IL CONTE DI CARMAGNOLA, di Alessandro Manzoni - pagina 5
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L'ira, che addoppia l'ardimento al prode
che si sente percosso, ei non la trova
che ne' prosperi casi: impaziente
d'ogni dimora ove il guadagno è certo,
ma ne' perigli irresoluto: a' suoi
soldati ascoso, del pugnar non vuole
fuor che le prede.
Ei nella rocca intanto,
o nelle ville rintanato attende
a novellar di cacce e di banchetti,
a interrogar tremando un indovino.
Ora è il tempo di vincerlo: cogliete
questo momento: ardir prudenza or fia.
IL DOGE
Conte, su questo fedel vostro avviso
tosto il Senato prenderà partito;
ma il segua, o no, v'è grato; e vede in esso,
non men che il senno, il vostro amor per noi.
(parte il Conte)
SCENA III
IL DOGE, e SENATORI
IL DOGE
Dissimil certo da sì nobil voto
nessun s'aspetta il mio.
Quando il consiglio
più generoso è il più sicuro, in forse
chi potria rimaner? Porgiam la mano
al fratello che implora: un sacro nodo
stringe i liberi Stati: hanno comuni
tra lor rischi e speranze; e treman tutti
dai fondamenti al rovinar d'un solo.
Provocator dei deboli, nemico
d'ognun che schiavo non gli sia, la pace
con tanta istanza a che ci chiede il Duca?
Perché il momento della guerra ei vuole
sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.
Il nostro egli è, se non ci falla il senno,
né l'animo.
Ei ci vuole ad uno ad uno;
andiamgli incontro uniti.
Ah! saria questa
la prima volta che il Leon giacesse
al suon delle lusinghe addormentato.
No; fia tentato invan.
Pongo il partito
che si stringa la lega, e che la guerra
tosto al Duca s'intimi, e delle nostre
genti da terra abbia il comando il Conte.
MARINO
Contro sì giusta e necessaria guerra
io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,
che il buon successo ad accertar si pensi.
La metà dell'impresa è nella scelta
del capitano.
Io so che vanta il Conte
molti amici tra noi; ma d'una cosa
mi rendo certo, che nessun di questi
l'ama più della patria; e per me, quando
di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.
Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,
serenissimo Doge, oppormi a voi,
non è il duce costui quale il richiede
la gravità, l'onor di questo Stato.
Non cercherò perché lasciasse il Duca.
Ei fu l'offeso; e sia pur ver: l'offesa
è tal che accordo non può darsi; e questo
consento: io giuro nelle sue parole.
Ma queste sue parole importa assai
considerarle, perché tutto in esse
ei s'è dipinto; e governar sì ombroso,
sì delicato e violento orgoglio,
o Senatori, non mi par che sia
minor pensier della guerra istessa.
Finor fu nostra cura il mantenerci
la riverenza de' soggetti; or altro
studio far si dovria, come costui
riverir degnamente.
E quando egli abbia
la man nell'elsa della nostra spada,
potrem noi dir d'aver creato un servo?
Dovrà por cura di piacergli ognuno
di noi? Se nasce un disparer, fia degno
che nell'arti di guerra il voler nostro
a quel d'un tanto condottier prevalga?
S'egli erra, e nostra è dell'error la pena,
ché invincibil nol credo, io vi domando
se fia concesso il farne lagno; e dove
si riscotan per questo onte e dispregi,
che far? soffrirli? Non v'aggrada, io stimo,
questo partito; risentirci? e dargli
occasion che, in mezzo all'opra, e nelle
più difficili strette ei ci abbandoni
sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,
forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli
quanto di noi pur sa, magnificando
la nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?
IL DOGE
Il Conte un prence abbandonò; ma quale?
un che da lui tenea lo Stato, e a cui
quindi ei minor non potea mai stimarsi;
un da pochi aggirato, e questi vili;
timido e stolto, che non seppe almeno
il buon consiglio tor della paura,
nasconderla nel core, e starsi all'erta;
ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:
tale è il signor che inimicossi il Conte.
Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo
che gli somigli.
Se destrier, correndo,
scosse una volta un furibondo e stolto
fuor dell'arcione, e lo gettò nel fango;
non fia per questo che salirlo ancora
un cauto e franco cavalier non voglia.
MARINO
Poiché sì certo è di quest'uomo il Doge,
più non m'oppongo; e questo a lui sol chiedo:
vuolsi egli far mallevador del Conte?
IL DOGE
A sì preciso interrogar, preciso
risponderò: mallevador pel Conte,
né per altr'uom che sia, certo, io non entro;
dell'opre mie, de' miei consigli il sono:
quando sien fidi, ei basta.
Ho io proposto
che guardia al Conte non si faccia, e a lui
si dia l'arbitrio dello Stato in mano?
Ei diritto, anderà; tale io diviso.
Ma s'ei si volge al rio sentier, ci manca
occhio che tosto ce ne faccia accorti,
e braccio che invisibile il raggiunga?
MARCO
Perché i princìpi di sì bella impresa
contristar con sospetti? E far disegni
di terrori e di pene, ove null'altro
che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio
che all'util suo sola una via gli è schiusa;
lo star con noi.
Ma deggio dir qual cosa
dee sovra ogni altra far per lui fidanza?
La gloria ond'egli è già coperto, e quella
a cui pur anco aspira; il generoso,
il fiero animo suo.
Che un giorno ei voglia
dall'altezza calar de' suoi pensieri,
e riporsi tra i vili, esser non puote.
Or, se prudenza il vuol, vegli pur l'occhio;
ma dorma il cor nella fiducia; e poi
che in così giusta e grave causa, un tanto
dono ci manda Iddio; con quella fronte,
e con quel cor che si riceve un dono,
sia da noi ricevuto.
MOLTI SENATORI
Ai voti, ai voti!
IL DOGE
Si raccolgano i voti; e ognun rammenti
quanto rilevi che di qui non esca
motto di tal deliberar, né cenno
che presumer lo faccia.
In questo Stato
pochi il segreto hanno tradito, e nullo
fu tra quei pochi che impunito andasse.
SCENA IV
Casa del Conte.
IL CONTE
Profugo, o condottiero.
O come il vecchio
guerrier nell'ozio i giorni trar, vivendo
della gloria passata, in atto sempre
di render grazie e di pregar, protetto
dal braccio altrui, che un dì potria stancarsi
e abbandonarmi; o ritornar sul campo,
sentir la vita, salutar di nuovo
la mia fortuna, delle trombe al suono
destarmi, comandar; questo è il momento
che ne decide.
Eh! se Venezia in pace
riman, degg'io chiuso e celato ancora
in questo asilo rimaner, siccome
l'omicida nel tempio? E chi d'un regno
fece il destin, non potrà farsi il suo?
Non troverò tra tanti prenci, in questa
divisa Italia, un sol che la corona,
onde il vil capo di Filippo splende,
ardisca invidiar? che si ricordi
ch'io l'acquistai, che dalle man di dieci
tiranni io la strappai, ch'io la riposi
su quella fronte, ed or null'altro agogno
che ritorla all'ingrato, e farne un dono
a chi saprà del braccio mio valersi?
SCENA V
MARCO, e IL CONTE
IL CONTE
O dolce amico; ebben qual nova arrechi?
MARCO
La guerra è risoluta, e tu sei duce.
IL CONTE
Marco, ad impresa io non m' accinsi mai
con maggior cor che a questa: una gran fede
poneste in me: ne sarò degno, il giuro.
Il giorno è questo che del viver mio
ferma il destin: poi che quest'alma terra
m'ha nel suo glorioso antico grembo
accolto, e dato di suo figlio il nome,
esserlo io vo' per sempre; e questo brando
io consacro per sempre alla difesa
e alla grandezza sua.
MARCO
Dolce disegno!
non soffra il ciel che la fortuna il rompa...
o tu medesmo.
IL CONTE
Io? come?
MARCO
Al par di tutti
i generosi, che giovando altrui
nocquer sempre a sé stessi, e superate
tutte le vie delle più dure imprese,
caddero a un passo poi, che facilmente
l'ultimo de' mortali avria varcato.
Credi ad un uom che t'ama: i più de' nostri
ti sono amici; ma non tutti il sono.
Di più non dico, né mi lice; e forse
troppo già dissi.
Ma la mia parola
nel fido orecchio dell'amico stia,
come nel tempio del mio cor, rinchiusa.
IL CONTE
Forse io l'ignoro? E forse ad uno ad uno
non so quai siano i miei nemici?
MARCO
E sai
chi te gli ha fatti? In pria l'esser tu tanto
maggior di loro, indi lo sprezzo aperto
che tu ne festi in ogni incontro.
