IL CONTE DI CARMAGNOLA, di Alessandro Manzoni - pagina 4
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."(20)
E il Poggio: "Certuni dicono che non abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna; ma che ne fosse cagione la sua superbia, insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tutti."(21)
Il Corio poi, scrittore non contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così: "Gli tolsero il valsente di più di trecento migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che altro."
Senza dar molto peso a quest'ultima congettura, mi pare che le prime due, cioè il timore e le vendette private dell'amor proprio, bastino, per que' tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di un tradimento contrario all'indole e all'interesse dell'uomo a cui fu imputato.
Tra quegli storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni antiche, le hanno esaminate con un libero giudizio, uno solo, ch'io sappia, si mostrò persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito da una giusta sentenza.
Questo è il Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che si riferisce a questo avvenimento, per esser subito convinti che la sua opinione è venuta dal non aver lui voluto informarsi esattamente de' fatti sui quali andava stabilita.
Ecco le sue parole: "O foss'egli allontanato, per una ripugnanza dell'animo, dal portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero foss'egli ancora nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici, che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei Procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì, ma liberi al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427...
Il seguito delle sue imprese fece sempre più palese il suo animo; poiché trascurò tutte le occasioni, e lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi.
In somma giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco Carmagnola, che, venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia...
come reo di alto tradimento." Fa stupore il vedere addotto in prova della reità d'un uomo in giudizio segreto di que' tempi, da uno storico che ne ha tanto conosciuta l'iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a' suoi lettori.
In quanto al fatto de' prigionieri, ognuno vede gli errori della relazione che ho trascritta.
Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti i soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i generali, perché di questi non fu preso che il Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il dire che i soldati fossero rimandati al Duca: furono semplicemente messi in libertà.
Non vedo poi perché si entri in congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione, quando la storia ne dà per motivo un'usanza comune.
La sorte del Carmagnola fece un gran rumore in tutta l'Italia; e pare che in particolare i Piemontesi la sentissero più acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il seguente aneddoto raccontato dal Denina.
Il primo sospetto che i Veneziani ebbero del segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni d'un loro agente di Milano, il quale era venuto a sapere "che un Carlo Giuffredo Piemontese che si trovava fra i Segretarj di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re Luigi, andava fra i suoi famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi abbondantemente vendicata la morte del Conte Francesco Carmagnola suo compatriotto".(22)
Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta, e di patriottismo municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d'Italia, che lo considerava più specialmente come suo.
A quegli avvenimenti che si sono scelti per farne il materiale della presente Tragedia, s'è conservato il loro ordine cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se ne eccettui l'aver supposto accaduto in Venezia l'attentato contra la vita del Carmagnola, quando in vece accadde in Treviso.
IL CONTE DI CARMAGNOLA
TRAGEDIA
*PERSONAGGI STORICI
IL CONTE DI CARMAGNOLA.ANTONIETTA VISCONTI, sua moglie.
UNA LORO FIGLIA, a cui nella tragedia si è attribuito il nome di MATILDE.
FRANCESCO FOSCARI, Doge di Venezia.
Condottieri al soldo dei Veneziani:
GIOVANNI FRANCESCO GONZAGA,
PAOLO FRANCESCO ORSINI,
NICOLÒ DA TOLENTINO,
Condottieri al soldo del Duca di Milano:
CARLO MALATESTI,
ANGELO DELLA PERGOLA,
GUIDO TORELLO,
NICOLÒ PICCININO, a cui nella tragedia si è attribuito il cognome di FORTEBRACCIO,
FRANCESCO SFORZA,
PERGOLA Figlio.
PERSONAGGI IDEALI
MARCO, Senatore Veneziano.
MARINO, uno de' Capi del Consiglio dei Dieci.
PRIMO COMMISSARIO veneto nel campo.
SECONDO COMMISSARIO.
UN SOLDATO Del CONTE.
UN SOLDATO prigioniero.
SENATORI, CONDOTTIERI, SOLDATI, PRIGIONIERI, GUARDIE
ATTO PRIMO
SCENA I
Sala del Senato, in Venezia.
IL DOGE e SENATORI seduti.
IL DOGE
È giunto il fin de' lunghi dubbi, è giunto,
nobiluomini, il dì che statuito
fu a risolver da voi.
Su questa lega,
a cui Firenze con sì caldi preghi
incontro il Duca di Milan c'invita,
oggi il partito si porrà.
Ma pria,
se alcuno è qui cui non sia noto ancora
che vile opra di tenebre e di sangue
sugli occhi nostri fu tentata, in questa
stessa Venezia, inviolato asilo
di giustizia e di pace, odami: al nostro
deliberar rileva assai che' alcuno
qui non l'ignori.
Un fuoruscito al Conte
di Carmagnola insidiò la vita;
fallito è il colpo, e l'assassino è in ceppi.
Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo
ei l'ha nomato, ed è...
quel Duca istesso
di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora
a chieder pace, a cui più nulla preme
che la nostra amistà.
Tale arra intanto
ei ci dà della sua.
Taccio la vile
perfidia della trama, e l'onta aperta
che in un nostro soldato a noi vien fatta.
Due sole cose avverto: egli odia dunque
veracemente il Conte; ella è fra loro
chiusa ogni via di pace; il sangue ha stretto
tra lor d'eterna inimicizia un patto.
L'odia...
e lo teme: ei sa che il può dal trono
quella mano sbalzar che in trono il pose;
e disperando che più a lungo in questa
inonorata, improvida, tradita
pace restar noi consentiamo, ei sente
che sia per noi quest'uom; questo tra i primi
guerrier d'Italia il primo, e, ciò che meno
forse non è, delle sue forze istrutto
come dell'arti sue; questo che il lato
saprà tosto trovargli ove più certa,
e più mortal sia la ferita.
Ei volle
spezzar quest'arme in nostra mano; e noi
adoperiamla, e tosto.
Onde possiamo
un più fedele e saggio avviso in questo,
che dal Conte aspettarci? Io l'invitai;
piacevi udirlo?
(segni di adesione)
S'introduca il Conte.
SCENA II
IL CONTE, e detti.
IL DOGE
Conte di Carmagnola, oggi la prima
occasion s'affaccia in che di voi
si valga la Repubblica, e vi mostri
in che conto vi tiene: in grave affare
grave consiglio ci abbisogna.
Intanto
tutto per bocca mia questo Senato
si rallegra con voi da sì nefando
periglio uscito; e protestiam che a noi
fatta è l'offesa, e che sul vostro capo
or più che mai fia steso il nostro scudo,
scudo di vigilanza e di vendetta.
