IL FESTINO, di Carlo Goldoni - pagina 2
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Pareva che maggior tempo per una simile impresa si richiedesse, ma in noi Poeti l'ardire è necessario talvolta, e lo sdegno ci fa eseguir dei prodigi.
Mi riuscì mirabilmente il dissegno.
In cinque giorni schiccherai la Commedia; in pochissimo tempo i Comici se ne impossessarono; si provò esattamente; fu posta in scena con una decenza assai conveniente; fu ricevuta dal popolo con soddisfazione, e si durò a recitarla ogni sera sino all'ultima di Carnovale.
Nessuno ha più parlato del Cortesan Vecchio, il magazzino ch'era finito, aprì un'altra porta con nuove merci, e restò il pubblico persuaso che in avvenire potea sperare di divertirsi colle mie fatiche, giacché la prontezza di questa non dimostrava che la fantasia fosse stanca od isterilita.
Per facilitarmi con sollecitudine la costruzione di una Commedia di cinque atti, pensai ad un fatto familiare, con episodi di facile invenzione, perché tratti da originali de' nostri giorni, e queste sono le cose che incontrano più delle altre.
Piace la critica; ed io in quest'incontro non l'ho risparmiata.
Il cicisbeato che è in tanta voga oggidì, l'ho posto in veduta in quasi tutti gli aspetti, ne' quali suol campeggiare.
Il vecchio servente della vecchia Dama è il più ridicolo della Commedia; il più critico è quello della Dama moglie col Cavaliere ammogliato, e di questo ho mostrato le pessime conseguenze, siccome i pregiudizi di quelli che per gl'impegni del mondo sagrificano l'interesse, la convenienza e la propria riputazione.
Ho voluto innestarvi alcune critiche state fatte alle Commedie mie di quest'anno per giustificarmi in qualche parte, e per isfogarmi un poco col pubblico istesso.
Ebbe tanta bontà l'udienza, che lo soffrì di buon animo, e mi diede veri segni di amore e di compatimento.
Allora tutto anch'io mi scordai il passato rammarico, e dentro di me ho fatto la pace con chi mi aveva insultato; anche colla signora Maschera del Ridotto.
Stampandosi ora la Commedia, ho voluto lasciarvi le critiche e le apologie suddette, per un divertimento di più al Lettore benevolo che mi favorisce; e in fine della Commedia vi ho posto il ringraziamento al Pubblico, recitato l'ultima sera dalla prima Donna, giacché, come dissi, con questa Commedia medesima si terminò il Carnovale.
Fu dopo in altre parti il mio Festino rappresentato ed ebbe dappertutto estraordinaria fortuna.
A Roma non hanno ancora provato su quei Teatri il verso alla martelliana.
Non si fidano, non so se per l'orecchie degli uditori, non avvezzati a sentirlo, o se per l'abilità de' Comici, non pratici ancora a recitare il verso senza declamazione.
Mi fu ordinato ridurlo in prosa; lo feci, e riuscì pure mirabilmente.
Ebbe il povero mio Festino in alcun paese la sua disgrazia.
Non già nell'universale di verun popolo, ma nel particolare di alcune persone.
Operò il caso che si trovassero degli originali simili troppo a qualche personaggio ridicolo della Commedia medesima, e non mancò chi dicesse che a bella posta l'avessi fatto.
Non valse la bella ragione che la Commedia era composta degli anni prima.
Le Donne principalmente, quando fissano, non vi è rimedio.
Ma lo stesso mi è accaduto in altre opere ancora; ed in altri luoghi delle mie stampe ho procurato disingannare il mondo su questo articolo.
Non son capace di usare una simile villania; non prendo di mira alcuno.
Sono un pescatore che getta l'amo alla cieca; chi si sente prendere, procuri levarselo dalla bocca senza gridare; in questa maniera ritornerà l'amo vuoto: altrimenti, scuotendosi soverchiamente, s'internerà assai più nelle fauci, ed io sentendo il peso nel ritirarlo, dirò che il pesce è attaccato, e si manifesterà la mia preda.
