IL CONTE DI CARMAGNOLA, di Alessandro Manzoni - pagina 8
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IL PRIGIONIERE
Ed ora
ci fia sventura il non aver ceduto
che a voi, signore? E quelli a cui toccato
men glorioso è il vincitor, l'avranno
trovato più cortese? Indarno ai vostri
la libertà chiedemmo; alcun non osa
dispor di noi senza l'assenso vostro;
ma cel promiser tutti.
Oh! se potete
mostrarvi al Conte, ci dicean: non egli
certo dei vinti aggraverà la sorte;
non fia certo per lui tolta un'antica
cortesia della guerra,...
ei che sapria
esser piuttosto ad inventarla il primo.
IL CONTE
(ai Commissari)
Voi gli udite, o signori...
Ebben, che dite?...
Voi, che fareste?...
(ai Prigionieri)
Tolga il ciel che alcuno
più altamente di me pensi ch'io stesso.
Voi siete sciolti, amici.
Addio: seguite
la vostra sorte, e s'ella ancor vi porta
sotto una insegna che mi sia nemica...
ebben, ci rivedremo.
(segni di gioia tra i Prigionieri, che partono;
il Conte osserva il Pergola figlio, e lo ferma)
O giovinetto,
tu del volgo non sei; l'abito, e il volto
ancor più chiaro il dice; e ti confondi
con gli altri, e taci?
PERGOLA FIGLIO
O capitano, i vinti
non han nulla da dir.
IL CONTE
La tua fortuna
porti così, che ben ti mostri degno
d'una miglior.
Quale è il tuo nome?
PERGOLA FIGLIO
Un nome
cui crescer pregio assai difficil fia,
che un grande obbligo impone a chi lo porta:
Pergola è il nome mio.
IL CONTE
Che? Tu sei figlio
di quel valente?
PERGOLA FIGLIO
Il son.
IL CONTE
Vieni ed abbraccia
l'antico amico di tuo padre.
Io era
quale or tu sei, quando il conobbi in prima.
Tu mi rammenti i lieti giorni, i giorni
delle speranze.
E tu fa cor: fortuna
più giocondi princìpi a me concesse;
ma le promesse sue sono pei prodi;
e o presto o tardi essa le adempie.
Il padre
per me saluta, o giovinetto, e digli
ch'io non tel chiesi, ma che certo io sono
ch'ei non volea questa battaglia.
PERGOLA FIGLIO
Ah! certo,
non la volea; ma fur parole al vento.
IL CONTE
Non ti doler: del capitano è l'onta
della sconfitta; e sempre ben comincia
chi da forte combatte ove fu posto.
Vien meco;
(lo prende per mano)
ai duci io vo' mostrarti, io voglio
renderti la tua spada.
(ai Commissari)
Addio, signori;
giammai pietoso coi nemici vostri
io non sarò, che dopo averli vinti.
(partono il Conte e Pergola figlio)
SCENA IV
I due COMMISSARI
SECONDO COMMISSARIO
(dopo qualche silenzio)
Direte ancor che a presagir perigli
troppo facil son io? che le parole
de' suoi contrari, il mio sospetto antico,
l'odio forse, chi sa? mi fanno ingiusto
contro costui? ch'egli è sdegnoso, ardente,
ma leal? che da lui cercar non dessi
ossequi, ma servigi, e quando in grave
caso il nostro volere a lui s'intimi,
il dubitar ch'egli resista è un sogno?
Vi basta questo?
PRIMO COMMISSARIO
C'è di più.
Gli dissi
che a noi premea che s'inseguisse il vinto:
ei ricusò.
SECONDO COMMISSARIO
Ma che rispose?
PRIMO COMMISSARIO
Ei vuole
assicurarsi delle rocche...
ei teme...
SECONDO COMMISSARIO
Cauto ad un tratto è divenuto...
e dopo
una vittoria.
PRIMO COMMISSARIO
La parola a stento
gli uscia di bocca: ella parea risposta
all'indiscreto che t'assedia, e vuole
il tuo segreto che per nulla il tocca.