IL CONTE
Serenissimo Doge, ancor null'altro
io per questa ospital terra, che ardisco
nomar mia patria, potei far che voti.
Oh! mi sia dato alfin questa mia vita,
pur or sottratta al macchinar de' vili,
questa che nulla or fa che giorno a giorno
aggiungere in silenzio, e che guardarsi
tristamente, tirarla in luce ancora,
e spenderla per voi, ma di tal modo,
che dir si possa un dì, che in loco indegno
vostr'alta cortesia posta non era.
IL DOGE
Certo gran cose, ove il bisogno il chieda,
ci promettiam da voi.
Per or ci giovi
soltanto il vostro senno.
In suo soccorso
contro il Visconte l'armi nostre implora
già da lungo Firenze.
Il vostro avviso
nella bilancia che teniam librata
non farà piccol peso.
IL CONTE
E senno e braccio
e quanto io sono è cosa vostra: e certo
se mai fu caso in cui sperar m'attenti
che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo.
E lo darò: ma pria mi sia concesso
di me parlarvi in breve, e un core aprirvi,
un cor che agogna sol d'esser ben noto.
IL DOGE
Dite: a questa adunanza indifferente
cosa che a cor vi stia giunger non puote.
IL CONTE
Serenissimo Doge, Senatori;
io sono al punto in cui non posso a voi
esser grato e fedel, s'io non divengo
nemico all'uom che mio signor fu un tempo.
S'io credessi che ad esso il più sottile
vincolo di dover mi leghi ancora,
l'ombra onorata delle vostre insegne
fuggir vorrei, viver nell'ozio oscuro
vorrei, prima che romperlo, e me stesso
far vile agli occhi miei.
Dubbio veruno
sul partito che presi in cor non sento,
perch'egli è giusto ed onorato: il solo
timor mi pesa del giudizio altrui.
Oh! beato colui cui la fortuna
così distinte in suo cammin presenta
le vie del biasmo e dell'onor, ch'ei puote
correr certo del plauso, e non dar mai
passo ove trovi a malignar l'intento
sguardo del suo nemico.
Un altro campo
correr degg'io, dove in periglio sono
di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
nome d'ingrato, l'insoffribil nome
di traditor.
So che de' grandi è l'uso
valersi d'opra ch'essi stiman rea,
e profondere a quel che l'ha compita
premi e disprezzo, il so; ma io non sono
nato a questo; e il maggior, premio che bramo,
il solo, egli è la vostra stima, e quella
d'ogni cortese; e, arditamente il dico,
sento di meritarla.
Attesto il vostro
sapiente giudizio, o Senatori,
che d'ogni obbligo sciolto inverso il Duca
mi tengo, e il sono.
Se volesse alcuno
de' benefizi che tra noi son corsi
pareggiar le ragioni, è noto al mondo
qual rimarrebbe il debitor dei due.
Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca
fin che fui seco, e nol lasciai che quando
ei mi v'astrinse.
Ei mi balzò dal grado
col mio sangue acquistato: invan tentai
al mio signor lagnarmi.
I miei nemici
fatto avean siepe intorno al trono: allora
m'accorsi alfin che la mia vita anch'essa
stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.
Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo,
per nobil causa, e con onor, non preso
nella rete de' vili.
Io lo lasciai,
e a voi chiesi un asilo; e in questo ancora
ei mi tese un agguato.
Ora a costui
più nulla io deggio; di nemico aperto
nemico aperto io sono.
All'util vostro
io servirò, ma franco e in mio proposto
deliberato, come quei ch'è certo
che giusta cosa imprende.
IL DOGE
E tal vi tiene
questo Senato: già tra il Duca e voi
ha giudicato irrevocabilmente
Italia tutta.
Egli la vostra fede
ha liberata, a voi l'ha resa intatta,
qual gliela deste il primo giorno.
È nostra
or questa fede; e noi saprem tenerne
ben altro conto.
Or d'essa un primo pegno
il vostro schietto consigliar ci sia.
IL CONTE
Lieto son io che un tal consiglio io possa
darvi senza esitanza.
Io tengo al tutto
necessaria la guerra, e della guerra,
se oltre il presente è mai concesso all'uomo
cosa certa veder, certo l'evento;
tanto più, quanto fien l'indugi meno.
A che partito è il Duca? A mezzo è vinta
da lui Firenze; ma ferito e stanco
il vincitor; voti gli erari: oppressi
dal terror, dai tributi i cittadini
pregan dal ciel su l'armi loro istesse
le sconfitte e le fughe.
Io li conosco,
e conoscer li deggio: a molti in mente
dura il pensier del glorioso, antico
viver civile; e subito uno sguardo
rivolgon di desio là dove appena
d'un qualunque avvenir si mostri un raggio,
frementi del presente e vergognosi.
Ei conosce il periglio; indi l'udite
mansueto parlarvi; indi vi chiede
tempo soltanto de sbranar la preda
che già tiensi tra l'ugne, e divorarla.
Fingiam che glielo diate: ecco mutata
la faccia delle cose; egli soggioga
senza dubbio Firenze; ecco satolle
le costui schiere col tesor de' vinti,
e più folte e anelanti a nove imprese.
Qual prence allor dell'alleanza sua
far rifiuto oseria? Beato il primo
ch'ei chiamerebbe amico! Egli sicuro
consulterebbe e come e quando a voi
mover la guerra, a voi rimasti soli.
L'ira, che addoppia l'ardimento al prode
che si sente percosso, ei non la trova
che ne' prosperi casi: impaziente
d'ogni dimora ove il guadagno è certo,
ma ne' perigli irresoluto: a' suoi
soldati ascoso, del pugnar non vuole
fuor che le prede.
Ei nella rocca intanto,
o nelle ville rintanato attende
a novellar di cacce e di banchetti,
a interrogar tremando un indovino.
Ora è il tempo di vincerlo: cogliete
questo momento: ardir prudenza or fia.
IL DOGE
Conte, su questo fedel vostro avviso
tosto il Senato prenderà partito;
ma il segua, o no, v'è grato; e vede in esso,
non men che il senno, il vostro amor per noi.
(parte il Conte)
SCENA III
IL DOGE, e SENATORI
IL DOGE
Dissimil certo da sì nobil voto
nessun s'aspetta il mio.
Quando il consiglio
più generoso è il più sicuro, in forse
chi potria rimaner? Porgiam la mano
al fratello che implora: un sacro nodo
stringe i liberi Stati: hanno comuni
tra lor rischi e speranze; e treman tutti
dai fondamenti al rovinar d'un solo.
Provocator dei deboli, nemico
d'ognun che schiavo non gli sia, la pace
con tanta istanza a che ci chiede il Duca?
Perché il momento della guerra ei vuole
sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.
