LA COSCIENZA DI ZENO, di Italo Svevo - pagina 61
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Egli, mite, mite, mi pregò di non gridare tanto, perché avremmo potuto essere sentiti dai vicini.
Feci un grande sforzo per calmarmi e vi riuscii anche a patto di poter dirgli a bassavoce delle altre insolenze.
La sua perdita era addirittura l'effetto di un crimine.
Bisognava essere un bestione per mettersi in frangenti simili.
Proprio mi pareva ch'era necessario egli subisse intera la lezione.
Qui Guido mitemente protestò.
Chi non aveva giocato in Borsa? Nostro suocero, ch'era stato un commerciante tanto solido, non era stato un giorno solo della sua vita privo di qualche impegno.
Eppoi - Guido lo sapeva - avevo giocato anch'io.
Protestai che fra gioco e gioco c'era una differenza.
Egli aveva rischiato alla Borsa tutto il suo patrimonio, io le rendite di un mese.
Mi fece un triste effetto che Guido tentasse puerilmente di liberarsi della sua responsabilità.
Egli asserí che il Nilini lo aveva indotto a giocare piú di quanto egli avesse voluto, facendogli credere di avviarlo ad una grande fortuna.
Io risi e lo derisi.
Il Nilini non era da biasimarsi perché faceva gli affari suoi.
E - del resto - dopo di aver lasciato il Nilini, non si era egli precipitato ad aumentare la propria posta col mezzo di un altro sensale? Avrebbe potuto vantarsi della nuova relazione se con essa si fosse messo a giocare al ribasso ad insaputa del Nilini.
Per riparare non poteva certo bastare di cambiare di rappresentante e continuare sulla stessa via perseguitato dallo stesso malocchio.
Egli volle indurmi finalmente a lasciarlo in pace, e, con un singhiozzo nella gola, riconobbe di aver sbagliato.
Cessai dal rampognarlo.
Ora mi faceva veramente compassione e l'avrei anche abbracciato se egli avesse voluto.
Gli dissi che mi sarei occupato subito di provvedere il denaro che io dovevo fornire e che avrei potuto anche occuparmi di parlare con nostra suocera.
Egli, invece, si sarebbe incaricato di Ada.
La mia compassione aumentò quand'egli mi confidò che volentieri avrebbe parlato con nostra suocera in vece mia, ma che lo tormentava di dover parlare con Ada.
- Tu sai come son fatte le donne! Gli affari non li capiscono o soltanto quando finiscono bene! - Egli non avrebbe parlato affatto e avrebbe pregata la signora Malfenti d'informarla lei di tutto.
Questa decisione l'alleggerí grandemente e uscimmo insieme.
Lo vedevo camminare accanto a me con la testa bassa e mi sentivo pentito di averlo trattato con tanta rudezza.
Ma come fare altrimenti se lo amavo? Doveva pur ravvedersi, se non voleva andare incontro alla sua rovina! Come dovevano essere fatte le sue relazioni con la moglie se temeva tanto di parlare con lei!
Ma intanto egli scoperse un modo per indispettirmi di nuovo.
Camminando aveva trovato di perfezionare il piano che gli era tanto piaciuto.
Non soltanto egli non avrebbe avuto da parlare con la moglie, ma avrebbe fatto in modo di non vederla per quella sera, perché sarebbe subito partito per la caccia.
Dopo quel proposito, fu libero da ogni nube.
Pareva fosse bastata la prospettiva di poter recarsi all'aria aperta, lontano da ogni pensiero, per avere l'aspetto di trovarvisi diggià e di goderne pienamente.
Io ne fui indignato! Con lo stesso aspetto, certo, avrebbe potuto ritornare in Borsa per riprendervi il giuoco nel quale rischiava la fortuna della famiglia e anche la mia.
Mi disse:
- Voglio concedermi quest'ultimo divertimento e t'invito di venire con me a patto che tu prenda l'impegno di non rammentare con una sola parola gli avvenimenti di oggi.
Fin qui aveva parlato sorridendo.
Dinanzi alla mia faccia seria, si fece piú serio anche lui.
Aggiunse:
- Vedi anche tu che ho bisogno di un riposo dopo un colpo simile.
Poi mi sarà piú facile di riprendere il mio posto nella lotta.
La sua voce s'era velata di un'emozione della cui sincerità non seppi dubitare.
Perciò seppi rattenere il mio dispetto o manifestarlo solo col rifiuto del suo invito, dicendogli che io dovevo restare in città per provvedere al denaro necessario.
Era già un rimprovero il mio! Io, innocente, restavo al mio posto, mentre lui, il colpevole, poteva andare a spassarsela.
Eravamo giunti dinanzi alla porta di casa della signora Malfenti.
Egli non aveva piú ritrovato l'aspetto di gioia per il divertimento di alcune ore che l'aspettava e, finché rimase con me, conservò stereotipata sulla faccia l'espressione del dolore cui io l'avevo richiamato.
Ma prima di lasciarmi, trovò uno sfogo in una manifestazione d'indipendenza e - come a me parve - di rancore.
Mi disse ch'era veramente stupito di scoprire in me un tale amico.
Esitava di accettare il sacrificio che gli volevo portare e intendeva (proprio intendeva) ch'io sapessi ch'egli non mi riteneva impegnato in alcun modo e ch'ero perciò libero di dare o non dare.
Son sicuro di aver arrossito.
Per levarmi dall'imbarazzo gli dissi:
- Perché vuoi ch'io desideri di ritirarmi quando pochi minuti or sono senza che tu m'abbia chiesto nulla, mi son profferto di aiutarti?
Egli mi guardò un po' incerto eppoi disse:
- Giacché lo vuoi, accetto senz'altro e ti ringrazio.
Ma faremo un contratto di società nuovo del tutto, perché ognuno abbia quello che gli compete.
Anzi se ci sarà lavoro e vorrai continuare ad attendervi, dovrai avere il tuo salario.
Metteremo la nuova società su tutt'altra base.
Cosí non avremo piú da temere altri danni dall'aver occultata la perdita del nostro primo anno d'esercizio.
Risposi:
- Questa perdita non ha piú alcuna importanza e non devi pensarci piú.
Cerca ora di mettere dalla parte tua nostra suocera.
Questo e null'altro per adesso importa.
Cosí ci lasciammo.
Io credo di aver sorriso dell'ingenuità con cui Guido manifestava i suoi piú intimi sentimenti.
Egli m'aveva tenuto quel lungo discorso solo per poter accettare il mio dono senz'aver da manifestarmi della gratitudine.
Ma io non pretendevo nulla.
Mi bastava di sapere che tale riconoscenza egli proprio me la doveva.
Del resto, staccatomi da lui, anch'io sentii un sollievo come se fossi andato appena allora all'aria libera.
Sentivo veramente la libertà che m'era tolta per i propositi di educarlo e rimetterlo sulla buona strada.
In fondo il pedagogo è incatenato peggio dell'alunno.
Ero ben deciso di procurargli quel denaro.
Naturalmente non so dire se lo facessi per affetto a lui o ad Ada, o forse per liberarmi da quella piccola parte di responsabilità che poteva toccarmi per aver lavorato nel suo ufficio.
Insomma avevo deciso di sacrificare una parte del mio patrimonio e ancora oggidí guardo a quel giorno della mia vita con una grande soddisfazione.
Quel denaro salvava Guido e a me garantiva una grande tranquillità di coscienza.
Camminai fino a sera nella piú grande tranquillità e cosí perdetti il tempo utile per andar a rintracciare alla Borsa l'Olivi cui dovevo rivolgermi per procurarmi una somma cosí forte.
Poi pensai che la cosa non fosse tanto urgente.
Io avevo parecchio denaro a mia disposizione e quello bastava intanto per partecipare alla regolazione che si doveva fare il quindici del mese.
Per la fine del mese avrei provveduto piú tardi.
Per quella sera non pensai piú a Guido.
Piú tardi, e cioè quando i bambini furono coricati, m'accinsi varie volte a dire ad Augusta del disastro finanziario di Guido e del danno che doveva riverberarne a me, ma poi non volli seccarmi con discussioni e pensai sarebbe meglio mi riservassi di convincere Augusta nel momento in cui la regolazione di quegli affari sarebbe stata decisa da tutti.
Eppoi mentre Guido stava divertendosi sarebbe stato curioso che io mi fossi seccato.
Dormii benissimo e, alla mattina, con la tasca non molto carica di denaro (ci avevo l'antica busta abbandonatami da Carla e che fino ad allora religiosamente avevo conservato per lei stessa o per qualche sua erede e qualche po' di altro denaro che avevo potuto prelevare da una Banca) mi recai in ufficio.
Passai la mattina a leggere giornali, fra Carmen che cuciva e Luciano che s'addestrava in moltipliche e addizioni.
Quando ritornai a casa all'ora della colazione, trovai Augusta perplessa e abbattuta.
La sua faccia era coperta da quel grande pallore che non si produceva che per dolori che le provenivano da me.
Mitemente mi disse:
- Ho saputo che hai deciso di sacrificare una parte del tuo patrimonio per salvare Guido! Io so che non avevo il diritto di esserne informata...
Era tanto dubbiosa del suo diritto che esitò.
Poi riprese a rimproverarmi il mio silenzio:
- Ma è vero ch'io non sono come Ada, perché mai mi sono opposta alla tua volontà.
Ci volle del tempo per apprendere quello ch'era avvenuto.
Augusta era capitata da Ada quando stava discutendo la quistione di Guido con la madre.
Vedendola, Ada s'era abbandonata ad un gran pianto e le aveva detto della mia generosità ch'essa assolutamente non voleva accettare.
Aveva anzi pregata Augusta d'invitarmi a desistere dalla mia profferta.
M'accorsi subito che Augusta soffriva della sua antica malattia, la gelosia per la sorella, ma non vi diedi peso.
Mi sorprendeva l'attitudine assunta da Ada:
- Ti parve risentita? - domandai facendo tanto d'occhi per la sorpresa.
- No! No! Non offesa! - gridò la sincera Augusta.
- Mi baciò e abbracciò...
forse perché abbracci te.
Pareva un modo di esprimersi assai comico.
Essa mi guardava, studiandomi, diffidente.
Protestai.
- Credi che Ada sia innamorata di me? cosa ti salta in testa?
Ma non riuscii a calmar Augusta la cui gelosia mi seccava orribilmente.
Sta bene che Guido a quell'ora non era piú a divertirsi e passava certamente un brutto quarto d'ora fra sua suocera e sua moglie ma ero seccatissimo anch'io e mi pareva di dover soffrir troppo essendo del tutto innocente.
Tentai di calmare Augusta facendole delle carezze.
Essa allontanò la sua faccia dalla mia per vedermi meglio e mi fece dolcemente un mite rimprovero che mi commosse molto:
- Io so che ami anche me, - mi disse.
Evidentemente lo stato d'animo di Ada non aveva importanza per lei, ma il mio ed ebbi un'ispirazione per provarle la mia innocenza:
- Ada è dunque innamorata di me? - feci ridendo.
Poi staccatomi da Augusta per farmi veder meglio, gonfiai un po' le guancie e spalancai in modo innaturale gli occhi cosí da somigliare ad Ada malata.
Augusta mi guardò stupita, ma presto indovinò la mia intenzione.
Fu colta da uno scoppio d'ilarità di cui subito si vergognò.
- No! - mi disse, - ti prego di non deriderla.
- Poi confessò, sempre ridendo, ch'ero riuscito di imitare proprio quelle protuberanze che davano alla faccia di Ada un aspetto tanto sorprendente.
Ed io lo sapevo perché imitandola m'era parso di abbracciare Ada.
E quando fui solo, piú volte ripetei quello sforzo con desiderio e disgusto.
Nel pomeriggio andai all'ufficio nella speranza di trovarvi Guido.
Ve l'attesi per qualche tempo eppoi decisi di recarmi a casa sua.
Dovevo pur sapere se era necessario di domandare del denaro all'Olivi.
Dovevo compiere il mio dovere per quanto mi seccasse di rivedere Ada alterata una volta di piú dalla riconoscenza.
Chissà quali sorprese mi potevano ancora provenire da quella donna!
Sulle scale della casa di Guido m'imbattei nella signora Malfenti che pesantemente le saliva.
Mi raccontò per lungo e per largo quanto fino ad allora era stato deciso nell'affare di Guido.
La sera prima s'erano divisi circa d'accordo nella convinzione che bisognava salvare quell'uomo che aveva una disdetta disastrosa.
Soltanto alla mattina Ada aveva appreso ch'io dovevo collaborare a coprire la perdita di Guido e s'era recisamente rifiutata di accettare.
La signora Malfenti la scusava:
- Che vuoi farci? Essa non vuole caricarsi del rimorso di aver impoverita la sua sorella prediletta.
Sul pianerottolo, la signora si fermò per respirare e anche per parlare, e mi disse ridendo che la cosa sarebbe finita senza danno per nessuno.
Prima di colazione, lei, Ada e Guido s'erano recati per averne consiglio da un avvocato, vecchio amico di famiglia e ora anche tutore della piccola Anna.
L'avvocato aveva detto che non occorreva pagare perché per legge non vi si era obbligati.
Guido s'era vivamente opposto parlando di onore e di dovere, ma senza dubbio, una volta che tutti, compresa Ada, decidevano di non pagare, anche lui avrebbe dovuto rassegnarvisi.
- Ma la sua ditta alla Borsa sarà dichiarata bancarotta? - dissi io perplesso.
- Probabilmente! - disse la signora Malfenti con un sospiro prima d'imprendere la salita dell'ultima scala.
Guido dopo colazione usava di riposare e perciò fummo ricevuti dalla sola Ada in quel salottino ch'io conoscevo tanto bene.
Al vedermi essa fu per un istante confusa, per un solo istante, ch'io però afferrai e ritenni, chiaro, evidente, come se la sua confusione mi fosse stata detta.
Poi si fece forza e mi stese la mano con un movimento deciso, virile, che doveva cancellare l'esitazione femminea che l'aveva precorso.
Mi disse:
- Augusta ti avrà detto come io ti sia riconoscente.
Non saprei ora dirti quello che sento perché sono confusa.
Sono anche malata.
Sí, molto malata! Avrei di nuovo bisogno della casa di salute di Bologna!
Un singhiozzo l'interruppe:
- Ti domando ora un favore.
Ti prego di dire a Guido che neppure tu sei al caso di dargli quel denaro.
Cosí ci sarà piú facile d'indurlo a fare quello che deve.
Prima aveva avuto un singhiozzo ricordando la propria malattia; singhiozzò poi di nuovo prima di continuare a parlare del marito:
- È un ragazzo, e bisogna trattarlo come tale.
Se egli sa che tu consenti di dargli quel denaro, s'ostinerà ancora maggiormente nella sua idea di sacrificare anche il resto inutilmente.
Inutilmente, perché oramai sappiamo con assoluta certezza che il fallimento in Borsa è permesso.
L'ha detto l'avvocato.
Mi comunicava il parere di un'alta autorità senza domandarmi il mio.
Come vecchio frequentatore di Borsa, il mio parere, anche accanto a quello dell'avvocato, avrebbe potuto avere il suo peso, ma non ricordai neppure il mio parere seppure ne avevo uno.
Ricordai invece che venivo messo in una posizione difficile.
Io non potevo ritirarmi dall'impegno che avevo preso con Guido: era in compenso di quell'impegno, che m'ero creduto autorizzato di gridargli nelle orecchie tante insolenze, intascando cosí una specie d'interessi sul capitale che ora non potevo piú rifiutargli.
- Ada! - dissi esitante.
- Io non credo di potermi disdire cosí da un giorno all'altro.
Non sarebbe meglio che tu convincessi Guido di fare le cose come le desideri tu?
La signora Malfenti con la grande simpatia che sempre mi dimostrava, disse che intendeva benissimo la mia speciale posizione e che del resto, quando Guido si sarebbe visto messo a disposizione soltanto un quarto dell'importo di cui abbisognava, avrebbe pur dovuto adattarsi al loro volere.
Ma Ada non aveva esaurite le sue lacrime.