SECONDO COMMISSARIO
Ma l'ha poi detto il suo segreto? E questo
motivo ond'egli accontentar vi volle,
vi parve il solo suo motivo, il vero?
PRIMO COMMISSARIO
Nol so, non ci badai, tempo non ebbi
che di pensar ch'io mi trovava innanzi
un temerario, e ch'io sentia parole
inusitate ai pari nostri.
SECONDO COMMISSARIO
E s'egli
al suo signore antico, al primo ond'ebbe
onor supremi, all'alta creatura
della sua spada, più terror che danno
volesse far? fargli pensar soltanto
quel ch'egli era per lui, quel che gli è contro?
Tal nemico mostrarglisi, ch'ei brami
d'averlo amico ancor? S'ei non potesse
tutto staccare il suo pensier da un trono
ch'egli alzò dalla polve; ov'ebbe il primo
grado dopo colui che v'è seduto?
Se un duca ardente di conquiste, e inetto
a sopportar d'una corazza il peso,
che d'una mano ha d'uopo e d'un consiglio,
e al condottier lo chiede, e gli comanda
ciò ch'ei medesmo gl'inspirò, più grato
signor, più dolce al condottier paresse,
che molti, e vigilanti, e più bramosi
di conservar che d'acquistar, cui preme
sovr'ogni cosa il comandar davvero?
PRIMO COMMISSARIO
Tutto io m'aspetto da costui.
SECONDO COMMISSARIO
Teniamo
questo sospetto: il suo contegno, i nostri
accorgimenti il faran chiaro in breve,
o ad altro almen ci guideranno.
Ei trama
certo.
Colui che trama, e del successo
si pasce già, come se il tenga, ardito
parla ancor che nol voglia; e quei che sprezza
in faccia il suo signor, già in cor ne ha scelto
un altro, o pensa a diventarlo ei stesso.
No: da Filippo ei non è sciolto in tutto.
A quella stirpe onde la sposa egli ebbe
non è stranier: troppo gli è caro il nodo
che ad essa un dì lo strinse.
In quella figlia,
che ha tanta parte in suo pensier, non scorre
col suo confuso de' Visconti il sangue?
PRIMO COMMISSARIO
Come parlò! Come passò dall'ira
al non curar! Con che superba pace
disubbidì! Siam noi nel nostro campo?
Di Venezia i mandati? Eran costoro
vinti e prigioni? E più sicuro il guardo
portavano di noi! Noi testimoni
del suo poter, del conto in cui ci tiene,
de' nostri acquisti così sparsi al vento,
di tal gioia, di tai grazie, di tali
abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote.
Che avviso è il vostro?
SECONDO COMMISSARIO
Haccene due? Soffrire,
dissimular, fargli querela ancora
d'un'offesa che mai creder non puote
dimenticata, e insiem la strada aprirgli
di ripararla a modo suo; gradire
che ch'ei ne faccia; chiedergli soltanto
ciò che siam certi d'ottenerne; opporci
sol quanto basti a far che vera appaia
condiscendenza il resto; a dichiararsi
non astringerlo mai; vegliare intanto;
scriverne ai Dieci, ed aspettar comandi.
PRIMO COMMISSARIO
Viver così! Che si diria di noi?
Dell'alto ufizio che ci fu commesso,
a cui venimmo invidiati, e or tale
diviene?
SECONDO COMMISSARIO
È sempre glorioso il posto
dove si serve la sua patria, e dove
si giunge ai fini suoi.
Soldati e duci
tutti sono per lui, l'ammiran tutti,
nessun l'invidia; a sommo onor si tiene
bene ubbidirlo; e in questo sol c'è gara
che ad essergli secondo ognuno aspira.
Voce sì cara e riverita in prima,
che forza avrebbe in lor poscia che udita
l'hanno in un tanto dì, che forza avrebbe
se proferisse mai quella parola,
che in core han tutti, la rivolta? Guai!
Che più? gli udimmo pur; come de' suoi,
è nel pensiero de' nemici in cima.
PRIMO COMMISSARIO
Ma siamo a tempo? Ei già sospetta.
SECONDO COMMISSARIO
Il siamo.