Il nostro egli è, se non ci falla il senno,
né l'animo.
Ei ci vuole ad uno ad uno;
andiamgli incontro uniti.
Ah! saria questa
la prima volta che il Leon giacesse
al suon delle lusinghe addormentato.
No; fia tentato invan.
Pongo il partito
che si stringa la lega, e che la guerra
tosto al Duca s'intimi, e delle nostre
genti da terra abbia il comando il Conte.
MARINO
Contro sì giusta e necessaria guerra
io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,
che il buon successo ad accertar si pensi.
La metà dell'impresa è nella scelta
del capitano.
Io so che vanta il Conte
molti amici tra noi; ma d'una cosa
mi rendo certo, che nessun di questi
l'ama più della patria; e per me, quando
di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.
Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,
serenissimo Doge, oppormi a voi,
non è il duce costui quale il richiede
la gravità, l'onor di questo Stato.
Non cercherò perché lasciasse il Duca.
Ei fu l'offeso; e sia pur ver: l'offesa
è tal che accordo non può darsi; e questo
consento: io giuro nelle sue parole.
Ma queste sue parole importa assai
considerarle, perché tutto in esse
ei s'è dipinto; e governar sì ombroso,
sì delicato e violento orgoglio,
o Senatori, non mi par che sia
minor pensier della guerra istessa.
Finor fu nostra cura il mantenerci
la riverenza de' soggetti; or altro
studio far si dovria, come costui
riverir degnamente.
E quando egli abbia
la man nell'elsa della nostra spada,
potrem noi dir d'aver creato un servo?
Dovrà por cura di piacergli ognuno
di noi? Se nasce un disparer, fia degno
che nell'arti di guerra il voler nostro
a quel d'un tanto condottier prevalga?
S'egli erra, e nostra è dell'error la pena,
ché invincibil nol credo, io vi domando
se fia concesso il farne lagno; e dove
si riscotan per questo onte e dispregi,
che far? soffrirli? Non v'aggrada, io stimo,
questo partito; risentirci? e dargli
occasion che, in mezzo all'opra, e nelle
più difficili strette ei ci abbandoni
sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,
forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli
quanto di noi pur sa, magnificando
la nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?
IL DOGE
Il Conte un prence abbandonò; ma quale?
un che da lui tenea lo Stato, e a cui
quindi ei minor non potea mai stimarsi;
un da pochi aggirato, e questi vili;
timido e stolto, che non seppe almeno
il buon consiglio tor della paura,
nasconderla nel core, e starsi all'erta;
ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:
tale è il signor che inimicossi il Conte.
Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo
che gli somigli.
Se destrier, correndo,
scosse una volta un furibondo e stolto
fuor dell'arcione, e lo gettò nel fango;
non fia per questo che salirlo ancora
un cauto e franco cavalier non voglia.
MARINO
Poiché sì certo è di quest'uomo il Doge,
più non m'oppongo; e questo a lui sol chiedo:
vuolsi egli far mallevador del Conte?
IL DOGE
A sì preciso interrogar, preciso
risponderò: mallevador pel Conte,
né per altr'uom che sia, certo, io non entro;
dell'opre mie, de' miei consigli il sono:
quando sien fidi, ei basta.
Ho io proposto
che guardia al Conte non si faccia, e a lui
si dia l'arbitrio dello Stato in mano?
Ei diritto, anderà; tale io diviso.
Ma s'ei si volge al rio sentier, ci manca
occhio che tosto ce ne faccia accorti,
e braccio che invisibile il raggiunga?
MARCO
Perché i princìpi di sì bella impresa
contristar con sospetti? E far disegni
di terrori e di pene, ove null'altro
che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio
che all'util suo sola una via gli è schiusa;
lo star con noi.
Ma deggio dir qual cosa
dee sovra ogni altra far per lui fidanza?
La gloria ond'egli è già coperto, e quella
a cui pur anco aspira; il generoso,
il fiero animo suo.
Che un giorno ei voglia
dall'altezza calar de' suoi pensieri,
e riporsi tra i vili, esser non puote.
Or, se prudenza il vuol, vegli pur l'occhio;
ma dorma il cor nella fiducia; e poi
che in così giusta e grave causa, un tanto
dono ci manda Iddio; con quella fronte,
e con quel cor che si riceve un dono,
sia da noi ricevuto.
MOLTI SENATORI
Ai voti, ai voti!
IL DOGE
Si raccolgano i voti; e ognun rammenti
quanto rilevi che di qui non esca
motto di tal deliberar, né cenno
che presumer lo faccia.
In questo Stato
pochi il segreto hanno tradito, e nullo
fu tra quei pochi che impunito andasse.
SCENA IV
Casa del Conte.
IL CONTE
Profugo, o condottiero.
O come il vecchio
guerrier nell'ozio i giorni trar, vivendo
della gloria passata, in atto sempre
di render grazie e di pregar, protetto
dal braccio altrui, che un dì potria stancarsi
e abbandonarmi; o ritornar sul campo,
sentir la vita, salutar di nuovo
la mia fortuna, delle trombe al suono
destarmi, comandar; questo è il momento
che ne decide.
Eh! se Venezia in pace
riman, degg'io chiuso e celato ancora
in questo asilo rimaner, siccome
l'omicida nel tempio? E chi d'un regno
fece il destin, non potrà farsi il suo?
Non troverò tra tanti prenci, in questa
divisa Italia, un sol che la corona,
onde il vil capo di Filippo splende,
ardisca invidiar? che si ricordi
ch'io l'acquistai, che dalle man di dieci
tiranni io la strappai, ch'io la riposi
su quella fronte, ed or null'altro agogno
che ritorla all'ingrato, e farne un dono
a chi saprà del braccio mio valersi?
SCENA V
MARCO, e IL CONTE
IL CONTE
O dolce amico; ebben qual nova arrechi?
MARCO
La guerra è risoluta, e tu sei duce.
IL CONTE
Marco, ad impresa io non m' accinsi mai
con maggior cor che a questa: una gran fede
poneste in me: ne sarò degno, il giuro.
Il giorno è questo che del viver mio
ferma il destin: poi che quest'alma terra
m'ha nel suo glorioso antico grembo
accolto, e dato di suo figlio il nome,
esserlo io vo' per sempre; e questo brando
io consacro per sempre alla difesa
e alla grandezza sua.
MARCO
Dolce disegno!
non soffra il ciel che la fortuna il rompa...
o tu medesmo.
IL CONTE
Io? come?
MARCO
Al par di tutti
i generosi, che giovando altrui
nocquer sempre a sé stessi, e superate
tutte le vie delle più dure imprese,
caddero a un passo poi, che facilmente
l'ultimo de' mortali avria varcato.
