IL CONTE DI CARMAGNOLA, di Alessandro Manzoni - pagina 3
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.(12)
I Fiorentini, impegnati allora in una guerra infelice contro il Duca Filippo, chiedevano l'alleanza dei Veneziani: il Duca instava presso di essi perché volessero rimanere in pace con lui.
In questo frattempo un Giovanni Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca d'ammazzare il Carmagnola, purché gli fosse concesso di ritornare a casa.
La trama fu sventata, e levò ai Veneziani ogni dubbio che il Conte fosse mai più per riconciliarsi col suo antico principe.
Il Bigli attribuisce in gran parte a questa scoperta la risoluzione dei Veneziani per la guerra.
Il doge propose in senato che si consultasse il Carmagnola: questo consigliò la guerra: il doge opinò pure caldamente per essa: e fu risoluta.
La lega coi Fiorentini e con altri Stati d'Italia fu proclamata in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426.
Il giorno 11 del mese seguente il Carmagnola fu creato capitano generale delle genti di terra della repubblica; e il 15 gli fu dato dal doge il bastone e lo stendardo di capitano, all'altare di san Marco.
Trascorrerò più rapidamente che mi sarà possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la quale fu interrotta da due paci, fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali alla tragedia.
"Ridussesi la guerra in Lombardia, dove fu governata dal Carmagnola virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile."(13) Papa Martino V s'intromise; e sul finire dello stesso anno fu conclusa la pace, nella quale Filippo cedette ai Veneziani Brescia col suo territorio.
Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola mise per la prima volta in uso un suo ritrovato di fortificare il campo con un doppio recinto di carri, sopra ognuno de' quali stavano tre balestrieri.
Dopo molti piccoli fatti, e dopo la presa d'alcune terre, s'accampò sotto il castello di Maclodio, ch'era difeso da una guarnigione duchesca.
Comandavano nel campo del Duca quattro insigni condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza, e Nicolò Piccinino.(14) Essendo nata discordia tra di loro, il giovine Filippo vi mandò con pieni poteri Carlo Malatesti pesarese, di nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli, alla nobiltà mancava l'ingegno.
Questo storico osserva che il supremo comando dato al Malatesti non bastò a levar di mezzo la rivalità de' condottieri; mentre nel campo veneto a nessuno repugnava d'ubbidire al Carmagnola, benché avesse sotto di sé condottieri celebri, e principi, come Giovanfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e Giovanni Varano, di Camerino.
Il Carmagnola seppe conoscere il carattere del generale nemico, e cavarne profitto.
Attaccò Maclodio, in vicinanza del quale era il campo duchesco.
I due eserciti si trovarono divisi da un terreno paludoso, in mezzo al quale passava una strada elevata a guisa d'argine: e tra le paludi s'alzavano qua e là delle macchie poste su un terreno più sodo: il Conte mise in queste degli agguati, e si diede a provocare il nemico.
Nel campo duchesco i pareri erano vari: i racconti degli storici lo sono poco meno.
Ma l'opinione che pare più comune, è che il Pergola e il Torello, sospettando d'agguati, opinassero di non dar battaglia: che lo Sforza e il Piccinino la volessero a ogni costo.
Carlo fu del parere degli ultimi; la diede, e fu pienamente sconfitto.
Appena il suo esercito ebbe affrontato il nemico, fu assalito a destra e a sinistra dall'imboscate, e gli furono fatti, secondo alcuni, cinque, secondo altri, otto mila prigionieri.
Il comandante fu preso anche lui; gli altri quattro, chi in una maniera, chi nell'altra, si sottrassero.
Un figlio del Pergola si trovò tra i prigionieri.
La notte dopo la battaglia, i soldati vittoriosi lasciarono in libertà quasi tutti i prigionieri.
I commissari veneti, che seguivano l'esercito, ne fecero delle lagnanze col Conte; il quale domandò a qualcheduno de' suoi cosa fosse avvenuto de' prigionieri; ed essendogli risposto che tutti erano stati messi in libertà, meno un quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati, secondo l'uso.(15)
Uno storico che non solo scriveva in que' tempi, ma aveva militato in quelle guerre, Andrea Redusio, è il solo, per quanto io sappia, che abbia indicata la vera ragione di quest'uso militare d'allora.
Egli l'attribuisce al timore che i soldati avevano di veder presto finite le guerre, e di sentirsi gridare dai popoli: alla zappa i soldati.(16)
I Signori veneti furono punti e insospettiti dal procedere del Conte; ma senza giusta ragione.