Essi armati, e sol essi; avvezzi tutti
a prodigar la vita, a non temere
il periglio, ad amarlo, e delle imprese
a non guardar che la speranza, alfine
più ch'uomini nel campo: ah! se fanciulli
non fosser poi nel resto, ed i sospetti
facili a palesar come a deporli;
se una parola di lusinga, un atto
di sommessa amistà non li volgesse
a talento di quel che l'usa a tempo;
a che saremmo? ubbidiria la spada?
Saremmo ancora i signor noi?
PRIMO COMMISSARIO
Sta bene.
Riesca, o no, questo partito è il solo.
FINE DELL'ATTO TERZO
ATTO QUARTO
SCENA I
Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia.
MARCO Senatore, e MARINO uno dei Capi.
MARCO
Eccomi al cenno degli eccelsi Capi
del Consiglio de' Dieci.
MARINO
Io parlo in nome
di tutti lor.
Vi si destina un grave
incarco, fuor di qui: se un argomento
di confidenza questo sia...
la vostra
coscienza il diravvi.
MARCO
Essa mi dice
che scarsa al merto ed all'ingegno mio
dee la patria concederla, ma intera
alla fede ed al cor.
MARINO
La patria! È un nome
dolce a chi l'ama oltre ogni cosa, e sente
di vivere per lei; ma proferirlo
senza tremar non dee chi resta amico
de' suoi nemici.
MARCO
Ed io...
MARINO
Per chi parlaste
oggi in Senato? Per la patria? I vostri
sdegni, i vostri terrori eran per lei?
Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio,
o il periglio di chi? Chi difendeste...
voi solo?
MARCO
Io so davanti a chi mi trovo.
Sta la mia vita in vostra man, ma il mio
voto non già: giudice ei non conosce
fuor che il mio cor; né d'altro esser può reo
che d'avergli mentito.
A darne conto
pur disposto son io.
MARINO
Tutto che puote
por la patria in periglio, essere inciampo
all'alte mire sue, dargli sospetto,
è in nostra man.
Perché ci siate or voi,
se nol sapete, se mostrar vi giova
di non saperlo, uditelo.
Per ora
d'oggi si parli; non vogliam di tutta
la vostra vita interrogar che un giorno.
MARCO
E che? fors'altro mi si appon? Di nulla
temer poss'io; la mia condotta...
MARINO
È nota
più a noi che a voi.
Dalla memoria vostra
forse assai cose ha cancellato il tempo:
il nostro libro non obblia.
MARCO
Di tutto
ragion darò.
MARINO
Voi la darete quando
vi fia chiesta.
Non più: quando il Senato
diede il comando al Carmagnola, a molti
era sospetta la sua fede; ad altri
certa parea: potea parerlo allora.
Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri
mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde
in perfid'ozio la vittoria.
Il velo
cade dal ciglio ai più.
Nel suo soccorso
troppo fidando, il Trevisan s'innoltra
nel Po, le navi del nemico affronta;
sopraffatto dal numero, richiede
al Capitan rinforzo, e non l'ottiene.
Freme il Senato; poche voci appena
s'alzano ancor per lui.
Cremona è presa,
basta sol ch'ei v'accorra; ei non v'accorre.
Giunge l'annunzio oggi al Senato: alfine
più non gli resta difensor che un solo:
solo, ma caldo difensor.
Per lui
innocente è costui, degno di lode
più che di scusa; e se ci fu sventura,
colpa è soltanto del destino...
e nostra.
Non è giustizia che il persegue: è solo
odio privato, è invidia, è basso orgoglio
che non perdona al sommo, a chi tacendo
grida co' fatti: io son maggior di voi.
Certo inaudito è un tal linguaggio: i Padri
nel lor Senato oggi l'udiro; e muti
si volsero a guardar donde tal voce
venìa, se uno straniero oggi, un nemico
premere un seggio nel Senato ardia.
Chiarito è il Conte un traditor; si vuole
torgli ogni via di nocere.