Credi ad un uom che t'ama: i più de' nostri
ti sono amici; ma non tutti il sono.
Di più non dico, né mi lice; e forse
troppo già dissi.
Ma la mia parola
nel fido orecchio dell'amico stia,
come nel tempio del mio cor, rinchiusa.
IL CONTE
Forse io l'ignoro? E forse ad uno ad uno
non so quai siano i miei nemici?
MARCO
E sai
chi te gli ha fatti? In pria l'esser tu tanto
maggior di loro, indi lo sprezzo aperto
che tu ne festi in ogni incontro.
Alcuno
non ti nocque finor; ma chi non puote
nocer col tempo? Tu non pensi ad essi,
se non allor che in tuo cammin li trovi;
ma pensan essi a te, più che non credi.
Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode
nell'odio.
Or tu non irritarlo: cerca
di spegnerlo; tu il puoi forse.
Consiglio
di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei,
io non ti do, né tal da me l'aspetti.
Ma tra la noncuranza e la servile
cautela avvi una via; v'ha una prudenza
anche pei cor più nobili e più schivi;
v'ha un'arte d'acquistar l'alme volgari,
senza discender fino ad esse: e questa
nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.
IL CONTE
Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio
le mille volte a me medesmo io il diedi;
e sempre all'uopo ei mi fuggì di mente;
e sempre appresi a danno mio che dove
semina l'ira, il pentimento miete.
Dura scola ed inutile! Alfin stanco
di far leggi a me stesso, e trasgredirle,
tra me fermai che, s'egli è mio destino
ch'io sia sempre in tai nodi avviluppato
che mestier faccia a distrigarli appunto
quella virtù che più mi manca, s'ella
è pur virtù; se è mio destin che un giorno
io sia colto in tai nodi, e vi perisca;
meglio è senza riguardi andargli incontro.
Io ne appello a te stesso: i buoni mai
non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.
E giurerei che un sol non è tra loro
cui tu degni, non dico accarezzarlo,
ma non dargli a veder che lo dispregi.
Rispondi.
MARCO
È ver: se v'ha mortal di cui
la sorte invidii, è sol colui che nacque
in luoghi e in tempi ov'uom potesse aperto
mostrar l'animo in fronte, e a quelle prove
solo trovarsi ove più forza è d'uopo
che accorgimento: quindi, ove convenga
simular, non ti faccia maraviglia
che poco esperto io sia.
Pensa per altro
quanto più m'è concesso impunemente
fallire in ciò che a te; che poche vie
al pugnal d'un nemico offre il mio petto;
che me contra i privati odii assecura
la pubblica ragion; ch'io vesto il saio
stesso di quei che han la mia sorte in mano.
Ma tu stranier, tu condottiero al soldo
di togati signor, tu cui lo Stato
dà tante spade per salvarlo, e niuna
per salvar te...
fa che gli amici tuoi
odan sol le tue lodi; e non dar loro
la trista cura di scolparti.
Pensa
che felici non son, se tu nol sei.
Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi,
che ancor più addentro nel tuo cor risoni?
Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia
a cui tu se' sola speranza: il cielo
dié loro un'alma per sentir la gioia,
un'alma che sospira i dì sereni,
ma che nulla può far per conquistarli.
Tu il puoi per esse; e lo vorrai.
Non dire
che il tuo destin ti porta; allor che il forte
ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
signor di sé che non pensava in prima.
IL CONTE
Tu hai ragione.
Il ciel si prende al certo
qualche cura di me, poiché m'ha dato
un tale amico.
Ascolta; il buon successo
potrà, spero, placar chi mi disama:
tutto in letizia finirà.
Tu intanto
se cosa odi di me che ti dispiaccia,
l'indole mia ne incolpa, un improvviso
impeto primo, ma non mai l'obblio
di tue parole.
MARCO
Or la mia gioia è intera.
Va, vinci, e torna.
Oh come atteso e caro
verrà quel messo che la gloria tua
con la salute della patria annunzi!
FINE DELL'ATTO PRIMO
ATTO SECONDO
SCENA I
Parte, del campo ducale con tende.
MALATESTI e PERGOLA
PERGOLA
Sì, condottier; come ordinaste, in pronto
son le mie bande.
A voi commise il Duca
l'arbitrio della guerra: io v'ho ubbidito,
ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,
non diam battaglia.
MALATESTI
Anzian d'anni e di fama,
o Pergola, qui siete; io sento il peso
del vostro voto; ma cangiar non posso
il mio.
Voi lo vedete; il Carmagnola
ci provoca ogni dì: quasi ad insulto
sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto:
e due partiti ci rimangon soli;
o lui cacciarne, o abbandonar la terra,
che saria danno e scorno.
PERGOLA
A pochi è dato,
a pochi egregi il dubitar di novo,
quando han già detto: ell'è così.
S'io parlo
è che tale vi tengo.
Italia forse
mai da' barbari in poi non vide a fronte
due sì possenti eserciti: ma il nostro
l'ultimo sforzo è di Filippo.
In ogni
fatto di guerra entra fortuna, e sempre
vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando
ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi
dargliene più ch'ella non chiede; e questo
esercito con cui tutto possiamo
salvar, ma che perduto in una volta
mai più rifar non si potria, non dèssi
come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
avventurarlo in un sì piccol campo,
e in un campo mal noto, e quel che è peggio
noto al nemico.
Ei qui ci trasse: un torto
argin divide le due schiere: a destra
e a sinistra paludi, in esse sparsi
i suoi drappelli; e noi fuori de' nostri
alloggiamenti non teniamo un palmo
pur di terren.
Credete ad un che l'arti
conosce di costui, che ha combattuto
al fianco suo: qui c'è un'insidia.
Forse
la miglior via di guerreggiar quest'uomo
saria tenerlo a bada, aspettar tempo,
tanto che alcun dei duci ai quali è sopra
prendesse a noia il suo superbo impero;
e il fascio ch'egli or nella mano ha stretto
si rallentasse alfin.
Pur, se a giornata
venir si deve, non è questo il loco:
usciam di qui, scegliamo un campo noi,
tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,
senza svantaggio almanco, si decida.
MALATESTI
Due grandi schiere a fronte stanno; e grande
fia la battaglia: d'una tale appunto
abbisogna Filippo.
A questi estremi
a poco a poco ei venne, e coi consigli
che or proponete: a trarnelo, fia d'uopo
appigliarci agli opposti.
Il rischio vero
sta nell'indugio; e nel mutare il campo
rovina certa.
Chi sapria dir quanto
di numero e di cor scemato ei fia,
pria che si ponga altrove? Ora egli è quale
bramar lo puote un capitan; con esso
tutto lice tentar.