Infatti, prendendo al soldo un condottiero, dovevano aspettarsi che farebbe la guerra secondo le leggi della guerra comunemente seguite; e non potevano senza indiscrezione pretendere che prendesse il rischioso impegno d'opporsi a un'usanza così utile e cara ai soldati, esponendosi a venire in odio a tutta la milizia, e a privarsi d'ogni appoggio.
Avevano bensì ragione di pretender da lui la fedeltà e lo zelo, ma non una devozione illimitata: questa s'accorda solamente a una causa che si abbraccia per entusiasmo o per dovere.
Non trovo però che dopo le prime osservazioni de' commissari, la Signoria abbia fatte col Carmagnola altre lagnanze su questo fatto: non si parla anzi che d'onori e di ricompense.
Nell'aprile del 1428 fu conclusa tra i Veneziani e il Duca un'altra di quelle solite paci.
La guerra, risorta nel 1431, non ebbe per il Conte così prosperi cominciamenti come le due passate.
Il castellano che comandava in Soncino per il Duca, si finse disposto a cedere per tradimento quel castello al Carmagnola.
Questo ci andò con una parte dell'esercito, e cadde in un agguato, dove lasciò prigionieri, secondo il Bigli, secento cavalli e molti fanti, salvandosi lui a stento.
Pochi giorni dopo, Nicola Trevisani, capitano dell'armata veneta sul Po, venne alle prese coi galeoni del Duca.
Il Piccinino e lo Sforza, facendo le viste di voler attaccare il Carmagnola, lo rattennero dal venire in aiuto all'armata veneta, e intanto imbarcarono gran parte delle loro genti di terra sulle navi del Duca.
Quando il Carmagnola s'avvide dell'inganno, e corse per sostenere i suoi, la battaglia era vicino all'altra riva.
L'armata veneta fu sconfitta, e il capitano di essa fuggì in una barchetta.
Gli storici veneti accusano qui il Carmagnola di tradimento.
Gli storici che non hanno preso il tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra taccia che d'essersi lasciato ingannare da uno stratagemma.
Par certo che la condotta del Trevisani fosse imprudente da principio, e irresoluta nella battaglia.(17) Fu bandito, e gli furono confiscati i beni; "e al capitano generale (Carmagnola), per imputazione di non aver dato favore all'armata, con lettere del Senato fu scritta una lieve riprensione".(18)
Il giorno 18 d'ottobre, il Carmagnola diede ordine al Cavalcabò, uno de' suoi condottieri, di sorprender Cremona.
Questo riuscì ad occuparne una parte; ma essendosi i cittadini levati a stormo, dovette abbandonare l'impresa, e ritornare al campo.
Il Carmagnola non credette a proposito d'andar col grosso dell'esercito a sostenere quest'impresa; e mi par cosa strana che ciò gli sia stato imputato a tradimento dalla Signoria.
La resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo spiega benissimo perché il generale non si sia ostinato a combattere una città che sperava d'occupare tranquillamente per sorpresa: il tradimento non ispiega nulla; giacché non si sa vedere perché il Carmagnola avrebbe ordinata la spedizione, il cattivo esito della quale non fu d'alcun vantaggio per il nemico.
Ma la Signoria, risoluta, secondo l'espressione del Navagero, di liberarsi del Carmagnola, cercò in qual maniera potesse averlo nelle mani disarmato; e non ne trovò una più pronta né più sicura, che d'invitarlo a Venezia col pretesto di consultarlo sulla pace.
Ci andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono fatti onori straordinari a lui, e al Gonzaga che l'accompagnava.
Tutti gli storici, anche veneziani, sono d'accordo in questo; pare anzi che raccontino con un sentimento di compiacenza questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte si chiamava prudenza e virtù politica.
Arrivato a Venezia, "gli furono mandati incontro otto gentiluomini, avanti ch'egli smontasse a casa sua, che l'accompagnarono a San Marco".(19) Entrato che fu nel palazzo ducale, si rimandarono le sue genti, dicendo loro che il Conte si fermerebbe a lungo col doge.
Fu arrestato nel palazzo, e condotto in prigione.
Fu esaminato da una Giunta, alla quale il Navagero dà nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il giorno 5 di maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca tra le due colonne della Piazzetta, e decapitato.
La moglie e una figlia del Conte (o due figlie, secondo alcuni) si trovavano allora in Venezia.
Nulla d'autentico si ha sull'innocenza o sulla reità di questo grand'uomo.
Era da aspettarsi che gli storici veneziani, che volevano scrivere e viver tranquilli, l'avrebbero trovato colpevole.
Essi esprimono quest'opinione come una cosa di fatto, e con quella negligenza che è naturale a chi parla in favore della forza.
Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola fu convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere.