Ma l'arte
tanta e l'audacia è di costui, che reso
ei s'è tremendo a' suoi signori; è forte
di quella forza che gli abbiam fidata;
egli ha il cor de' soldati; e l'armi nostre,
quando voglia, son sue; contro di noi
volger le puote, e il vuol.
Certo è follia
aspettar che lo tenti; ognun risolve
ch'ei si prevenga, e tosto.
A forza aperta
è impresa piena di perigli.
E noi
starem per questo? E il suo maggior delitto
sarà cagion perché impunito ei vada?
Sola una strada alla giustizia è schiusa,
l'arte con cui l'ingannator s'inganna.
Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga:
questo è il voto comun.
Che fece allora
l'amico di costui? Ve ne rammenta?
Io vel dirò; ché men tranquillo al certo
era in quel punto il vostro cor, dell'occhio
che imperturbato vi seguia.
Perdeste
ogni ritegno, oltrepassaste il largo
confin che un resto di prudenza avea
prescritto al vostro ardor, dimenticaste
ciò che promesso v'eravate, intero
ai men veggenti vi svelaste, a quelli
cui parea novo ciò che a noi non l'era.
Ognuno allor pensò che oggi in Senato
c'era un uom di soverchio, e che bisogna
porre il segreto dello Stato in salvo.
MARCO
Signor, tutto a voi lice: innanzi a voi
quel che ora io sia, non so; però non posso
dimenticarmi che patrizio io sono,
né a voi tacer che un dubbio tal m'offende.
Sono un di voi: la causa dello Stato
è la mia causa; e il suo segreto importa
a me non men che altrui.
MARINO
Volete alfine
saper chi siete qui? Voi siete un uomo
di cui si teme, un che lo Stato guarda
come un inciampo alla sua via.
Mostrate
che nol sarete; il darvene agio ancora
è gran clemenza.
MARCO
Io sono amico al Conte:
questa è l'accusa mia; nol nego, io il sono:
e il ciel ringrazio che vigor mi ha dato
di confessarlo qui.
Ma se nemico
è della patria? Mi si provi, è il mio.
Che gli si appone? I prigionier disciolti?
Non li disciolse il vincitor soldato?
Ma invan pregato il condottier non volle
frenar questa licenza.
Il potea forse?
Ma l'imitò.
Non ve lo astrinse un uso,
qual ch'ei sia, della guerra? ed al Senato
vera non parve questa scusa? e largo
d'ogni onor poscia non gli fu? L'aiuto
al Trevisan negato? Era più grave
periglio il darlo; era l'impresa ordita
ignaro il Conte; ei non fu chiesto a tempo.
E la sentenza che a sì turpe esiglio
il Trevisan dannò, tutta la colpa
non rovesciò sovra di lui? Cremona?
Chi di Cremona meditò l'acquisto?
Chi l'ordin dié che si tentasse? Il Conte.
Del popol tutto che a rumor si leva
non può scarso drappel l'inaspettato
impeto sostener; ritorna al campo,
non scemo pur d'un combattente.
Al Duce
buon consiglio non parve incontro un novo
impensato nemico avventurarsi;
e abbandonò l'impresa.
Ella è, fra tante
sì ben compiute, una fallita impresa;
ma il tradimento ov'è? Fiero, oltraggioso
da gran tempo, voi dite, è il suo linguaggio:
un troppo lungo tollerar macchiato
ha l'onor nostro.
Ed un'insidia, il lava?
E poi che un nodo, un dì sì caro, ormai
non può tener Venezia e il Carmagnola,
chi ci vieta disciorlo? Un'amistade
sì nobilmente stretta, or non potria
nobilmente finir? Come! anche in questo
un periglio si scorge! Il genio ardito
del condottier; la fama sua si teme,
de' soldati l'amor! Se render piena
testimonianza al ver, colpa si stima;
se a tal trista temenza oppor non lice
la lealtà del Conte; il senso almeno
del nostro onor la scacci.
Abbiam di noi
un più degno concetto; e non si creda
che a tal Venezia giunta sia, che possa
porla in periglio un uom.
Lasciam codeste
cure ai tiranni: ivi il valor si tema
ove lo scettro è in una mano, e basta
a strapparlo un guerrier che dica: io sono
più degno di tenerlo; e a' suoi compagni
il persuada.