PERSONAGGI
Il CONTE di BELPOGGIO
La CONTESSA sua moglie
Don MAURIZIO padre della Contessa
Madama DORALICE
Don ALESSIO di lei marito
La baronessa OLIVA
La marchesa DOGLIATA
Don PEPPE
Donna ROSIMENA
Donna STELLINA di lei figliuola
BALESTRA cameriere del Conte
LESBINO paggio del Conte
BODINO cuoco del Conte
TARGA servitore di Madama
STANGA servitore di Madama
RISMA garzone del caffè
Due Mascherati, che non parlano
Persone invitate al festino, che non parlano
Un Ballerino
La scena si rappresenta in Venezia.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera in casa del Conte
Il CONTE e BALESTRA.
BAL.
Creda, signor padrone, la cosa è naturale,
Mancano i sonatori sul fin del carnovale.
Non se ne trova uno di buona o trista razza;
Sono impegnati in feste sino gli orbi di piazza.
CON.
Tant'è, son nell'impegno; stassera io vuò la festa:
Due trombe e due violini trovar solo mi resta.
S'han da trovar, Balestra, s'han da trovar costoro;
Li voglio, s'io credessi di spender un tesoro.
BAL.
Ma come si ha da fare?
CON.
Come, ti dirò io:
Con dodici zecchini verranno al cenno mio.
Trovali tutti e quattro.
Se fossero impegnati,
Di' loro che con arte si fingano ammalati.
Di notte a casa mia, guidati da Balestra,
Vengano mascherati e suonino in orchestra.
BAL.
Ma se nessun volesse...
CON.
Il denar tutto può.
Non bastan tre zecchini? sei per un ne darò.
Son nell'impegno, e uscirne ad ogni costo io voglio.
BAL.
Creda, signor padrone, vi sarà dell'imbroglio.
Se fosse a un altro giorno l'invito trasportato,
Può darsi che s'avesse l'orchestra a buon mercato.
Perché...
CON.
Si perde il tempo; svolgermi in van si spera.
Corso è l'invito, e il ballo dee farsi in questa sera.
Tu sai chi sono; avverti non mi trovar obbietto.
Vuò quattro sonatori; accordali, e ti aspetto.
Basta che non ti veda tornare inutilmente.
Balestra, sai chi sono, si spenda allegramente.
BAL.
Allegramente dunque si spenda e si profonda,
E l'esito felice al genio corrisponda.
Intanto, per far breccia nel cuor dei sonatori,
Mi dia, signor padrone, la borsa con degli ori.
CON.
La borsa ci sarà, ci saran le monete;
So ben che i sonatori son persone discrete.
Essi non temeranno ch'io non mantenga il patto,
Non si usa in casi tali pagare innanzi tratto.
BAL.
Non si usa, e non si paga; ma il caso è differente:
Ci voglion de' zecchini, se no non farem niente.
CON.
Ne aspetto.
BAL.
Differire si può dunque la festa.
CON.
Non posso differirla.
Ti romperei la testa.
Vattene per pietà.
BAL.
Vado.
CON.
Dove anderai?
BAL.
Vorrei di questa casa andar lontano assai.
CON.
Vieni qui.
BAL.
Mio signore.
CON.
Impegna quest'anello.
BAL.
(Ecco, i divertimenti fan perdere il cervello).
(da sé.)
CON.
Prendilo.
BAL.
Sì, signore.
CON.
Per otto giorni al più,
Trova zecchini trenta.
BAL.
(Non lo riscuote più).
(da sé.)
CON.
Che hai? Questo accidente per me ti reca duolo?
Se son senza denari, Balestra, io non son solo;
E solo non sarò forse in un caso pari,
Ad essere in impegno e non aver denari.
BAL.
È ver; ma fa da piangere, caro signor padrone,
Saper che in men d'un anno andò una possessione;
Saper che alla consorte...
CON.
Basta così, va via.
BAL.
La dote consumata...
(camminando.)
CON.
Balestra, in cortesia.
BAL.
E per chi...
(camminando.)
CON.
Ei! Balestra.
BAL.
Per una cicisbea...
(camminando.)
CON.
Balestra, di che parli?
BAL.
Fra me la discorrea.
CON.
Vanne, impegna l'anello, e trova i sonatori,
E taci, ch'io bisogno non ho de' seccatori.
BAL.
Vi servo, e non vi secco.
Madama Doralice
del vostro borsellino sarà la seccatrice.
(parte.)
SCENA SECONDA
Il CONTE solo.
CON.