Di questi tre mezzi di prova il solo che si sappia di certo essere stato adoprato è l'infamissimo primo, quello che non prova nulla.
Ma oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette storiche, che confermino la reità del Carmagnola, molte riflessioni la fanno parere improbabile.
Né i Veneziani hanno rivelato mai quali fossero le condizioni del tradimento pattuito; né da altra parte s'è saputo mai nulla d'un tale trattato.
Quest'accusa è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a qualche svantaggio di guerra, il quale anche si spiega senza ricorrere a questa supposizione: e sarebbe una legge stravagante non meno che atroce quella che volesse imputato a perfidia del generale ogni evento infelice.
Si badi inoltre all'essere il Conte andato a Venezia senza esitazione, senza riguardi e senza precauzioni: si badi all'aver sempre la Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la taccia d'ingratitudine e d'ingiustizia che gli si dava in Italia; si badi alla crudele precauzione di mandare il Conte al supplizio con le sbarre alla bocca, precauzione tanto più da notarsi, in quanto s'adoprava con uno che non era veneziano, e non poteva aver partigiani nel popolo; si badi finalmente al carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si vedrà che l'uno e l'altro ripugnano alla supposizione d'un trattato di questa sorte tra di loro.
Una riconciliazione segreta con un uomo che gli era stato orribilmente ingrato, e che aveva tentato di farlo ammazzare; un patto di far la guerra da stracco, anzi di lasciarsi battere, non s'accordano con l'animo impetuoso, attivo, avido di gloria del Carmagnola.
Il Duca non era perdonatore; e il Carmagnola che lo conosceva meglio d'ogni altro, non avrebbe mai potuto credere a una riconciliazione stabile e sicura con lui.
Il disegno di ritornare con Filippo offeso non poteva mai venire in mente a quell'uomo che aveva esperimentate le retribuzioni di Filippo beneficato.
Ho cercato se negli storici contemporanei si trovasse qualche traccia d'un'opinione pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta ha voluto far prevalere; ed ecco ciò che n'ho potuto raccogliere.
Un cronista di Bologna, dopo aver raccontata la fine del Carmagnola, soggiunge: "Dissesi che questo hanno fatto perché egli non faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva, e che s'intendeva col Duca.
Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro posto nelle mani del Conte, capitano d'un tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han trovato cagione di tradimento contra di lui.
Iddio voglia che abbiano fatto saviamente; perché par pure, che per questo la Signoria abbia molto diminuita la sua possanza, ed esaltata quella del Duca di Milano."(20)
E il Poggio: "Certuni dicono che non abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna; ma che ne fosse cagione la sua superbia, insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tutti."(21)
Il Corio poi, scrittore non contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così: "Gli tolsero il valsente di più di trecento migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che altro."
Senza dar molto peso a quest'ultima congettura, mi pare che le prime due, cioè il timore e le vendette private dell'amor proprio, bastino, per que' tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di un tradimento contrario all'indole e all'interesse dell'uomo a cui fu imputato.
Tra quegli storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni antiche, le hanno esaminate con un libero giudizio, uno solo, ch'io sappia, si mostrò persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito da una giusta sentenza.
Questo è il Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che si riferisce a questo avvenimento, per esser subito convinti che la sua opinione è venuta dal non aver lui voluto informarsi esattamente de' fatti sui quali andava stabilita.
Ecco le sue parole: "O foss'egli allontanato, per una ripugnanza dell'animo, dal portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero foss'egli ancora nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici, che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei Procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì, ma liberi al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427...
Il seguito delle sue imprese fece sempre più palese il suo animo; poiché trascurò tutte le occasioni, e lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi.
In somma giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco Carmagnola, che, venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia...
come reo di alto tradimento." Fa stupore il vedere addotto in prova della reità d'un uomo in giudizio segreto di que' tempi, da uno storico che ne ha tanto conosciuta l'iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a' suoi lettori.
In quanto al fatto de' prigionieri, ognuno vede gli errori della relazione che ho trascritta.
Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti i soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i generali, perché di questi non fu preso che il Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il dire che i soldati fossero rimandati al Duca: furono semplicemente messi in libertà.
Non vedo poi perché si entri in congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione, quando la storia ne dà per motivo un'usanza comune.
La sorte del Carmagnola fece un gran rumore in tutta l'Italia; e pare che in particolare i Piemontesi la sentissero più acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il seguente aneddoto raccontato dal Denina.
Il primo sospetto che i Veneziani ebbero del segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni d'un loro agente di Milano, il quale era venuto a sapere "che un Carlo Giuffredo Piemontese che si trovava fra i Segretarj di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re Luigi, andava fra i suoi famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi abbondantemente vendicata la morte del Conte Francesco Carmagnola suo compatriotto".(22)
Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta, e di patriottismo municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d'Italia, che lo considerava più specialmente come suo.