Piangendo con la faccia celata nel fazzoletto, disse:
- Hai fatto male, molto male di fare quell'offerta veramente straordinaria! Ora si vede quanto male hai fatto!
Mi pareva esitante fra una grande gratitudine e un grande rancore.
Poi soggiunse che non voleva si parlasse mai piú di quella mia offerta e mi pregava di non provvedere quel denaro, perché essa m'avrebbe impedito di darlo o avrebbe impedito a Guido di accettarlo.
Ero tanto imbarazzato che finii col dire una bugia.
Le dissi cioè che quel denaro io l'avevo già procurato e accennai alla mia tasca di petto dove giaceva quella busta dal peso tanto lieve.
Ada mi guardò questa volta con un'espressione di vera ammirazione di cui forse mi sarei compiaciuto se non avessi saputo di non meritarla.
Ad ogni modo fu proprio questa mia bugia per la quale non so dare altra spiegazione che una mia strana tendenza a rappresentarmi dinanzi ad Ada maggiore di quanto non sia, che m'impedí di attendere Guido e mi cacciò da quella casa.
Avrebbe potuto anche avvenire che a un dato punto, contrariamente a quanto appariva, mi fosse stato chiesto di consegnare il denaro che dicevo di avere con me, e allora che figura ci avrei fatta? Dissi che avevo degli affari urgenti in ufficio e corsi via.
Ada m'accompagnò alla porta e m'assicurò ch'essa avrebbe indotto Guido di venire lui da me per ringraziarmi della mia bontà e per rifiutarla.
Fece tale dichiarazione con tale risolutezza che io trasalii.
A me parve che quel fermo proposito andasse a colpire in parte anche me.
No! In quel momento essa non mi amava.
Il mio atto di bontà era troppo grande.
Schiacciava la gente su cui s'abbatteva e non c'era da meravigliarsi che i beneficati protestassero.
Andando all'ufficio cercai di liberarmi del malessere che m'aveva dato il contegno di Ada, ricordando che io portavo quel sacrificio a Guido e a nessun altro.
Che c'entrava Ada? Mi ripromisi di farlo sapere ad Ada stessa alla prima occasione.
Andai all'ufficio proprio per non avere il rimorso di aver mentito una volta di piú.
Nulla mi vi attendeva.
Cadeva dalla mattina una pioggerella minuta e continua che aveva rinfrescata considerevolmente l'aria di quella primavera esitante.
In due passi sarei stato a casa, mentre per andare all'ufficio dovevo percorrere una strada ben piú lunga ciò ch'era abbastanza fastidioso.
Ma mi pareva di dover corrispondere ad un impegno.
Poco dopo vi fui raggiunto da Guido.
Allontanò dall'ufficio Luciano per restare solo con me.
Aveva quel suo aspetto sconvolto che l'aiutava nelle sue lotte con la moglie e che io conoscevo tanto bene.
Doveva aver pianto e gridato.
Mi domandò che cosa mi paresse dei progetti di sua moglie e di nostra suocera ch'egli sapeva m'erano già stati comunicati.
Gli parvi esitante.
Non volevo dire la mia opinione che non poteva accordarsi con quella delle due donne e sapevo che se avessi adottata la loro, avrei provocate delle nuove scene da parte di Guido.
Poi mi sarebbe dispiaciuto troppo di far apparire esitante il mio aiuto e infine eravamo d'accordo con Ada che la decisione doveva venire da Guido e non da me.
Gli dissi che bisognava calcolare, vedere, sentire anche altre persone.
Io non ero un tale uomo d'affari da poter dare un consiglio in argomento tanto importante.
E, per guadagnare del tempo, gli domandai se voleva che consultassi l'Olivi.
Bastò questo per farlo gridare:
- Quell'imbecille! - urlò.
- Te ne prego lascialo da parte!
Non ero affatto disposto di accalorarmi alla difesa dell'Olivi, ma non bastò la mia calma per rasserenare Guido.
Eravamo nell'identica situazione del giorno prima, ma ora era lui che gridava e toccava a me di tacere.
È quistione di disposizione.
Io ero pieno di un imbarazzo che mi legava le membra.
Ma egli assolutamente volle io dicessi il mio parere.
Per un'ispirazione che credo divina parlai molto bene, tanto bene che se le mie parole avessero avuto un effetto qualunque, la catastrofe che poi seguí sarebbe stata evitata.
Gli dissi che io intanto avrei scisse le due quistioni, quella della liquidazione del quindici da quella di fine mese.
In complesso al quindici non si aveva da pagare un importo troppo rilevante e bisognava intanto indurre le donne a sottostare a quella perdita relativamente lieve.
Poi avremmo avuto il tempo necessario per provvedere saggiamente all'altra liquidazione.
Guido m'interruppe per domandarmi:
- Ada m'ha detto che tu hai già pronto il denaro in tasca.
L'hai qui?
Arrossii.
Ma trovai subito pronta un'altra bugia che mi salvò:
- Visto che a casa tua non accettarono quel denaro, lo depositai poco fa alla Banca.
Ma possiamo riaverlo quando vorremo, anche subito domattina.
Allora egli mi rimproverò di aver cambiato di parere.
Se proprio io il giorno prima avevo dichiarato di non voler aspettare l'altra liquidazione per mettere in regola tutto! E qui egli ebbe uno scoppio d'ira violenta che finí col gettarlo privo di forze sul sofà! Egli avrebbe gettato fuori d'ufficio il Nilini e quegli altri agenti che lo avevano trascinato al giuoco.
Oh! Giuocando egli aveva bensí intravvista la possibilità della rovina, ma mai piú la soggezione a donne che non capivano niente di niente.
Andai a stringergli la mano e se lo avesse permesso lo avrei abbracciato.
Non volevo nient'altro che vederlo arrivare a quella decisione.
Niente piú giuoco, ma il lavoro di ogni giorno!
Questo sarebbe stato il nostro avvenire e la sua indipendenza.
Ora si trattava di passare quel breve duro periodo, ma poi tutto sarebbe stato facile e semplice.
Abbattuto, ma piú calmo, egli poco dopo mi lasciò.
Anche lui nella sua debolezza era tutto pervaso da una forte decisione,
- Ritorno da Ada!- mormorò ed ebbe un sorriso amaro, ma sicuro.
L'accompagnai fino alla porta e l'avrei accompagnato fino a casa sua se egli non avesse avuta alla porta la vettura che l'attendeva.
La Nemesi perseguitava Guido.
Mezz'ora dopo ch'egli m'aveva lasciato, io pensai che sarebbe stato prudente da parte mia di recarmi a casa sua ad assisterlo.
Non che io avessi sospettato che su lui potesse incombere un pericolo, ma ormai io ero tutto dalla parte sua e avrei potuto contribuire a convincere Ada e la signora Malfenti ad aiutarlo.
Il fallimento in Borsa non era una cosa che mi piaceva ed in complesso la perdita ripartita fra noi quattro non era insignificante, ma non rappresentava per nessuno di noi la rovina.
Poi ricordai che il mio maggior dovere era oramai non di assistere Guido, ma di fargli trovare pronto il giorno appresso l'importo che gli avevo promesso.
Andai subito in cerca dell'Olivi e mi preparai ad una nuova lotta.
Avevo escogitato un sistema di rifondere alla mia firma il grosso importo in varii anni, versando però di lí ad alcuni mesi tutto quello che ancora restava dell'eredità di mia madre.
Speravo che l'Olivi non avrebbe fatte delle difficoltà, perché io fino ad allora non gli avevo mai domandato piú di quanto mi fosse spettato per utili ed interessi e potevo anche promettere di non inquietarlo mai piú con domande simili.
Era evidente che pur potevo sperare di ricuperare da Guido almeno parte di quell'importo.
Quella sera non seppi trovare l'Olivi.
Era appena uscito dall'ufficio quand'io entrai.
Supponevano si fosse recato alla Borsa.
Non lo trovai neppure colà e allora mi recai a casa sua ove appresi che si trovava ad una seduta di un'associazione economica nella quale occupava un posto onorifico.
Avrei potuto raggiungerlo colà, ma oramai s'era fatto notte, e cadeva ininterrotta una pioggia abbondante che convertiva le vie in tanti ruscelli.
Fu un diluvio che durò per tutta la notte e di cui per lunghi anni non si perdette il ricordo.
La pioggia cadeva tranquilla, tranquilla, addirittura perpendicolarmente, sempre nella stessa abbondanza.
Dalle alture che circondano la città scese il fango che, associato alle scorie della nostra vita cittadina, andò ad ostruire i nostri scarsi canali.
Quando mi decisi a rincasare dopo di aver atteso inutilmente in un rifugio che la pioggia cessasse e quand'ebbi chiara la visione che il tempo s'era assestato nella pioggia e ch'era vano di sperare un mutamento, si camminava nell'acqua anche movendosi sulla parte piú alta del selciato.
Corsi a casa bestemmiando e fracido fino alle ossa.
Bestemmiavo anche perché avevo perduto tanto buon tempo per rintracciare l'Olivi.
Può essere che il mio tempo non sia poi tanto prezioso, ma è sicuro ch'io soffro orrendamente quando posso constatare di aver lavorato invano.
E correndo pensavo: «Lasciamo tutto per domani quando sarà chiaro e bello e asciutto.
Domani andrò dall'Olivi e domani mi recherò da Guido.
Magari mi leverò di buon'ora, ma sarà chiaro e asciutto».
Ero tanto convinto della giustezza della mia decisione che dissi ad Augusta che da tutti si era stabilito di rimandare ogni decisione alla dimane.
Mi cambiai, mi rasciugai e con le comode e calde pantofole sui piedi torturati, dapprima cenai eppoi mi coricai per dormire profondamente fino alla mattina mentre ai vetri delle mie finestre batteva la pioggia grossa come funi.
Cosí seppi solo tardi gli avvenimenti della notte.
Dapprima apprendemmo che la pioggia aveva finito col provocare in varie parti della città delle inondazioni, poi che Guido era morto.
Molto piú tardi seppi come poté accadere una cosa simile.
Alle undici di sera circa, quando la signora Malfenti si fu allontanata, Guido avvertí la moglie ch'egli aveva ingoiata una quantità enorme di veronal.
Volle convincere la moglie che era condannato.
L'abbracciò, la baciò, le domandò perdono di averla fatta soffrire.
Poi, ancora prima che la sua parola si convertisse in un balbettio, l'assicurò ch'essa era stata il solo amore della sua vita.
Essa non credette per allora né a quest'assicurazione né ch'egli avesse ingoiato tanto veleno da poter morirne.
Non credette neppure ch'egli avesse perduti i sensi, ma si figurò che fingesse per strapparle di nuovo dei denari.
Poi, trascorsa quasi un'ora, vedendo ch'egli dormiva sempre piú profondamente, ebbe un certo terrore e scrisse un biglietto ad un medico che abitava non lontano dalla sua abitazione.
Su quel biglietto scisse che suo marito abbisognava di pronto aiuto avendo ingoiato una grande quantità di veronal.
Fino ad allora non c'era stata in quella casa alcun'emozione che avesse potuto avvisare la fantesca, una vecchia donna ch'era in casa da poco tempo, della gravità della sua missione.
La pioggia fece il resto.
La fantesca si trovò con l'acqua a mezza gamba e smarrí il biglietto.
Se ne accorse solo quando si trovò alla presenza del dottore.
Seppe però dirgli che c'era urgenza e lo indusse a seguirla.
Il dottor Mali era un uomo di circa cinquant'anni, tutt'altro che una genialità, ma un medico pratico che aveva fatto sempre il suo dovere come meglio aveva potuto.
Non aveva una grande clientela propria, ma invece aveva molto da fare per conto di una società dai numerosissimi membri, che lo retribuiva poco lautamente.
Era rincasato poco prima ed era arrivato finalmente a riscaldarsi e rasciugarsi accanto al fuoco.
Si può immaginare con quale animo abbandonasse ora il suo caldo cantuccio.
Quando io mi misi ad indagare meglio le cause della morte del mio povero amico, mi preoccupai anche di fare la conoscenza del dottor Mali.
Da lui non seppi altro che questo: quando giunse all'aperto e si sentí bagnare dalla pioggia traverso l'ombrello, si pentí d'aver studiato medicina invece di agricoltura, ricordando che il contadino, quando piove, resta a casa.
Giunto al letto di Guido, trovò Ada del tutto calmata.
Ora che aveva accanto il dottore, ricordava meglio come Guido l'avesse giocata mesi prima simulando un suicidio.
Non toccava piú a lei di assumersi una responsabilità, ma al dottore il quale doveva essere informato di tutto, anche delle ragioni che dovevano far credere in una simulazione di suicidio.
E queste ragioni il dottore le ebbe tutte come prestava nello stesso tempo l'orecchio alle onde che spazzavano la via.
Non essendo stato avvisato che lo si aveva chiamato per curare un caso di avvelenamento, egli mancava di ogni ordigno necessario alla cura.
Lo deplorò balbettando qualche parola che Ada non intese.
Il peggio era che, per poter imprendere un lavacro dello stomaco, egli non avrebbe potuto mandar a prendere le cose necessarie, ma avrebbe dovuto andar a prenderle lui stesso traversando per due volte la via.
Toccò il polso di Guido e lo trovò magnifico.
Domandò ad Ada se forse Guido avesse sempre avuto un sonno molto profondo.
Ada rispose di sí, ma non a quel punto.
Il dottore esaminò gli occhi di Guido: reagivano prontamente alla luce! Se ne andò raccomandando di dargli di tempo in tempo dei cucchiaini di caffè nero fortissimo.
Seppi anche che, giunto sulla via, mormorò con rabbia:
- Non dovrebbe essere permesso di simulare un suicidio con questo tempo!
Io, quando lo conobbi, non osai di fargli un rimprovero per la sua negligenza, ma egli l'indovinò e si difese: mi disse che rimase stupito all'apprendere alla mattina che Guido era morto, tanto che sospettò fosse rinvenuto e avesse preso dell'altro veronal.
Poi soggiunse che i profani d'arte medica non potevano immaginare come nel corso della sua pratica il dottore venisse abituato a difendere la sua vita contro i clienti che vi attentavano non pensando che alla loro.
Dopo poco piú di un'ora, Ada si stancò di cacciare a Guido il cucchiaino fra' denti e vedendo ch'egli ne sorbiva sempre meno e che il resto andava a bagnare il guanciale, si spaventò di nuovo e pregò la fantesca di recarsi dal dottor Paoli.
Questa volta la fantesca tenne da conto il bigliettino.
Ma ci mise piú di un'ora per raggiungere l'abitazione del medico.
È naturale che quando piove tanto si senta il bisogno di tempo in tempo di fermarsi sotto qualche portico.
Una pioggia simile non solo bagna, ma sferza.
Il dottor Paoli non era in casa.
Era stato chiamato poco prima da un cliente e se ne era andato dicendo che sperava di ritornare presto.
Ma poi pare avesse preferito di attendere presso il cliente che la pioggia cessasse.
La sua donna di servizio, una buonissima persona in età, fece sedere la fantesca di Ada accanto al fuoco e si preoccupò di rifocillarla.
Il dottore non aveva lasciato l'indirizzo del suo cliente e cosí le due donne passarono insieme varie ore accanto al fuoco.
Il dottore ritornò, solo quando la pioggia fu cessata.
Quando poi arrivò da Ada con tutti gli ordigni che già aveva esperiti su Guido, albeggiava.
A quel letto ebbe un solo compito: celare ad Ada che Guido era già morto e far venire la signora Malfenti prima che Ada se ne accorgesse, per assisterla nel primo dolore.
Per questo la notizia ci pervenne molto tardi e imprecisa.
Levatomi dal letto ebbi per l'ultima volta uno slancio d'ira contro il povero Guido: complicava ogni sventura con le sue commedie! Uscii di casa senza Augusta che non poteva abbandonare il bimbo cosí su due piedi.
Fuori, fui trattenuto da un dubbio! Non avrei potuto attendere che le Banche si aprissero e l'Olivi fosse nel suo ufficio per comparire dinanzi a Guido fornito del denaro che avevo promesso? Tanto poco credevo alla notizia della gravità delle condizioni di Guido che pur m'era stata annunziata!