Ei che tentar potria?
Al Duca ritornar, dicesi, e seco
le schiere trar nel tradimento.
Al Duca?
All'uom che un'onta non perdona mai,
né un gran servigio, ritornar colui
che gli compose e che gli scosse il trono?
Chi non poté restargli amico in tempo
che pugnava per lui, ridivenirlo
dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi
a quella man che in questo asilo istesso
comprò un pugnal per trapassargli il petto!
L'odio solo, o signor, creder lo puote.
Ah! qual sia la cagion che innanzi a questo
temuto seggio fa trovarmi, un'alta
grazia mi fia, se fare intender posso
anco una volta il ver: qualche lusinga
io nutro ancor che non fia forse invano.
Sì, l'odio cieco, l'odio sol potea
far che fosse in Senato un tal sospetto
proposto, inteso, tollerato.
Ha molti
fra noi nemici il Conte: or non ricerco
perché lo siano: il son.
Quando nascoste
all'ombra della pubblica vendetta,
le nimistà private io disvelai;
quando chiedea che a provveder s'avesse
l'util soltanto dello Stato, e il giusto;
allora ufizio io non facea d'amico,
ma di fedel patrizio.
Io già non scuso
il mio parlar: quando proporre intesi
che sotto il vel di consultarlo ei sia
richiamato a Venezia, e gli si faccia
onor più dell'usato, e tutto questo
per tirarlo nel laccio...
allor, nol nego...
MARINO
Più non pensaste che all'amico.
MARCO
Allora,
dissimular nol vo', tutte sentii
le potenze dell'alma sollevarsi
contro un consiglio...
ah fu seguito!...
Un solo
pensier non fu; fu della patria mia
l'onor ch'io vedo vilipeso, il grido
de' nemici e de' posteri; fu il primo
senso d'orror che un tradimento inspira
all'uom che dee stornarlo, o starne a parte.
E se pietà d'un prode a tanti affetti
pur si mischiò, dovea, poteva io forse
farla tacer? Son reo d'aver creduto
che util puote a Venezia esser soltanto
ciò che l'onora, e che si può salvarla
senza farsi...
MARINO
Non più: se tanto udii
fu perché ai Capi del Consiglio importa
di conoscervi appien.
Piacque aspettarvi
ai secondi pensier; veder si volle
se un più maturo ponderar v' avea
tratto a più saggio e più civil consiglio.
Or, poiché indarno si sperò, credete
voi che un decreto del Senato io voglia
difender ora innanzi a voi? Si tratta
la vostra causa qui.
Pensate a voi,
non alla patria: ad altre, e forti, e pure
mani è commessa la sua sorte: e nulla
a cor le sta che il suo voler vi piaccia,
ma che s'adempia, e che non sia sofferto
pure il pensier di porvi impedimento.
A questo vegliam noi.
Quindi io non voglio
altro da voi che una risposta.
Espresso
sovra quest'uomo è del Senato il voto;
compir si dee; voi, che farete intanto?
MARCO
Quale inchiesta, signor!
MARINO
Voi siete a parte
d'un gran disegno; e in vostro cor bramate
che a voto ei vada: non è ver?
MARCO
Che importa
ciò ch'io brami, allo Stato? A prova ormai
sa che dell'opre mie non è misura
il desiderio, ma il dover.
MARINO
Qual pegno
abbiam da voi che lo farete? In nome
del Tribunale un ve ne chiedo: e questo,
se lo negate, un traditor vi tiene.
Quel che si serba ai traditor, v'è noto.
MARCO
Io...
Che si vuol da me?
MARINO
Riconoscete
che patria è questa a cui bastovvi il core
di preferire uno stranier.
Sui figli
a stento e tardi essa la mano aggrava;
e a perderne soltanto ella consente
quei che salvar non puote.
Ogni error vostro
è pronta ad obbliar; v'apre ella stessa
la strada al pentimento.
MARCO
Al pentimento!
Ebben, che strada?
MARINO
Il Mussulman disegna
d'assalir Tessalonica: voi siete
colà mandato.