Temerario! Ah, conviene ch'io lo sopporti e taccia;
È un servitore antico che mi riprende in faccia.
So che gli cal non poco l'onor, la gloria mia;
E sa con il decoro unir l'economia.
Così mi prevalessi talor de' suoi consigli,
Che or non mi troverei fra debiti e perigli.
Oh dura condizione di chi seguir s'impegna
Quel che la moda e l'uso, quel che l'esempio insegna.
Oh quanti sacrifici si fanno all'ambizione!
Questa trionfa in oggi sopra ogni altra passione.
Ah sì, lo provo io stesso, io che servire or bramo
Donna d'orgoglio piena, che tollero e non amo.
E sol perché non rida il mondo che mi osserva,
L'impegno vuol per ora ch'io soffra e ch'io la serva.
Ecco mia moglie.
Ah, questa merta d'esser servita;
Ma servitù di sposo dopo tre dì è finita.
(vuol partire.)
SCENA TERZA
La CONTESSA e detto.
CONT.
Conte.
CON.
Che comandate? (voltandosi.)
CONT.
Udite una parola.
CON.
Eccomi.
CONT.
Vuò pregarvi di una finezza sola.
CON.
Dite pure.
CONT.
Vorrei, se la domanda è onesta,
Saper per qual ragione dar vogliate una festa.
Non dico che padrone di darla voi non siate,
Ma l'uso vuol che sieno le mogli consultate.
Se deggio uscir di casa, v'andrò senza contesa;
Se ho da ricever io, giust'è che ne sia intesa.
CON.
Altra cagion, Contessa, non muove il genio mio,
Che di goder gli amici sollecito desio.
Di feste e di banchetti anch'io son favorito;
Giust'è che in casa mia diasi un ballo e un convito.
CONT.
Anche la cena?
CON.
A pochi, dagli altri separati.
CONT.
Posso sapere almeno chi sieno i convitati?
CON.
Li sceglierete voi.
CONT.
Ben volentier, signore.
Ad invitar io mando sorella e genitore,
Aspasia mia cugina, la vostra genitrice...
CON.
Benissimo, e per quarta madama Doralice.
CONT.
Caro signor consorte, stupire io mi volea
Che in mezzo non ci fosse la vostra cicisbea.
CON.
È dama come le altre, può star d'ogni altra al paro.
CONT.
Sì, sì.
Di tutto il resto or son venuta in chiaro.
La festa ed il convito son fatti per Madama;
Per me non aspettate che inviti alcuna dama.
Anzi da mia cugina andar son persuasa;
Madama potrà fare gli onori della casa.
CON.
Contessa, in altro tempo andate ove volete;
Non cerco se ci siete in casa o non ci siete:
Ma vuò che questa sera le dame convitate
Sieno dalla padrona servite ed accettate.
CONT.
Madama Doralice godrà ch'io non ci sia.
CON.
Vergogna è in una dama nutrir tal gelosia.
CONT.
Gelosa non son io del volto peregrino:
Forse sarà Madama la peggio del festino;
Ma son più di sei mesi che qui non è venuta:
Quando m'incontra, o fugge, o appena mi saluta.
Segno che nel vedermi poco piacer risente,
Che l'amicizia vostra non è tanto innocente.
No, che non son gelosa; ma stolida sarei,
Se una rival soffrissi ancor sugli occhi miei.
CON.
Che favellare è il vostro? che termini son questi,
Indegni di una dama che ha sentimenti onesti?
Rival d'una consorte dirsi non può colei,
Cui tratto come sogliono trattare i pari miei.
In casa, e fuor di casa, so fare il mio dovere,
Amar so da consorte, servir da cavaliere.
L'onor d'una famiglia così non si strapazza.
CONT.
Conte, non vi scaldate.
Vorrei...
CON.
Siete una pazza.
(parte.)
SCENA QUARTA
La CONTESSA, poi LESBINO.
CONT.
Pazza a me? Sventurato! Pazzo sei tu, che presso
D'una femmina ingrata sacrifichi te stesso;
Non ho per gelosia perduto il chiaro lume,
D'onesta servitute non spiacemi il costume:
Ma duolmi che si perda miseramente il Conte
Con una che lo paga solo coi scherni e l'onte;
Con una che superba mi sprezza e m'odia a morte,
E cerca screditarmi nel cuor del mio consorte.