La verità la ebbi dal dottor Paoli in cui m'imbattei sulle scale.
Ne ebbi uno sconvolgimento che quasi mi fece precipitare.
Guido, dacché vivevo con lui, era divenuto per me un personaggio di grande importanza.
Finché era vivo lo vedevo in una data luce ch'era la luce di parte delle mie giornate.
Morendo, quella luce si modificava in modo come se improvvisamente fosse passata traverso un prisma.
Era proprio questo che m'abbacinava.
Egli aveva sbagliato, ma io subito vidi ch'essendo morto, dei suoi errori non restava niente.
Secondo me era un imbecille quel buffone che in un cimitero coperto di epigrafi laudatorie domandò dove si seppellissero in quel paese i peccatori.
I morti non sono mai stati peccatori.
Guido era ormai un puro! La morte l'aveva purificato.
Il dottore era commosso per aver assistito al dolore di Ada.
Mi disse qualche cosa dell'orrenda notte ch'essa aveva passata.
Oramai si era riusciti a farle credere che la quantità di veleno ingerita da Guido era stata tale che nessun soccorso avrebbe potuto giovare.
Guai se avesse saputo altrimenti!
- Invece - aggiunse il dottore con sconforto - se io fossi arrivato qualche ora prima l'avrei salvato.
Ho trovate le boccette vuote del veleno.
Le esaminai.
Una dose forte ma poco piú forte dell'altra volta.
Mi fece vedere alcune boccette sulle quali lessi stampato: Veronal.
Dunque non veronal al sodio.
Come nessun altro io potevo ora essere certo che Guido non aveva voluto morire.
Non lo dissi però mai a nessuno.
Il Paoli mi lasciò dopo di avermi detto che per il momento non cercassi di vedere Ada.
Egli le aveva propinati dei forti calmanti e non dubitava che presto avrebbero avuto il loro effetto.
Sul corridoio sentii venire da quella stanzuccia, ove ero stato ricevuto due volte da Ada, il suo pianto mite.
Erano parole singole che non intendevo, ma pregne di affanno.
La parola lui era ripetuta piú volte ed io immaginai quello ch'essa diceva.
Stava ricostruendo la sua relazione col povero morto.
Non doveva somigliare affatto a quella ch'essa aveva avuta col vivo.
Per me era evidente ch'essa col marito vivo aveva sbagliato.
Egli moriva per un delitto commesso da tutti insieme perché egli aveva giocato alla Borsa col consenso di tutti loro.
Quando s'era trattato di pagare allora l'avevano lasciato solo.
E lui s'era affrettato di pagare.
Unico dei congiunti io, che veramente non ci entravo, avevo sentito il dovere di soccorrerlo.
Nella stanza da letto matrimoniale il povero Guido giaceva abbandonato, coperto dal lenzuolo.
La rigidezza già avanzata, esprimeva qui non una forza ma la grande stupefazione di essere morto senz'averlo voluto.
Sulla sua faccia bruna e bella era impronto un rimprovero.
Certamente non diretto a me.
Andai da Augusta a sollecitarla di venire ad assistere la sorella.
Io ero molto commosso ed Augusta pianse abbracciandomi:
- Tu sei stato un fratello per lui, - mormorò.
- Solo adesso io sono d'accordo con te di sacrificare una parte del nostro patrimonio per purificare la sua memoria.
Mi preoccupai di rendere ogni onore al mio povero amico.
Intanto affissi alla porta dell'ufficio un bollettino che ne annunciava la chiusura per la morte del proprietario.
Composi io stesso l'avviso mortuario.
Ma soltanto il giorno seguente, d'accordo con Ada, furono prese le disposizioni per il funerale.
Seppi allora che Ada aveva deciso di seguire il feretro al cimitero.
Voleva concedergli tutte le prove d'affetto che poteva.
Poverina! Io sapevo quale dolore fosse quello del rimorso su una tomba.
Ne avevo tanto sofferto anch'io alla morte di mio padre.
Passai il pomeriggio chiuso nell'ufficio in compagnia del Nilini.
Si arrivò cosí a fare un piccolo bilancio della situazione di Guido.
Spaventevole! Non solo era distrutto il capitale della ditta, ma Guido restava debitore di altrettanto, se avesse dovuto rispondere di tutto.
Io avrei avuto bisogno di lavorare, proprio lavorare a vantaggio del mio povero defunto amico, ma non sapevo far altro che sognare.
La prima mia idea sarebbe stata di sacrificare tutta la mia vita in quell'ufficio e di lavorare a vantaggio di Ada e dei suoi figliuoli.
Ma ero poi sicuro di saper far bene?
Il Nilini, come al solito, chiacchierava mentre io guardavo tanto, tanto lontano.
Anche lui sentiva il bisogno di mutare radicalmente le sue relazioni con Guido.
Ora comprendeva tutto! Il povero Guido, quando gli aveva fatto di torto, era stato già colto dalla malattia che doveva condurlo al suicidio.
Perciò tutto era dimenticato oramai.
E predicò dicendosi proprio fatto cosí.
Non poteva serbare rancore a nessuno.
Egli aveva sempre voluto bene a Guido e gliene voleva tuttavia.
Finí che i sogni del Nilini s'associarono ai miei e vi si sovrapposero.
Non era nel lento commercio che si avrebbe potuto trovare il riparo ad una catastrofe simile, ma alla Borsa stessa.
E il Nilini mi raccontò di persona a lui amica che all'ultimo momento aveva saputo salvarsi raddoppiando la posta.
Parlammo insieme per molte ore, ma la proposta del Nilini di proseguire nel gioco iniziato da Guido, arrivò in ultimo, poco prima del mezzodí e fu subito accettata da me.
L'accettai con una gioia tale come se cosí fossi riuscito di far rivivere il mio amico.
Finí che io comperai a nome del povero Guido una quantità di altre azioni dal nome bizzarro: Rio Tinto, South French e cosí via.
Cosí s'iniziarono per me le cinquanta ore di massimo lavoro cui abbia atteso in tutta la mia vita.
Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e giú l'ufficio in attesa di sentire se i miei ordini fossero stati eseguiti.
Io temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome non venisse piú ritenuto buono per impegni ulteriori.
Invece per varii giorni non si attribuí quella morte a suicidio.
Poi, quando il Nilini finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al momento di ricevere gli stabiliti, fui informato che su tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante.
Ricordo quell'agitazione come un vero e proprio lavoro.
Ho la curiosa sensazione nel mio ricordo che ininterrottamente, per cinquanta ore, io fossi rimasto assiso al tavolo da giuoco succhiellando le carte.
Io non conosco nessuno che per tante ore abbia saputo resistere ad una fatica simile.
Ogni movimento di prezzo fu da me registrato, sorvegliato, eppoi (perché non dirlo?) ora spinto innanzi ed ora trattenuto, come a me, ossia al mio povero amico, conveniva.
Persino le mie notti furono insonni.
Temendo che qualcuno della famiglia avesse potuto intervenire ad impedirmi l'opera di salvataggio cui m'ero accinto, non parlai a nessuno della liquidazione di metà del mese quando giunse.
Pagai tutto io, perché nessun altro si ricordò di quegli impegni, visto che tutti erano intorno al cadavere che attendeva la tumulazione.
Del resto, in quella liquidazione era da pagare meno di quanto fosse stato stabilito a suo tempo, perché la fortuna m'aveva subito assecondato.
Era tale il mio dolore per la morte di Guido, che mi pareva di attenuarlo compromettendomi in tutti i modi tanto con la mia firma che con l'esposizione del mio danaro.
Fin qui m'accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo tempo prima accanto a lui.
Soffersi tanto di quell'agitazione, che non giuocai mai piú in Borsa per conto mio.
Ma a forza di «succhiellare» (questa era la mia occupazione precipua) finii col non intervenire al funerale di Guido.
La cosa avvenne cosí.
Proprio quel giorno i valori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto.
Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo ricuperato della perdita.
Il patrimonio del vecchio Speier figurava ora solamente dimezzato! Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio.
Avveniva proprio quello che il Nilini aveva preveduto in tono molto dubitativo bensí ma che ora, naturalmente, quando ripeteva le parole dette, spariva ed egli si presentava quale un sicuro profeta.
Secondo me egli aveva previsto questo e anche il contrario.
Non avrebbe fallato mai, ma non glielo dissi perché a me conveniva ch'egli restasse nell'affare con la sua ambizione.
Anche il suo desiderio poteva influire sui prezzi.
Partimmo dall'ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funerale doveva aver luogo alle due e tre quarti.
All'altezza dei volti di Chiozza, vidi in lontananza il convoglio e mi parve persino di riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada.
Saltai col Nilini in una vettura di piazza, dando ordine al cocchiere di seguire il funerale.
E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare.
Eravamo tanto lontani dal pensiero al povero defunto che ci lagnavamo dell'andatura lenta della vettura.
Chissà quello che intanto avveniva alla Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto mio.
- Per il momento - dissi io, e non so perché arrossissi, - io non lavoro che per conto del mio povero amico.
Quindi, dopo una lieve esitazione, aggiunsi:
- Poi penserò a me stesso.
- Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico.
Ma fra me e me formulai proprio le parole che non osavo dirgli: «Non mi metterò mai in mano tua!».
Egli si mise a predicare.
- Chissà se si può cogliere un'altra simile occasione! - Dimenticava d'avermi insegnato che alla Borsa v'era l'occasione ad ogni ora.
Quando si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermano, il Nilini sporse la testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa.
La vettura continuava a procedere dietro al funerale che s'avviava al cimitero greco.
- Il signor Guido era greco? - domandò sorpreso.
Infatti il funerale passava oltre al cimitero cattolico e s'avviava a qualche altro cimitero, giudaico, greco, protestante o serbo.
- Può essere che sia stato protestante! - dissi io dapprima, ma subito mi ricordai d'aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica.
- Dev'essere un errore! - esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori di posto.
Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia.
- Ci siamo sbagliati! - esclamò.
Quando arrivò a drenare lo scoppio della sua ilarità, mi colmò di rimproveri.
Io avrei dovuto vedere dove si andava perché io avrei dovuto sapere l'ora e le persone ecc.
Era il funerale di un altro!
Irritato, io non avevo riso con lui ed ora m'era difficile di sopportare i suoi rimproveri.
Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore solo perché mi premeva piú la Borsa, che il funerale.
Scendemmo dalla vettura per orizzontarci meglio e ci avviammo verso l'entrata del cimitero cattolico.
La vettura ci seguí.
M'accorsi che i superstiti dell'altro defunto ci guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo di aver onorato fino a quell'estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul piú bello.
Il Nilini spazientito mi precedeva.
Domandò al portiere dopo una breve esitazione:
- Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?
Il portiere non sembrò sorpreso della domanda che a me parve comica.
Rispose che non lo sapeva.
Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell'ultima mezz'ora due funerali.
Perplessi ci consultammo.
Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si trovasse già dentro o fuori.
Allora decisi per mio conto.
A me non era permesso d'intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla.
Dunque non sarei entrato in cimitero.
Ma d'altronde non potevo rischiare d'imbattermi nel funerale, ritornando.
Rinunziavo perciò ad assistere all'interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre Servola.
Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunziare di far atto di presenza per riguardo ad Ada ch'egli conosceva.
Con passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna che conduceva al villaggio.
Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido.
Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose.
Altro dovere m'incombeva: dovevo salvare l'onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli.
Quando avrei informata Ada ch'ero riuscito di ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e, dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio.
Era perciò esatto.
Io avevo ricuperata proprio tre quarti della perdita), essa certamente m'avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale.
Quel giorno il tempo s'era rimesso al bello.
Brillava un magnifico sole primaverile e, sulla campagna ancora bagnata, l'aria era nitida e sana.
I miei polmoni, nel movimento che non m'ero concesso da varii giorni, si dilatavano.
Ero tutto salute e forza.
La salute non risalta che da un paragone.
Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto.
Tutto era salute e forza intorno a me.
Anche la campagna dall'erba giovine.
L'estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe dell'altro giorno, dava ora soli benefici effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata.
Era certo che quanto piú ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto piú discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo.
Ma questa era la previsione dell'esperienza ed io non la ricordai; m'afferra solo ora che scrivo.
In quel momento c'era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne.
Il mio passo si fece piú rapido.
Mi beavo di sentirlo tanto leggero.
Scendendo dalla collina di Servola s'affrettò fin qui quasi alla corsa.
Giunto al passeggio di Sant'Andrea, sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande facilità.
L'aria mi portava.
Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio piú intimo amico.
Avevo il passo e il respiro del vittorioso.
Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse era sceso in lizza.
Andai all'ufficio a vedere i corsi di chiusa.
Erano un po' piú deboli, ma non fu questo che mi tolse la fiducia.
Sarei tornato a «succhiellare» e non dubitavo che sarei arrivato allo scopo.
Dovetti finalmente recarmi alla casa di Ada.
Venne ad aprirmi Augusta.
Mi domandò subito:
- Come hai fatto a mancare al funerale, tu, l'unico uomo nella nostra famiglia?
Deposi l'ombrello e il cappello, e un po' perplesso le dissi che avrei voluto parlare subito anche con Ada per non dover ripetermi.
Intanto potevo assicurarla che avevo avute le mie buone ragioni per mancare dal funerale.
Non ne ero piú tanto sicuro e improvvisamente il mio fianco s'era fatto dolente forse per la stanchezza.
Doveva essere quell'osservazione di Augusta, che mi faceva dubitare della possibilità di far scusare la mia assenza che doveva aver causato uno scandalo; vedevo dinanzi a me tutti i partecipi alla mesta funzione che si distraevano dal loro dolore per domandarsi dove io potessi essere.
Ada non venne.
Poi seppi che non era stata neppure avvisata ch'io l'attendessi.
Fui ricevuto dalla signora Malfenti che incominciò a parlarmi con un cipiglio severo quale non le avevo mai visto.
Cominciai a scusarmi, ma ero ben lontano dalla sicurezza con cui ero volato dal cimitero in città.
Balbettavo.
Le raccontai anche qualche cosa di meno vero in appendice della verità, ch'era la mia coraggiosa iniziativa alla Borsa a favore di Guido, e cioè che poco prima dell'ora del funerale avevo dovuto spedire un dispaccio a Parigi per dare un ordine e che non m'ero sentito di allontanarmi dall'ufficio prima di aver ricevuta la risposta.
Era vero che il Nilini ed io avevamo dovuto telegrafare a Parigi, ma due giorni prima, e due giorni prima avevamo ricevuta anche la risposta.
Insomma comprendevo che la verità non bastava a scusarmi fors'anche perché non potevo dirla tutta e raccontare dell'operazione tanto importante cui io da giorni attendevo cioè a regolare col mio desiderio i cambii mondiali.
Ma la signora Malfenti mi scusò quando sentí la cifra cui ora ammontava la perdita di Guido.
Mi ringraziò con le lacrime agli occhi.
Ero di nuovo non l'unico uomo della famiglia, ma il migliore.
Mi domandò di venire di sera con Augusta a salutare Ada cui essa nel frattempo avrebbe raccontato tutto.
Per il momento Ada non era al caso di ricevere nessuno.
Ed io, volentieri, me ne andai con mia moglie.
Neppure essa, prima di lasciare quella casa, sentí il bisogno di congedarsi da Ada, che passava da pianti disperati ad abbattimenti che le impedivano persino di accorgersi della presenza di chi le parlava.
Ebbi una speranza:
- Allora non è Ada che si è accorta della mia assenza?
Augusta mi confessò che avrebbe voluto tacerne, tanto le era sembrata eccessiva la manifestazione di risentimento di Ada per tale mia mancanza.
Ada esigette delle spiegazioni da lei e quando Augusta dovette dirle di non saperne nulla non avendomi ancora visto, essa s'abbandonò di nuovo alla sua disperazione urlando che Guido aveva dovuto finire cosí essendo stato odiato da tutta la famiglia.
A me parve che Augusta avrebbe dovuto difendermi e ricordare ad Ada come io solo ero stato pronto di soccorrere Guido nel modo che si doveva.