A quale ufizio, quivi
noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi
voi partirete.
MARCO
Ubbidirò.
MARINO
Ma un'arra
si vuol di vostra fé: giurar dovete
per quanto è sacro, che in parole o in cenni
nulla per voi traspirerà di quanto
oggi s'è fisso.
Il giuramento è questo:
(gli presenta un foglio)
sottoscrivete.
MARCO
(legge)
E che, signor? Non basta?..
MARINO
E per ultimo, udite.
Il messo è in via
che porta al Conte il suo richiamo.
Ov'egli
pronto ubbidisca, ed in Venezia arrivi,
giustizia troverà...
forse clemenza.
Ma se ricusa, se sta in forse, e segno
dà di sospetto; un gran segreto udite,
e tenetelo in voi; l'ordine è dato
che dalle nostre man vivo ei non esca.
Il traditor che dargli un cenno ardisce,
quei l'uccide, e si perde.
Io più non odo
nulla da voi: scrivete; ovvero...
(gli porge il foglio)
MARCO
Io scrivo.
(prende il foglio e lo sottoscrive)
MARINO
Tutto è posto in obblio.
La vostra fede
ha fatto il più; vinto ha il dover: l'impresa
compirsi or dee dalla prudenza: e questa
non può mancarvi, sol che in mente abbiate
che ormai due vite in vostra man son poste.
(parte)
SCENA II
MARCO
Dunque è deciso!...
un vil son io!...
fui posto
al cimento; e che feci?...
Io prima d'oggi
non conoscea me stesso!...
Oh che segreto
oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio
un amico io potea! Vedergli al tergo
l'assassino venir, veder lo stile
che su lui scende, e non gridar: ti guarda!
Io lo potea; l'ho fatto...
io più nol devo
salvar; chiamato ho in testimonio il cielo
d'un'infame viltà...
la sua sentenza
ho sottoscritta...
ha la mia parte anch'io
nel suo sangue! Oh che feci!...
io mi lasciai
dunque atterrir?...
La vita?...
Ebben, talvolta
senza delitto non si può serbarla:
nol sapeva io? Perché promisi adunque?
Per chi tremai? per me? per me? per questo
disonorato capo?...
o per l'amico?
La mia ripulsa accelerava il colpo,
non lo stornava.
O Dio, che tutto scerni,
rivelami il mio cor; ch'io veda almeno
in quale abisso son caduto, s'io
fui più stolto; o codardo, o sventurato.
O Carmagnola, tu verrai!...
sì certo
egli verrà...
se anche di queste volpi
stesse.
in sospetto, ei penserà che Marco
è senator, che anch'io l'invito; e lunge
ogni dubbiezza scaccerà; rimorso
avrà d'averla accolta...
Io son che il perdo!
Ma...
di clemenza non parlò quel vile?
Sì, la clemenza che il potente accorda
all'uom che ha tratto nell'agguato, a quello
ch'egli medesmo accusa, e che gli preme
di trovar reo.
Clemenza all'innocente!
Oh! il vil son io che gli credetti, o volli
credergli; ei la nomò perché comprese
che bastante a corrompermi non era
il rio timor che a goccia a goccia ei fea
scender sull'alma mia: vide che d'uopo
m'era un nobil pretesto; e me lo diede.
Gli astuti! i traditor! Come le parti
distribuite hanno tra lor costoro!
Uno il sorriso, uno il pugnal, quest'altro
le minacce...
e la mia?...
voller che fosse
debolezza ed inganno...
ed io l'ho presa!
Io li spregiava; e son da men di loro!
Ei non gli sono amici!...
Io non doveva
essergli amico: io la cercai; fui preso
dall'alta indole sua, dal suo gran nome.
Perché dapprima non pensai che incarco
è l'amistà d'un uom che agli altri è sopra?
Perché allor correr solo io nol lasciai
la sua splendida via, s'io non potea
seguire i passi suoi? La man gli stesi;
il cortese la strinse; ed or ch'ei dorme,
e il nemico gli è sopra, io la ritiro:
ei si desta, e mi cerca; io son fuggito!