Alcuno
non ti nocque finor; ma chi non puote
nocer col tempo? Tu non pensi ad essi,
se non allor che in tuo cammin li trovi;
ma pensan essi a te, più che non credi.
Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode
nell'odio.
Or tu non irritarlo: cerca
di spegnerlo; tu il puoi forse.
Consiglio
di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei,
io non ti do, né tal da me l'aspetti.
Ma tra la noncuranza e la servile
cautela avvi una via; v'ha una prudenza
anche pei cor più nobili e più schivi;
v'ha un'arte d'acquistar l'alme volgari,
senza discender fino ad esse: e questa
nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.
IL CONTE
Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio
le mille volte a me medesmo io il diedi;
e sempre all'uopo ei mi fuggì di mente;
e sempre appresi a danno mio che dove
semina l'ira, il pentimento miete.
Dura scola ed inutile! Alfin stanco
di far leggi a me stesso, e trasgredirle,
tra me fermai che, s'egli è mio destino
ch'io sia sempre in tai nodi avviluppato
che mestier faccia a distrigarli appunto
quella virtù che più mi manca, s'ella
è pur virtù; se è mio destin che un giorno
io sia colto in tai nodi, e vi perisca;
meglio è senza riguardi andargli incontro.
Io ne appello a te stesso: i buoni mai
non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.
E giurerei che un sol non è tra loro
cui tu degni, non dico accarezzarlo,
ma non dargli a veder che lo dispregi.
Rispondi.
MARCO
È ver: se v'ha mortal di cui
la sorte invidii, è sol colui che nacque
in luoghi e in tempi ov'uom potesse aperto
mostrar l'animo in fronte, e a quelle prove
solo trovarsi ove più forza è d'uopo
che accorgimento: quindi, ove convenga
simular, non ti faccia maraviglia
che poco esperto io sia.
Pensa per altro
quanto più m'è concesso impunemente
fallire in ciò che a te; che poche vie
al pugnal d'un nemico offre il mio petto;
che me contra i privati odii assecura
la pubblica ragion; ch'io vesto il saio
stesso di quei che han la mia sorte in mano.
Ma tu stranier, tu condottiero al soldo
di togati signor, tu cui lo Stato
dà tante spade per salvarlo, e niuna
per salvar te...
fa che gli amici tuoi
odan sol le tue lodi; e non dar loro
la trista cura di scolparti.
Pensa
che felici non son, se tu nol sei.
Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi,
che ancor più addentro nel tuo cor risoni?
Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia
a cui tu se' sola speranza: il cielo
dié loro un'alma per sentir la gioia,
un'alma che sospira i dì sereni,
ma che nulla può far per conquistarli.
Tu il puoi per esse; e lo vorrai.
Non dire
che il tuo destin ti porta; allor che il forte
ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
signor di sé che non pensava in prima.
IL CONTE
Tu hai ragione.
Il ciel si prende al certo
qualche cura di me, poiché m'ha dato
un tale amico.
Ascolta; il buon successo
potrà, spero, placar chi mi disama:
tutto in letizia finirà.
Tu intanto
se cosa odi di me che ti dispiaccia,
l'indole mia ne incolpa, un improvviso
impeto primo, ma non mai l'obblio
di tue parole.
MARCO
Or la mia gioia è intera.
Va, vinci, e torna.
Oh come atteso e caro
verrà quel messo che la gloria tua
con la salute della patria annunzi!
FINE DELL'ATTO PRIMO
ATTO SECONDO
SCENA I
Parte, del campo ducale con tende.
MALATESTI e PERGOLA
PERGOLA
Sì, condottier; come ordinaste, in pronto
son le mie bande.
A voi commise il Duca
l'arbitrio della guerra: io v'ho ubbidito,
ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,
non diam battaglia.
MALATESTI
Anzian d'anni e di fama,
o Pergola, qui siete; io sento il peso
del vostro voto; ma cangiar non posso
il mio.
Voi lo vedete; il Carmagnola
ci provoca ogni dì: quasi ad insulto
sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto:
e due partiti ci rimangon soli;
o lui cacciarne, o abbandonar la terra,
che saria danno e scorno.
PERGOLA
A pochi è dato,
a pochi egregi il dubitar di novo,
quando han già detto: ell'è così.
S'io parlo
è che tale vi tengo.
Italia forse
mai da' barbari in poi non vide a fronte
due sì possenti eserciti: ma il nostro
l'ultimo sforzo è di Filippo.
In ogni
fatto di guerra entra fortuna, e sempre
vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando
ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi
dargliene più ch'ella non chiede; e questo
esercito con cui tutto possiamo
salvar, ma che perduto in una volta
mai più rifar non si potria, non dèssi
come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
avventurarlo in un sì piccol campo,
e in un campo mal noto, e quel che è peggio
noto al nemico.
Ei qui ci trasse: un torto
argin divide le due schiere: a destra
e a sinistra paludi, in esse sparsi
i suoi drappelli; e noi fuori de' nostri
alloggiamenti non teniamo un palmo
pur di terren.
Credete ad un che l'arti
conosce di costui, che ha combattuto
al fianco suo: qui c'è un'insidia.
Forse
la miglior via di guerreggiar quest'uomo
saria tenerlo a bada, aspettar tempo,
tanto che alcun dei duci ai quali è sopra
prendesse a noia il suo superbo impero;
e il fascio ch'egli or nella mano ha stretto
si rallentasse alfin.
Pur, se a giornata
venir si deve, non è questo il loco:
usciam di qui, scegliamo un campo noi,
tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,
senza svantaggio almanco, si decida.
MALATESTI
Due grandi schiere a fronte stanno; e grande
fia la battaglia: d'una tale appunto
abbisogna Filippo.
A questi estremi
a poco a poco ei venne, e coi consigli
che or proponete: a trarnelo, fia d'uopo
appigliarci agli opposti.
Il rischio vero
sta nell'indugio; e nel mutare il campo
rovina certa.
Chi sapria dir quanto
di numero e di cor scemato ei fia,
pria che si ponga altrove? Ora egli è quale
bramar lo puote un capitan; con esso
tutto lice tentar.
SCENA II
SFORZA, FORTEBRACCIO, e detti.
MALATESTI
Ditelo, o Sforza,
e Fortebraccio; voi giungete in tempo:
ditelo voi, come trovaste il campo?
Che possiamo sperarne?
SFORZA
Ogni gran cosa.
Quando gli ordini udir, quando lor parve
che una battaglia si prepari, io vidi
un feroce tripudio: alla chiamata
esultando venièno, e col sorriso
si fean cenno a vicenda.
E quando io corsi
entro le file, ad ogni schiera un grido
s'alzava; ognuno in me fissando il guardo
parea dicesse: o condottier, v'intendo.
FORTEBRACCIO
E tai son tutti: allor ch'io venni a' miei,
tutti mi furo intorno.
Un mi dicea:
quando udremo le trombe? Altri: noi siamo
stanchi d'esser beffati; e tutti ad una
la battaglia chiedean, come già certi
dell'ottenerla, e dubbi sol del quando.
Ebben, compagni, io rispondea, se il segno
presto s'udrà, mi date voi parola
di vincere con me? Gli elmi levati
sull'aste, un grido universal d'assenso
fu la risposta, ond'io gioisco ancora.
E a tai soldati ci venia proposto
d'intimar la ritratta? e che alle mani,
che già posate sulle spade aspettano
l'ordin di sguainarle e di ferire,
si comandasse di levar le tende?
Chi fronte avria di presentarsi ad essi
con tal ordine ormai?
PERGOLA
Dal parlar vostro
un novo modo di milizia imparo;
che i soldati comandino, e che i duci
ubbidiscano.
FORTEBRACCIO
O Pergola, i soldati
a cui capo son io, fur da quel Braccio
disciplinati, che per tutto ancora
con maraviglia e con terror si noma;
e non son usi a sostener gli scherni
dell'inimico.
PERGOLA
Ed io conduco genti
da me, qual ch'io mi sia, disciplinate;
e sono avvezze ad aspettar la voce
del condottiero, ed a fidarsi in lui.
MALATESTI
Dimentichiamo or noi che numerati
sono i momenti, e non ne resta alcuno
per le gare private?
SCENA III
TORELLO, e detti.
SFORZA
Ebben, Torello,
siete mutato di parer? Vedeste
l'animo ardente de' soldati?
TORELLO
Il vidi;
udii le grida del furor, le grida
della fiducia e del coraggio; e il viso
rivolsi altrove, onde nessun dei prodi
vi leggesse il pensier che mal mio grado
vi si pingeva: era il pensier che false
son quelle gioie e brevi; era il pensiero
del valor che si perde.
Io cavalcai
lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,
quanto lunge potei; rividi quelle
macchie che sorgon qua e là dal suolo
uliginoso che la via fiancheggia:
là son gli agguati, il giurerei.