SCENA II
SFORZA, FORTEBRACCIO, e detti.
MALATESTI
Ditelo, o Sforza,
e Fortebraccio; voi giungete in tempo:
ditelo voi, come trovaste il campo?
Che possiamo sperarne?
SFORZA
Ogni gran cosa.
Quando gli ordini udir, quando lor parve
che una battaglia si prepari, io vidi
un feroce tripudio: alla chiamata
esultando venièno, e col sorriso
si fean cenno a vicenda.
E quando io corsi
entro le file, ad ogni schiera un grido
s'alzava; ognuno in me fissando il guardo
parea dicesse: o condottier, v'intendo.
FORTEBRACCIO
E tai son tutti: allor ch'io venni a' miei,
tutti mi furo intorno.
Un mi dicea:
quando udremo le trombe? Altri: noi siamo
stanchi d'esser beffati; e tutti ad una
la battaglia chiedean, come già certi
dell'ottenerla, e dubbi sol del quando.
Ebben, compagni, io rispondea, se il segno
presto s'udrà, mi date voi parola
di vincere con me? Gli elmi levati
sull'aste, un grido universal d'assenso
fu la risposta, ond'io gioisco ancora.
E a tai soldati ci venia proposto
d'intimar la ritratta? e che alle mani,
che già posate sulle spade aspettano
l'ordin di sguainarle e di ferire,
si comandasse di levar le tende?
Chi fronte avria di presentarsi ad essi
con tal ordine ormai?
PERGOLA
Dal parlar vostro
un novo modo di milizia imparo;
che i soldati comandino, e che i duci
ubbidiscano.
FORTEBRACCIO
O Pergola, i soldati
a cui capo son io, fur da quel Braccio
disciplinati, che per tutto ancora
con maraviglia e con terror si noma;
e non son usi a sostener gli scherni
dell'inimico.
PERGOLA
Ed io conduco genti
da me, qual ch'io mi sia, disciplinate;
e sono avvezze ad aspettar la voce
del condottiero, ed a fidarsi in lui.
MALATESTI
Dimentichiamo or noi che numerati
sono i momenti, e non ne resta alcuno
per le gare private?
SCENA III
TORELLO, e detti.
SFORZA
Ebben, Torello,
siete mutato di parer? Vedeste
l'animo ardente de' soldati?
TORELLO
Il vidi;
udii le grida del furor, le grida
della fiducia e del coraggio; e il viso
rivolsi altrove, onde nessun dei prodi
vi leggesse il pensier che mal mio grado
vi si pingeva: era il pensier che false
son quelle gioie e brevi; era il pensiero
del valor che si perde.
Io cavalcai
lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,
quanto lunge potei; rividi quelle
macchie che sorgon qua e là dal suolo
uliginoso che la via fiancheggia:
là son gli agguati, il giurerei.
Rividi
quel doppio cinto di muniti carri,
onde assiepato è del nemico il campo.
Se l'urto primo ei sostener non puote,
ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne
preparato al secondo.
Un novo è questo
trovato di costui, per torre ai suoi
il pensier primo che s'affaccia ai vinti,
il pensier della fuga.
Ad atterrarlo
due colpi è d'uopo: ei con un sol ne atterra.
Perché, non giova chiuder gli occhi al vero,
non son più quelle guerre, in cui pe' figli
e per le donne e per la patria terra
e per le leggi che la fan sì cara,
combatteva il soldato; in cui pensava
il capitano a statuirgli un posto,
egli a morirvi.
A mercenarie genti
noi comandiamo, in cui più di leggieri
trovi il furor che la costanza: e' corrono
volonterosi alla vittoria incontro;
ma s'ella tarda, se son posti a lungo
tra la fuga e la morte, ah! dubbia è troppo
la scelta di costoro.
E questo evento
più che tutt'altro antiveder ci è forza.
Vil tempo in cui tanto al comando cresce
difficoltà, quanto la gloria scema!
Io lo ripeto, non è questo un campo
di battaglia per noi.
MALATESTI
Dunque?
TORELLO
Si muti.
Non siam pari al nemico; andiamo in luogo
dove lo siam.
MALATESTI
Così Maclodio a lui
lascerem quasi in dono? I valorosi,
che vi son chiusi, non potran tenersi
più che due giorni.
TORELLO
Il so; ma non si tratta
né d'un presidio qui, né d'una terra;
trattasi dello Stato.
SFORZA
E di che mai
se non di terre si compon lo Stato?
E quelle che indugiando, ad una ad una
già lasciammo sfuggir, quante son elle?
Casal, Bina, Quinzano e...
e se vi piace
noveratele voi, ché in tal pensiero
troppo caldo io mi sento.
Il nobil manto,
che a noi fidato ha il Duca, a brano a brano
soffriam così che in nostra man si scemi,
e che a lui messo omai da noi non giunga
che una ritratta non gli annunzi.
Intanto
superbisce il nemico, e ai nostri indugi
sfacciato insulta.
TORELLO
E questo è segno, o Sforza,
ch'ei brama una battaglia.
SFORZA
Oh, che puot'egli
bramar di più, che innanzi a sé cacciarne
con la spada nel fodero?
PERGOLA
Che puote
bramar di più? Dirovvel io: che noi
tutto arrischiam l'esercito in un campo
ov'egli ha preso ogni vantaggio.
Or questo
poniamo in salvo; ché le terre è lieve
riprender con gli eserciti.
FORTEBRACCIO
Con quali?
Non, per mia fé, con quelli a cui s'insegna
a diloggiar quando il nemico appare,
a non mirarlo in faccia, a lasciar soli
nelle angosce i compagni; ma con genti
quali or le abbiam d'ira e di scorno accese,
impazienti di pugnar, con queste
si riparan le perdite, e si vince.
Che dobbiamo aspettar? Brandi arrotati,
perché lasciarli irrugginir?
SFORZA
Torello,
voi temete d'agguati? Anch'io dirovvi:
non son più quelle guerre, in cui minuti
drappelletti movean, con l'occhio teso
ogni macchia guatando, ogni rivolta.
Un'oste intera sopra un'oste intera
oggi rovescerassi: un tanto stuolo
si vince sì, ma non s'accerchia; ei spazza
innanzi a sé gl'intoppi, e fin ch'è unito,
dovunque sia, sul suo terreno è sempre.
FORTEBRACCIO
(a Pergola e Torello)
Siete convinti?
TORELLO
Sofferite...
MALATESTI
Io il sono.
Omai vano è più dir.
Certo io mi tengo
che tutti andrete in operar d'accordo
più che non foste in divisar disgiunti.
Poi che un partito e l'altro ha il suo periglio,
scegliamo almen quel che più gloria ha seco.