Come poteo scordarsi sì presto il caro sposo
Di quell'amor che il fece delle mie nozze ansioso?
Quel nodo che dovrebbe dar alimento al foco,
Farà che anzi si spenga, o almen che duri poco?
Dunque in amor di bene non vi è che un sol momento:
Prima il desio tormenta, e poscia il pentimento.
Ma che farò frattanto, se il ballo ed il convito
Persiste a voler dare il Conte mio marito?
Nol so.
Del padre mio giovar potriami un lume;
Ma dell'inquiete donne abborrisco il costume.
Quando sarò forzata, farollo a mio dispetto;
Finché si può, allo sposo serbisi amor, rispetto.
Ci penserò.
LES.
Signora, mandano l'imbasciata
La baronessa Oliva, la marchesa Dogliata.
CONT.
Vengano, son padrone.
(Lesbino parte.) Che sì che l'indovino?
Che sì che son venute per causa del festino?
Vengono a visitarmi per essere invitate;
Ma se n'andran, lo giuro, deluse e mal gustate.
SCENA QUINTA
La marchesa DOGLIATA, la baronessa OLIVA, la suddetta e LESBINO.
MAR.
Serva, Contessa.
BAR.
Serva.
CONT.
Signore, a voi m'inchino.
Da seder.
(a Lesbino.)
MAR.
(Non si vede principio di festino).
(alla Baronessa, e siedono.)
CONT.
Per qual destin felice di tant'onor m'ha resa
Degna la Baronessa e degna la Marchesa?
BAR.
Nuovo non è per voi, Contessa, il mio rispetto.
MAR.
Ci amammo da fanciulle; lo stesso è in me l'affetto.
CONT.
All'espression sincera dell'una e l'altra io credo,
Poiché senza alcun merito favorita or mi vedo.
BAR.
Come vi divertite? (alla Contessa.)
CONT.
Nol so, tutto m'attedia.
Io vado qualche volta soltanto alla Commedia.
BAR.
Oh! ne ho veduta una quindici sere sono.
Che cosa scellerata! Mai più gliela perdono.
MAR.
Di quel Vecchio Bizzarro vorrete dir, m'avveggio.
BAR.
Ci siete stata? (alla Marchesa.)
MAR.
E come!
BAR.
Non si può far di peggio.
Voi l'avete veduta? (alla Contessa.)
CONT.
Dirò, se dir mi lice...
BAR.
Lo so che dell'autore voi siete protettrice.
Ma affé che questa volta la protezion non vale
Per un che ha disgustato l'udienza in generale.
Io credo che per lui sarà minor strapazzo
Il dir che questa volta sia diventato pazzo.
MAR.
Non vi è una scena buona.
BAR.
Non vi è un bell'accidente.
MAR.
Il dialogo è cattivo.
BAR.
In somma non val niente.
CONT.
Vi siete ancor sfogate?
BAR.
Difenderla vorreste?
MAR.
Affé! sarebbe bella che voi la difendeste.
CONT.
Difenderla non voglio, non son di senno priva;
Se tutti la condannano, dirò ch'ella è cattiva.
Anche l'autore istesso, sentito un tal flagello,
Pregò che la mattina levassero il cartello:
Del pubblico i giudizi ha sempre rispettato;
Anch'ei la maledice, ed è mortificato.
MAR.
Se il pubblico temeva, dovea studiarla bene.
CONT.
A un uom che ha tanto scritto...
BAR.
Da ridere mi viene.
Un uom che ha tanto scritto, Contessa mia diletta,
Che scriva sempre meglio l'universale aspetta.
CONT.
È vero, ed abbiam visto di sue fatiche il frutto;
Ma un uom che scrive assai, bene non può far tutto.
MAR.
Se non fa bene bene, almeno sia ordinata
La cosa, che non riesca cotanto scellerata.
Sentito avrete pure il popolo commosso
Cogli urli e con i fischi strillare a più non posso.
CONT.
Amiche, permettete che dica quel ch'io sento,
Non dell'autor per scusa, ma per compatimento.
Quest'ultima commedia dal mondo condannata
Forse cinqu'anni addietro sarebbesi apprezzata.
Ma il poco non soddisfa a chi assaggiò il migliore;
La colpa, lo confesso è solo dell'autore.
