi!
- Haben Sie verstanden? - (Avete capito?)
Io avevo capito, ma non era mica facile di adattarsi di rinunziare al caffelatte da cui distavo non piú di mezzo chilometro.
Solo perciò esitavo di andarmene perché era evidente che quando fossi disceso da quella collina, alla mia villa, per quel giorno, non sarei giunto piú.
E, per guadagnar tempo, mitemente domandai all'ufficiale:
- Ma a chi dovrei rivolgermi per poter ritornare a Lucinico a prendere almeno la mia giubba e il mio cappello?
Avrei dovuto accorgermi che all'ufficiale tardava di esser lasciato solo con la sua carta e i suoi uomini, ma non m'aspettavo di provocare tanta sua ira.
Urlò, in modo da intronarmi l'orecchie, che m'aveva già detto che non dovevo piú domandarlo.
Poi m'impose di andare dove il diavolo vorrà portarmi (wo der Teufel Sie tragen will ).
L'idea di farmi portare non mi spiaceva molto perché ero molto stanco, ma esitavo ancora.
Intanto però l'ufficiale a forza d'urlare s'accese sempre piú e con accento di grande minaccia chiamò a sé uno dei cinque uomini che l'attorniavano e appellandolo signor caporale gli diede l'ordine di condurmi già della collina e di sorvegliarmi finché non fossi sparito sulla via che conduce a Gorizia, tirandomi addosso se avessi esitato ad ubbidire.
Perciò scesi da quella cima piuttosto volontieri:
- Danke schön, - dissi anche senz'alcun'intenzione d'ironia.
Il caporale era uno slavo che parlava discretamente l'italiano.
Gli parve di dover essere brutale in presenza dell'ufficiale e, per indurmi a precederlo nella discesa, mi gridò:
- Marsch! - Ma quando fummo un po' piú lontani si fece dolce e familiare.
Mi domandò se avevo delle notizie sulla guerra e se era vero ch'era imminente l'intervento italiano.
Mi guardava ansioso in attesa della risposta.
Dunque neppure loro che la facevano sapevano se la guerra ci fosse o no! Volli renderlo piú felice che fosse possibile e gli diedi le notizie che avevo propinate anche al padre di Teresina.
Poi mi pesarono sulla coscienza.
Nell'orrendo temporale che scoppiò, probabilmente tutte le persone ch'io rassicurai perirono.
Chissà quale sorpresa ci sarà stata sulla loro faccia cristallizzata dalla morte.
Era un ottimismo incoercibile il mio.
Non avevo sentita la guerra nelle parole dell'ufficiale e meglio ancora nel loro suono?
Il caporale si rallegrò molto e, per compensarmi, mi diede anche lui il consiglio di non tentare piú di arrivare a Lucinico.
Date le notizie mie, egli riteneva che le disposizioni che m'impedivano di rincasare sarebbero state levate il giorno appresso.
Ma intanto mi consigliava di andare a Trieste al Platzkommando dal quale forse avrei potuto ottenere un permesso speciale.
- Fino a Trieste? - domandai io spaventato.
- A Trieste, senza giubba, senza cappello e senza caffelatte?
A quanto ne sapeva il caporale, mentre parlavamo, un fitto cordone di fanteria chiudeva il transito per l'Italia, creando una nuova ed insuperabile frontiera.
Con un sorriso di persona superiore mi dichiarò che, secondo lui, la via piú breve per Lucinico era quella che conduceva oltre Trieste.
A forza di sentirmelo dire, io mi rassegnai e m'avviai verso Gorizia pensando di prendere il treno del mezzodí per recarmi a Trieste.
Ero agitato, ma devo dire che mi sentivo molto bene.
Avevo fumato poco e non mangiato affatto.
Mi sentivo di una leggerezza che da lungo tempo m'era mancata.
Non mi dispiaceva affatto di dover ancora camminare.