Rividi
quel doppio cinto di muniti carri,
onde assiepato è del nemico il campo.
Se l'urto primo ei sostener non puote,
ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne
preparato al secondo.
Un novo è questo
trovato di costui, per torre ai suoi
il pensier primo che s'affaccia ai vinti,
il pensier della fuga.
Ad atterrarlo
due colpi è d'uopo: ei con un sol ne atterra.
Perché, non giova chiuder gli occhi al vero,
non son più quelle guerre, in cui pe' figli
e per le donne e per la patria terra
e per le leggi che la fan sì cara,
combatteva il soldato; in cui pensava
il capitano a statuirgli un posto,
egli a morirvi.
A mercenarie genti
noi comandiamo, in cui più di leggieri
trovi il furor che la costanza: e' corrono
volonterosi alla vittoria incontro;
ma s'ella tarda, se son posti a lungo
tra la fuga e la morte, ah! dubbia è troppo
la scelta di costoro.
E questo evento
più che tutt'altro antiveder ci è forza.
Vil tempo in cui tanto al comando cresce
difficoltà, quanto la gloria scema!
Io lo ripeto, non è questo un campo
di battaglia per noi.
MALATESTI
Dunque?
TORELLO
Si muti.
Non siam pari al nemico; andiamo in luogo
dove lo siam.
MALATESTI
Così Maclodio a lui
lascerem quasi in dono? I valorosi,
che vi son chiusi, non potran tenersi
più che due giorni.
TORELLO
Il so; ma non si tratta
né d'un presidio qui, né d'una terra;
trattasi dello Stato.
SFORZA
E di che mai
se non di terre si compon lo Stato?
E quelle che indugiando, ad una ad una
già lasciammo sfuggir, quante son elle?
Casal, Bina, Quinzano e...
e se vi piace
noveratele voi, ché in tal pensiero
troppo caldo io mi sento.
Il nobil manto,
che a noi fidato ha il Duca, a brano a brano
soffriam così che in nostra man si scemi,
e che a lui messo omai da noi non giunga
che una ritratta non gli annunzi.
Intanto
superbisce il nemico, e ai nostri indugi
sfacciato insulta.
TORELLO
E questo è segno, o Sforza,
ch'ei brama una battaglia.
SFORZA
Oh, che puot'egli
bramar di più, che innanzi a sé cacciarne
con la spada nel fodero?
PERGOLA
Che puote
bramar di più? Dirovvel io: che noi
tutto arrischiam l'esercito in un campo
ov'egli ha preso ogni vantaggio.
Or questo
poniamo in salvo; ché le terre è lieve
riprender con gli eserciti.
FORTEBRACCIO
Con quali?
Non, per mia fé, con quelli a cui s'insegna
a diloggiar quando il nemico appare,
a non mirarlo in faccia, a lasciar soli
nelle angosce i compagni; ma con genti
quali or le abbiam d'ira e di scorno accese,
impazienti di pugnar, con queste
si riparan le perdite, e si vince.
Che dobbiamo aspettar? Brandi arrotati,
perché lasciarli irrugginir?
SFORZA
Torello,
voi temete d'agguati? Anch'io dirovvi:
non son più quelle guerre, in cui minuti
drappelletti movean, con l'occhio teso
ogni macchia guatando, ogni rivolta.
Un'oste intera sopra un'oste intera
oggi rovescerassi: un tanto stuolo
si vince sì, ma non s'accerchia; ei spazza
innanzi a sé gl'intoppi, e fin ch'è unito,
dovunque sia, sul suo terreno è sempre.
FORTEBRACCIO
(a Pergola e Torello)
Siete convinti?
TORELLO
Sofferite...
MALATESTI
Io il sono.
Omai vano è più dir.
Certo io mi tengo
che tutti andrete in operar d'accordo
più che non foste in divisar disgiunti.
Poi che un partito e l'altro ha il suo periglio,
scegliamo almen quel che più gloria ha seco.
Noi darem la battaglia: alla frontiera
io mi pongo coi miei; Sforza vien dietro
e chiude la vanguardia; il mezzo tenga
della battaglia Fortebraccio: e il nostro
ufizio sia con impeto serrarci
addosso al campo del nemico, aprirlo,
e spingerci a Maclodio.
Voi, Torello,
e voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra
questa giornata, io pongo in vostra mano
l'assicurarla: voi, discosti alquanto,
il retroguardo avrete.
O la fortuna,
pur come suol, seconda i valorosi,
e rompiamo il nemico; e voi piombate
sopra i dispersi.
Ma s'ei dura incontro
l'impeto nostro, e ci vedete entrati
donde uscir soli non possiam; venite
a noi, reggete i periglianti amici;
ché, per cosa che avvenga, io vi prometto,
retrocedere a voi non ci vedrete.
FORTEBRACCIO
Non ci vedrete, no.
SFORZA
Siatene certi.
FORTEBRACCIO
Sia lode al ciel, combatteremo alfine:
mai non accadde a capitan, ch'io sappia,
per fare il suo mestier contender tanto.
PERGOLA
O Carmagnola, tu pensasti che oggi
il giovenil corruccio alla prudenza
prevarrebbe dei vecchi; e ti apponesti.
FORTEBRACCIO
Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi:
ella cresce con gli anni, e tanto cresce
che alfin diventa...
PERGOLA
Ebben, dite.
FORTEBRACCIO
Paura;
poi che volete ad ogni modo udirlo.
MALATESTI
Fortebraccio!
PERGOLA
L'hai detto.
Ad un soldato
che già più volte avea pugnato e vinto
prima che tu vedessi una bandiera,
oggi tu il primo hai detto...
MALATESTI
Da quel lato,
presso Maclodio è posto il Carmagnola.
Quegli fra noi che avere oggi pensasse
altro nemico che costui, sarebbe
un traditor: pensatamente il dico.
PERGOLA
Ritratto il voto che dapprima io diedi;
e il do per la battaglia: ella fia quale
predissi allor; ma non importa.
Allora
potea schifarsi; or la domando io primo:
io son per la battaglia.
MALATESTI
Accetto il voto
ma non l'augurio: lo distorni il cielo
sul capo del nemico.
PERGOLA
O Fortebraccio,
tu m'hai offeso.
MALATESTI
Or via...
FORTEBRACCIO
Se così credi,
sia pur così: perché a te spiaccia, o a quale
altro pur sia, non crederai ch'io voglia
una parola ritirar che uscita
dalle labbra mi sia.
MALATESTI
(in atto di partire)
Chi resta fido
a Filippo, mi segua.
PERGOLA
Io vi prometto
che oggi darem battaglia, e che di noi
non mancheravvi alcuno.
O Fortebraccio,
non giunger onta ad onta; io ti ripeto,
tu m'hai offeso.
Ascolta, io t'offro il modo
che tu mi renda l'onor mio, serbando
intatto il tuo.
FORTEBRACCIO
Che vuoi?
PERGOLA
Dammi il tuo posto.
Ovunque tu combatta, a tutti è noto
che tu volesti la battaglia, ed io,
io devo ad ogni modo essere in luogo
che l'amico e il nemico aperto veda
ch'io non ho...
tu m'intendi.
FORTEBRACCIO
Io son contento.
Prendi quel posto; poi che il brami, è tuo.
O forte, or m'odi: ora m'è dolce il dirti
ch'io non t'offesi, no: per la fortuna
del signor nostro tu soverchio temi:
questo dir volli.
Ma il timor che nasce
in cor di quel che ama la vita, e l'ama
più dell'onor, ma che nel cor del prode
muore al primo periglio ch'egli affronta,
e mai più non risorge, o valoroso,
pensavi tu?...
PERGOLA
Nulla pensai: tu parli
da generoso qual tu sei.
(a Malatesti)
Signore,
voi consentite al cambio?...
MALATESTI
Io ci consento;
e son ben lieto di veder tant'ira
tutta cader sovra il nemico.
TORELLO
(allo Sforza)
Io stava
col Pergola da prima; ingiusto, io spero,
non vi parrà...
SFORZA
V'intendo; e con lui state
alla vanguardia: ultimi e primi, tutti
combatterem; poco m'importa il dove.
MALATESTI
Non più ritardi.
Iddio sarà coi prodi.
(partono)
SCENA IV
Campo veneziano.
Tenda del Conte.
IL CONTE, un SOLDATO
SOLDATO
Signor, l'oste nemica è in movimento:
la vanguardia è sull'argine, e s'avanza.
IL CONTE
I condottieri dove son?
SOLDATO
Qui tutti
fuor della tenda i principali; e stanno
gli ordin vostri aspettando.
IL CONTE
Entrino tosto.
(parte il Soldato)
SCENA V
IL CONTE
Eccolo il dì ch'io bramai tanto.