Se fossi stato ascoltato, Guido non avrebbe avuto alcun motivo di tentare o simulare un suicidio.
Augusta invece aveva taciuto.
Era stata tanto commossa dalla disperazione di Ada che avrebbe temuto di oltraggiarla mettendosi a discutere.
Del resto essa era fiduciosa che ora le spiegazioni della signora Malfenti avrebbero convinto Ada dell'ingiustizia ch'essa mi usava.
Devo dire che avevo anch'io tale fiducia ed anzi confessare che da quel momento gustai la certezza di assistere alla sorpresa di Ada e alle sue manifestazioni di gratitudine.
Già da lei, causa Basedow, tutto era eccessivo.
Ritornai all'ufficio ove appresi che c'era alla Borsa di nuovo un lieve accenno all'ascesa, lievissimo, ma già tale che si poteva sperare di ritrovare il giorno dopo, all'apertura, i corsi della mattina.
Dopo cena dovetti andar da Ada da solo perché Augusta fu impedita di accompagnarmi per una indisposizione della bambina.
Fui ricevuto dalla signora Malfenti che mi disse che doveva attendere a qualche lavoro in cucina e che perciò avrebbe dovuto lasciarmi solo con Ada.
Poi mi confessò che Ada l'aveva pregata di lasciarla sola con me perché voleva dirmi qualche cosa che non doveva esser sentito da altri.
Prima di lasciarmi in quel salottino ove già due volte m'ero trovato con Ada, la signora Malfenti mi disse sorridendo:
- Sai, non è ancora disposta a perdonarti la tua assenza dal funerale di Guido, ma...
quasi!
In quel camerino mi batteva sempre il cuore.
Questa volta non per il timore di vedermi amato da chi non amavo.
Da pochi istanti e solo per le parole della signora Malfenti, avevo riconosciuto di aver commessa una grave mancanza verso la memoria del povero Guido.
La stessa Ada, ora che sapeva che a scusare tale mancanza le offrivo un patrimonio, non sapeva perdonarmi subito.
M'ero seduto e guardavo i ritratti dei genitori di Guido.
Il vecchio Cada aveva un'aria di soddisfazione che mi pareva dovuta al mio operato, mentre la madre di Guido, una donna magra vestita di un vestito dalle maniche abbondanti e un cappellino che le stava in equilibrio su una montagna di capelli, aveva l'aria molto severa.
Ma già! Ognuno dinanzi alla macchina fotografica assume un altro aspetto ed io guardai altrove sdegnato con me stesso d'indagare quelle faccie.
La madre non poteva certo aver previsto ch'io non avrei assistito all'interramento del figlio!
Ma il modo come Ada mi parlò fu una dolorosa sorpresa.
Essa doveva aver studiato a lungo quello ch'essa voleva dirmi e non tenne addirittura conto delle mie spiegazioni, delle mie proteste e delle mie rettifiche ch'essa non poteva aver previste e cui perciò non era preparata.
Corse la sua via come un cavallo spaventato, fino in fondo.
Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera, la capigliatura nel grande disordine di capelli sconvolti e fors'anche strappati da una mano che s'accanisce a trovar da far qualche cosa, quando non può altrimenti lenire.
Giunse fino al tavolino a cui ero seduto e vi si appoggiò con le mani per vedermi meglio.
La sua faccina era di nuovo dimagrata e liberata da quella strana salute che le cresceva fuori di posto.
Non era bella come quando Guido l'aveva conquistata, ma nessuno guardandola avrebbe ricordata la malattia.
Non c'era! C'era invece un dolore tanto grande che la rilevava tutta.
Io lo compresi tanto bene quell'enorme dolore, che non seppi parlare.
Finché la guardai pensai: «quali parole potrei dirle che potrebbero equivalere a prenderla fraternamente fra le mie braccia per confortarla e indurla a piangere e sfogarsi?».
Poi, quando mi sentii aggredito, volli reagire, ma troppo debolmente ed essa non mi sentí.
Essa disse, disse, disse ed io non so ripetere tutte le sue parole.
Se non sbaglio cominciò col ringraziarmi seriamente, ma senza calore di aver fatto tanto per lei e per i bambini.
Poi subito rimproverò:
- Cosí hai fatto in modo ch'egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!
Poi abbassò la voce come se avesse voluto tener segreto quello che mi diceva e nella sua voce vi fu maggior calore, un calore che risultava dal suo affetto per Guido e (o mi parve?) anche per me:
- Ed io ti scuso per non esser venuto al suo funerale.
Tu non potevi farlo ed io ti scuso.
Anche lui ti scuserebbe se fosse ancora vivo.
Che ci avresti fatto tu al suo funerale? Tu che non lo amavi! Buono come sei, avresti potuto piangere per me, per le mie lagrime, ma non per lui che tu...
odiavi! Povero Zeno! Fratello mio!
Era enorme che mi si potesse dire una cosa simile alterando in tale modo la verità.
Io protestai, ma essa non mi sentí.
Credo di aver urlato o almeno ne sentii lo sforzo nella strozza:
- Ma è un errore, una menzogna, una calunnia.
Come fai a credere una cosa simile?
Essa continuò sempre a bassa voce:
- Ma neppure io seppi amarlo.
Non lo tradii neppure col pensiero, ma sentivo in modo che non ebbi la forza di proteggerlo.
Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo.
Mi parevano migliori di quelli ch'egli mi offriva.
Ti sono grata di non essere intervenuto al funerale perché altrimenti non avrei neppur oggi compreso nulla.
Cosí invece vedo e intendo tutto.
Anche che io non l'amai: altrimenti come avrei potuto odiare persino il suo violino, l'espressione piú completa del suo grande animo?
Fu allora che io poggiai la mia testa sul braccio e nascosi la mia faccia.
Le accuse ch'essa mi rivolgeva erano tanto ingiuste che non si potevano discutere ed anche la loro irragionevolezza era tanto mitigata dal suo tono affettuoso che la mia reazione non poteva essere aspra come avrebbe dovuto per riuscire vittoriosa.
D'altronde già Augusta m'aveva dato l'esempio di un silenzio riguardoso per non oltraggiare ed esasperare tanto dolore.
Quando però i miei occhi si chiusero, nell'oscurità vidi che le sue parole avevano creato un mondo nuovo come tutte le parole non vere.
Mi parve d'intendere anch'io di aver sempre odiato Guido e di essergli stato accanto, assiduo, in attesa di poter colpirlo.
Essa poi aveva messo Guido insieme al suo violino.
Se non avessi saputo ch'essa brancolava nel suo dolore e nel suo rimorso, avrei potuto credere che quel violino fosse stato sfoderato come parte di Guido per convincere dell'accusa di odio l'animo mio.
Poi nell'oscurità rividi il cadavere di Guido e nella sua faccia sempre stampato lo stupore di essere là, privato dalla vita.
Spaventato rizzai la testa.
Era preferibile affrontare l'accusa di Ada che io sapevo ingiusta che guardare nell'oscurità.
Ma essa parlava sempre di me e di Guido:
- E tu, povero Zeno, senza saperlo, continuavi a vivergli accanto odiandolo.
Gli facevi del bene per mio amore.
Non si poteva! Doveva finire cosí! Anch'io credetti una volta di poter approfittare dell'amore ch'io sapevo tu mi serbavi per aumentare d'intorno a lui la protezione che poteva essergli utile.
Non poteva essere protetto che da chi lo amava e, fra noi, nessuno l'amò.
- Che cosa avrei potuto fare di piú per lui? - domandai io piangendo a calde lacrime per far sentire a lei e a me stesso la mia innocenza.
Le lacrime sostituiscono talvolta un grido.
Io non volevo gridare ed ero persino dubbioso se dovessi parlare.
Ma dovevo soverchiare le sue asserzioni e piansi.
- Salvarlo, caro fratello! Io o tu, noi si avrebbe dovuto salvarlo.
Io invece gli stetti accanto e non seppi farlo per mancanza di vero affetto e tu restasti lontano, assente, sempre assente finché egli non fu sepolto.
Poi apparisti sicuro armato di tutto il tuo affetto.
Ma, prima, di lui non ti curasti.
Eppure fu con te fino alla sera.
E tu avresti potuto immaginare, se di lui ti fossi preoccupato, che qualche cosa di grave stava per succedere.
Le lacrime m'impedivano di parlare, ma borbottai qualche cosa che doveva stabilire il fatto che la notte innanzi egli l'aveva passata a divertirsi in palude a caccia, per cui nessuno a questo mondo avrebbe potuto prevedere quale uso egli avrebbe fatto della notte seguente.
- Egli abbisognava della caccia, egli ne abbisognava! - mi rampognò essa ad alta voce.
Eppoi, come se lo sforzo di quel grido fosse stato soverchio, essa tutt'ad un tratto crollò e s'abbatté priva di sensi sul pavimento.
Mi ricordo che per un istante esitai di chiamare la signora Malfenti.
Mi pareva che quello svenimento rivelasse qualche cosa di quanto aveva detto.
Accorsero la signora Malfenti e Alberta.
La signora Malfenti sostenendo Ada mi domandò:
- Ha parlato con te di quelle benedette operazioni di Borsa? - Poi: - È il secondo svenimento quest'oggi!
Mi pregò di allontanarmi per un istante ed io andai sul corridoio ove attesi per sapere se dovevo rientrare o andarmene.
Mi preparavo ad ulteriori spiegazioni con Ada.
Essa dimenticava che se si fosse proceduto come io l'avevo proposto, la disgrazia sicuramente sarebbe stata evitata.
Bastava dirle questo per convincerla del torto ch'essa mi faceva.
Poco dopo, la signora Malfenti mi raggiunse e mi disse che Ada era rinvenuta e che voleva salutarmi.
Riposava sul divano su cui fino a poco prima ero stato seduto io.
Vedendomi, si mise a piangere e furono le prime lagrime ch'io le vidi spargere.
Mi porse la manina madida di sudore:
- Addio, caro Zeno! Te ne prego, ricorda! Ricorda sempre! Non dimenticarlo!
Intervenne la signora Malfenti a domandare quello che avessi da ricordare ed io le dissi che Ada desiderava che subito fosse liquidata tutta la posizione di Guido alla Borsa.
Arrossii della mia bugia e temetti anche una smentita da parte di Ada.
Invece di smentirmi essa si mise ad urlare:
- Sí! Sí! Tutto dev'essere liquidato! Di quell'orribile Borsa non voglio piú sentirne parlare!
Era di nuovo piú pallida e la signora Malfenti, per quietarla, l'assicurò che subito sarebbe stato fatto com'essa desiderava.
Poi la signora Malfenti m'accompagnò alla porta e mi pregò di non precipitare le cose: facessi il meglio che credessi nell'interesse di Guido.
Ma io risposi che non mi fidavo piú.
Il rischio era enorme e non potevo piú osare di trattare a quel modo gl'interessi altrui.
Non credevo piú nel giuoco di Borsa o almeno mi mancava la fiducia che il mio «succhiellare» potesse regolarne l'andamento.
Dovevo liquidare perciò subito, ben contento che fosse andata cosí.
Non ripetei ad Augusta le parole di Ada.
Perché avrei dovuto affliggerla? Ma quelle parole, anche perché non le riferii ad alcuno, restarono a martellarmi l'orecchio, e m'accompagnarono per lunghi anni.
Risuonano tuttavia nell'anima mia.
Tante volte ancora oggidí le analizzo.
Io non posso dire di aver amato Guido, ma ciò solo perché era stato uno strano uomo.
Ma gli stetti accanto fraternamente e lo assistetti come seppi.
Il rimprovero di Ada non lo merito.
Con lei non mi trovai mai piú da solo.
Essa non sentí il bisogno di dirmi altro né io osai esigere una spiegazione, forse per non rinnovarle il dolore.
In Borsa la cosa finí come avevo previsto e il padre di Guido, dopo che col primo dispaccio gli era stata avvisata la perdita di tutta la sua sostanza, ebbe certamente piacere a ritrovarne la metà intatta.
Opera mia di cui non seppi godere come m'ero atteso.
Ada mi trattò affettuosamente tutto il tempo fino alla sua partenza per Buenos Aires ove coi suoi bambini andò a raggiungere la famiglia del marito.
Amava di ritrovarsi con me ed Augusta.
Io talvolta volli figurarmi che tutto quel suo discorso fosse stato dovuto ad uno scoppio di dolore addirittura pazzesco e ch'essa neppure lo ricordasse.
Ma poi una volta che si riparlò in nostra presenza di Guido, essa ripeté e confermò in due parole tutto quello che quel giorno essa m'aveva detto:
- Non fu amato da nessuno, il poverino!
Al momento d'imbarcarsi con in braccio uno dei suoi bambini lievemente indisposto, essa mi baciò.
Poi, in un momento in cui nessuno ci stava accanto essa mi disse:
- Addio, Zeno, fratello mio.
Io ricorderò sempre che non seppi amarlo abbastanza.
Devi saperlo! Io abbandono volentieri il mio paese.
Mi pare di allontanarmi dai miei rimorsi!
La rimproverai di crucciarsi cosí.
Dichiarai ch'essa era stata una buona moglie e che io lo sapevo e avrei potuto testimoniarlo.
Non so se riuscii a convincerla.
Essa non parlò piú, vinta dai singhiozzi.
Poi, molto tempo dopo, sentii che congedandosi da me, essa aveva voluto con quelle parole rinnovare anche i rimproveri fatti a me.
Ma so ch'essa mi giudicò a torto.
Certo io non ho da rimproverarmi di non aver voluto bene a Guido.
La giornata era torbida e fosca.
Pareva che una sola nube distesa e niente minacciosa offuscasse il cielo.
Dal porto tentava di uscire a forza di remi un grande bragozzo le cui vele pendevano inerti dagli alberi.
Due soli uomini vogavano e, con colpi innumeri, arrivavano appena a muovere il grosso bastimento.
Al largo avrebbero trovata una brezza favorevole, forse.
Ada, dalla tolda del piroscafo, salutava agitando il suo fazzoletto.
Poi ci volse le spalle.
Certo guardava verso sant'Anna ove riposava Guido.
La sua figurina elegante diveniva piú perfetta quanto piú si allontanava.
Io ebbi gli occhi offuscati dalle lacrime.
Ecco ch'essa ci abbandonava e che mai piú avrei potuto provarle la mia innocenza.
8.
Psico-analisi
3 Maggio 1915
L'ho finita con la psico-analisi.
Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima.
Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile.
Ieri intanto gli mandai a dire ch'ero impedito, e per qualche giorno lascio che m'aspetti.
Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz'adirarmi, sarei anche capace di rivederlo.
Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.
In questa città, dopo lo scoppio della guerra, ci si annoia piú di prima e, per rimpiazzare la psico-analisi, io mi rimetto ai miei cari fogli.
Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzati i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono.
Ma ora mi trovo squilibrato e malato piú che mai e, scrivendo, credo che mi netterò piú facilmente del male che la cura m'ha fatto.
Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che piú non duole e far andare via piú rapido il presente uggioso.
Tanto fiduciosamente m'ero abbandonato al dottore che quando egli mi disse ch'ero guarito, gli credetti con fede intera e invece non credetti ai miei dolori che tuttavia m'assalivano.
Dicevo loro: «Non siete mica voi!».
Ma adesso non v'è dubbio! Son proprio loro! Le ossa delle mie gambe si sono convertite in lische vibranti che ledono la carne e i muscoli.
Ma di ciò non m'importerebbe gran fatto e non è questa la ragione per cui lascio la cura.
Se le ore di raccoglimento presso il dottore avessero continuato ad essere interessanti apportatrici di sorprese e di emozioni, non le avrei abbandonate o, per abbandonarle, avrei atteso la fine della guerra che m'impedisce ogni altra attività.
Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d'altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell'uomo ridicolo, con quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande, nuova teoria? Impiegherò il tempo che mi resta libero scrivendo.
Scriverò intanto sinceramente la storia della mia cura.
Ogni sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro.
Non m'è piú imposto alcuno sforzo.
Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla.