E l'ho sentito io stessa dir che, più degli evviva,
Gli scherni a tal commedia del popolo gradiva:
Da ciò per l'avvenire messo in maggiore impegno,
L'udienza delicata mirando a questo segno;
Pronto a sudar più ancora negli anni che verranno,
Contento che in Italia si sparga il disinganno.
Poiché talor gli applausi, talor l'indiscrezione,
Producono col tempo del buon la perfezione.
BAR.
Faccia commedie buone, e allor sarà lodato.
MAR.
Se le farà cattive, fia sempre strapazzato.
CONT.
Se ne facesse sei di belle, e due di brutte?
BAR.
Una cattiva basta per scordarsi di tutte.
CONT.
Povero autor! Compiango lo stato suo infelice.
MAR.
Di quello che mi annoia, non fo la protettrice.
CONT.
Ma si può bene...
BAR.
Oimè! La cosa ormai m'attedia.
Per tutto ove si va, si parla di commedia.
Cara Contessa mia, quel poco che ci avanza
Di carnovale, è meglio goderlo nella danza.
Or mando alla Commedia le serve ed i bambini
In questi ultimi giorni mi piacciono i festini.
MAR.
Anch'io, per verità, me ne compiaccio assai.
E voi, Contessa?
CONT.
Oh! io, davver, non ballo mai.
BAR.
Ancor che non si balli, a veder si ha diletto.
CONT.
Anzi che sulla sedia, meglio si dorme in letto.
MAR.
Con questo freddo in letto sola sola agghiacciata?
CONT.
Perché sola nel letto? Non son io maritata?
MAR.
Sì, ma il marito vostro, cara Contessa mia,
La notte si diverte con buona compagnia.
CONT.
Ehi! chi è di là? (non volendo badare a quel che dicono.)
LES.
Signora.
CONT.
Porta la cioccolata.
(Lesbino parte.)
BAR.
(Non sarà ver che ballino).
(alla Marchesa.)
MAR.
(Son stata assicurata).
BAR.
Gli altri anni in casa vostra faceasi qualche festa.
Quest'anno...
(alla Contessa.)
CONT.
Son dei giorni che ho un gran dolor di testa.
Non so da che derivi.
MAR.
Sarà malinconia.
BAR.
Il chiacchierar fa peggio.
Marchesa, andiamo via.
MAR.
Spiacemi, Contessina, d'avervi incomodata.
(si alza.)
CONT.
Fermatevi, signore; beviam la cioccolata.
(Lesbino con cioccolata, e la bevono tutte.)
SCENA SESTA
Il CONTE e dette.
CON.
Oh, che fortuna è questa? Marchesa, Baronessa.
(s'inchina.)
MAR.
Serva, Conte.
BAR.
Son serva.
CON.
Vi ha detto la Contessa?
BAR.
Che cosa?
CON.
Del festino
BAR.
Non siam privilegiate.
CONT.
(Ora son nell'impegno).
(da sé.)
CON.
Perché non le invitate? (alla Contessa.)
CONT.
Il festino si fa?
CON.
Si fa, si fa, signora.
(alla Contessa.)
CONT.
Come? Se i sonatori voi non trovaste ancora?
CON.
Li ho ritrovati.
In vero, assai difficilmente.
Signore, la Contessa di ciò non sapea niente.
Temea non si facesse, e non ardia per questo
Pregar di favorirci...
CONT.
Nulla sapea.
Del resto
Pregate vi averei, come vi prego adesso.
(freddamente.)
BAR.
Riceverò gli onori.
MAR.
Tenuta io mi professo.
CONT.
(Stupisco che si accetti da lor simile invito).
(da sé.)
BAR.
(Verrò per suo dispetto).
(da sé.)
MAR.
(Verrò per suo marito).
(da sé.)
CON.
Udite.
Se il digiuno talor non vi dà pena,
V'invita la Contessa a parchissima cena.
BAR.
A cena ancora?
MAR.
È troppo.
BAR.
Troppo gentil, Contessa.
MAR.
Voi siete, per dir vero, la gentilezza istessa.
(alla Contessa.)
CONT.
Indegna di tai dame sarà la mensa mia.
BAR.
Bastami il vostro cuore.
MAR.
La vostra compagnia.
CON.
Si farà preparare in luogo confidente;
Tra i suoni e le bottiglie staremo allegramente.