- Il giorno
ch'ei non mi volle udir, che invan pregai,
che ogni adito era chiuso, e che deriso,
solo, io partiva, e non sapea per dove,
oggi con gioia io lo rammento alfine.
Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,
ma condottier de' tuoi nemici, ingrato!
Io lo dicea; ma allor pareva un sogno,
un sogno della rabbia; ed ora è vero.
Gli sono a fronte: ecco mi balza il core:
io sento il dì della battaglia...
E s'io...
No: la vittoria è mia.
SCENA VI
IL CONTE, GONZAGA, ORSINI, TOLENTINO,
altri CONDOTTIERI
IL CONTE
Compagni, udiste
la lieta nova: l'inimico ha fatto
ciò ch'io volea; così voi pur farete.
E il sol che sorge, a ognun di noi, lo giuro,
il più bel dì di nostra vita apporta.
Non è tra voi chi una battaglia aspetti
per farsi un nome, il so; ma questa sera
l'avrem più glorioso; e la parola
che al nostro orecchio sonerà più grata,
omai fia quella di Maclodio.
Orsini,
son pronti i tuoi?
ORSINI
Sì.
IL CONTE
Corri all'imboscate
sulla destra dell'argine; raggiungi
quei che vi stanno, e prendine il comando.
E tu a sinistra, o Tolentino.
E quindi
non vi movete, che non sia lo scontro
incominciato; quando ei fia, correte
alle spalle al nemico.
Udite entrambi.
Se dell'insidie egli s'avvede, e tenta
ritrarsi, appena avrà voltato il dorso,
siategli addosso uniti: io son con voi.
Provochi, o fugga, oggi dev'esser vinto.
ORSINI
E lo sarà.
(parte)
TOLENTINO
T'ubbidirem, vedrai.
(parte)
IL CONTE
(agli altri)
Tu, Gonzaga, al mio fianco.
I posti a voi
assegnerò sul campo.
Andiam, compagni;
si resista al prim'urto: il resto è certo.
CORO
S'ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d'ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l'aria un vessillo;
quindi un altro s'avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade rispingon le spade;
l'un dell'altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
- Chi son essi? Alle belle contrade
qual ne venne straniero a far guerra?
Qual è quei che ha giurato la terra
dove nacque far salva, o morir?
- D'una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti: fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d'essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nudrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall'altre ha divisa,
e ricinta con l'alpe e col mar.
- Ahi! Qual d'essi il sacrilego brando
trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando
la cagione esecranda qual è?
- Non la sanno: a dar morte, a morire
qui senz'ira ognun d'essi è venuto;
e venduto ad un duce venduto,
con lui pugna, e non chiede il perché.
- Ahi sventura! Ma spose non hanno,
non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno
dall'ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
della tomba già schiudon la mente,
ché non tentan la turba furente
con prudenti parole placar?
- Come assiso talvolta il villano
sulla porta del cheto abituro,
segna il nembo che scende lontano
sopra i campi che arati ei non ha;
così udresti ciascun che sicuro
vede lungi le armate coorti,
raccontar le migliaia de' morti,
e la pieta dell'arse città.
Là, pendenti dal labbro materno
vedi i figli che imparano intenti
a distinguer con nomi di scherno
quei che andranno ad uccidere un dì;
qui le donne alle veglie lucenti
de' monili far pompa e de' cinti,
che alle donne diserte de' vinti
il marito o l'amante rapì.
- Ahi sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d'uccisi;
tutta è sangue la vasta pianura;
cresce il grido, raddoppia il furor.
Ma negli ordini manchi e divisi
mal si regge, già cede una schiera;
già nel volgo che vincer dispera,
della vita rinasce l'amor.
Come il grano lanciato dal pienoventilabro nell'aria si spande;tale intorno per l'ampio terreno
si sparpagliano i vinti guerrier.
Ma improvvise terribili bande
ai fuggenti s'affaccian sul calle;
ma si senton più presso alle spalle
anelare il temuto destrier.
Cadon trepidi a pié de' nemici,
gettan l'arme, si danno prigioni:
il clamor delle turbe vittrici
copre i lai del tapino che mor.
Un corriero è salito in arcioni;
prende un foglio, il ripone, s'avvia,
sferza, sprona, divora la via;
ogni villa si desta al rumor.
Perché tutti sul pesto cammino
dalle case, dai campi accorrete?
Ognun chiede con ansia al vicino,
che gioconda novella recò?
Donde ei venga, infelici, il sapete,
e sperate che gioia favelli?
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
questa orrenda novella vi do.
Odo intorno festevoli gridi;
s orna il tempio, e risona del canto;
già s'innalzan dai cori omicidi
grazie ed inni che abbomina il ciel.
Giù dal cerchio dell'alpi frattanto
lo straniero gli sguardi rivolve;
vede i forti che mordon la polve,
e li conta con gioia crudel.
Affrettatevi, empite le schiere,
sospendete i trionfi ed i giochi,
ritornate alle vostre bandiere:
lo straniero discende; egli è qui.
Vincitor! Siete deboli e pochi?
Ma per questo a sfidarvi ei discende;
e voglioso a quei campi v'attende
dove il vostro fratello perì.
Tu che angusta a' tuoi figli parevi,
tu che in pace nutrirli non sai,
fatal terra, gli estrani ricevi:
tal giudizio comincia per te.
Un nemico che offeso non hai,
a tue mense insultando s'asside;
degli stolti le spoglie divide;
toglie il brando di mano a' tuoi re.
Stolto anch'esso! Beata fu mai
gente alcuna per sangue ed oltraggio?
Solo al vinto non toccano i guai;
torna in pianto dell'empio il gioir.
Ben talor nel superbo viaggio
non l'abbatte l'eterna vendetta;
ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
ma lo coglie all'estremo sospir.
Tutti fatti a sembianza d'un Solo,
figli tutti d'un solo Riscatto,
in qual ora, in qual parte del suolo,
trascorriamo quest'aura vital,
siam fratelli; siam stretti ad un patto:
maledetto colui che l'infrange,
che s'innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal!
FINE DELL'ATTO SECONDO
ATTO TERZO
SCENA I
Tenda del Conte.
IL CONTE e IL PRIMO COMMISSARIO
IL CONTE
Siete contenti?
PRIMO COMMISSARIO
Udir l'alto trionfo
della patria; vederlo; essere i primi
a salutarla vincitrice; a lei
darne l'annunzio; assistere alla fuga
de' suoi nemici; e mentre al nostro orecchio
rimbomba il suon della minaccia ancora,
veder la gloria sua fuor del periglio
uscir raggiante e più che mai serena,
come un sol dalle nubi; è gioia questa
forse, o signor, cui la parola arrivi?
Voi la vedete: essa vi sia misura
della riconoscenza; e ben ci tarda
di rendervi tai grazie in altro nome
che non è il nostro, e del Senato a voi
riferir la letizia e il guiderdone.
Ei sarà pari al merto.
IL CONTE
Io già lo tengo.
Venezia è salva; ho liberata in parte
una grande promessa; ho fatto alfine
risovvenir di me tal che m'avea
dimenticato; ho vinto.
PRIMO COMMISSARIO
Ed or si vuole
assicurar della vittoria il frutto.
IL CONTE
....
Questa è mia cura.
PRIMO COMMISSARIO
Or che dal vostro brando
sgombra è la via, noi ci aspettiam che tutta
voi la farete, né starem fin tanto
che non si giunga del nemico al trono.
IL CONTE
Quando fia tempo.
PRIMO COMMISSARIO
E che? Voi non volete
inseguire i fuggenti?
IL CONTE
Ora non voglio.
PRIMO COMMISSARIO
Ma il Senato lo crede...
E noi ben certi
che pari all'alta occasion, che pari
alla vittoria il vostro ardor saria
nel proseguirla, abbiamo a lui...
IL CONTE
Vi siete
troppo affrettati.
PRIMO COMMISSARIO
E che dirà mai quando
udrà che ancor siam qui?
IL CONTE
Dirà, che il meglio
è di fidarsi a chi per lui già vinse.
PRIMO COMMISSARIO
Ma...
che pensate far?
IL CONTE
Ve l'avrei detto
più volentier pochi momenti or sono;
pur convien ch'io vel dica.
Io non mi voglio
allontanar di qui pria ch'espugnate
non sian le rocche che ci stan d'intorno.
Voglio un solo nemico, e quello in faccia.
PRIMO COMMISSARIO
Or dunque i nostri voti...
IL CONTE
I vostri voti
più arditi son del brando mio, più rapidi
de' miei cavalli;...
ed io...
la prima volta
è che mi sento dir pur ch'io m'affretti.
PRIMO COMMISSARIO
Ma pensaste abbastanza?