Proprio per celare meglio il mio vero pensiero, credevo di dover dimostrargli un ossequio supino e lui ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove.
La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta.
Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre.
Né io m'arrabbiai! Incantato stetti a sentire.
Era una malattia che mi elevava alla piú alta nobiltà.
Cospicua quella malattia di cui gli antenati arrivavano all'epoca mitologica! E non m'arrabbio neppure adesso che sono qui solo con la penna in mano.
Ne rido di cuore.
La miglior prova ch'io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito.
Questa prova convincerebbe anche il dottore.
Se ne dia pace: le sue parole non poterono guastare il ricordo della mia giovinezza.
Io chiudo gli occhi e vedo subito puro, infantile, ingenuo, il mio amore per mia madre, il mio rispetto ed il grande mio affetto per mio padre.
Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda.
Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto.
Una confessione in iscritto è sempre menzognera.
Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio cosí che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi.
Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.
Il dottore mi confessò che, in tutta la sua lunga pratica, giammai gli era avvenuto di assistere ad un'emozione tanto forte come la mia all'imbattermi nelle immagini ch'egli credeva di aver saputo procurarmi.
Perciò anche fu tanto pronto a dichiararmi guarito.
Ed io non simulai quell'emozione.
Fu anzi una delle piú profonde ch'io abbia avuta in tutta la mia vita.
Madida di sudore quando l'immagine creai, di lagrime quando l'ebbi.
Io avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d'innocenza e d'ingenuità.
Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m'animò.
Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose del Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di piú della mia vita.
Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine.
È cosí che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi.
Ora so di averle inventate.
Ma inventare è una creazione, non già una menzogna.
Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano.
Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive.
A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato.
Quando arrivai al torpore che doveva facilitare l'illusione e che mi pareva nient'altro che l'associazione di un grande sforzo con una grande inerzia, credetti che quelle immagini fossero delle vere riproduzioni di giorni lontani.
Avrei potuto sospettare subito che non erano tali perché, appena svanite, le ricordavo, ma senz'alcun'eccitazione o commozione.
Le ricordavo come si ricorda il fatto raccontato da chi non vi assistette.
Se fossero state vere riproduzioni avrei continuato a riderne e a piangerne come quando le avevo avute.
E il dottore registrava.
Diceva: «Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello».
In verità, noi non avevamo piú che dei segni grafici, degli scheletri d'immagini.
Fui indotto a credere che si trattasse di una rievocazione della mia infanzia perché la prima delle immagini mi pose in un'epoca relativamente recente di cui avevo conservato anche prima un pallido ricordo ch'essa parve confermare.
C'è stato un anno nella mia vita in cui io andavo a scuola e mio fratello non ancora.
E pareva fosse appartenuta a quell'anno l'ora che rievocai.
Io mi vidi uscire dalla mia villa una mattina soleggiata di primavera, passare per il nostro giardino per scendere in città, giú, giú, tenuto per mano da una nostra vecchia fantesca, Catina.
Mio fratello nella scena che sognai non appariva, ma ne era l'eroe.
Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola.
Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell'animo, un intenso rancore.
Io non vidi che una di quelle passeggiate alla scuola, ma il rancore nel mio animo mi diceva che ogni giorno io andavo a scuola ed ogni giorno mio fratello restava a casa.
All'infinito, mentre in verità credo che, dopo non lungo tempo, mio fratello piú giovine di me di un anno solo, sia andato a scuola anche lui.
Ma allora la verità del sogno mi parve indiscutibile: io ero condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permesso di restare a casa.
Camminando a canto a Catina calcolavo la durata della tortura: fino a mezzodí! Mentre lui è a casa! E ricordavo anche che nei giorni precedenti dovevo essere stato turbato a scuola da minaccie e rampogne e che io avevo pensato anche allora: a lui non possono toccare.
Era stata una visione di un'evidenza enorme.
Catina che io avevo conosciuta piccola, m'era parsa grande, certamente perché io ero tanto piccolo.
Vecchissima m'era sembrata anche allora, ma si sa che i giovanissimi vedono sempre vecchi gli anziani.
E sulla via che io dovevo percorrere per andare a scuola, scorsi anche i colonnini strani che arginavano in quel tempo i marciapiedi della nostra città.
Vero è che io nacqui abbastanza presto per vedere ancora da adulto quei colonnini nelle nostre vie centriche.
Ma nella via che io con Catina quel giorno percorsi, non ci furono piú non appena io uscii dall'infanzia.
La fede nell'autenticità di quelle immagini perdurò nel mio animo anche quando, presto, stimolata da quel sogno, la mia fredda memoria scoperse altri particolari di quell'epoca.
Il principale: anche mio fratello invidiava me perché io andavo a scuola.
Ero sicuro d'essermene avvisto, ma non subito ciò bastò ad infirmare la verità del sogno.
Piú tardi gli tolse ogni aspetto di verità: la gelosia in realtà c'era stata, ma nel sogno era stata spostata.
La seconda visione mi riportò anch'essa ad un'epoca recente, benché anteriore di molto a quella della prima: una stanza della mia villa, ma non so quale, perché piú vasta di qualunque altra che vi è realmente.
È strano che io mi vedevo chiuso in quella stanza e che subito ne seppi un particolare che dalla semplice visione non poteva essere risultato: la stanza era lontana dal posto ove allora soggiornavano mia madre e Catina.
Ed un secondo: io ancora non sono stato a scuola.
La stanza era tutta bianca ed anzi io non vidi giammai una stanza tanto bianca né tanto completamente illuminata dal sole.
Il sole di allora passava traverso le pareti? Esso era certamente già alto, ma io mi trovavo tuttavia nel mio letto con in mano una tazza da cui avevo sorbito tutto il caffelatte e nella quale continuavo a lavorare con un cucchiaino traendone lo zucchero.
Ad un certo punto il cucchiaio non arrivò piú a raccoglierne altro ed allora io tentai di arrivare al fondo della tazza con la mia lingua.
Ma non vi riuscii.
Perciò finii col tenere la tazza in una mano e il cucchiaio nell'altra e stetti a guardare mio fratello coricato nel letto accanto al mio come, tardivo, stava ancora sorbendo il caffè col naso nella tazza.
Quando levò finalmente la faccia, io la vidi tutta come si contrasse ai raggi del sole che la colpirono in pieno mentre la mia (Dio ne sa il perché) si trovava nell'ombra.
Il suo viso era pallido ed un poco imbruttito da un lieve prognatismo.
Mi disse:
- Mi presti il tuo cucchiaio?
Allora appena m'avvidi che Catina aveva dimenticato di portargli il cucchiaio.
Subito e senz'alcuna esitazione gli risposi:
- Sí! Se mi dài in compenso un poco del tuo zucchero.
Tenni in alto il cucchiaio per farne rilevare il valore.
Ma subito la voce di Catina risuonò nella stanza:
- Vergogna! Strozzino!
Lo spavento e la vergogna mi fecero ripiombare nel presente.
Avrei voluto discutere con Catina, ma lei, mio fratello ed io, come ero fatto allora, piccolo, innocente e strozzino, sparimmo ripiombando nell'abisso.
Rimpiansi di aver sentita tanto forte quella vergogna da aver distrutta l'immagine cui ero arrivato con tanta fatica.
Avrei fatto tanto bene di offrire invece mitemente e gratis il cucchiaino e non discutere quella mia mala azione ch'era probabilmente la prima che avessi commessa.
Forse Catina avrebbe invocato l'ausilio di mia madre per infliggermi una punizione ed io finalmente l'avrei rivista.
La vidi però pochi giorni appresso o credetti di rivederla.
Avrei potuto intendere subito ch'era un'illusione perché l'immagine di mia madre, come l'avevo evocata, somigliava troppo al suo ritratto che ho sul mio letto.
Ma devo confessare che nell'apparizione mia madre si mosse come una persona viva.
Molto, molto sole, tanto da abbacinare! Da quella ch'io credevo la mia giovinezza mi perveniva tanto di quel sole ch'era difficile dubitare non fosse dessa.
Il nostro tinello nelle ore pomeridiane.
Mio padre è ritornato a casa e siede su un sofà accanto a mamma che sta imprimendo con certo inchiostro indelebile delle iniziali su molta biancheria distribuita sul tavolo a cui essa siede.
Io mi trovo sotto il tavolo dove giuoco con delle pallottole.
M'avvicino sempre piú a mamma.
Probabilmente desidero ch'essa s'associ ai miei giuochi.
A un dato punto, per rizzarmi in piedi fra di loro, m'aggrappo alla biancheria che pende dal tavolo e allora avviene un disastro.
La boccetta d'inchiostro mi capita sulla testa, bagna la mia faccia e le mie vesti, la gonna di mamma e produce una lieve macchia anche sui calzoni di papà.
Mio padre alza una gamba per appiopparmi un calcio...
Ma io in tempo ero ritornato dal mio lontano viaggio e mi trovavo al sicuro qui, adulto, vecchio.
Devo dirlo! Per un istante soffersi della punizione minacciatami e subito dopo mi dolse di non aver potuto assistere all'atto di protezione che senza dubbio sarà partito da mamma.
Ma chi può arrestare quelle immagini quando si mettono a fuggire traverso quel tempo che giammai somigliò tanto allo spazio? Quest'era il mio concetto finché credetti nell'autenticità di quelle immagini! Ora, purtroppo (oh! quanto me ne dolgo!) non ci credo piú e so che non erano le immagini che correvano via, ma i miei occhi snebbiati che guardavano di nuovo nel vero spazio in cui non c'è posto per fantasmi.
Racconterò ancora delle immagini di un altro giorno alle quali il dottore attribuí tale importanza da dichiararmi guarito.
Nel mezzo sonno cui m'abbandonai ebbi un sogno dall'immobilità dell'incubo.
Sognai di me stesso ridivenuto bambino e soltanto per vedere quel bambino come sognava anche lui.
Giaceva muto in preda ad una letizia che pervadeva il suo minuto organismo.
Gli pareva di aver finalmente raggiunto il suo antico desiderio.
Eppure giaceva là solo e abbandonato! Ma vedeva e sentiva con quell'evidenza come si sa vedere e sentire nel sogno anche le cose lontane.
Il bambino, giacendo in una stanza della mia villa, vedeva (Dio sa in quale modo) che sul tetto della stessa ci fosse una gabbia murata su basi solidissime, priva di porte e di finestre, ma illuminata di quanta luce può far piacere e fornita di aria pura e profumata.
Ed il bambino sapeva che a quella gabbia egli solo avrebbe saputo giungere e senza neppur andare perché forse la gabbia sarebbe venuta a lui.
In quella gabbia non v'era che un solo mobile, una poltrona e su questa sedeva una donna formosa, costruita deliziosamente, vestita di nero, bionda, dagli occhi grandi e azzurri, le mani bianchissime e i piedi piccoli in scarpine laccate delle quali, di sotto alle gonne, sporgeva solo un lieve bagliore.
Devo dire che quella donna mi pareva una cosa sola col suo vestito nero e le sue scarpine di lacca.
Tutto era lei! Ed il bambino sognava di possedere quella donna, ma nel modo piú strano: era sicuro cioè di poter mangiarne dei pezzettini al vertice e alla base.
Adesso, pensandoci, sono stupito che il dottore che ha letto, a quanto ne dice, con tanta attenzione il mio manoscritto non abbia ricordato il sogno ch'io ebbi prima di andar a raggiungere Carla.
A me qualche tempo dopo, quando ci ripensai, parve che questo sogno non fosse altro che l'altro un po' variato, reso piú infantile.
Invece il dottore registrò accuratamente tutto eppoi mi domandò con aspetto un po' melenso:
- Vostra madre era bionda e formosa?
Fui stupito della domanda e risposi che anche mia nonna era stata tale.
Ma per lui ero guarito, ben guarito.
Spalancai la bocca per gioirne con lui e m'adattai a quanto doveva seguire, cioè non piú indagini, ricerche, meditazioni, ma una vera e assidua rieducazione.
Da allora quelle sedute furono una vera tortura ed io le continuai solo perché m'è sempre stato tanto difficile di fermarmi quando mi movo o di mettermi in movimento quando son fermo.
Qualche volta, quando egli me ne diceva di troppo grosse, arrischiavo qualche obbiezione.
Non era mica vero - com'egli lo credeva - che ogni mia parola, ogni mio pensiero fosse di delinquente.
Egli allora faceva tanto d'occhi.
Ero guarito e non volevo accorgermene! Era una vera cecità questa: avevo appreso che avevo desiderato di portar via la moglie - mia madre! - a mio padre e non mi sentivo guarito? Inaudita ostinazione la mia: però il dottore ammetteva che sarei guarito ancora meglio quando fosse finita la mia rieducazione in seguito alla quale mi sarei abituato a considerare quelle cose (il desiderio di uccidere il padre e di baciare la propria madre) come cose innocentissime per le quali non c'era da soffrire di rimorsi, perché avvenivano frequentemente nelle migliori famiglie.
In fondo che cosa ci perdevo? Egli un giorno mi disse ch'io oramai ero come un convalescente che ancora non s'era abituato a vivere privo di febbre.
Ebbene: avrei atteso di abituarmivi.
Egli sentiva che non ero ancora ben suo ed oltre alla rieducazione, di tempo in tempo, ritornava anche alla cura.
Tentava di nuovo i sogni, ma di autentici non ne ebbimo piú alcuno.
Seccato di tanta attesa, finii coll'inventarne uno.
Non l'avrei fatto se avessi potuto prevedere la difficoltà di una simile simulazione.
Non è mica facile di balbettare come se ci si trovasse immersi in un mezzo sogno, coprirsi di sudore o sbiancarsi, non tradirsi, eventualmente diventar vermigli dallo sforzo e non arrossire: parlai come se fossi ritornato alla donna della gabbia e l'avessi indotta a porgermi per un buco improvvisamente prodottosi nella parete dello stanzino un suo piede da succhiare e mangiare.
«Il sinistro, il sinistro!», mormorai mettendo nella visione un particolare curioso che potesse farla somigliare meglio ai sogni precedenti.
Dimostravo cosí anche di aver capito perfettamente la malattia che il dottore esigeva da me.
Edipo infantile era fatto proprio cosí: succhiava il piede sinistro della madre per lasciare il destro al padre.
Nel mio sforzo d'immaginare realmente (tutt'altro che una contraddizione, questa) ingannai anche me stesso col sentire il sapore di quel piede.
Quasi dovetti recere.
Non solo il dottore ma anch'io avrei desiderato di esser visitato ancora da quelle care immagini della mia gioventú, autentiche o meno, ma che io non avevo avuto bisogno di costruire.
Visto che accanto al dottore non venivano piú, tentai di evocarle lontano da lui.
Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non miravo mica ad una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre.
Le avevo già avute; perché non avrei potuto riaverle?
Anche nella solitudine m'annoiai abbastanza, ma poi, invece delle immagini venne qualche cosa che per qualche tempo le sostituí.
Semplicemente credetti di aver fatta un'importante scoperta scientifica.
Mi credetti chiamato a completare tutta la teoria dei colori fisiologici.
I miei predecessori, Goethe e Schopenhauer, non avevano mai immaginato dove si potesse arrivare maneggiando abilmente i colori complementari.
Bisogna sapere ch'io passavo il mio tempo gettato sul sofà di faccia alla finestra del mio studio donde vedevo un pezzo di mare e d'orizzonte.
Ora una sera dal tramonto colorito nel cielo frastagliato di nubi, m'indugiai lungamente ad ammirare su un lembo limpido, un colore magnifico, verde, puro e mite.
Nel cielo c'era anche molto color rosso ancora pallido, sbiaccato dai diretti, bianchi raggi del sole.
Abbacinato, dopo un certo intervallo di tempo, chiusi gli occhi e si vide che al verde era stata rivolta la mia attenzione, il mio affetto, perché sulla mia rètina si produsse il suo colore complementare, un rosso smagliante che non aveva nulla da fare col rosso luminoso, ma pallido nel cielo.
Guardai, accarezzai quel colore fabbricato da me.