MAR.
Vi sarà, mi figuro, madama Doralice.
BAR.
Si sa; senza di lei la festa far non lice.
CONT.
(Sentite?) (al Conte.)
CON.
(E che per questo?) (alla Contessa.) Ci sarà, sì, signora.
Dama non è che possa esser fra l'altre ancora?
BAR.
Anzi sarà Madama il miglior condimento.
MAR.
Dove non vi è Madama, non vi è divertimento.
BAR.
Verremo questa sera al generoso invito.
MAR.
Godremo, Contessina, la festa ed il convito.
CON.
Compatirete.
BAR.
Addio
MAR.
Addio, Contessa mia.
BAR.
(Di rabbia si divora).
(da sé.)
MAR.
(Di rabbia e gelosia).
(partono accompagnate da tutti e due, ma il Conte le segue.)
CONT.
Non so quel che mi faccia, non so se il mio dispetto
Vada a sfogar altrove, o s'io mi ponga in letto.
Vorrei dissimulare, ma estrema è la mia pena;
Resister non mi fido al ballo ed alla cena.
De' miei dolenti casi inteso è il padre mio;
Da lui prudente e saggio tutto sperar poss'io.
S'ha da trovar rimedio.
Un dì s'ha da finire;
Ma intanto la prudenza m'insegna a sofferire.
Farò dei sforzi, e spero di superar l'affanno.
Per una notte al fine...
ma torna il mio tiranno.
Barbaro, ti amo ancora.
Questo è il mio mal peggiore;
Meglio per me, se meno amassi il traditore.
(parte.)
SCENA SETTIMA
Il CONTE ed il CUOCO
CON.
Tant'è, vuò che ci sieno e pernici e cotorni;
Difficile non vedo trovarli in questi giorni.
Voglio il pasticcio, e voglio almen sei piatti buoni;
Voglio un fagiano ancora: e tu che mi ragioni?
CUO.
Tutto si troverà, ma tutto a prezzo caro.
CON.
Trovisi, e che si paghi.
CUO.
Favorisca il denaro.
CON.
Balestra è ritornato?
CUO.
Ancor non l'ho veduto.
CON.
Maledetto Balestra! Va a veder s'è venuto.
CUO.
Passa il tempo, signore, e se ho da far gli estratti...
CON.
Cerca Balestra.
CUO.
Dove?
CON.
Va a preparare i piatti.
CUO.
La roba è necessaria...
CON.
La roba ci sarà.
CUO.
Ma quando?
CON.
Va in cucina.
CUO.
Il tempo passerà.
CON.
Quando verrà Balestra, avverti di far presto;
Se manchi, ti bastono, Bodin, te lo protesto.
CUO.
(Che lavorare è questo! che vivere arrabbiato!
Se resto in questa casa, io muoio disperato).
(parte.)
SCENA OTTAVA
Il CONTE, poi LESBINO.
CON.
Balestra non si vede.
Trovati ha i sonatori,
E a casa non ritorna col resto di quegli ori.
Dovrian venti zecchini bastar per questa cena.
Ma s'egli non si vede? Che diavol fa? Che pena!
LES.
Signor.
CON.
Tornò Balestra?
LES.
Non è venuto ancora.
È qui di fuori il padre...
CON.
Di chi?
LES.
Della signora.
CON.
Mio suocero? Che vuole? Gli hai detto che ci sono?
LES.
Sì, signor...
CON.
Maledetto...
LES.
Signor, chiedo perdono.
CON.
Dovevi dir...
che passi...
fermati...
gli dirai...
Ma no, digli che venga.
LES.
Non l'indovino mai.
(parte.)
SCENA NONA
Il CONTE, poi DON MAURIZIO.
CON.
Verrà don Maurizio al solito a seccarmi,
Ma studierò la guisa di presto liberarmi.
MAU.
Conte, vi riverisco.
CON.
Signore, a voi m'inchino.
MAU.
È ver che questa sera preparasi un festino?
CON.
È vero.
MAU.
E non lo dice al genitor la figlia?
Del suocero si lascia da un canto la famiglia?
CON.
Signor, siete padrone del ballo e della cena.
MAU.
No, Conte, vi ringrazio.
Non vi mettete in pena.
Amante non son io di tai trattenimenti,
E so che in tal incontro si sfuggono i parenti.