IL CONTE
E che! Sì nova
mi giunge una vittoria? E vi par egli
che questa gioia mi confonda il core
tanto che il primo mio pensier non sia
per ciò che resta a far?
SCENA II
IL SECONDO COMMISSARIO, e detti.
SECONDO COMMISSARIO
(al Conte)
Signor, se tosto
non correte al riparo, una sfacciata
perfidia s'affatica a render vana
sì gran vittoria; e già l'ha fatto in parte.
IL CONTE
Come?
SECONDO COMMISSARIO
I prigioni escon del campo a torme;
i condottieri ed i soldati a gara
li mandan sciolti, né tener li puote
fuor che un vostro comando.
IL CONTE
Un mio comando?
SECONDO COMMISSARIO
Esitereste a darlo?
IL CONTE
È questo un uso
della guerra, il sapete.
È così dolce
il perdonar quando si vince! e l'ira
presto si cambia in amistà ne' cori
che batton sotto il ferro.
Ah! non vogliate
invidiar sì nobil premio a quelli
che hanno per voi posta la vita, ed oggi
son generosi, perché ier fur prodi.
SECONDO COMMISSARIO
Sia generoso chi per sé combatte,
signor; ma questi, e ad onor l'hanno, io credo,
al nostro soldo han combattuto; e nostri
sono i prigioni.
IL CONTE
E voi potete adunque
creder così: quei che gli han visti a fronte,
che assaggiaro i lor colpi, e che a fatica
su lor le mani insanguinate han poste,
nol crederan sì di leggieri.
PRIMO COMMISSARIO
È questa
dunque una giostra di piacer? Non vince
per conservar, Venezia? E vana al tutto
fia la vittoria?
IL CONTE
Io già l'udii, di novo
la devo udir questa parola: amara,
importuna mi vien come l'insetto
che, scacciato una volta, anco a ronzarmi
torna sul volto...
La vittoria è vana?
Il suol d'estinti ricoperto, sparso
e scoraggiato il resto...
il più fiorente
esercito! col qual, se unito ancora
e mio foss'egli, e mio davver, torrei
a correr tutta Italia; ogni disegno
dell'inimico al vento; anche il pensiero
dell'offesa a lui tolto; a stento usciti
dalle mie mani, e di fuggir contenti
quattro tai duci, contro a' quai pur ieri
era vanto il resistere; svanito
mezzo il terror di que' gran nomi; ai nostri
raddoppiato l'ardir che agli altri è scemo;
tutta la scelta della guerra in noi;
nostre le terre ch'egli han sgombre...
è nulla?
Pensate voi che torneranno al Duca
que' prigioni? che l'amino? che a loro
caglia di lui più che di voi? ch'egli abbiano
combattuto per esso? Han combattuto
perché all'uomo che segue una bandiera,
grida una voce imperiosa in core:
combatti, e vinci.
E' son perdenti; e' sono
tornati in libertà; si venderanno...
oh! tale ora è il soldato...
a chi primiero
li comprerà...
Comprateli, e son vostri.
PRIMO COMMISSARIO
Quando assoldammo chi dovea con essi
pugnar, comprarli noi credemmo allora.
SECONDO COMMISSARIO
Signor, Venezia in voi si fida; in voi
vede essa un figlio; e quanto all'util suo,
alla sua gloria può condur, s'aspetta
che si faccia da voi.
IL CONTE
Tutto ch'io posso.
SECONDO COMMISSARIO
Ebben, che non potete in questo campo?
IL CONTE
Quel che chiedete: un uso antico, un uso
caro ai soldati violar non posso.
SECONDO COMMISSARIO
Voi cui nulla resiste, a cui sì pronto
tien dietro ogni voler, sì ch'uom non vede
se per amore o per timor si pieghi,
voi non potreste in questo campo, voi
fare una legge, e mantenerla?
IL CONTE
Io dissi
ch'io non potea: meglio or dirò: nol voglio.
Non più parole; con gli amici è questo
il mio costume antico, ai giusti preghi
soddisfar tosto e lietamente, e gli altri
apertamente rifiutar.
Soldati!
SECONDO COMMISSARIO
Ma...
che disegno è il vostro?
IL CONTE
Or lo vedrete.
(a un Soldato che entra)
Quanti prigion restano ancora?
IL SOLDATO
Io credo
quattrocento, signor.
IL CONTE
Chiamali...
chiama
i più distinti...
quei che incontri i primi:
vengan qui tosto.
(parte il Soldato)
Io 'l potrei certo...
Ov'io
dessi un tal cenno, non s'udria nel campo
una repulsa; ma i miei figli, i miei
compagni del periglio e della gioia,
quei che fidano in me, che un capitano
credon seguir sempre a difender pronto
l'onor della milizia ed il vantaggio,
io tradirli così! Farla più serva,
più vil, più trista che non è!...
Signori,
fidente io son, come i soldati il sono;
ma se cosa or da me chiedete a forza,
che mi tolga l'amor de' miei compagni,
se mi volete separar da quelli,
e a tal ridurmi ch'io non abbia appoggio
altro che il vostro, mio malgrado il dico,
m'astringerete a dubitar...
SECONDO COMMISSARIO
Che dite!
SCENA III
I PRIGIONIERI, tra i quali PERGOLA figlio, e detti.
IL CONTE
(ai Prigionieri)
O prodi indarno, o sventurati!...
A voi
dunque fortuna è più crudel? voi soli
siete alla trista prigionia serbati?
UN PRIGIONIERE
Tale, eccelso signor, non era il nostro
presentimento allor che a voi dinanzi
fummo chiamati, udir ci parve il messo
di nostra libertà.
Già tutti l'hanno
ricovrata color che agli altri duci,
minor di voi, caddero in mano; e noi...
IL CONTE
Voi, di chi siete prigionier?
IL PRIGIONIERE
Noi fummo
gli ultimi a render l'armi.
In fuga o preso
già tutto il resto, ancor per pochi istanti
fu sospesa per noi l'empia fortuna
della giornata; alfin voi feste il cenno
d'accerchiarci, o signor: soli, non vinti,
ma reliquie de' vinti, al drappel vostro...
IL CONTE
Voi siete quelli? Io son contento, amici,
di rivedervi; e posso ben far fede
che pugnaste da prodi: e se tradito
tanto valor non era, e pari a voi
sortito aveste un condottier, non era
piacevol tresca esservi a fronte.
IL PRIGIONIERE
Ed ora
ci fia sventura il non aver ceduto
che a voi, signore? E quelli a cui toccato
men glorioso è il vincitor, l'avranno
trovato più cortese? Indarno ai vostri
la libertà chiedemmo; alcun non osa
dispor di noi senza l'assenso vostro;
ma cel promiser tutti.
Oh! se potete
mostrarvi al Conte, ci dicean: non egli
certo dei vinti aggraverà la sorte;
non fia certo per lui tolta un'antica
cortesia della guerra,...
ei che sapria
esser piuttosto ad inventarla il primo.
IL CONTE
(ai Commissari)
Voi gli udite, o signori...
Ebben, che dite?...
Voi, che fareste?...
(ai Prigionieri)
Tolga il ciel che alcuno
più altamente di me pensi ch'io stesso.
Voi siete sciolti, amici.
Addio: seguite
la vostra sorte, e s'ella ancor vi porta
sotto una insegna che mi sia nemica...
ebben, ci rivedremo.
(segni di gioia tra i Prigionieri, che partono;
il Conte osserva il Pergola figlio, e lo ferma)
O giovinetto,
tu del volgo non sei; l'abito, e il volto
ancor più chiaro il dice; e ti confondi
con gli altri, e taci?
PERGOLA FIGLIO
O capitano, i vinti
non han nulla da dir.
IL CONTE
La tua fortuna
porti così, che ben ti mostri degno
d'una miglior.
Quale è il tuo nome?
PERGOLA FIGLIO
Un nome
cui crescer pregio assai difficil fia,
che un grande obbligo impone a chi lo porta:
Pergola è il nome mio.
IL CONTE
Che? Tu sei figlio
di quel valente?
PERGOLA FIGLIO
Il son.
IL CONTE
Vieni ed abbraccia
l'antico amico di tuo padre.
Io era
quale or tu sei, quando il conobbi in prima.
Tu mi rammenti i lieti giorni, i giorni
delle speranze.
E tu fa cor: fortuna
più giocondi princìpi a me concesse;
ma le promesse sue sono pei prodi;
e o presto o tardi essa le adempie.
Il padre
per me saluta, o giovinetto, e digli
ch'io non tel chiesi, ma che certo io sono
ch'ei non volea questa battaglia.
PERGOLA FIGLIO
Ah! certo,
non la volea; ma fur parole al vento.
IL CONTE
Non ti doler: del capitano è l'onta
della sconfitta; e sempre ben comincia
chi da forte combatte ove fu posto.