La grande sorpresa la ebbi quando una volta aperti gli occhi, vidi quel rosso fiammeggiante invadere tutto il cielo e coprire anche il verde smeraldo che per lungo tempo non ritrovai piú.
Ma io, dunque, avevo scoperto il modo di tingere la natura! Naturalmente l'esperimento fu da me ripetuto piú volte.
Il bello si è che v'era anche del movimento in quella colorazione.
Quando riaprivo gli occhi, il cielo non accettava subito il colore dalla mia rètina.
V'era anzi un istante di esitazione nel quale arrivavo ancora a rivedere il verde smeraldo che aveva figliato quel rosso da cui sarebbe stato distrutto.
Questo sorgeva dal fondo, inaspettato e si dilatava come un incendio spaventoso.
Quando fui sicuro dell'esattezza della mia osservazione, la portai al dottore nella speranza di ravvivare con essa le nostre noiose sedute.
Il dottore mi saldò dicendomi che io avevo la rètina piú sensibile causa la nicotina.
Quasi mi sarei lasciato scappar detto che in allora anche le immagini, che noi avevamo attribuite a riproduzioni di avvenimenti della mia gioventú, potevano invece esser derivate dall'effetto dello stesso veleno.
Ma cosí gli avrei rivelato che non ero guarito ed egli avrebbe cercato d'indurmi a ricominciare la cura da capo.
Eppure quel bestione non sempre mi credette tanto avvelenato.
Ciò viene provato anche dalla rieducazione ch'egli tentò per guarirmi da quella ch'egli diceva la mia malattia del fumo.
Ecco le sue parole: il fumo non mi faceva male e quando mi fossi convinto ch'era innocuo sarebbe stato veramente tale.
Eppoi continuava: oramai che i rapporti con mio padre erano stati riportati alla luce del giorno e ripresentati al mio giudizio di adulto, potevo intendere che avevo assunto quel vizio per competere con mio padre e attribuito un effetto velenoso al tabacco per il mio intimo sentimento morale che volle punirmi della mia competizione con lui.
Quel giorno lasciai la casa del dottore fumando come un turco.
Si trattava di fare una prova ed io mi vi prestai volontieri.
Per tutto il giorno fumai ininterrottamente.
Seguí poi una notte del tutto insonne.
La mia bronchite cronica aveva rifiorito e di quella non c'era dubbio perché era facile scoprirne le conseguenze nella sputacchiera.
Il giorno appresso raccontai al dottore di aver fumato molto e che ora non me ne importava piú.
Il dottore mi guardò sorridendo e io indovinai che il petto gli si gonfiava dall'orgoglio.
Con calma riprese la mia rieducazione! Procedeva con la sicurezza di veder fiorire ogni zolla su cui poneva il piede.
Di quella rieducazione ricordo pochissimo.
Io la subii e quando uscivo da quella stanza mi scotevo come un cane ch'esce dall'acqua ed anch'io restavo umido, ma non bagnato.
Ricordo però con indignazione che il mio educatore asseriva che il dottor Coprosich avesse avuto ragione di dirigermi le parole che avevano provocato tanto mio risentimento.
Ma allora io avrei meritato anche lo schiaffo che mio padre volle darmi morendo? Non so se egli abbia detto anche questo.
So invece con certezza ch'egli asseriva ch'io avessi odiato anche il vecchio Malfenti che avevo messo al posto di mio padre.
Tanti a questo mondo credono di non saper vivere senza un dato affetto; io, invece, secondo lui, perdevo l'equilibrio se mi mancava un dato odio.
Ne sposai una o l'altra delle figliuole ed era indifferente quale perché si trattava di mettere il loro padre ad un posto dove il mio odio potesse raggiungerlo.
Eppoi sfregiai la casa che avevo fatta mia come meglio seppi.
Tradii mia moglie ed è evidente che se mi fosse riuscito avrei sedotta Ada ed anche Alberta.
Naturalmente io non penso di negare questo ed anzi mi fece da ridere quando dicendomelo il dottore assunse l'aspetto di Cristoforo Colombo allorché raggiunge l'America.
Credo però ch'egli sia il solo a questo mondo il quale sentendo che volevo andare a letto con due bellissime donne si domanda: vediamo perché costui vuole andare a letto con esse.
Mi fu anche piú difficile di sopportare quello ch'egli credette di poter dire dei miei rapporti con Guido.
Dal mio stesso racconto egli aveva appreso dell'antipatia che aveva accompagnato l'inizio della mia relazione con lui.
Tale antipatia non cessò mai secondo lui e Ada avrebbe avuto ragione di vederne l'ultima manifestazione nella mia assenza dal suo funerale.
Non ricordò ch'io ero allora intento nella mia opera d'amore di salvare il patrimonio di Ada, né io mi degnai di ricordarglielo.
Pare che il dottore a proposito di Guido abbia fatte anche delle indagini.
Egli asserisce che, scelto da Ada, egli non poteva essere quale io lo descrissi.
Scoperse che un grandioso deposito di legnami, vicinissimo alla casa dove noi pratichiamo la psico-analisi, era appartenuto alla ditta Guido Speier e C.
Perché non ne avevo io parlato?
Se ne avessi parlato sarebbe stata una nuova difficoltà nella mia esposizione già tanto difficile.
Quest'eliminazione non è che la prova che una confessione fatta da me in italiano non poteva essere né completa né sincera.
In un deposito di legnami ci sono varietà enormi di qualità che noi a Trieste appelliamo con termini barbari presi dal dialetto, dal croato, dal tedesco e qualche volta persino dal francese (zapin p.e.
e non equivale mica a sapin ).
Chi m'avrebbe fornito il vero vocabolario? Vecchio come sono avrei dovuto prendere un impiego da un commerciante in legnami toscano? Del resto il deposito legnami della ditta Guido Speier e C.
non diede che delle perdite.
Eppoi non avevo da parlarne perché rimase sempre inerte, salvo quando intervennero i ladri e fecero volare quel legname dai nomi barbari, come se fosse stato destinato a costruire dei tavolini per esperimenti spiritistici.
Io proposi al dottore di prendere delle informazioni su Guido da mia moglie, da Carmen oppure da Luciano ch'è un grande commerciante noto a tutti.
A mio sapere egli non s'indirizzò a nessuno di costoro e devo credere che se ne astenne per la paura di veder precipitare per quelle informazioni tutto il suo edificio di accuse e di sospetti.
Chissà perché si sia preso di tale odio per me? Anche lui dev'essere un istericone che per aver desiderata invano sua madre se ne vendica su chi non c'entra affatto.
Finí che mi sentii molto stanco di quella lotta che dovevo sostenere col dottore ch'io pagavo.
Credo che anche quei sogni non m'abbiano fatto bene, eppoi la libertà di fumare quanto volevo finí con l'abbattermi del tutto.
Ebbi una buona idea: andai dal dottor Paoli.
Non l'avevo visto da molti anni.
Era un po' incanutito, ma la sua figura di granatiere non era ancora troppo arrotondata dall'età, né piegata.
Guardava sempre le cose con un'occhiata che pareva una carezza.
Quella volta scopersi perché mi sembrasse cosí.
Evidentemente a lui fa piacere di guardare e guarda le belle e le brutte cose con la compiacenza con cui altri accarezza.
Ero salito da lui col proposito di domandargli se credeva dovessi continuare la psico-analisi.
Ma quando mi trovai dinanzi a quel suo occhio, freddamente indagatore, non ne ebbi il coraggio.
Forse mi rendevo ridicolo raccontando che alla mia età m'ero lasciato prendere ad una ciarlataneria simile.
Mi spiacque di dover tacere, perché se il Paoli m'avesse proibita la psico-analisi, la mia posizione sarebbe stata semplificata di molto, ma mi sarebbe spiaciuto troppo di vedermi troppo a lungo carezzato da quel suo grande occhio.
Gli raccontai delle mie insonnie, della mia bronchite cronica, di un'espulsione alle guancie che allora mi tormentava, di certi dolori lancinanti alle gambe e infine di strane mie smemoratezze.
Il Paoli analizzò la mia orina in mia presenza.
Il miscuglio si colorí in nero e il Paoli si fece pensieroso.
Ecco finalmente una vera analisi e non piú una psico analisi.
Mi ricordai con simpatia e commozione del mio passato lontano di chimico e di analisi vere: io, un tubetto e un reagente! L'altro, l'analizzato, dorme finché il reagente imperiosamente non lo desti.
La resistenza nel tubetto non c'è o cede alla minima elevazione della temperatura e la simulazione manca del tutto.
In quel tubetto non avveniva nulla che potesse ricordare il mio comportamento quando per far piacere al dottor S.
inventavo nuovi particolari della mia infanzia che dovevano confermare la diagnosi di Sofocle.
Qui, invece, tutto era verità.
La cosa da analizzarsi era imprigionata nel provino e, sempre uguale a se stessa, aspettava il reagente.
Quand'esso arrivava essa diceva sempre la stessa parola.
Nella psico analisi non si ripetono mai né le stesse immagini né le stesse parole.
Bisognerebbe chiamarla altrimenti.
Chiamiamola l'avventura psichica.
Proprio cosí: quando s'inizia una simile analisi è come se ci si recasse in un bosco non sapendo se c'imbatteremo in un brigante o in un amico.
E non lo si sa neppure quando l'avventura è passata.
In questo la psico-analisi ricorda lo spiritismo.
Ma il Paoli non credeva che si trattasse di zucchero.
Voleva rivedermi il giorno appresso dopo di aver analizzato quel liquido per polarizzazione.
Io, intanto, me ne andai glorioso, carico di diabete.
Fui in procinto di andare dal dottor S.
a domandargli com'egli avrebbe ora analizzato nel mio seno le cause di tale malattia per annullarle.
Ma di quell'individuo ne avevo avuto abbastanza e non volevo rivederlo neppure per deriderlo.
Devo confessare che il diabete fu per me una grande dolcezza.
Ne parlai ad Augusta ch'ebbe subito le lacrime agli occhi:
- Hai parlato tanto di malattie in tutta la tua vita, che dovevi pur finire coll'averne una! - disse; poi cercò di consolarmi.
Io amavo la mia malattia.
Ricordai con simpatia il povero Copler che preferiva la malattia reale all'immaginaria.
Ero oramai d'accordo con lui.
La malattia reale era tanto semplice: bastava lasciarla fare.
Infatti, quando lessi in un libro di medicina la descrizione della mia dolce malattia, vi scopersi come un programma di vita (non di morte!) nei varii suoi stadii.
Addio propositi: finalmente ne ero libero.
Tutto avrebbe seguito la sua via senz'alcun mio intervento.
Scopersi anche che la mia malattia era sempre o quasi sempre molto dolce.
Il malato mangia e beve molto e di grandi sofferenze non ci sono se si bada di evitare i bubboni.
Poi si muore in un dolcissimo coma.
Poco dopo il Paoli mi chiamò al telefono.
Mi comunicò che non v'era traccia di zucchero.
Andai da lui il giorno appresso e mi prescrisse una dieta che non seguii che per pochi giorni e un intruglio che descrisse in una ricetta illeggibile e che mi fece bene per un mese intero.
- Il diabete le ha fatto molta paura? - mi domandò sorridendo.
Protestai, ma non gli dissi che ora che il diabete m'aveva abbandonato mi sentivo molto solo.
Non m'avrebbe creduto.
In quel torno di tempo mi capitò in mano la celebre opera del dottor Beard sulla nevrastenia.
Seguii il suo consiglio e cambiai di medicina ogni otto giorni con le sue ricette che copiai con scrittura chiara.
Per alcuni mesi la cura mi parve buona.
Neppure il Copler aveva avuto in vita sua tale abbondante consolazione di medicinali come io allora.
Poi passò anche quella fede, ma intanto io avevo rimandato di giorno in giorno il mio ritorno alla psico-analisi.
M'imbattei poi nel dottor S.
Mi domandò se avevo deciso di lasciare la cura.
Fu però molto cortese, molto piú che non quando mi teneva in mano sua.
Evidentemente voleva riprendermi.
Io gli dissi che avevo degli affari urgenti, delle quistioni di famiglia che mi occupavano e preoccupavano e che non appena mi fossi trovato in quiete sarei ritornato da lui.
Avrei voluto pregarlo di restituirmi il mio manoscritto, ma non osai; sarebbe equivaluto a confessargli che della cura non volevo piú saperne.
Riservai un tentativo simile ad altra epoca quand'egli si sarebbe accorto che alla cura non ci pensavo piú e vi si fosse rassegnato.
Prima di lasciarmi egli mi disse alcune parole intese a riprendermi:
- Se lei esamina il suo animo, lo troverà mutato.
Vedrà che ritornerà subito a me solo che s'accorga come io seppi in un tempo relativamente breve avvicinarla alla salute.
Ma io, in verità, credo che col suo aiuto, a forza di studiare l'animo mio, vi abbia cacciato dentro delle nuove malattie.
Sono intento a guarire della sua cura.
Evito i sogni ed i ricordi.
Per essi la mia povera testa si è trasformata in modo da non saper sentirsi sicura sul collo.
Ho delle distrazioni spaventose.
Parlo con la gente e mentre dico una cosa tento involontariamente di ricordarne un'altra che poco prima dissi o feci e che non ricordo piú o anche un mio pensiero che mi pare di un'importanza enorme, di quell'importanza che mio padre attribuí a quei pensieri ch'ebbe poco prima di morire e che pur lui non seppe ricordare.
Se non voglio finire al manicomio, via con questi giocattoli.
15 Maggio 1915
Passammo due giorni di festa a Lucinico nella nostra villa.
Mio figlio Alfio deve rimettersi di un'influenza e resterà nella villa con la sorella per qualche settimana.
Noi ritorneremo qui per le Pentecoste.
Sono riuscito finalmente di ritornare alle mie dolci abitudini, e a cessar di fumare.
Sto già molto meglio dacché ho saputo eliminare la libertà che quello sciocco di un dottore aveva voluto concedermi.
Oggi che siamo alla metà del mese sono rimasto colpito della difficoltà che offre il nostro calendario ad una regolare e ordinata risoluzione.
Nessun mese è uguale all'altro.
Per rilevare meglio la propria risoluzione si vorrebbe finire di fumare insieme a qualche cosa d'altro, il mese p.e.
Ma salvo il Luglio e Agosto e il Dicembre e il Gennaio non vi sono altri mesi che si susseguano e facciano il paio in quanto a quantità di giorni.
Un vero disordine nel tempo!
Per raccogliermi meglio passai il pomeriggio del secondo giorno solitario alle rive dell'Isonzo.
Non c'è miglior raccoglimento che star a guardare un'acqua corrente.
Si sta fermi e l'acqua corrente fornisce lo svago che occorre perché non è uguale a se stessa nel colore e nel disegno neppure per un attimo.
Era una giornata strana.
Certamente in alto soffiava un forte vento perché le nubi vi mutavano continuamente di forma, ma giú l'atmosfera non si moveva.
Avveniva che di tempo in tempo, traverso le nubi in movimento, il sole già caldo trovasse il pertugio per inondare dei suoi raggi questo o quel tratto di collina o una cima di montagna, dando risalto al verde dolce del Maggio in mezzo all'ombra che copriva tutto il paesaggio.
La temperatura era mite ed anche quella fuga di nubi nel cielo, aveva qualche cosa di primaverile.
Non v'era dubbio: il tempo stava risanando!
Fu un vero raccoglimento il mio, uno di quegl'istanti rari che l'avara vita concede, di vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di credersi e sentirsi vittima.
In mezzo a quel verde rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla mia vita ed anche alla mia malattia.
La donna vi ebbe un'importanza enorme.
Magari a pezzi, i suoi piedini, la sua cintura, la sua bocca, riempirono i miei giorni.
E rivedendo la mia vita e anche la mia malattia le amai, le intesi! Com'era stata piú bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani, coloro che picchiavano o avrebbero voluto picchiare la loro donna ogni giorno salvo in certi momenti.
Io, invece, ero stato accompagnato sempre dall'amore.
Quando non avevo pensato alla mia donna, vi avevo pensato ancora per farmi perdonare che pensavo anche alle altre.
Gli altri abbandonavano la donna delusi e disperando della vita.