Noi darem la battaglia: alla frontiera
io mi pongo coi miei; Sforza vien dietro
e chiude la vanguardia; il mezzo tenga
della battaglia Fortebraccio: e il nostro
ufizio sia con impeto serrarci
addosso al campo del nemico, aprirlo,
e spingerci a Maclodio.
Voi, Torello,
e voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra
questa giornata, io pongo in vostra mano
l'assicurarla: voi, discosti alquanto,
il retroguardo avrete.
O la fortuna,
pur come suol, seconda i valorosi,
e rompiamo il nemico; e voi piombate
sopra i dispersi.
Ma s'ei dura incontro
l'impeto nostro, e ci vedete entrati
donde uscir soli non possiam; venite
a noi, reggete i periglianti amici;
ché, per cosa che avvenga, io vi prometto,
retrocedere a voi non ci vedrete.
FORTEBRACCIO
Non ci vedrete, no.
SFORZA
Siatene certi.
FORTEBRACCIO
Sia lode al ciel, combatteremo alfine:
mai non accadde a capitan, ch'io sappia,
per fare il suo mestier contender tanto.
PERGOLA
O Carmagnola, tu pensasti che oggi
il giovenil corruccio alla prudenza
prevarrebbe dei vecchi; e ti apponesti.
FORTEBRACCIO
Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi:
ella cresce con gli anni, e tanto cresce
che alfin diventa...
PERGOLA
Ebben, dite.
FORTEBRACCIO
Paura;
poi che volete ad ogni modo udirlo.
MALATESTI
Fortebraccio!
PERGOLA
L'hai detto.
Ad un soldato
che già più volte avea pugnato e vinto
prima che tu vedessi una bandiera,
oggi tu il primo hai detto...
MALATESTI
Da quel lato,
presso Maclodio è posto il Carmagnola.
Quegli fra noi che avere oggi pensasse
altro nemico che costui, sarebbe
un traditor: pensatamente il dico.
PERGOLA
Ritratto il voto che dapprima io diedi;
e il do per la battaglia: ella fia quale
predissi allor; ma non importa.
Allora
potea schifarsi; or la domando io primo:
io son per la battaglia.
MALATESTI
Accetto il voto
ma non l'augurio: lo distorni il cielo
sul capo del nemico.
PERGOLA
O Fortebraccio,
tu m'hai offeso.
MALATESTI
Or via...
FORTEBRACCIO
Se così credi,
sia pur così: perché a te spiaccia, o a quale
altro pur sia, non crederai ch'io voglia
una parola ritirar che uscita
dalle labbra mi sia.
MALATESTI
(in atto di partire)
Chi resta fido
a Filippo, mi segua.
PERGOLA
Io vi prometto
che oggi darem battaglia, e che di noi
non mancheravvi alcuno.
O Fortebraccio,
non giunger onta ad onta; io ti ripeto,
tu m'hai offeso.
Ascolta, io t'offro il modo
che tu mi renda l'onor mio, serbando
intatto il tuo.
FORTEBRACCIO
Che vuoi?
PERGOLA
Dammi il tuo posto.
Ovunque tu combatta, a tutti è noto
che tu volesti la battaglia, ed io,
io devo ad ogni modo essere in luogo
che l'amico e il nemico aperto veda
ch'io non ho...
tu m'intendi.
FORTEBRACCIO
Io son contento.
Prendi quel posto; poi che il brami, è tuo.
O forte, or m'odi: ora m'è dolce il dirti
ch'io non t'offesi, no: per la fortuna
del signor nostro tu soverchio temi:
questo dir volli.
Ma il timor che nasce
in cor di quel che ama la vita, e l'ama
più dell'onor, ma che nel cor del prode
muore al primo periglio ch'egli affronta,
e mai più non risorge, o valoroso,
pensavi tu?...
PERGOLA
Nulla pensai: tu parli
da generoso qual tu sei.
(a Malatesti)
Signore,
voi consentite al cambio?...
MALATESTI
Io ci consento;
e son ben lieto di veder tant'ira
tutta cader sovra il nemico.
TORELLO
(allo Sforza)
Io stava
col Pergola da prima; ingiusto, io spero,
non vi parrà...
SFORZA
V'intendo; e con lui state
alla vanguardia: ultimi e primi, tutti
combatterem; poco m'importa il dove.
MALATESTI
Non più ritardi.
Iddio sarà coi prodi.
(partono)
SCENA IV
Campo veneziano.
Tenda del Conte.
IL CONTE, un SOLDATO
SOLDATO
Signor, l'oste nemica è in movimento:
la vanguardia è sull'argine, e s'avanza.
IL CONTE
I condottieri dove son?
SOLDATO
Qui tutti
fuor della tenda i principali; e stanno
gli ordin vostri aspettando.
IL CONTE
Entrino tosto.
(parte il Soldato)
SCENA V
IL CONTE
Eccolo il dì ch'io bramai tanto.
- Il giorno
ch'ei non mi volle udir, che invan pregai,
che ogni adito era chiuso, e che deriso,
solo, io partiva, e non sapea per dove,
oggi con gioia io lo rammento alfine.
Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,
ma condottier de' tuoi nemici, ingrato!
Io lo dicea; ma allor pareva un sogno,
un sogno della rabbia; ed ora è vero.
Gli sono a fronte: ecco mi balza il core:
io sento il dì della battaglia...
E s'io...
No: la vittoria è mia.
SCENA VI
IL CONTE, GONZAGA, ORSINI, TOLENTINO,
altri CONDOTTIERI
IL CONTE
Compagni, udiste
la lieta nova: l'inimico ha fatto
ciò ch'io volea; così voi pur farete.
E il sol che sorge, a ognun di noi, lo giuro,
il più bel dì di nostra vita apporta.
Non è tra voi chi una battaglia aspetti
per farsi un nome, il so; ma questa sera
l'avrem più glorioso; e la parola
che al nostro orecchio sonerà più grata,
omai fia quella di Maclodio.
Orsini,
son pronti i tuoi?
ORSINI
Sì.
IL CONTE
Corri all'imboscate
sulla destra dell'argine; raggiungi
quei che vi stanno, e prendine il comando.
E tu a sinistra, o Tolentino.
E quindi
non vi movete, che non sia lo scontro
incominciato; quando ei fia, correte
alle spalle al nemico.
Udite entrambi.
Se dell'insidie egli s'avvede, e tenta
ritrarsi, appena avrà voltato il dorso,
siategli addosso uniti: io son con voi.
Provochi, o fugga, oggi dev'esser vinto.
ORSINI
E lo sarà.
(parte)
TOLENTINO
T'ubbidirem, vedrai.
(parte)
IL CONTE
(agli altri)
Tu, Gonzaga, al mio fianco.