Mi dolevano un poco le gambe, ma mi pareva che avrei potuto reggere fino a Gorizia, tanto era libero e profondo il mio respiro.
Scaldatemi le gambe con un buon passo, il camminare infatti non mi pesò.
E nel benessere, battendomi il tempo, allegro perché insolitamente celere, ritornai al mio ottimismo.
Minacciavano di qua, minacciavano di là, ma alla guerra non sarebbero giunti.
Ed è cosí che, quando giunsi a Gorizia, esitai se non avessi dovuto stabilire una stanza all'albergo nella quale passare la notte e ritornare il giorno appresso a Lucinico per presentare le mie rimostranze al capovilla.
Corsi intanto all'ufficio postale per telefonare ad Augusta.
Ma dalla mia villa non si rispose.
L'impiegato, un omino dalla barbetta rada che pareva nella sua piccolezza e rigidezza qualche cosa di ridicolo e d'ostinato - la sola cosa che di lui ricordi - sentendomi bestemmiare furibondo al telefono muto, mi si avvicinò e mi disse:
- È già la quarta volta oggi che Lucinico non risponde.
Quando mi rivolsi a lui, nel suo occhio brillò una grande lieta malizia (sbagliavo! anche quella ricordo ancora!) e quel suo occhio brillante cercò il mio per vedere se proprio ero tanto sorpreso e arrabbiato.
Ci vollero un dieci buoni minuti perché comprendessi.
Allora non ci furono dubbii per me.
Lucinico si trovava o fra pochi istanti si troverebbe sulla linea del fuoco.
Quando intesi perfettamente quell'occhiata eloquente ero avviato al caffè per prendere in aspettativa della colazione la tazza di caffè che m'era dovuta dalla mattina.
Deviai subito e andai alla stazione.
Volevo trovarmi piú vicino ai miei e - seguendo le indicazioni del mio amico caporale - mi recavo a Trieste.
Fu durante quel mio breve viaggio che la guerra scoppiò.
Pensando di arrivare tanto presto a Trieste, alla stazione di Gorizia e per quanto ne avessi avuto il tempo, non presi neppure la tazza di caffè cui anelavo da tanto tempo.
Salii nella mia vettura e, lasciato solo, rivolsi il mio pensiero ai miei cari da cui ero stato staccato in un modo tanto strano.
Il treno camminò bene fino oltre Monfalcone.
Pareva che la guerra non fosse giunta ancora fin là.
Io mi conquistai la tranquillità pensando che probabilmente a Lucinico le cose si sarebbero svolte come al di qua della frontiera.
A quell'ora Augusta e i miei figli si sarebbero trovati in viaggio verso l'interno dell'Italia.
Questa tranquillità associatasi a quella enorme, sorprendente, della mia fame, mi procurò un lungo sonno.
Fu probabilmente la stessa fame che mi destò.
Il mio treno s'era fermato in mezzo alla cosidetta Sassonia di Trieste.
Il mare non si vedeva, per quanto dovesse essere vicinissimo, perché una leggera foschia impediva di guardare lontano.
Il Carso ha una grande dolcezza nel Maggio, ma la può intendere solo chi non è viziato dalle primavere esuberanti di colore e di vita di altre campagne.
Qui la pietra che sporge dappertutto è circondata da un mite verde che non è umile perché presto diventa la nota predominante del paesaggio.
In altre condizioni io mi sarei adirato enormemente di non poter mangiare avendo tanta fame.
Invece quel giorno la grandezza dell'avvenimento storico cui avevo assistito, m'imponeva e m'induceva alla rassegnazione.
Il conduttore cui regalai delle sigarette non seppe procurarmi neppure un tozzo di pane.
Non raccontai a nessuno delle mie esperienze della mattina.
Ne avrei parlato a Trieste a qualche intimo.
Dalla frontiera verso la quale tendevo il mio orecchio non veniva alcun suono di combattimento.