Da me la vita non fu mai privata del desiderio e l'illusione rinacque subito intera dopo ogni naufragio, nel sogno di membra, di voci, di atteggiamenti piú perfetti.
In quel momento ricordai che fra le tante bugie che avevo propinate a quel profondo osservatore ch'era il dottor S., c'era anche quella ch'io non avessi piú tradita mia moglie dopo la partenza di Ada.
Anche su questa bugia egli fabbricò le sue teorie.
Ma là, alla riva di quel fiume, improvvisamente, con spavento, ricordai ch'era vero che da qualche giorno, forse dacché avevo abbandonata la cura, io non avevo ricercata la compagnia di altre donne.
Che fossi stato guarito come il dottor S.
pretende? Vecchio come sono, da un pezzo le donne non mi guardano piú.
Se io cesso dal guardare loro, ecco che ogni relazione fra di noi è tagliata.
Se un dubbio simile mi fosse capitato a Trieste, avrei saputo solverlo subito.
Qui era alquanto piú difficile.
Pochi giorni prima avevo avuto in mano il libro di memorie del Da Ponte, l'avventuriere contemporaneo del Casanova.
Anche lui era passato certamente per Lucinico ed io sognai d'imbattermi in quelle sue dame incipriate dalle membra celate dalla crinolina.
Dio mio! Come facevano quelle donne ad arrendersi cosí presto e tanto di frequente essendo difese da tutti quegli stracci?
Mi parve che il ricordo della crinolina, ad onta della cura, fosse abbastanza eccitante.
Ma il mio era un desiderio alquanto fatturato e non bastò a rassicurarmi.
L'esperienza che cercavo l'ebbi poco dopo e fu sufficiente per rassicurarmi, ma non mi costò poco.
Per averla, turbai e guastai la relazione piú pura che avessi avuta nella mia vita.
M'imbattei in Teresina, la figlia anziana del colono di una tenuta situata accanto alla mia villa.
Il padre, da due anni, era rimasto vedovo e la sua numerosa figliuolanza aveva ritrovata la madre in Teresina, una robusta fanciulla che si levava di mattina per lavorare, e cessava il lavoro per coricarsi e raccogliersi per poter riprendere il lavoro.
Quel giorno essa guidava l'asinello di solito affidato alle cure del fratellino e camminava accanto al carretto carico di erba fresca, perché il non grande animale non avrebbe saputo portare su per l'erta lieve anche il peso della fanciulla.
L'anno prima Teresina m'era sembrata tuttavia una bimba e non avevo avuta per lei che una simpatia sorridente e paterna.
Ma anche il giorno prima, quando l'avevo rivista per la prima volta, ad onta che l'avessi ritrovata cresciuta, la bruna faccina divenuta piú seria, le esili spalle allargate sopra il seno che andava arcuandosi nello sviluppo parco del piccolo corpo affaticato, avevo continuato a vederla una bimba immatura di cui non potevo amare che la straordinaria attività e l'istinto materno di cui fruivano i fratellini.
Se non ci fosse stata quella maledetta cura e la necessità di verificare subito in quale stato si trovasse la mia malattia, anche quella volta avrei potuto lasciare Lucinico senz'aver turbata tanta innocenza.
Essa non aveva la crinolina.
E la faccina pienotta e sorridente non conosceva la cipria.
Aveva i piedi nudi e faceva vedere nuda anche metà della gamba.
La faccina e i piedini e la gamba non seppero accendermi.
La faccia e le membra che Teresina lasciava vedere erano dello stesso colore; all'aria appartenevano tutte e non c'era niente di male che all'aria fossero abbandonate.
Forse perciò non riuscivano ad accendermi.
Ma al sentirmi tanto freddo mi spaventai.
Che dopo la cura mi fosse occorsa la crinolina?
Cominciai coll'accarezzare l'asinello cui avevo procurato un po' di riposo.
Poi tentai di ritornare a Teresina e le misi in mano niente meno che dieci corone.
Era il primo attentato! L'anno prima, a lei e ai suoi fratellini, per esprimere loro il mio affetto paterno, avevo messo nelle manine solo dei centesimi.
Ma si sa che l'affetto paterno è altra cosa.
Teresina fu stupita del ricco dono.
Accuratamente sollevò il suo gonnellino per riporre in non so che tasca celata il prezioso pezzo di carta.
Cosí vidi un ulteriore pezzo di gamba, ma anch'esso sempre bruno e casto.
Ritornai all'asinello e gli diedi un bacio sulla testa.
La mia affettuosità provocò la sua.
Allungò il muso ed emise il suo grande grido d'amore che io ascoltai sempre con rispetto.
Come varca le distanze e com'è significante con quel primo grido che invoca e si ripete, attenuandosi poi e terminando in un pianto disperato.
Ma sentito cosí da vicino, mi fece dolere il timpano.
Teresina rideva e il suo riso m'incoraggiò.
Ritornai a lei e subito l'afferrai per l'avambraccio sul quale salii con la mano, lento, verso la spalluccia, studiando le mie sensazioni.
Grazie al cielo non ero guarito ancora! Avevo cessata la cura in tempo.
Ma Teresina con una legnata fece procedere l'asino per seguirlo e lasciarmi.
Ridendo di cuore perché io restavo lieto anche se la villanella non voleva saperne di me, le dissi:
- Hai lo sposo? Dovresti averlo.
E peccato tu non l'abbia già!
Sempre allontanandosi da me, essa mi disse:
- Se ne prendo uno, sarà certamente piú giovine di lei!
La mia letizia non s'offuscò per questo.
Avrei voluto dare una lezioncina a Teresina e cercai di ricordarmi come da Boccaccio «Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna la quale lui d'esser di lei innamorato voleva far vergognare».
Ma il ragionamento di Maestro Alberto non ebbe il suo effetto perché Madonna Malgherida de' Ghisolieri gli disse: «Il vostro amor m'è caro sí come di savio e valente uomo esser dee; e per ciò, salva la mia onestà, come a cosa vostra ogni vostro piacere imponete sicuramente».
Tentai di fare di meglio:
- Quando ti dedicherai ai vecchi, Teresina? - gridai per essere inteso da lei che m'era già lontana.
- Quando sarò vecchia anch'io, - urlò essa ridendo di gusto e senza fermarsi.
- Ma allora i vecchi non vorranno piú saperne di te.
Ascoltami! Io li conosco!
Urlavo, compiacendomi del mio spirito che veniva direttamente dal mio sesso.
In quel momento, in qualche punto del cielo le nubi s'apersero e lasciarono passare dei raggi di sole che andarono a raggiungere Teresina che oramai era lontana da me di una quarantina di metri e di me piú in alto di una decina o piú.
Era bruna, piccola, ma luminosa!
Il sole non illuminò me! Quando si è vecchi si resta all'ombra anche avendo dello spirito.
26 Giugno 1915
La guerra m'ha raggiunto! Io che stavo a sentire le storie di guerra come se si fosse trattato di una guerra di altri tempi di cui era divertente parlare, ma sarebbe stato sciocco di preoccuparsi, ecco che vi capitai in mezzo stupefatto e nello stesso tempo stupito di non essermi accorto prima che dovevo esservi prima o poi coinvolto.
Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pianoterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me si sarebbe sprofondato nelle fiamme.
La guerra mi prese, mi squassò come un cencio, mi privò in una sola volta di tutta la mia famiglia ed anche del mio amministratore.
Da un giorno all'altro io fui un uomo del tutto nuovo, anzi, per essere piú esatto, tutte le mie ventiquattr'ore furono nuove del tutto.
Da ieri sono un po' piú calmo perché finalmente, dopo l'attesa di un mese, ebbi le prime notizie della mia famiglia.
Si trova sana e salva a Torino mentre io già avevo perduta ogni speranza di rivederla.
Devo passare la giornata intera nel mio ufficio.
Non vi ho niente da fare, ma gli Olivi, quali cittadini italiani, hanno dovuto partire e tutti i miei pochi migliori impiegati sono andati a battersi di qua o di là e perciò devo restare al mio posto quale sorvegliante.
Alla sera vado a casa carico delle grosse chiavi del magazzino.
Oggi che mi sento tanto piú calmo, portai con me in ufficio questo manoscritto che potrebbe farmi passar meglio il lungo tempo.
Infatti esso mi procurò un quarto d'ora meraviglioso in cui appresi che ci fu a questo mondo un'epoca di tanta quiete e silenzio da permettere di occuparsi di giocattoletti simili.
Sarebbe anche bello che qualcuno m'invitasse sul serio di piombare in uno stato di mezza coscienza tale da poter rivivere anche soltanto un'ora della mia vita precedente.
Gli riderei in faccia.
Come si può abbandonare un presente simile per andare alla ricerca di cose di nessun'importanza? A me pare che soltanto ora sono staccato definitivamente dalla mia salute e dalla mia malattia.
Cammino per le vie della nostra misera città, sentendo di essere un privilegiato che non va alla guerra e che trova ogni giorno quello che gli occorre per mangiare.
In confronto a tutti mi sento tanto felice - specie dacché ebbi notizie dei miei - che mi sembrerebbe di provocare l'ira degli dei se stessi anche perfettamente bene.
La guerra ed io ci siamo incontrati in un modo violento, ma che adesso mi pare un poco buffo.
Augusta ed io eravamo ritornati a Lucinico a passarvi le Pentecoste insieme ai figliuoli.
Il 23 di Maggio io mi levai in buon'ora.
Dovevo prendere il sale di Carlsbad e fare anche una passeggiata prima del caffè.
Fu durante questa cura a Lucinico che m'accorsi che il cuore, quando si è a digiuno, attende piú attivamente ad altre riparazioni irraggiando su tutto l'organismo un grande benessere.
La mia teoria doveva perfezionarsi quel giorno stesso in cui mi si costrinse di soffrire la fame che mi fece tanto bene.
Augusta, per salutarmi, levò la testa tutta bianca dal guanciale e mi ricordò che avevo promesso a mia figlia di procurarle delle rose.
Il nostro unico rosaio era appassito e bisognava perciò provvedere.
Mia figlia s'è fatta una bella fanciulla e somiglia ad Ada.
Da un momento all'altro, con essa avevo dimenticato il fare dell'educatore burbero ed ero passato a quello del cavaliere che rispetta la femminilità anche nella propria figliuola.
Subito essa s'accorse del suo potere e con grande divertimento mio e d'Augusta ne abusò.
Voleva delle rose e bisognava procurargliene.
Mi proposi di camminare per un due orette.
Faceva un bel sole e visto che il mio proposito era di camminare sempre e di non arrestarmi finché non ero ritornato a casa, non presi meco neppure la giubba e il cappello.
Per fortuna ricordai che avrei dovuto pagare le rose e non lasciai perciò a casa insieme alla giubba anche il portafoglio.
Prima di tutto mi recai alla campagna vicina, dal padre di Teresina, per pregarlo di tagliare le rose che sarei venuto a prendere al mio ritorno.
Entrai nel grande cortile cinto da un muro alquanto rovinato e non vi trovai nessuno.
Urlai il nome di Teresina.
Uscí dalla casa il piú piccolo dei bambini che allora avrà avuto sei anni.
Posi nella sua manina qualche centesimo ed egli mi raccontò che tutta la famigliuola di buon'ora s'era recata al di là dell'Isonzo, per una giornata di lavoro, su un suo campo di patate di cui la terra aveva bisogno di essere rassodata.
Ciò non mi spiaceva.
Io conoscevo quel campo e sapevo che per giungervi abbisognavo di circa un'ora di tempo.
Visto che avevo stabilito di camminare per un due ore, mi piaceva di poter attribuire alla mia passeggiata uno scopo determinato.
Cosí non c'era la paura d'interromperla per un assalto improvviso d'infingardaggine.
M'avviai traverso la pianura ch'è piú alta della strada e di cui perciò non vedevo che i margini e qualche corona d'albero in fiore.
Ero veramente giocondo: cosí in maniche di camicia e senza cappello mi sentivo molto leggero.
Aspiravo quell'aria tanto pura e, come usavo spesso da qualche tempo, camminando facevo la ginnastica polmonare del Niemeyer che m'era stata insegnata da un amico tedesco, una cosa utilissima a chi fa una vita piuttosto sedentaria.
Arrivato in quel campo, vidi Teresina che lavorava proprio dalla parte della strada.
M'avvicinai a lei e allora m'accorsi che piú in là lavoravano insieme al padre i due fratellini di Teresina di un'età che io non avrei saputo precisare, fra' dieci e i quattordici anni.
Nella fatica i vecchi si sentono magari esausti, ma per l'eccitazione che l'accompagna, sempre piú giovini che nell'inerzia.
Ridendo m'accostai a Teresina:
- Sei ancora in tempo, Teresina.
Non tardare.
Essa non m'intese ed io non le spiegai nulla.
Non occorreva.
Giacché essa non ricordava, si poteva ritornare con lei ai nostri antichi rapporti.
Avevo già ripetuto l'esperimento ed aveva avuto anche questa volta un risultato favorevole.
Indirizzandole quelle poche parole l'avevo accarezzata altrimenti che col solo occhio.
Col padre di Teresina m'accordai facilmente per le rose.
Mi permetteva di tagliarne quante volevo eppoi non si avrebbe litigato per il prezzo.
Egli voleva subito ritornare al lavoro mentre io m'accingevo di mettermi sulla via del ritorno, ma poi si pentí e mi corse dietro.
Raggiuntomi, a voce molto bassa, mi domandò:
- Lei non ha sentito niente? Dicono sia scoppiata la guerra.
- Già! Lo sappiamo tutti! Da un anno circa, - risposi io.
- Non parlo di quella, - disse lui spazientito.
- Parlo di quella con...
- e fece un segno dalla parte della vicina frontiera italiana.
- Lei non ne sa nulla? - Mi guardò ansioso della risposta.
- Capirai, - gli dissi io con piena sicurezza, - che se io non so nulla vuol proprio dire che nulla c'è.
Vengo da Trieste e le ultime parole che sentii colà significavano che la guerra è proprio definitivamente scongiurata.
A Roma hanno ribaltato il Ministero che voleva la guerra e ci hanno ora il Giolitti.
Egli si rasserenò immediatamente:
- Perciò queste patate che stiamo coprendo e che promettono tanto bene saranno poi nostre! Vi sono tanti di quei chiacchieroni a questo mondo! - Con la manica della camicia s'asciugò il sudore che gli colava dalla fronte.
Vedendolo tanto contento, tentai di renderlo piú contento ancora.
Amo tanto le persone felici, io.
Perciò dissi delle cose che veramente non amo di rammentare.
Asserii che se anche la guerra fosse scoppiata, non sarebbe stata combattuta colà.
C'era prima di tutto il mare dove era ora si battessero, eppoi oramai in Europa non mancavano dei campi di battaglia per chi ne voleva.
C'erano le Fiandre e varii dipartimenti della Francia.
Avevo poi sentito dire - non sapevo piú da chi - che a questo mondo c'era oramai tale un bisogno di patate che le raccoglievano accuratamente anche sui campi di battaglia.
Parlai molto, sempre guardando Teresina che piccola, minuta, s'era accovacciata sulla terra per tastarla prima di applicarvi la vanga.
Il contadino perfettamente tranquillizzato ritornò al suo lavoro.
Io, invece, avevo consegnato una parte della mia tranquillità a lui e ne restava a me molto di meno.
Era certo che a Lucinico eravamo troppo vicini alla frontiera.
Ne avrei parlato ad Augusta.
Avremmo forse fatto bene di ritornare a Trieste e forse andare anche piú in là o in qua.
Certamente Giolitti era ritornato al potere, ma non si poteva sapere se, arrivato lassú, avrebbe continuato a vedere le cose nella luce in cui le vedeva quando lassú c'era qualcuno d'altro.
Mi rese anche piú nervoso l'incontro casuale con un plotone di soldati che marciava sulla strada in direzione di Lucinico.
Erano dei soldati non giovini e vestiti ed attrezzati molto male.
Dal loro fianco pendeva quella che noi a Trieste dicevamo la Durlindana, quella baionetta lunga che in Austria, nell'estate del 1915, avevano dovuto levare dai vecchi depositi.