A quegli avvenimenti che si sono scelti per farne il materiale della presente Tragedia, s'è conservato il loro ordine cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se ne eccettui l'aver supposto accaduto in Venezia l'attentato contra la vita del Carmagnola, quando in vece accadde in Treviso.
IL CONTE DI CARMAGNOLA
TRAGEDIA
*PERSONAGGI STORICI
IL CONTE DI CARMAGNOLA.ANTONIETTA VISCONTI, sua moglie.
UNA LORO FIGLIA, a cui nella tragedia si è attribuito il nome di MATILDE.
FRANCESCO FOSCARI, Doge di Venezia.
Condottieri al soldo dei Veneziani:
GIOVANNI FRANCESCO GONZAGA,
PAOLO FRANCESCO ORSINI,
NICOLÒ DA TOLENTINO,
Condottieri al soldo del Duca di Milano:
CARLO MALATESTI,
ANGELO DELLA PERGOLA,
GUIDO TORELLO,
NICOLÒ PICCININO, a cui nella tragedia si è attribuito il cognome di FORTEBRACCIO,
FRANCESCO SFORZA,
PERGOLA Figlio.
PERSONAGGI IDEALI
MARCO, Senatore Veneziano.
MARINO, uno de' Capi del Consiglio dei Dieci.
PRIMO COMMISSARIO veneto nel campo.
SECONDO COMMISSARIO.
UN SOLDATO Del CONTE.
UN SOLDATO prigioniero.
SENATORI, CONDOTTIERI, SOLDATI, PRIGIONIERI, GUARDIE
ATTO PRIMO
SCENA I
Sala del Senato, in Venezia.
IL DOGE e SENATORI seduti.
IL DOGE
È giunto il fin de' lunghi dubbi, è giunto,
nobiluomini, il dì che statuito
fu a risolver da voi.
Su questa lega,
a cui Firenze con sì caldi preghi
incontro il Duca di Milan c'invita,
oggi il partito si porrà.
Ma pria,
se alcuno è qui cui non sia noto ancora
che vile opra di tenebre e di sangue
sugli occhi nostri fu tentata, in questa
stessa Venezia, inviolato asilo
di giustizia e di pace, odami: al nostro
deliberar rileva assai che' alcuno
qui non l'ignori.
Un fuoruscito al Conte
di Carmagnola insidiò la vita;
fallito è il colpo, e l'assassino è in ceppi.
Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo
ei l'ha nomato, ed è...
quel Duca istesso
di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora
a chieder pace, a cui più nulla preme
che la nostra amistà.
Tale arra intanto
ei ci dà della sua.
Taccio la vile
perfidia della trama, e l'onta aperta
che in un nostro soldato a noi vien fatta.
Due sole cose avverto: egli odia dunque
veracemente il Conte; ella è fra loro
chiusa ogni via di pace; il sangue ha stretto
tra lor d'eterna inimicizia un patto.
L'odia...
e lo teme: ei sa che il può dal trono
quella mano sbalzar che in trono il pose;
e disperando che più a lungo in questa
inonorata, improvida, tradita
pace restar noi consentiamo, ei sente
che sia per noi quest'uom; questo tra i primi
guerrier d'Italia il primo, e, ciò che meno
forse non è, delle sue forze istrutto
come dell'arti sue; questo che il lato
saprà tosto trovargli ove più certa,
e più mortal sia la ferita.
Ei volle
spezzar quest'arme in nostra mano; e noi
adoperiamla, e tosto.
Onde possiamo
un più fedele e saggio avviso in questo,
che dal Conte aspettarci? Io l'invitai;
piacevi udirlo?
(segni di adesione)
S'introduca il Conte.
SCENA II
IL CONTE, e detti.
IL DOGE
Conte di Carmagnola, oggi la prima
occasion s'affaccia in che di voi
si valga la Repubblica, e vi mostri
in che conto vi tiene: in grave affare
grave consiglio ci abbisogna.
Intanto
tutto per bocca mia questo Senato
si rallegra con voi da sì nefando
periglio uscito; e protestiam che a noi
fatta è l'offesa, e che sul vostro capo
or più che mai fia steso il nostro scudo,
scudo di vigilanza e di vendetta.
IL CONTE
Serenissimo Doge, ancor null'altro
io per questa ospital terra, che ardisco
nomar mia patria, potei far che voti.