Ei mi dispregia, e more! Io non sostengo
questo pensier...
Che feci!...
Ebben, che feci?
Nulla finora: ho sottoscritto un foglio,
e nulla più.
Se fu delitto il giuro,
non fia virtù l'infrangerlo? Non sono
che all'orlo ancor del precipizio; il vedo,
e ritrarmi poss'io...
Non posso un mezzo
trovar?...
Ma s'io l'uccido? Oh! forse il disse
per atterrirmi...
E se davvero il disse?
Oh empi, in quale abbominevol rete
stretto m'avete! Un nobile consiglio
per me non c'è; qualunque io scelga, è colpa.
Oh dubbio atroce!...
Io li ringrazio; ei m'hanno
statuito un destino; ei m'hanno spinto
per una via; vi corro: almen mi giova
ch'io non la scelsi: io nulla scelgo; e tutto
ch'io faccio è forza e volontà d'altrui.
Terra ov'io nacqui, addio per sempre: io spero
ché ti morrò lontano, e pria che nulla
sappia di te: lo spero: in fra i perigli
certo per sua pietade il ciel m'invia.
Ma non morrò per te.
Che tu sii grande
e gloriosa, che m'importa? Anch'io
due gran tesori avea, la mia virtude,
ed un amico; e tu m'hai tolto entrambi.
(parte)
SCENA III
Tenda del Conte.
IL CONTE e GONZAGA
IL CONTE
Ebben, che raccogliesti?
GONZAGA
Io favellai,
come imponesti, ai Commissari; e chiaro
mostrai che tutta delle vinte navi
riman la colpa e la vergogna a lui
che non le seppe comandar; che infausta
la giornata gli fu perché la imprese
senza di te; che tu da lui chiamato
tardi in soccorso, romper non dovevi
i tuoi disegni per servir gli altrui;
che l'armi lor, tanto in tua man felici,
sempre il sarian, se questa guerra fosse
commessa al senno ed al voler d'un solo.
IL CONTE
Che dicon essi?
GONZAGA
Si mostrar convinti
ai detti miei: dissero in pria, che nulla
dissimular volean; che amaro al certo
de' perduti navigli era il pensiero,
e di Cremona la fallita impresa;
ma che son lieti di saper che il fallo
di te non fu; che di chiunque ei sia,
da te l'ammenda aspettano.
IL CONTE
Tu il vedi,
o mio Gonzaga; se dai fede al volgo,
sommo riguardo, arte profonda è d'uopo
con questi uomin di Stato.
Io fui con essi
quel ch'esser soglio; rigettai l'ingiuste
pretese lor, scender li feci alquanto
dall'alto seggio ove si pon chi avvezzo
non è a vedersi altri che schiavi intorno;
io mostrai lor fino a che segno io voglio
che altri signor mi sia: d'allora in poi
mai non l'hanno passato; io li provai
saggi sempre e cortesi.
GONZAGA
E non pertanto
dar consiglio ad alcuno io non vorrei
di tener, questa via.
Te da gran tempo
la gloria segue e la fortuna; ad essi
util tu sei, tu necessario e caro,
terribil forse: e tu la prova hai vinta;
se pur può dirsi che sia vinta ancora.
IL CONTE
Che dubbi hai tu?
GONZAGA
Tu, che certezza? Io vedo
dolci sembianti, e dolci detti ascolto:
segni d'amor; ma pur, l'odio che teme,
altri ne ha forse?
IL CONTE
No: di questo io nulla
sono in pensier.
Troppo a regnar son usi;
e san che all'uom da cui s'ottiene il molto
chieder non dessi improntamente il meno.
E poi, mi credi, io li guardai dappresso:
questa cupa arte lor, questi intricati
avvolgimenti di menzogna, questo
finger, tacere, antiveder, di cui
tanto li loda e li condanna il mondo
è meno assai di quel che al mondo appare.
GONZAGA
Se pur non era di lor arte il colmo
il parer tali a te.
IL CONTE
No: tu li vedi
con l'occhio altrui: quando col tuo li veda,
tu cangerai pensiero.