I posti a voi
assegnerò sul campo.
Andiam, compagni;
si resista al prim'urto: il resto è certo.
CORO
S'ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d'ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l'aria un vessillo;
quindi un altro s'avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade rispingon le spade;
l'un dell'altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
- Chi son essi? Alle belle contrade
qual ne venne straniero a far guerra?
Qual è quei che ha giurato la terra
dove nacque far salva, o morir?
- D'una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti: fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d'essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nudrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall'altre ha divisa,
e ricinta con l'alpe e col mar.
- Ahi! Qual d'essi il sacrilego brando
trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando
la cagione esecranda qual è?
- Non la sanno: a dar morte, a morire
qui senz'ira ognun d'essi è venuto;
e venduto ad un duce venduto,
con lui pugna, e non chiede il perché.
- Ahi sventura! Ma spose non hanno,
non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno
dall'ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
della tomba già schiudon la mente,
ché non tentan la turba furente
con prudenti parole placar?
- Come assiso talvolta il villano
sulla porta del cheto abituro,
segna il nembo che scende lontano
sopra i campi che arati ei non ha;
così udresti ciascun che sicuro
vede lungi le armate coorti,
raccontar le migliaia de' morti,
e la pieta dell'arse città.
Là, pendenti dal labbro materno
vedi i figli che imparano intenti
a distinguer con nomi di scherno
quei che andranno ad uccidere un dì;
qui le donne alle veglie lucenti
de' monili far pompa e de' cinti,
che alle donne diserte de' vinti
il marito o l'amante rapì.
- Ahi sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d'uccisi;
tutta è sangue la vasta pianura;
cresce il grido, raddoppia il furor.
Ma negli ordini manchi e divisi
mal si regge, già cede una schiera;
già nel volgo che vincer dispera,
della vita rinasce l'amor.
Come il grano lanciato dal pienoventilabro nell'aria si spande;tale intorno per l'ampio terreno
si sparpagliano i vinti guerrier.
Ma improvvise terribili bande
ai fuggenti s'affaccian sul calle;
ma si senton più presso alle spalle
anelare il temuto destrier.
Cadon trepidi a pié de' nemici,
gettan l'arme, si danno prigioni:
il clamor delle turbe vittrici
copre i lai del tapino che mor.
Un corriero è salito in arcioni;
prende un foglio, il ripone, s'avvia,
sferza, sprona, divora la via;
ogni villa si desta al rumor.
Perché tutti sul pesto cammino
dalle case, dai campi accorrete?
Ognun chiede con ansia al vicino,
che gioconda novella recò?
Donde ei venga, infelici, il sapete,
e sperate che gioia favelli?
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
questa orrenda novella vi do.
Odo intorno festevoli gridi;
s orna il tempio, e risona del canto;
già s'innalzan dai cori omicidi
grazie ed inni che abbomina il ciel.
Giù dal cerchio dell'alpi frattanto
lo straniero gli sguardi rivolve;
vede i forti che mordon la polve,
e li conta con gioia crudel.
Affrettatevi, empite le schiere,
sospendete i trionfi ed i giochi,
ritornate alle vostre bandiere:
lo straniero discende; egli è qui.
Vincitor! Siete deboli e pochi?
Ma per questo a sfidarvi ei discende;
e voglioso a quei campi v'attende
dove il vostro fratello perì.
Tu che angusta a' tuoi figli parevi,
tu che in pace nutrirli non sai,
fatal terra, gli estrani ricevi:
tal giudizio comincia per te.
Un nemico che offeso non hai,
a tue mense insultando s'asside;
degli stolti le spoglie divide;
toglie il brando di mano a' tuoi re.
Stolto anch'esso! Beata fu mai
gente alcuna per sangue ed oltraggio?
Solo al vinto non toccano i guai;
torna in pianto dell'empio il gioir.
Ben talor nel superbo viaggio
non l'abbatte l'eterna vendetta;
ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
ma lo coglie all'estremo sospir.
Tutti fatti a sembianza d'un Solo,
figli tutti d'un solo Riscatto,
in qual ora, in qual parte del suolo,
trascorriamo quest'aura vital,
siam fratelli; siam stretti ad un patto:
maledetto colui che l'infrange,
che s'innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal!
FINE DELL'ATTO SECONDO
ATTO TERZO
SCENA I
Tenda del Conte.
IL CONTE e IL PRIMO COMMISSARIO
IL CONTE
Siete contenti?
PRIMO COMMISSARIO
Udir l'alto trionfo
della patria; vederlo; essere i primi
a salutarla vincitrice; a lei
darne l'annunzio; assistere alla fuga
de' suoi nemici; e mentre al nostro orecchio
rimbomba il suon della minaccia ancora,
veder la gloria sua fuor del periglio
uscir raggiante e più che mai serena,
come un sol dalle nubi; è gioia questa
forse, o signor, cui la parola arrivi?
Voi la vedete: essa vi sia misura
della riconoscenza; e ben ci tarda
di rendervi tai grazie in altro nome
che non è il nostro, e del Senato a voi
riferir la letizia e il guiderdone.
Ei sarà pari al merto.
IL CONTE
Io già lo tengo.
Venezia è salva; ho liberata in parte
una grande promessa; ho fatto alfine
risovvenir di me tal che m'avea
dimenticato; ho vinto.
PRIMO COMMISSARIO
Ed or si vuole
assicurar della vittoria il frutto.
IL CONTE
....
Questa è mia cura.
PRIMO COMMISSARIO
Or che dal vostro brando
sgombra è la via, noi ci aspettiam che tutta
voi la farete, né starem fin tanto
che non si giunga del nemico al trono.
IL CONTE
Quando fia tempo.
PRIMO COMMISSARIO
E che? Voi non volete
inseguire i fuggenti?
IL CONTE
Ora non voglio.
PRIMO COMMISSARIO
Ma il Senato lo crede...
E noi ben certi
che pari all'alta occasion, che pari
alla vittoria il vostro ardor saria
nel proseguirla, abbiamo a lui...
IL CONTE
Vi siete
troppo affrettati.
PRIMO COMMISSARIO
E che dirà mai quando
udrà che ancor siam qui?
IL CONTE
Dirà, che il meglio
è di fidarsi a chi per lui già vinse.
PRIMO COMMISSARIO
Ma...
che pensate far?
IL CONTE
Ve l'avrei detto
più volentier pochi momenti or sono;
pur convien ch'io vel dica.
Io non mi voglio
allontanar di qui pria ch'espugnate
non sian le rocche che ci stan d'intorno.
Voglio un solo nemico, e quello in faccia.
PRIMO COMMISSARIO
Or dunque i nostri voti...