Oh! mi sia dato alfin questa mia vita,
pur or sottratta al macchinar de' vili,
questa che nulla or fa che giorno a giorno
aggiungere in silenzio, e che guardarsi
tristamente, tirarla in luce ancora,
e spenderla per voi, ma di tal modo,
che dir si possa un dì, che in loco indegno
vostr'alta cortesia posta non era.
IL DOGE
Certo gran cose, ove il bisogno il chieda,
ci promettiam da voi.
Per or ci giovi
soltanto il vostro senno.
In suo soccorso
contro il Visconte l'armi nostre implora
già da lungo Firenze.
Il vostro avviso
nella bilancia che teniam librata
non farà piccol peso.
IL CONTE
E senno e braccio
e quanto io sono è cosa vostra: e certo
se mai fu caso in cui sperar m'attenti
che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo.
E lo darò: ma pria mi sia concesso
di me parlarvi in breve, e un core aprirvi,
un cor che agogna sol d'esser ben noto.
IL DOGE
Dite: a questa adunanza indifferente
cosa che a cor vi stia giunger non puote.
IL CONTE
Serenissimo Doge, Senatori;
io sono al punto in cui non posso a voi
esser grato e fedel, s'io non divengo
nemico all'uom che mio signor fu un tempo.
S'io credessi che ad esso il più sottile
vincolo di dover mi leghi ancora,
l'ombra onorata delle vostre insegne
fuggir vorrei, viver nell'ozio oscuro
vorrei, prima che romperlo, e me stesso
far vile agli occhi miei.
Dubbio veruno
sul partito che presi in cor non sento,
perch'egli è giusto ed onorato: il solo
timor mi pesa del giudizio altrui.
Oh! beato colui cui la fortuna
così distinte in suo cammin presenta
le vie del biasmo e dell'onor, ch'ei puote
correr certo del plauso, e non dar mai
passo ove trovi a malignar l'intento
sguardo del suo nemico.
Un altro campo
correr degg'io, dove in periglio sono
di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
nome d'ingrato, l'insoffribil nome
di traditor.
So che de' grandi è l'uso
valersi d'opra ch'essi stiman rea,
e profondere a quel che l'ha compita
premi e disprezzo, il so; ma io non sono
nato a questo; e il maggior, premio che bramo,
il solo, egli è la vostra stima, e quella
d'ogni cortese; e, arditamente il dico,
sento di meritarla.
Attesto il vostro
sapiente giudizio, o Senatori,
che d'ogni obbligo sciolto inverso il Duca
mi tengo, e il sono.
Se volesse alcuno
de' benefizi che tra noi son corsi
pareggiar le ragioni, è noto al mondo
qual rimarrebbe il debitor dei due.
Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca
fin che fui seco, e nol lasciai che quando
ei mi v'astrinse.
Ei mi balzò dal grado
col mio sangue acquistato: invan tentai
al mio signor lagnarmi.
I miei nemici
fatto avean siepe intorno al trono: allora
m'accorsi alfin che la mia vita anch'essa
stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.
Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo,
per nobil causa, e con onor, non preso
nella rete de' vili.
Io lo lasciai,
e a voi chiesi un asilo; e in questo ancora
ei mi tese un agguato.
Ora a costui
più nulla io deggio; di nemico aperto
nemico aperto io sono.
All'util vostro
io servirò, ma franco e in mio proposto
deliberato, come quei ch'è certo
che giusta cosa imprende.
IL DOGE
E tal vi tiene
questo Senato: già tra il Duca e voi
ha giudicato irrevocabilmente
Italia tutta.
Egli la vostra fede
ha liberata, a voi l'ha resa intatta,
qual gliela deste il primo giorno.
È nostra
or questa fede; e noi saprem tenerne
ben altro conto.
Or d'essa un primo pegno
il vostro schietto consigliar ci sia.
IL CONTE
Lieto son io che un tal consiglio io possa
darvi senza esitanza.
Io tengo al tutto
necessaria la guerra, e della guerra,
se oltre il presente è mai concesso all'uomo
cosa certa veder, certo l'evento;
tanto più, quanto fien l'indugi meno.
A che partito è il Duca? A mezzo è vinta
da lui Firenze; ma ferito e stanco
il vincitor; voti gli erari: oppressi
dal terror, dai tributi i cittadini
pregan dal ciel su l'armi loro istesse
le sconfitte e le fughe.
Io li conosco,
e conoscer li deggio: a molti in mente
dura il pensier del glorioso, antico
viver civile; e subito uno sguardo
rivolgon di desio là dove appena
d'un qualunque avvenir si mostri un raggio,
frementi del presente e vergognosi.
Ei conosce il periglio; indi l'udite
mansueto parlarvi; indi vi chiede
tempo soltanto de sbranar la preda
che già tiensi tra l'ugne, e divorarla.