Noi eravamo fermi a quel posto per lasciar passare un otto o nove treni che scendevano turbinando verso l'Italia.
La piaga cancrenosa (come in Austria si appellò subito la fronte italiana) s'era aperta e abbisognava di materiale per nutrire la sua purulenza.
E i poveri uomini vi andavano sghignazzando e cantando.
Da tutti quei treni uscivano i medesimi suoni di gioia o di ebbrezza.
Quando arrivai a Trieste la notte era già scesa sulla città.
La notte era illuminata dal bagliore di molti incendi e un amico che mi vide andare verso casa mia in maniche di camicia mi gridò:
- Hai preso parte ai saccheggi?
Finalmente arrivai a mangiare qualche cosa e subito mi coricai.
Una vera, grande stanchezza mi spingeva a letto.
Io credo fosse prodotta dalle speranze e dai dubbii che tenzonavano nella mia mente.
Stavo sempre molto bene e nel periodo breve che precedette il sogno di cui con la psico-analisi m'ero esercitato a ritenere le immagini, ricordo che conclusi la mia giornata con un'ultima infantile idea ottimistica: alla frontiera non era morto ancora nessuno e perciò la pace si poteva rifare.
Adesso che so che la mia famiglia è sana e salva, la vita che faccio non mi spiace.
Non ho molto da fare ma non si può dire che io sia inerte.
Non si deve né comperare né vendere.
Il commercio risanerà quando ci sarà la pace.
L'Olivi dalla Svizzera mi fece pervenire dei consigli.
Se sapesse come i suoi consigli stonano in quest'ambiente ch'è mutato del tutto! Io, intanto, per il momento, non faccio nulla.
24 Marzo 1916
Dal Maggio dell'anno scorso non avevo piú toccato questo libercolo.
Ecco che dalla Svizzera il dr.
S.
mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato.
È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura.
Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione.
Ma al signor dottor S.
voglio pur dire il fatto suo.
Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.
Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere.
Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno.
E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri.
Non è per il confronto ch'io mi senta sano.
Io sono sano, assolutamente.
Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch'era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere.
Io soffro bensí di certi dolori, ma mancano d'importanza nella mia grande salute.
Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell'immobilità come gl'incancreniti.
Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.
Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo.
Fu il mio commercio che mi guarí e voglio che il dottor S.
lo sappia.
Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell'Agosto dell'anno scorso.
Allora io cominciai a comperare.
Sottolineo questo verbo perché ha un significato piú alto di prima della guerra.
In bocca di un commerciante, allora, significava ch'egli era disposto a comperare un dato articolo.
Ma quando io lo dissi, volli significare ch'io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta.
Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna.
L'Olivi non era a Trieste, ma è certo ch'egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri.
Invece per me non era un rischio.
Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza.
Dapprima m'ero messo, secondo l'antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v'era una certa difficoltà di comperare e vendere dell'oro.
L'oro per cosí dire liquido, perché piú mobile, era la merce e ne feci incetta.
Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti.
Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.
Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d'incenso.
Il venditore mi vantava la possibilità d'impiegare l'incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l'incenso mai piú avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere.
Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l'incenso quale un surrogato della resina.
E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l'importo che m'era occorso per appropriarmi della partita intera.
Il dottore, quando avrà ricevuta quest'ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto.
Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest'ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso!
Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia.
La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti.
A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale.
Non sopporta cure.
Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite.
Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici.
L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio.
Può avvenire di peggio.
Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze.
V'è una minaccia di questo genere in aria.
Ne seguirà una grande ricchezza...
nel numero degli uomini.
Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo.
Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano.
Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo.
Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo.
La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno.
Il cavallo s'ingrandí e trasformò il suo piede.
Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa.
Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre piú furbo e piú debole.
Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza.
I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha piú alcuna relazione con l'arto.
Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice.
La legge del piú forte sparí e perdemmo la selezione salutare.
Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.
Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli.
Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo.
Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
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