CON.
Questo rimbrotto acerbo non so di meritarmi.
In casa mia vietato sarà di soddisfarmi?
MAU.
Potete in casa vostra sfogar le oneste voglie;
Ma un po' più di rispetto si deve ad una moglie.
CON.
Ella di me si lagna?
MAU.
Si lagna, e con ragione.
Io compatisco in tutti l'impegno e la passione;
Ma la ragion insegna, insegna la prudenza,
Che deggia l'onest'uomo salvar la convenienza.
Non portasi in trionfo, ad una moglie in faccia,
Cosa che le dia pena, oggetto che le spiaccia.
CON.
Come, signore?...
MAU.
Amico, sfuggite un tal pericolo.
Su ciò dissi abbastanza.
Passiamo ad altro articolo.
La Piazza ed il Ridotto di voi si burla e ride;
E il pubblico assai presto degli uomini decide.
Si sa che a braccia quadre spendete e profondete;
Si sa che il patrimonio anche intaccato avete.
E quei che in questa sera da voi piacere avranno,
Per solita mercede di voi si rideranno.
Che bel piacere è il vostro sentir mentita lode,
Allor che la coscienza vi macera e vi rode?
Partiti i commensali, partiti i danzatori,
Succeder nella sala in folla i creditori?
La notte al chiaro lume brillare in lieta danza,
E il giorno per vergogna star chiuso in una stanza?
Questo è piacer? Piacere degli uomini bennati
È il viver con decoro, è l'esser rispettati.
Né basta il van rispetto dei falsi adulatori,
Che aiutano lo stolto a struggere i tesori;
Ma il cavaliere onesto si venera e si acclama,
Che innalza il proprio nome sull'ali della fama,
Che accresce alla famiglia il pregio degli onori,
Che render sa giustizia al sangue dei maggiori,
E che nel di lui cuore serbar con egual zelo
Sa i doveri dell'uomo, e rispettare il cielo.
CON.
Signor...
(vedendo Balestra, si ferma di parlare.)
SCENA DECIMA
BALESTRA e detti.
MAU.
Genero amato, siete convinto?
CON.
Il sono.
MAU.
Posso sperar che voi...
CON.
Signor, chiedo perdono.
Veggo il mio servo, e seco grave dover mi vuole.
MAU.
Con voi gettasi invano il tempo e le parole.
CON.
No, no, vedrete, il giuro...
(Hai tu il denar portato?) (a Balestra.)
BAL.
Sì, signor.
CON.
Permettete...
Prendo per or commiato.
Ci rivedremo.
(a don Maurizio.)
MAU.
Ah Conte, veggo il vostro periglio.
CON.
Ci rivedrem.
MAU.
Stassera?
CON.
Signor, non vi consiglio.
(parte con Balestra.)
MAU.
Misero! sei perduto.
Il vizio in cuor ti regna.
Il vizio sulla fronte spiega l'audace insegna.
Temi fra' tuoi trastulli del suocero la faccia,
E sotto al tuo consiglio si asconde una minaccia.
In braccio al tuo destino ti lascio e ti abbandono;
Ma della sposa oppressa tenero padre io sono.
Finché si può si salvi l'onor di tua famiglia;
Soffra disagi ed onte la virtù della figlia,
Ma quando il vizio eccede, anche natura insegna
A scuotere dal fianco una catena indegna:
Che se della tua fama, stolido, a te non cale,
Che val la sofferenza, il non parlar che vale?
Il mondo che mal pensa, che sa dei tristi ogni arte,
Dirà ch'è l'innocente de' tuoi deliri a parte.
Onde se nulla giova virtù, costanza, amore,
A lei renda giustizia il cielo e il genitore.
(parte.)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera in casa di madama Doralice.
DON ALESSIO e TARGA servitore.
ALE.
Che diavolo ha mia moglie, che grida in tal maniera?
L'ha con me? l'ha con te? l'ha colla cameriera?
TAR.
Vada, signor: non sente che strilli? che schiamazzo?
ALE.
Andar quand'è infuriata? affé, non son sì pazzo.
Madama è una bestiaccia, e per poter soffrirla
Non trovo altro rimedio che quello di sfuggirla.
Ma si sa perché grida?
TAR.
Grida perché dal sarto
Di certa guarnizione si è errato nel
...
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