Per qualche tempo camminai dietro di loro inquieto d'essere presto a casa.
Poi mi seccò un certo odore di selvatico frollo che emanava da loro e rallentai il passo.
La mia inquietudine e la mia fretta erano sciocche.
Era pure sciocco d'inquietarsi per aver assistito all'inquietudine di un contadino.
Oramai vedevo da lontano la mia villa ed il plotone non c'era piú sulla strada.
Accelerai il passo per arrivare finalmente al mio caffelatte.
Fu qui che cominciò la mia avventura.
Ad uno svolto di via, mi trovai arrestato da una sentinella che urlò:
- Zurück! - mettendosi addirittura in posizione di sparare.
Volli parlargli in tedesco giacché in tedesco aveva urlato, ma egli del tedesco non conosceva che quella sola parola che ripeté sempre piú minacciosamente.
Bisognava andare zurück ed io guardandomi sempre dietro nel timore che l'altro, per farsi intendere meglio, sparasse, mi ritirai con una certa premura che non m'abbandonò neppure quando il soldato non vidi piú.
Ma ancora non avevo rinunciato di arrivare subito alla mia villa.
Pensai che varcando la collina alla mia destra, sarei arrivato molto dietro la sentinella minacciosa.
L'ascesa non fu difficile specie perché l'alta erba era stata curvata da molta gente che doveva essere passata per di là prima di me.
Certamente doveva esservi stata costretta dalla proibizione di passare per la strada.
Camminando riacquistai la mia sicurezza e pensai che al mio arrivo a Lucinico mi sarei subito recato a protestare dal capovilla per il trattamento che avevo dovuto subire.
Se permetteva che i villeggianti fossero trattati cosí, presto a Lucinico non ci sarebbe venuto nessuno!
Ma arrivato alla cima della collina, ebbi la brutta sorpresa di trovarla occupata da quel plotone di soldati dall'odore di selvatico.
Molti soldati riposavano all'ombra di una casetta di contadini che io conoscevo da molto tempo e che a quell'ora era del tutto vuota; tre di essi parevano messi a guardia, ma non verso il versante da cui io ero venuto, e alcuni altri stavano in un semi circolo dinanzi ad un ufficiale che dava loro delle istruzioni che illustrava con una carta topografica ch'egli teneva in mano.
Io non possedevo neppure un cappello che potesse servirmi per salutare.
Inchinandomi varie volte e col mio piú bel sorriso, m'appressai all'ufficiale il quale, vedendomi, cessò di parlare coi suoi soldati e si mise a guardarmi.
Anche i cinque mammelucchi che lo circondavano mi regalavano tutta la loro attenzione.
Sotto tutti quegli sguardi e sul terreno non piano era difficilissimo di moversi.
L'ufficiale urlò:
- Was will der dumme Kerl hier? - (Che cosa vuole quello scimunito?).
Stupito che senz'alcuna provocazione mi si offendesse cosí, volli dimostrarmi offeso virilmente ma tuttavia con la discrezione del caso, deviai di strada e tentai di arrivare al versante che m'avrebbe portato a Lucinico.
L'ufficiale si mise ad urlare che, se facevo un solo passo di piú, m'avrebbe fatto tirare adosso.
Ridivenni subito molto cortese e da quel giorno a tutt'oggi che scrivo, rimasi sempre molto cortese.
Era una barbarie d'essere costretto di trattare con un tomo simile, ma intanto si aveva il vantaggio ch'egli parlava correntemente il tedesco.
Era un tale vantaggio che, ricordandolo, riusciva piú facile di parlargli con dolcezza.
Guai se bestia come era non avesse neppur compreso il tedesco.
Sarei stato perduto.
Peccato che io non parlavo abbastanza correntemente quella lingua perché altrimenti mi sarebbe stato facile di far ridere quell'arcigno signore.
Gli raccontai che a Lucinico m'aspettava il mio caffelatte da cui ero diviso soltanto dal suo plotone.
Egli rise, in fede mia rise.
Rise sempre bestemmiando e non ebbe la pazienza di lasciarmi finire.
Dichiarò che il caffelatte di Lucinico sarebbe stato bevuto da altri e quando sentí che oltre al caffè c'era anche mia moglie che m'aspettava, urlò:
- Auch Ihre Frau wird von anderen gegessen werden.
- (Anche vostra moglie sarà mangiata da altri).
Egli era oramai di miglior umore di me.
Pare poi gli fosse spiaciuto di avermi dette delle parole che, sottolineate dal riso clamoroso dei cinque mammalucchi, potevano apparire offensive; si fece serio e mi spiegò che non dovevo sperare di rivedere per qualche giorno Lucinico ed anzi in amicizia mi consigliava di non domandarlo piú perché bastava quella domanda per compromettermi!
- Haben Sie verstanden? - (Avete capito?)
Io avevo capito, ma non era mica facile di adattarsi di rinunziare al caffelatte da cui distavo non piú di mezzo chilometro.
Solo perciò esitavo di andarmene perché era evidente che quando fossi disceso da quella collina, alla mia villa, per quel giorno, non sarei giunto piú.
E, per guadagnar tempo, mitemente domandai all'ufficiale:
- Ma a chi dovrei rivolgermi per poter ritornare a Lucinico a prendere almeno la mia giubba e il mio cappello?
Avrei dovuto accorgermi che all'ufficiale tardava di esser lasciato solo con la sua carta e i suoi uomini, ma non m'aspettavo di provocare tanta sua ira.
Urlò, in modo da intronarmi l'orecchie, che m'aveva già detto che non dovevo piú domandarlo.
Poi m'impose di andare dove il diavolo vorrà portarmi (wo der Teufel Sie tragen will ).
L'idea di farmi portare non mi spiaceva molto perché ero molto stanco, ma esitavo ancora.
Intanto però l'ufficiale a forza d'urlare s'accese sempre piú e con accento di grande minaccia chiamò a sé uno dei cinque uomini che l'attorniavano e appellandolo signor caporale gli diede l'ordine di condurmi già della collina e di sorvegliarmi finché non fossi sparito sulla via che conduce a Gorizia, tirandomi addosso se avessi esitato ad ubbidire.
Perciò scesi da quella cima piuttosto volontieri:
- Danke schön, - dissi anche senz'alcun'intenzione d'ironia.
Il caporale era uno slavo che parlava discretamente l'italiano.
Gli parve di dover essere brutale in presenza dell'ufficiale e, per indurmi a precederlo nella discesa, mi gridò:
- Marsch! - Ma quando fummo un po' piú lontani si fece dolce e familiare.
Mi domandò se avevo delle notizie sulla guerra e se era vero ch'era imminente l'intervento italiano.
Mi guardava ansioso in attesa della risposta.
Dunque neppure loro che la facevano sapevano se la guerra ci fosse o no! Volli renderlo piú felice che fosse possibile e gli diedi le notizie che avevo propinate anche al padre di Teresina.
Poi mi pesarono sulla coscienza.
Nell'orrendo temporale che scoppiò, probabilmente tutte le persone ch'io rassicurai perirono.
Chissà quale sorpresa ci sarà stata sulla loro faccia cristallizzata dalla morte.
Era un ottimismo incoercibile il mio.
Non avevo sentita la guerra nelle parole dell'ufficiale e meglio ancora nel loro suono?
Il caporale si rallegrò molto e, per compensarmi, mi diede anche lui il consiglio di non tentare piú di arrivare a Lucinico.
Date le notizie mie, egli riteneva che le disposizioni che m'impedivano di rincasare sarebbero state levate il giorno appresso.
Ma intanto mi consigliava di andare a Trieste al Platzkommando dal quale forse avrei potuto ottenere un permesso speciale.
- Fino a Trieste? - domandai io spaventato.
- A Trieste, senza giubba, senza cappello e senza caffelatte?
A quanto ne sapeva il caporale, mentre parlavamo, un fitto cordone di fanteria chiudeva il transito per l'Italia, creando una nuova ed insuperabile frontiera.
Con un sorriso di persona superiore mi dichiarò che, secondo lui, la via piú breve per Lucinico era quella che conduceva oltre Trieste.
A forza di sentirmelo dire, io mi rassegnai e m'avviai verso Gorizia pensando di prendere il treno del mezzodí per recarmi a Trieste.
Ero agitato, ma devo dire che mi sentivo molto bene.
Avevo fumato poco e non mangiato affatto.
Mi sentivo di una leggerezza che da lungo tempo m'era mancata.
Non mi dispiaceva affatto di dover ancora camminare.
Mi dolevano un poco le gambe, ma mi pareva che avrei potuto reggere fino a Gorizia, tanto era libero e profondo il mio respiro.
Scaldatemi le gambe con un buon passo, il camminare infatti non mi pesò.
E nel benessere, battendomi il tempo, allegro perché insolitamente celere, ritornai al mio ottimismo.
Minacciavano di qua, minacciavano di là, ma alla guerra non sarebbero giunti.
Ed è cosí che, quando giunsi a Gorizia, esitai se non avessi dovuto stabilire una stanza all'albergo nella quale passare la notte e ritornare il giorno appresso a Lucinico per presentare le mie rimostranze al capovilla.
Corsi intanto all'ufficio postale per telefonare ad Augusta.
Ma dalla mia villa non si rispose.
L'impiegato, un omino dalla barbetta rada che pareva nella sua piccolezza e rigidezza qualche cosa di ridicolo e d'ostinato - la sola cosa che di lui ricordi - sentendomi bestemmiare furibondo al telefono muto, mi si avvicinò e mi disse:
- È già la quarta volta oggi che Lucinico non risponde.
Quando mi rivolsi a lui, nel suo occhio brillò una grande lieta malizia (sbagliavo! anche quella ricordo ancora!) e quel suo occhio brillante cercò il mio per vedere se proprio ero tanto sorpreso e arrabbiato.
Ci vollero un dieci buoni minuti perché comprendessi.
Allora non ci furono dubbii per me.
Lucinico si trovava o fra pochi istanti si troverebbe sulla linea del fuoco.
Quando intesi perfettamente quell'occhiata eloquente ero avviato al caffè per prendere in aspettativa della colazione la tazza di caffè che m'era dovuta dalla mattina.
Deviai subito e andai alla stazione.
Volevo trovarmi piú vicino ai miei e - seguendo le indicazioni del mio amico caporale - mi recavo a Trieste.
Fu durante quel mio breve viaggio che la guerra scoppiò.
Pensando di arrivare tanto presto a Trieste, alla stazione di Gorizia e per quanto ne avessi avuto il tempo, non presi neppure la tazza di caffè cui anelavo da tanto tempo.
Salii nella mia vettura e, lasciato solo, rivolsi il mio pensiero ai miei cari da cui ero stato staccato in un modo tanto strano.
Il treno camminò bene fino oltre Monfalcone.
Pareva che la guerra non fosse giunta ancora fin là.
Io mi conquistai la tranquillità pensando che probabilmente a Lucinico le cose si sarebbero svolte come al di qua della frontiera.
A quell'ora Augusta e i miei figli si sarebbero trovati in viaggio verso l'interno dell'Italia.
Questa tranquillità associatasi a quella enorme, sorprendente, della mia fame, mi procurò un lungo sonno.
Fu probabilmente la stessa fame che mi destò.
Il mio treno s'era fermato in mezzo alla cosidetta Sassonia di Trieste.
Il mare non si vedeva, per quanto dovesse essere vicinissimo, perché una leggera foschia impediva di guardare lontano.
Il Carso ha una grande dolcezza nel Maggio, ma la può intendere solo chi non è viziato dalle primavere esuberanti di colore e di vita di altre campagne.
Qui la pietra che sporge dappertutto è circondata da un mite verde che non è umile perché presto diventa la nota predominante del paesaggio.
In altre condizioni io mi sarei adirato enormemente di non poter mangiare avendo tanta fame.
Invece quel giorno la grandezza dell'avvenimento storico cui avevo assistito, m'imponeva e m'induceva alla rassegnazione.
Il conduttore cui regalai delle sigarette non seppe procurarmi neppure un tozzo di pane.
Non raccontai a nessuno delle mie esperienze della mattina.
Ne avrei parlato a Trieste a qualche intimo.
Dalla frontiera verso la quale tendevo il mio orecchio non veniva alcun suono di combattimento.
Noi eravamo fermi a quel posto per lasciar passare un otto o nove treni che scendevano turbinando verso l'Italia.
La piaga cancrenosa (come in Austria si appellò subito la fronte italiana) s'era aperta e abbisognava di materiale per nutrire la sua purulenza.
E i poveri uomini vi andavano sghignazzando e cantando.
Da tutti quei treni uscivano i medesimi suoni di gioia o di ebbrezza.
Quando arrivai a Trieste la notte era già scesa sulla città.
La notte era illuminata dal bagliore di molti incendi e un amico che mi vide andare verso casa mia in maniche di camicia mi gridò:
- Hai preso parte ai saccheggi?
Finalmente arrivai a mangiare qualche cosa e subito mi coricai.
Una vera, grande stanchezza mi spingeva a letto.
Io credo fosse prodotta dalle speranze e dai dubbii che tenzonavano nella mia mente.
Stavo sempre molto bene e nel periodo breve che precedette il sogno di cui con la psico-analisi m'ero esercitato a ritenere le immagini, ricordo che conclusi la mia giornata con un'ultima infantile idea ottimistica: alla frontiera non era morto ancora nessuno e perciò la pace si poteva rifare.
Adesso che so che la mia famiglia è sana e salva, la vita che faccio non mi spiace.
Non ho molto da fare ma non si può dire che io sia inerte.
Non si deve né comperare né vendere.
Il commercio risanerà quando ci sarà la pace.
L'Olivi dalla Svizzera mi fece pervenire dei consigli.
Se sapesse come i suoi consigli stonano in quest'ambiente ch'è mutato del tutto! Io, intanto, per il momento, non faccio nulla.
24 Marzo 1916
Dal Maggio dell'anno scorso non avevo piú toccato questo libercolo.
Ecco che dalla Svizzera il dr.
S.
mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato.
È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura.
Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione.
Ma al signor dottor S.
voglio pur dire il fatto suo.
Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.
Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere.
Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno.
E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri.
Non è per il confronto ch'io mi senta sano.
Io sono sano, assolutamente.
Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch'era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere.
Io soffro bensí di certi dolori, ma mancano d'importanza nella mia grande salute.
Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell'immobilità come gl'incancreniti.
Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.
Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo.
Fu il mio commercio che mi guarí e voglio che il dottor S.
lo sappia.
Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell'Agosto dell'anno scorso.
Allora io cominciai a comperare.
Sottolineo questo verbo perché ha un significato piú alto di prima della guerra.
In bocca di un commerciante, allora, significava ch'egli era disposto a comperare un dato articolo.
Ma quando io lo dissi, volli significare ch'io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta.
Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna.
L'Olivi non era a Trieste, ma è certo ch'egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri.
Invece per me non era un rischio.
Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza.
Dapprima m'ero messo, secondo l'antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v'era una certa difficoltà di comperare e vendere dell'oro.
L'oro per cosí dire liquido, perché piú mobile, era la merce e ne feci incetta.
Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti.
Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.
Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d'incenso.
Il venditore mi vantava la possibilità d'impiegare l'incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l'incenso mai piú avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere.
Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l'incenso quale un surrogato della resina.
E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l'importo che m'era occorso per appropriarmi della partita intera.
Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute.
Il dottore, quando avrà ricevuta quest'ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto.
Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest'ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso!
Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia.
La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti.
A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale.
Non sopporta cure.
Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite.
Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici.
L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio.
Può avvenire di peggio.
Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze.
V'è una minaccia di questo genere in aria.
Ne seguirà una grande ricchezza...
nel numero degli uomini.
Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo.
Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano.
Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo.
Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo.
La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno.
Il cavallo s'ingrandí e trasformò il suo piede.
Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa.
Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre piú furbo e piú debole.
Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza.
I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha piú alcuna relazione con l'arto.
Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice.
La legge del piú forte sparí e perdemmo la selezione salutare.
Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.
Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli.
Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo.
Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
...
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