Vien meco;
(lo prende per mano)
ai duci io vo' mostrarti, io voglio
renderti la tua spada.
(ai Commissari)
Addio, signori;
giammai pietoso coi nemici vostri
io non sarò, che dopo averli vinti.
(partono il Conte e Pergola figlio)
SCENA IV
I due COMMISSARI
SECONDO COMMISSARIO
(dopo qualche silenzio)
Direte ancor che a presagir perigli
troppo facil son io? che le parole
de' suoi contrari, il mio sospetto antico,
l'odio forse, chi sa? mi fanno ingiusto
contro costui? ch'egli è sdegnoso, ardente,
ma leal? che da lui cercar non dessi
ossequi, ma servigi, e quando in grave
caso il nostro volere a lui s'intimi,
il dubitar ch'egli resista è un sogno?
Vi basta questo?
PRIMO COMMISSARIO
C'è di più.
Gli dissi
che a noi premea che s'inseguisse il vinto:
ei ricusò.
SECONDO COMMISSARIO
Ma che rispose?
PRIMO COMMISSARIO
Ei vuole
assicurarsi delle rocche...
ei teme...
SECONDO COMMISSARIO
Cauto ad un tratto è divenuto...
e dopo
una vittoria.
PRIMO COMMISSARIO
La parola a stento
gli uscia di bocca: ella parea risposta
all'indiscreto che t'assedia, e vuole
il tuo segreto che per nulla il tocca.
SECONDO COMMISSARIO
Ma l'ha poi detto il suo segreto? E questo
motivo ond'egli accontentar vi volle,
vi parve il solo suo motivo, il vero?
PRIMO COMMISSARIO
Nol so, non ci badai, tempo non ebbi
che di pensar ch'io mi trovava innanzi
un temerario, e ch'io sentia parole
inusitate ai pari nostri.
SECONDO COMMISSARIO
E s'egli
al suo signore antico, al primo ond'ebbe
onor supremi, all'alta creatura
della sua spada, più terror che danno
volesse far? fargli pensar soltanto
quel ch'egli era per lui, quel che gli è contro?
Tal nemico mostrarglisi, ch'ei brami
d'averlo amico ancor? S'ei non potesse
tutto staccare il suo pensier da un trono
ch'egli alzò dalla polve; ov'ebbe il primo
grado dopo colui che v'è seduto?
Se un duca ardente di conquiste, e inetto
a sopportar d'una corazza il peso,
che d'una mano ha d'uopo e d'un consiglio,
e al condottier lo chiede, e gli comanda
ciò ch'ei medesmo gl'inspirò, più grato
signor, più dolce al condottier paresse,
che molti, e vigilanti, e più bramosi
di conservar che d'acquistar, cui preme
sovr'ogni cosa il comandar davvero?
PRIMO COMMISSARIO
Tutto io m'aspetto da costui.
SECONDO COMMISSARIO
Teniamo
questo sospetto: il suo contegno, i nostri
accorgimenti il faran chiaro in breve,
o ad altro almen ci guideranno.
Ei trama
certo.
Colui che trama, e del successo
si pasce già, come se il tenga, ardito
parla ancor che nol voglia; e quei che sprezza
in faccia il suo signor, già in cor ne ha scelto
un altro, o pensa a diventarlo ei stesso.
No: da Filippo ei non è sciolto in tutto.
A quella stirpe onde la sposa egli ebbe
non è stranier: troppo gli è caro il nodo
che ad essa un dì lo strinse.
In quella figlia,
che ha tanta parte in suo pensier, non scorre
col suo confuso de' Visconti il sangue?
PRIMO COMMISSARIO
Come parlò! Come passò dall'ira
al non curar! Con che superba pace
disubbidì! Siam noi nel nostro campo?
Di Venezia i mandati? Eran costoro
vinti e prigioni? E più sicuro il guardo
portavano di noi! Noi testimoni
del suo poter, del conto in cui ci tiene,
de' nostri acquisti così sparsi al vento,
di tal gioia, di tai grazie, di tali
abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote.
Che avviso è il vostro?
SECONDO COMMISSARIO
Haccene due? Soffrire,
dissimular, fargli querela ancora
d'un'offesa che mai creder non puote
dimenticata, e insiem la strada aprirgli
di ripararla a modo suo; gradire
che ch'ei ne faccia; chiedergli soltanto
ciò che siam certi d'ottenerne; opporci
sol quanto basti a far che vera appaia
condiscendenza il resto; a dichiararsi
non astringerlo mai; vegliare intanto;
scriverne ai Dieci, ed aspettar comandi.
PRIMO COMMISSARIO
Viver così! Che si diria di noi?
Dell'alto ufizio che ci fu commesso,
a cui venimmo invidiati, e or tale
diviene?
SECONDO COMMISSARIO
È sempre glorioso il posto
dove si serve la sua patria, e dove
si giunge ai fini suoi.
Soldati e duci
tutti sono per lui, l'ammiran tutti,
nessun l'invidia; a sommo onor si tiene
bene ubbidirlo; e in questo sol c'è gara
che ad essergli secondo ognuno aspira.
Voce sì cara e riverita in prima,
che forza avrebbe in lor poscia che udita
l'hanno in un tanto dì, che forza avrebbe
se proferisse mai quella parola,
che in core han tutti, la rivolta? Guai!
Che più? gli udimmo pur; come de' suoi,
è nel pensiero de' nemici in cima.
PRIMO COMMISSARIO
Ma siamo a tempo? Ei già sospetta.
SECONDO COMMISSARIO
Il siamo.
Essi armati, e sol essi; avvezzi tutti
a prodigar la vita, a non temere
il periglio, ad amarlo, e delle imprese
a non guardar che la speranza, alfine
più ch'uomini nel campo: ah! se fanciulli
non fosser poi nel resto, ed i sospetti
facili a palesar come a deporli;
se una parola di lusinga, un atto
di sommessa amistà non li volgesse
a talento di quel che l'usa a tempo;
a che saremmo? ubbidiria la spada?
Saremmo ancora i signor noi?
PRIMO COMMISSARIO
Sta bene.
Riesca, o no, questo partito è il solo.
FINE DELL'ATTO TERZO
ATTO QUARTO
SCENA I
Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia.
MARCO Senatore, e MARINO uno dei Capi.
MARCO
Eccomi al cenno degli eccelsi Capi
del Consiglio de' Dieci.
MARINO
Io parlo in nome
di tutti lor.
Vi si destina un grave
incarco, fuor di qui: se un argomento
di confidenza questo sia...
la vostra
coscienza il diravvi.
MARCO
Essa mi dice
che scarsa al merto ed all'ingegno mio
dee la patria concederla, ma intera
alla fede ed al cor.
MARINO
La patria! È un nome
dolce a chi l'ama oltre ogni cosa, e sente
di vivere per lei; ma proferirlo
senza tremar non dee chi resta amico
de' suoi nemici.
MARCO
Ed io...
MARINO
Per chi parlaste
oggi in Senato? Per la patria? I vostri
sdegni, i vostri terrori eran per lei?
Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio,
o il periglio di chi? Chi difendeste...
voi solo?
MARCO
Io so davanti a chi mi trovo.
Sta la mia vita in vostra man, ma il mio
voto non già: giudice ei non conosce
fuor che il mio cor; né d'altro esser può reo
che d'avergli mentito.
A darne conto
pur disposto son io.
MARINO
Tutto che puote
por la patria in periglio, essere inciampo
all'alte mire sue, dargli sospetto,
è in nostra man.
Perché ci siate or voi,
se nol sapete, se mostrar vi giova
di non saperlo, uditelo.
Per ora
d'oggi si parli; non vogliam di tutta
la vostra vita interrogar che un giorno.
MARCO
E che? fors'altro mi si appon? Di nulla
temer poss'io; la mia condotta...
MARINO
È nota
più a noi che a voi.
Dalla memoria vostra
forse assai cose ha cancellato il tempo:
il nostro libro non obblia.
MARCO
Di tutto
ragion darò.
MARINO
Voi la darete quando
vi fia chiesta.
Non più: quando il Senato
diede il comando al Carmagnola, a molti
era sospetta la sua fede; ad altri
certa parea: potea parerlo allora.
Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri
mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde
in perfid'ozio la vittoria.
Il velo
cade dal ciglio ai più.
Nel suo soccorso
troppo fidando, il Trevisan s'innoltra
nel Po, le navi del nemico affronta;
sopraffatto dal numero, richiede
al Capitan rinforzo, e non l'ottiene.
Freme il Senato; poche voci appena
s'alzano ancor per lui.
Cremona è presa,
basta sol ch'ei v'accorra; ei non v'accorre.
Giunge l'annunzio oggi al Senato: alfine
più non gli resta difensor che un solo:
solo, ma caldo difensor.