IL CONTE
I vostri voti
più arditi son del brando mio, più rapidi
de' miei cavalli;...
ed io...
la prima volta
è che mi sento dir pur ch'io m'affretti.
PRIMO COMMISSARIO
Ma pensaste abbastanza?
IL CONTE
E che! Sì nova
mi giunge una vittoria? E vi par egli
che questa gioia mi confonda il core
tanto che il primo mio pensier non sia
per ciò che resta a far?
SCENA II
IL SECONDO COMMISSARIO, e detti.
SECONDO COMMISSARIO
(al Conte)
Signor, se tosto
non correte al riparo, una sfacciata
perfidia s'affatica a render vana
sì gran vittoria; e già l'ha fatto in parte.
IL CONTE
Come?
SECONDO COMMISSARIO
I prigioni escon del campo a torme;
i condottieri ed i soldati a gara
li mandan sciolti, né tener li puote
fuor che un vostro comando.
IL CONTE
Un mio comando?
SECONDO COMMISSARIO
Esitereste a darlo?
IL CONTE
È questo un uso
della guerra, il sapete.
È così dolce
il perdonar quando si vince! e l'ira
presto si cambia in amistà ne' cori
che batton sotto il ferro.
Ah! non vogliate
invidiar sì nobil premio a quelli
che hanno per voi posta la vita, ed oggi
son generosi, perché ier fur prodi.
SECONDO COMMISSARIO
Sia generoso chi per sé combatte,
signor; ma questi, e ad onor l'hanno, io credo,
al nostro soldo han combattuto; e nostri
sono i prigioni.
IL CONTE
E voi potete adunque
creder così: quei che gli han visti a fronte,
che assaggiaro i lor colpi, e che a fatica
su lor le mani insanguinate han poste,
nol crederan sì di leggieri.
PRIMO COMMISSARIO
È questa
dunque una giostra di piacer? Non vince
per conservar, Venezia? E vana al tutto
fia la vittoria?
IL CONTE
Io già l'udii, di novo
la devo udir questa parola: amara,
importuna mi vien come l'insetto
che, scacciato una volta, anco a ronzarmi
torna sul volto...
La vittoria è vana?
Il suol d'estinti ricoperto, sparso
e scoraggiato il resto...
il più fiorente
esercito! col qual, se unito ancora
e mio foss'egli, e mio davver, torrei
a correr tutta Italia; ogni disegno
dell'inimico al vento; anche il pensiero
dell'offesa a lui tolto; a stento usciti
dalle mie mani, e di fuggir contenti
quattro tai duci, contro a' quai pur ieri
era vanto il resistere; svanito
mezzo il terror di que' gran nomi; ai nostri
raddoppiato l'ardir che agli altri è scemo;
tutta la scelta della guerra in noi;
nostre le terre ch'egli han sgombre...
è nulla?
Pensate voi che torneranno al Duca
que' prigioni? che l'amino? che a loro
caglia di lui più che di voi? ch'egli abbiano
combattuto per esso? Han combattuto
perché all'uomo che segue una bandiera,
grida una voce imperiosa in core:
combatti, e vinci.
E' son perdenti; e' sono
tornati in libertà; si venderanno...
oh! tale ora è il soldato...
a chi primiero
li comprerà...
Comprateli, e son vostri.
PRIMO COMMISSARIO
Quando assoldammo chi dovea con essi
pugnar, comprarli noi credemmo allora.
SECONDO COMMISSARIO
Signor, Venezia in voi si fida; in voi
vede essa un figlio; e quanto all'util suo,
alla sua gloria può condur, s'aspetta
che si faccia da voi.
IL CONTE
Tutto ch'io posso.
SECONDO COMMISSARIO
Ebben, che non potete in questo campo?
IL CONTE
Quel che chiedete: un uso antico, un uso
caro ai soldati violar non posso.
SECONDO COMMISSARIO
Voi cui nulla resiste, a cui sì pronto
tien dietro ogni voler, sì ch'uom non vede
se per amore o per timor si pieghi,
voi non potreste in questo campo, voi
fare una legge, e mantenerla?
IL CONTE
Io dissi
ch'io non potea: meglio or dirò: nol voglio.
Non più parole; con gli amici è questo
il mio costume antico, ai giusti preghi
soddisfar tosto e lietamente, e gli altri
apertamente rifiutar.
Soldati!
SECONDO COMMISSARIO
Ma...
che disegno è il vostro?
IL CONTE
Or lo vedrete.
(a un Soldato che entra)
Quanti prigion restano ancora?
IL SOLDATO
Io credo
quattrocento, signor.
IL CONTE
Chiamali...
chiama
i più distinti...
quei che incontri i primi:
vengan qui tosto.
(parte il Soldato)
Io 'l potrei certo...
Ov'io
dessi un tal cenno, non s'udria nel campo
una repulsa; ma i miei figli, i miei
compagni del periglio e della gioia,
quei che fidano in me, che un capitano
credon seguir sempre a difender pronto
l'onor della milizia ed il vantaggio,
io tradirli così! Farla più serva,
più vil, più trista che non è!...
Signori,
fidente io son, come i soldati il sono;
ma se cosa or da me chiedete a forza,
che mi tolga l'amor de' miei compagni,
se mi volete separar da quelli,
e a tal ridurmi ch'io non abbia appoggio
altro che il vostro, mio malgrado il dico,
m'astringerete a dubitar...
SECONDO COMMISSARIO
Che dite!
SCENA III
I PRIGIONIERI, tra i quali PERGOLA figlio, e detti.
IL CONTE
(ai Prigionieri)
O prodi indarno, o sventurati!...
A voi
dunque fortuna è più crudel? voi soli
siete alla trista prigionia serbati?
UN PRIGIONIERE
Tale, eccelso signor, non era il nostro
presentimento allor che a voi dinanzi
fummo chiamati, udir ci parve il messo
di nostra libertà.
Già tutti l'hanno
ricovrata color che agli altri duci,
minor di voi, caddero in mano; e noi...
IL CONTE
Voi, di chi siete prigionier?
IL PRIGIONIERE
Noi fummo
gli ultimi a render l'armi.
In fuga o preso
già tutto il resto, ancor per pochi istanti
fu sospesa per noi l'empia fortuna
della giornata; alfin voi feste il cenno
d'accerchiarci, o signor: soli, non vinti,
ma reliquie de' vinti, al drappel vostro...
IL CONTE
Voi siete quelli? Io son contento, amici,
di rivedervi; e posso ben far fede
che pugnaste da prodi: e se tradito
tanto valor non era, e pari a voi
sortito aveste un condottier, non era
piacevol tresca esservi a fronte.
IL PRIGIONIERE
Ed ora
...
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