Fingiam che glielo diate: ecco mutata
la faccia delle cose; egli soggioga
senza dubbio Firenze; ecco satolle
le costui schiere col tesor de' vinti,
e più folte e anelanti a nove imprese.
Qual prence allor dell'alleanza sua
far rifiuto oseria? Beato il primo
ch'ei chiamerebbe amico! Egli sicuro
consulterebbe e come e quando a voi
mover la guerra, a voi rimasti soli.
L'ira, che addoppia l'ardimento al prode
che si sente percosso, ei non la trova
che ne' prosperi casi: impaziente
d'ogni dimora ove il guadagno è certo,
ma ne' perigli irresoluto: a' suoi
soldati ascoso, del pugnar non vuole
fuor che le prede.
Ei nella rocca intanto,
o nelle ville rintanato attende
a novellar di cacce e di banchetti,
a interrogar tremando un indovino.
Ora è il tempo di vincerlo: cogliete
questo momento: ardir prudenza or fia.
IL DOGE
Conte, su questo fedel vostro avviso
tosto il Senato prenderà partito;
ma il segua, o no, v'è grato; e vede in esso,
non men che il senno, il vostro amor per noi.
(parte il Conte)
SCENA III
IL DOGE, e SENATORI
IL DOGE
Dissimil certo da sì nobil voto
nessun s'aspetta il mio.
Quando il consiglio
più generoso è il più sicuro, in forse
chi potria rimaner? Porgiam la mano
al fratello che implora: un sacro nodo
stringe i liberi Stati: hanno comuni
tra lor rischi e speranze; e treman tutti
dai fondamenti al rovinar d'un solo.
Provocator dei deboli, nemico
d'ognun che schiavo non gli sia, la pace
con tanta istanza a che ci chiede il Duca?
Perché il momento della guerra ei vuole
sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.
Il nostro egli è, se non ci falla il senno,
né l'animo.
Ei ci vuole ad uno ad uno;
andiamgli incontro uniti.
Ah! saria questa
la prima volta che il Leon giacesse
al suon delle lusinghe addormentato.
No; fia tentato invan.
Pongo il partito
che si stringa la lega, e che la guerra
tosto al Duca s'intimi, e delle nostre
genti da terra abbia il comando il Conte.
MARINO
Contro sì giusta e necessaria guerra
io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,
che il buon successo ad accertar si pensi.
La metà dell'impresa è nella scelta
del capitano.
Io so che vanta il Conte
molti amici tra noi; ma d'una cosa
mi rendo certo, che nessun di questi
l'ama più della patria; e per me, quando
di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.
Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,
serenissimo Doge, oppormi a voi,
non è il duce costui quale il richiede
la gravità, l'onor di questo Stato.
Non cercherò perché lasciasse il Duca.
Ei fu l'offeso; e sia pur ver: l'offesa
è tal che accordo non può darsi; e questo
consento: io giuro nelle sue parole.
Ma queste sue parole importa assai
considerarle, perché tutto in esse
ei s'è dipinto; e governar sì ombroso,
sì delicato e violento orgoglio,
o Senatori, non mi par che sia
minor pensier della guerra istessa.
Finor fu nostra cura il mantenerci
la riverenza de' soggetti; or altro
studio far si dovria, come costui
riverir degnamente.
E quando egli abbia
la man nell'elsa della nostra spada,
potrem noi dir d'aver creato un servo?
Dovrà por cura di piacergli ognuno
di noi? Se nasce un disparer, fia degno
che nell'arti di guerra il voler nostro
a quel d'un tanto condottier prevalga?
S'egli erra, e nostra è dell'error la pena,
ché invincibil nol credo, io vi domando
se fia concesso il farne lagno; e dove
si riscotan per questo onte e dispregi,
che far? soffrirli? Non v'aggrada, io stimo,
questo partito; risentirci? e dargli
occasion che, in mezzo all'opra, e nelle
più difficili strette ei ci abbandoni
sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,
forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli
quanto di noi pur sa, magnificando
la nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?
IL DOGE
Il Conte un prence abbandonò; ma quale?
un che da lui tenea lo Stato, e a cui
quindi ei minor non potea mai stimarsi;
un da pochi aggirato, e questi vili;
timido e stolto, che non seppe almeno
il buon consiglio tor della paura,
nasconderla nel core, e starsi all'erta;
ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:
tale è il signor che inimicossi il Conte.
Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo
che gli somigli.
Se destrier, correndo,
scosse una volta un furibondo e stolto
fuor dell'arcione, e lo gettò nel fango;
non fia per questo che salirlo ancora
un cauto e franco cavalier non voglia.