Per lui
innocente è costui, degno di lode
più che di scusa; e se ci fu sventura,
colpa è soltanto del destino...
e nostra.
Non è giustizia che il persegue: è solo
odio privato, è invidia, è basso orgoglio
che non perdona al sommo, a chi tacendo
grida co' fatti: io son maggior di voi.
Certo inaudito è un tal linguaggio: i Padri
nel lor Senato oggi l'udiro; e muti
si volsero a guardar donde tal voce
venìa, se uno straniero oggi, un nemico
premere un seggio nel Senato ardia.
Chiarito è il Conte un traditor; si vuole
torgli ogni via di nocere.
Ma l'arte
tanta e l'audacia è di costui, che reso
ei s'è tremendo a' suoi signori; è forte
di quella forza che gli abbiam fidata;
egli ha il cor de' soldati; e l'armi nostre,
quando voglia, son sue; contro di noi
volger le puote, e il vuol.
Certo è follia
aspettar che lo tenti; ognun risolve
ch'ei si prevenga, e tosto.
A forza aperta
è impresa piena di perigli.
E noi
starem per questo? E il suo maggior delitto
sarà cagion perché impunito ei vada?
Sola una strada alla giustizia è schiusa,
l'arte con cui l'ingannator s'inganna.
Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga:
questo è il voto comun.
Che fece allora
l'amico di costui? Ve ne rammenta?
Io vel dirò; ché men tranquillo al certo
era in quel punto il vostro cor, dell'occhio
che imperturbato vi seguia.
Perdeste
ogni ritegno, oltrepassaste il largo
confin che un resto di prudenza avea
prescritto al vostro ardor, dimenticaste
ciò che promesso v'eravate, intero
ai men veggenti vi svelaste, a quelli
cui parea novo ciò che a noi non l'era.
Ognuno allor pensò che oggi in Senato
c'era un uom di soverchio, e che bisogna
porre il segreto dello Stato in salvo.
MARCO
Signor, tutto a voi lice: innanzi a voi
quel che ora io sia, non so; però non posso
dimenticarmi che patrizio io sono,
né a voi tacer che un dubbio tal m'offende.
Sono un di voi: la causa dello Stato
è la mia causa; e il suo segreto importa
a me non men che altrui.
MARINO
Volete alfine
saper chi siete qui? Voi siete un uomo
di cui si teme, un che lo Stato guarda
come un inciampo alla sua via.
Mostrate
che nol sarete; il darvene agio ancora
è gran clemenza.
MARCO
Io sono amico al Conte:
questa è l'accusa mia; nol nego, io il sono:
e il ciel ringrazio che vigor mi ha dato
di confessarlo qui.
Ma se nemico
è della patria? Mi si provi, è il mio.
Che gli si appone? I prigionier disciolti?
Non li disciolse il vincitor soldato?
Ma invan pregato il condottier non volle
frenar questa licenza.
Il potea forse?
Ma l'imitò.
Non ve lo astrinse un uso,
qual ch'ei sia, della guerra? ed al Senato
vera non parve questa scusa? e largo
d'ogni onor poscia non gli fu? L'aiuto
al Trevisan negato? Era più grave
periglio il darlo; era l'impresa ordita
ignaro il Conte; ei non fu chiesto a tempo.
E la sentenza che a sì turpe esiglio
il Trevisan dannò, tutta la colpa
non rovesciò sovra di lui? Cremona?
Chi di Cremona meditò l'acquisto?
Chi l'ordin dié che si tentasse? Il Conte.
Del popol tutto che a rumor si leva
non può scarso drappel l'inaspettato
impeto sostener; ritorna al campo,
non scemo pur d'un combattente.
Al Duce
buon consiglio non parve incontro un novo
impensato nemico avventurarsi;
e abbandonò l'impresa.
Ella è, fra tante
sì ben compiute, una fallita impresa;
ma il tradimento ov'è? Fiero, oltraggioso
da gran tempo, voi dite, è il suo linguaggio:
un troppo lungo tollerar macchiato
ha l'onor nostro.
Ed un'insidia, il lava?
E poi che un nodo, un dì sì caro, ormai
non può tener Venezia e il Carmagnola,
chi ci vieta disciorlo? Un'amistade
sì nobilmente stretta, or non potria
nobilmente finir? Come! anche in questo
un periglio si scorge! Il genio ardito
del condottier; la fama sua si teme,
de' soldati l'amor! Se render piena
testimonianza al ver, colpa si stima;
se a tal trista temenza oppor non lice
la lealtà del Conte; il senso almeno
del nostro onor la scacci.
Abbiam di noi
un più degno concetto; e non si creda
che a tal Venezia giunta sia, che possa
porla in periglio un uom.
Lasciam codeste
cure ai tiranni: ivi il valor si tema
ove lo scettro è in una mano, e basta
a strapparlo un guerrier che dica: io sono
più degno di tenerlo; e a' suoi compagni
il persuada.
Ei che tentar potria?
Al Duca ritornar, dicesi, e seco
le schiere trar nel tradimento.
Al Duca?
All'uom che un'onta non perdona mai,
né un gran servigio, ritornar colui
che gli compose e che gli scosse il trono?
Chi non poté restargli amico in tempo
che pugnava per lui, ridivenirlo
dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi
a quella man che in questo asilo istesso
comprò un pugnal per trapassargli il petto!
L'odio solo, o signor, creder lo puote.
Ah! qual sia la cagion che innanzi a questo
temuto seggio fa trovarmi, un'alta
grazia mi fia, se fare intender posso
anco una volta il ver: qualche lusinga
io nutro ancor che non fia forse invano.
Sì, l'odio cieco, l'odio sol potea
far che fosse in Senato un tal sospetto
proposto, inteso, tollerato.
Ha molti
fra noi nemici il Conte: or non ricerco
perché lo siano: il son.
Quando nascoste
all'ombra della pubblica vendetta,
le nimistà private io disvelai;
quando chiedea che a provveder s'avesse
l'util soltanto dello Stato, e il giusto;
allora ufizio io non facea d'amico,
ma di fedel patrizio.
Io già non scuso
il mio parlar: quando proporre intesi
che sotto il vel di consultarlo ei sia
richiamato a Venezia, e gli si faccia
onor più dell'usato, e tutto questo
per tirarlo nel laccio...
allor, nol nego...
MARINO
Più non pensaste che all'amico.
MARCO
Allora,
dissimular nol vo', tutte sentii
le potenze dell'alma sollevarsi
contro un consiglio...
ah fu seguito!...
Un solo
pensier non fu; fu della patria mia
l'onor ch'io vedo vilipeso, il grido
de' nemici e de' posteri; fu il primo
senso d'orror che un tradimento inspira
all'uom che dee stornarlo, o starne a parte.
E se pietà d'un prode a tanti affetti
pur si mischiò, dovea, poteva io forse
farla tacer? Son reo d'aver creduto
che util puote a Venezia esser soltanto
ciò che l'onora, e che si può salvarla
senza farsi...
MARINO
Non più: se tanto udii
fu perché ai Capi del Consiglio importa
di conoscervi appien.
Piacque aspettarvi
ai secondi pensier; veder si volle
se un più maturo ponderar v' avea
tratto a più saggio e più civil consiglio.
Or, poiché indarno si sperò, credete
voi che un decreto del Senato io voglia
difender ora innanzi a voi? Si tratta
la vostra causa qui.
Pensate a voi,
non alla patria: ad altre, e forti, e pure
mani è commessa la sua sorte: e nulla
a cor le sta che il suo voler vi piaccia,
ma che s'adempia, e che non sia sofferto
pure il pensier di porvi impedimento.
A questo vegliam noi.
Quindi io non voglio
altro da voi che una risposta.
Espresso
sovra quest'uomo è del Senato il voto;
compir si dee; voi, che farete intanto?
MARCO
Quale inchiesta, signor!
MARINO
Voi siete a parte
d'un gran disegno; e in vostro cor bramate
che a voto ei vada: non è ver?
MARCO
Che importa
ciò ch'io brami, allo Stato? A prova ormai
sa che dell'opre mie non è misura
il desiderio, ma il dover.
MARINO
Qual pegno
abbiam da voi che lo farete? In nome
del Tribunale un ve ne chiedo: e questo,
se lo negate, un traditor vi tiene.
Quel che si serba ai traditor, v'è noto.
MARCO
Io...
Che si vuol da me?
MARINO
Riconoscete
che patria è questa a cui bastovvi il core
di preferire uno stranier.
Sui figli
a stento e tardi essa la mano aggrava;
e a perderne soltanto ella consente
quei che salvar non puote.
Ogni error vostro
è pronta ad obbliar; v'apre ella stessa
la strada al pentimento.
MARCO
Al pentimento!
Ebben, che strada?