MARINO
Poiché sì certo è di quest'uomo il Doge,
più non m'oppongo; e questo a lui sol chiedo:
vuolsi egli far mallevador del Conte?
IL DOGE
A sì preciso interrogar, preciso
risponderò: mallevador pel Conte,
né per altr'uom che sia, certo, io non entro;
dell'opre mie, de' miei consigli il sono:
quando sien fidi, ei basta.
Ho io proposto
che guardia al Conte non si faccia, e a lui
si dia l'arbitrio dello Stato in mano?
Ei diritto, anderà; tale io diviso.
Ma s'ei si volge al rio sentier, ci manca
occhio che tosto ce ne faccia accorti,
e braccio che invisibile il raggiunga?
MARCO
Perché i princìpi di sì bella impresa
contristar con sospetti? E far disegni
di terrori e di pene, ove null'altro
che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio
che all'util suo sola una via gli è schiusa;
lo star con noi.
Ma deggio dir qual cosa
dee sovra ogni altra far per lui fidanza?
La gloria ond'egli è già coperto, e quella
a cui pur anco aspira; il generoso,
il fiero animo suo.
Che un giorno ei voglia
dall'altezza calar de' suoi pensieri,
e riporsi tra i vili, esser non puote.
Or, se prudenza il vuol, vegli pur l'occhio;
ma dorma il cor nella fiducia; e poi
che in così giusta e grave causa, un tanto
dono ci manda Iddio; con quella fronte,
e con quel cor che si riceve un dono,
sia da noi ricevuto.
MOLTI SENATORI
Ai voti, ai voti!
IL DOGE
Si raccolgano i voti; e ognun rammenti
quanto rilevi che di qui non esca
motto di tal deliberar, né cenno
che presumer lo faccia.
In questo Stato
pochi il segreto hanno tradito, e nullo
fu tra quei pochi che impunito andasse.
SCENA IV
Casa del Conte.
IL CONTE
Profugo, o condottiero.
O come il vecchio
guerrier nell'ozio i giorni trar, vivendo
della gloria passata, in atto sempre
di render grazie e di pregar, protetto
dal braccio altrui, che un dì potria stancarsi
e abbandonarmi; o ritornar sul campo,
sentir la vita, salutar di nuovo
la mia fortuna, delle trombe al suono
destarmi, comandar; questo è il momento
che ne decide.
Eh! se Venezia in pace
riman, degg'io chiuso e celato ancora
in questo asilo rimaner, siccome
l'omicida nel tempio? E chi d'un regno
fece il destin, non potrà farsi il suo?
Non troverò tra tanti prenci, in questa
divisa Italia, un sol che la corona,
onde il vil capo di Filippo splende,
ardisca invidiar? che si ricordi
ch'io l'acquistai, che dalle man di dieci
tiranni io la strappai, ch'io la riposi
su quella fronte, ed or null'altro agogno
che ritorla all'ingrato, e farne un dono
a chi saprà del braccio mio valersi?
SCENA V
MARCO, e IL CONTE
IL CONTE
O dolce amico; ebben qual nova arrechi?
MARCO
La guerra è risoluta, e tu sei duce.
IL CONTE
Marco, ad impresa io non m' accinsi mai
con maggior cor che a questa: una gran fede
poneste in me: ne sarò degno, il giuro.
Il giorno è questo che del viver mio
ferma il destin: poi che quest'alma terra
m'ha nel suo glorioso antico grembo
accolto, e dato di suo figlio il nome,
esserlo io vo' per sempre; e questo brando
io consacro per sempre alla difesa
e alla grandezza sua.
MARCO
Dolce disegno!
non soffra il ciel che la fortuna il rompa...
o tu medesmo.
IL CONTE
Io? come?
MARCO
Al par di tutti
i generosi, che giovando altrui
nocquer sempre a sé stessi, e superate
tutte le vie delle più dure imprese,
caddero a un passo poi, che facilmente
l'ultimo de' mortali avria varcato.
Credi ad un uom che t'ama: i più de' nostri
ti sono amici; ma non tutti il sono.
Di più non dico, né mi lice; e forse
troppo già dissi.
Ma la mia parola
nel fido orecchio dell'amico stia,
come nel tempio del mio cor, rinchiusa.
IL CONTE
Forse io l'ignoro? E forse ad uno ad uno
non so quai siano i miei nemici?
MARCO
E sai
chi te gli ha fatti? In pria l'esser tu tanto
maggior di loro, indi lo sprezzo aperto
che tu ne festi in ogni incontro.