MARINO
Il Mussulman disegna
d'assalir Tessalonica: voi siete
colà mandato.
A quale ufizio, quivi
noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi
voi partirete.
MARCO
Ubbidirò.
MARINO
Ma un'arra
si vuol di vostra fé: giurar dovete
per quanto è sacro, che in parole o in cenni
nulla per voi traspirerà di quanto
oggi s'è fisso.
Il giuramento è questo:
(gli presenta un foglio)
sottoscrivete.
MARCO
(legge)
E che, signor? Non basta?..
MARINO
E per ultimo, udite.
Il messo è in via
che porta al Conte il suo richiamo.
Ov'egli
pronto ubbidisca, ed in Venezia arrivi,
giustizia troverà...
forse clemenza.
Ma se ricusa, se sta in forse, e segno
dà di sospetto; un gran segreto udite,
e tenetelo in voi; l'ordine è dato
che dalle nostre man vivo ei non esca.
Il traditor che dargli un cenno ardisce,
quei l'uccide, e si perde.
Io più non odo
nulla da voi: scrivete; ovvero...
(gli porge il foglio)
MARCO
Io scrivo.
(prende il foglio e lo sottoscrive)
MARINO
Tutto è posto in obblio.
La vostra fede
ha fatto il più; vinto ha il dover: l'impresa
compirsi or dee dalla prudenza: e questa
non può mancarvi, sol che in mente abbiate
che ormai due vite in vostra man son poste.
(parte)
SCENA II
MARCO
Dunque è deciso!...
un vil son io!...
fui posto
al cimento; e che feci?...
Io prima d'oggi
non conoscea me stesso!...
Oh che segreto
oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio
un amico io potea! Vedergli al tergo
l'assassino venir, veder lo stile
che su lui scende, e non gridar: ti guarda!
Io lo potea; l'ho fatto...
io più nol devo
salvar; chiamato ho in testimonio il cielo
d'un'infame viltà...
la sua sentenza
ho sottoscritta...
ha la mia parte anch'io
nel suo sangue! Oh che feci!...
io mi lasciai
dunque atterrir?...
La vita?...
Ebben, talvolta
senza delitto non si può serbarla:
nol sapeva io? Perché promisi adunque?
Per chi tremai? per me? per me? per questo
disonorato capo?...
o per l'amico?
La mia ripulsa accelerava il colpo,
non lo stornava.
O Dio, che tutto scerni,
rivelami il mio cor; ch'io veda almeno
in quale abisso son caduto, s'io
fui più stolto; o codardo, o sventurato.
O Carmagnola, tu verrai!...
sì certo
egli verrà...
se anche di queste volpi
stesse.
in sospetto, ei penserà che Marco
è senator, che anch'io l'invito; e lunge
ogni dubbiezza scaccerà; rimorso
avrà d'averla accolta...
Io son che il perdo!
Ma...
di clemenza non parlò quel vile?
Sì, la clemenza che il potente accorda
all'uom che ha tratto nell'agguato, a quello
ch'egli medesmo accusa, e che gli preme
di trovar reo.
Clemenza all'innocente!
Oh! il vil son io che gli credetti, o volli
credergli; ei la nomò perché comprese
che bastante a corrompermi non era
il rio timor che a goccia a goccia ei fea
scender sull'alma mia: vide che d'uopo
m'era un nobil pretesto; e me lo diede.
Gli astuti! i traditor! Come le parti
distribuite hanno tra lor costoro!
Uno il sorriso, uno il pugnal, quest'altro
le minacce...
e la mia?...
voller che fosse
debolezza ed inganno...
ed io l'ho presa!
Io li spregiava; e son da men di loro!
Ei non gli sono amici!...
Io non doveva
essergli amico: io la cercai; fui preso
dall'alta indole sua, dal suo gran nome.
Perché dapprima non pensai che incarco
è l'amistà d'un uom che agli altri è sopra?
Perché allor correr solo io nol lasciai
la sua splendida via, s'io non potea
seguire i passi suoi? La man gli stesi;
il cortese la strinse; ed or ch'ei dorme,
e il nemico gli è sopra, io la ritiro:
ei si desta, e mi cerca; io son fuggito!
Ei mi dispregia, e more! Io non sostengo
questo pensier...
Che feci!...
Ebben, che feci?
Nulla finora: ho sottoscritto un foglio,
e nulla più.
Se fu delitto il giuro,
non fia virtù l'infrangerlo? Non sono
che all'orlo ancor del precipizio; il vedo,
e ritrarmi poss'io...
Non posso un mezzo
trovar?...
Ma s'io l'uccido? Oh! forse il disse
per atterrirmi...
E se davvero il disse?
Oh empi, in quale abbominevol rete
stretto m'avete! Un nobile consiglio
per me non c'è; qualunque io scelga, è colpa.
Oh dubbio atroce!...
Io li ringrazio; ei m'hanno
statuito un destino; ei m'hanno spinto
per una via; vi corro: almen mi giova
ch'io non la scelsi: io nulla scelgo; e tutto
ch'io faccio è forza e volontà d'altrui.
Terra ov'io nacqui, addio per sempre: io spero
ché ti morrò lontano, e pria che nulla
sappia di te: lo spero: in fra i perigli
certo per sua pietade il ciel m'invia.
Ma non morrò per te.
Che tu sii grande
e gloriosa, che m'importa? Anch'io
due gran tesori avea, la mia virtude,
ed un amico; e tu m'hai tolto entrambi.
(parte)
SCENA III
Tenda del Conte.
IL CONTE e GONZAGA
IL CONTE
Ebben, che raccogliesti?
GONZAGA
Io favellai,
come imponesti, ai Commissari; e chiaro
mostrai che tutta delle vinte navi
riman la colpa e la vergogna a lui
che non le seppe comandar; che infausta
la giornata gli fu perché la imprese
senza di te; che tu da lui chiamato
tardi in soccorso, romper non dovevi
i tuoi disegni per servir gli altrui;
che l'armi lor, tanto in tua man felici,
sempre il sarian, se questa guerra fosse
commessa al senno ed al voler d'un solo.
IL CONTE
Che dicon essi?
GONZAGA
Si mostrar convinti
ai detti miei: dissero in pria, che nulla
dissimular volean; che amaro al certo
de' perduti navigli era il pensiero,
e di Cremona la fallita impresa;
ma che son lieti di saper che il fallo
di te non fu; che di chiunque ei sia,
da te l'ammenda aspettano.
IL CONTE
Tu il vedi,
o mio Gonzaga; se dai fede al volgo,
sommo riguardo, arte profonda è d'uopo
con questi uomin di Stato.
Io fui con essi
quel ch'esser soglio; rigettai l'ingiuste
pretese lor, scender li feci alquanto
dall'alto seggio ove si pon chi avvezzo
non è a vedersi altri che schiavi intorno;
io mostrai lor fino a che segno io voglio
che altri signor mi sia: d'allora in poi
mai non l'hanno passato; io li provai
saggi sempre e cortesi.
GONZAGA
E non pertanto
dar consiglio ad alcuno io non vorrei
di tener, questa via.
Te da gran tempo
la gloria segue e la fortuna; ad essi
util tu sei, tu necessario e caro,
terribil forse: e tu la prova hai vinta;
se pur può dirsi che sia vinta ancora.
IL CONTE
Che dubbi hai tu?
GONZAGA
Tu, che certezza? Io vedo
dolci sembianti, e dolci detti ascolto:
segni d'amor; ma pur, l'odio che teme,
altri ne ha forse?
IL CONTE
No: di questo io nulla
sono in pensier.
Troppo a regnar son usi;
e san che all'uom da cui s'ottiene il molto
chieder non dessi improntamente il meno.
E poi, mi credi, io li guardai dappresso:
questa cupa arte lor, questi intricati
avvolgimenti di menzogna, questo
finger, tacere, antiveder, di cui
tanto li loda e li condanna il mondo
è meno assai di quel che al mondo appare.
GONZAGA
Se pur non era di lor arte il colmo
il parer tali a te.
IL CONTE
No: tu li vedi
con l'occhio altrui: quando col tuo li veda,
tu cangerai pensiero.
Havvene assai
di schietti e buoni; havvene tal che un'alta
anima chiude, a cui pensier non osa
avvicinarsi che gentil non sia:
anima dolce e disdegnosa, in cui
legger non puoi, che tu non sia compreso
d'amor, di riverenza, e di desio
di somigliarle.
Non temer; non sono
di me scontenti; e quando il fosser mai,
io lo saprei ben tosto.
GONZAGA
Il Ciel non voglia
che tu t'inganni.
IL CONTE
Altro mi duol: son stanco
di questa guerra che condur non posso
a modo mio.
Quand'io non era ancora
più che un soldato di ventura, asc
...
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