Alcuno
non ti nocque finor; ma chi non puote
nocer col tempo? Tu non pensi ad essi,
se non allor che in tuo cammin li trovi;
ma pensan essi a te, più che non credi.
Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode
nell'odio.
Or tu non irritarlo: cerca
di spegnerlo; tu il puoi forse.
Consiglio
di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei,
io non ti do, né tal da me l'aspetti.
Ma tra la noncuranza e la servile
cautela avvi una via; v'ha una prudenza
anche pei cor più nobili e più schivi;
v'ha un'arte d'acquistar l'alme volgari,
senza discender fino ad esse: e questa
nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.
IL CONTE
Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio
le mille volte a me medesmo io il diedi;
e sempre all'uopo ei mi fuggì di mente;
e sempre appresi a danno mio che dove
semina l'ira, il pentimento miete.
Dura scola ed inutile! Alfin stanco
di far leggi a me stesso, e trasgredirle,
tra me fermai che, s'egli è mio destino
ch'io sia sempre in tai nodi avviluppato
che mestier faccia a distrigarli appunto
quella virtù che più mi manca, s'ella
è pur virtù; se è mio destin che un giorno
io sia colto in tai nodi, e vi perisca;
meglio è senza riguardi andargli incontro.
Io ne appello a te stesso: i buoni mai
non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.
E giurerei che un sol non è tra loro
cui tu degni, non dico accarezzarlo,
ma non dargli a veder che lo dispregi.
Rispondi.
MARCO
È ver: se v'ha mortal di cui
la sorte invidii, è sol colui che nacque
in luoghi e in tempi ov'uom potesse aperto
mostrar l'animo in fronte, e a quelle prove
solo trovarsi ove più forza è d'uopo
che accorgimento: quindi, ove convenga
simular, non ti faccia maraviglia
che poco esperto io sia.
Pensa per altro
quanto più m'è concesso impunemente
fallire in ciò che a te; che poche vie
al pugnal d'un nemico offre il mio petto;
che me contra i privati odii assecura
la pubblica ragion; ch'io vesto il saio
stesso di quei che han la mia sorte in mano.
Ma tu stranier, tu condottiero al soldo
di togati signor, tu cui lo Stato
dà tante spade per salvarlo, e niuna
per salvar te...
fa che gli amici tuoi
odan sol le tue lodi; e non dar loro
la trista cura di scolparti.
Pensa
che felici non son, se tu nol sei.
Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi,
che ancor più addentro nel tuo cor risoni?
Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia
a cui tu se' sola speranza: il cielo
dié loro un'alma per sentir la gioia,
un'alma che sospira i dì sereni,
ma che nulla può far per conquistarli.
Tu il puoi per esse; e lo vorrai.
Non dire
che il tuo destin ti porta; allor che il forte
ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
signor di sé che non pensava in prima.
IL CONTE
Tu hai ragione.
Il ciel si prende al certo
qualche cura di me, poiché m'ha dato
un tale amico.
Ascolta; il buon successo
potrà, spero, placar chi mi disama:
tutto in letizia finirà.
Tu intanto
se cosa odi di me che ti dispiaccia,
l'indole mia ne incolpa, un improvviso
impeto primo, ma non mai l'obblio
di tue parole.
MARCO
Or la mia gioia è intera.
Va, vinci, e torna.
Oh come atteso e caro
verrà quel messo che la gloria tua
con la salute della patria annunzi!
FINE DELL'ATTO PRIMO
ATTO SECONDO
SCENA I
Parte, del campo ducale con tende.
MALATESTI e PERGOLA
PERGOLA
Sì, condottier; come ordinaste, in pronto
son le mie bande.
A voi commise il Duca
l'arbitrio della guerra: io v'ho ubbidito,
ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,
non diam battaglia.
MALATESTI
Anzian d'anni e di fama,
o Pergola, qui siete; io sento il peso
del vostro voto; ma cangiar non posso
il mio.
Voi lo vedete; il Carmagnola
ci provoca ogni dì: quasi ad insulto
sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto:
e due partiti ci rimangon soli;
o lui cacciarne, o abbandonar la terra,
che saria danno e scorno.
PERGOLA
A pochi è dato,
a pochi egregi il dubitar di novo,
quando han già detto: ell'è così.
S'io parlo
è che tale vi tengo.
Italia forse
mai da' barbari in poi non vide a fronte
due sì possenti eserciti: ma il nostro
l'ultimo sforzo è di Filippo.
In ogni
fatto di guerra entra fortuna, e sempre
vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando
ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi
dargliene più ch'ella non chiede; e questo
esercito con cui tutto possiamo
salvar, ma che perduto in una volta
mai più rifar non si potria, non dèssi
come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
avventurarlo in un sì piccol campo,
e in u
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