Havvene assai
di schietti e buoni; havvene tal che un'alta
anima chiude, a cui pensier non osa
avvicinarsi che gentil non sia:
anima dolce e disdegnosa, in cui
legger non puoi, che tu non sia compreso
d'amor, di riverenza, e di desio
di somigliarle.
Non temer; non sono
di me scontenti; e quando il fosser mai,
io lo saprei ben tosto.
GONZAGA
Il Ciel non voglia
che tu t'inganni.
IL CONTE
Altro mi duol: son stanco
di questa guerra che condur non posso
a modo mio.
Quand'io non era ancora
più che un soldato di ventura, ascoso
e perduto tra i mille, ed io sentia
che al loco mio non m'avea posto il cielo,
e dell'oscurità l'aria affannosa
respirava fremendo, ed il comando
sì bello mi parea,...
chi m'avria detto
che l'otterrei, che a gloriosi duci,
e a tanti e così prodi e così fidi
soldati io sarei capo; e che felice
io non sarei perciò!...
(entra un Soldato)
Che rechi?
SOLDATO
Un foglio
di Venezia.
(gli porge il foglio, e parte)
IL CONTE
Vediam.
(legge)
Non tel diss'io?
mai non gli ebbi più amici: a loro il Duca
chiede la pace, e conferir con meco
braman di ciò.
Vuoi tu seguirmi?
GONZAGA
Io vengo.
IL CONTE
Che dì tu di tal pace?
GONZAGA
Ad un soldato
tu lo domandi?
IL CONTE
È ver; ma questa è guerra?
O mia consorte, o figlia mia, tra poco
io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:
questo è contento al certo.
Eppur del tutto
esser lieto non so: chi potria dirmi
se un sì bel campo io rivedrò più mai?
FINE DELL'ATTO QUARTO
ATTO QUINTO
SCENA I
Notte.
Sala del Consiglio dei Dieci illuminata.
Il DOGE, i DIECI, e il CONTE seduti.
IL DOGE
(al Conte)
A questi patti offre la pace il Duca;
su ciò chiede il Consiglio il parer vostro.
IL CONTE
Signori, un altro io ve ne diedi; e molto
promisi allor: vi piacque.
Io attenni in parte
quel che promesso avea: ma lunge ancora
dalle parole è il fatto; ed or non voglio
farle obbliar però: sul labbro mio
imprevidente militar baldanza
non le mettea.
Di novo avviso or chiesto,
altro non posso che ridirvi il primo.
Se intera e calda e risoluta guerra
far disponete, ah! siete a tempo: è questa
la miglior scelta ancora.
Ei vi abbandona
Bergamo e Brescia; e non son vostre? L'armi
le han fatte vostre: ei non può tanto offrirvi
quanto sperar di torgli v'è concesso.
Ma, da un guerrier che vi giurò sua fede
voi non volete altro che il ver, se il modo
mutar di questa guerra a voi non piace,
accettate gli accordi.
IL DOGE
Il parlar vostro
accenna assai, ma poco spiega: un chiaro
parer vi si domanda.
IL CONTE
Uditel dunque.
Scegliete un duce, e confidate in lui:
tutto ei possa tentar; nulla si tenti
senza di lui: largo poter gli date;
stretto conto ei ne renda.
Io non vi chiedo
ch'io sia l'eletto: dico sol che molto
sperar non lice da chi tal non sia.
MARINO
Non l'eravate voi quando i prigioni
sciolti voleste, e il furo? Eppur la guerra
più risoluta non si fea per questo,
né certa più.
Duce e signor nel campo,
forse concesso non l'avreste.
IL CONTE
Avrei
fatto di più: sotto alle mie bandiere
venian quei prodi; e di Filippo il soglio
voto or sarebbe, o sederiavi un altro.
IL DOGE
Vasti disegni avete.
IL CONTE
E l'adempirli
sta in voi: se ancor nol son, n'è cagion sola
che la man che il dovea sciolta non era.
MARINO
A noi si disse altra cagion: che il Duca
vi commosse a pietà, che l'odio atroce
che già portaste al signor vostro antico,
sovra i presenti il rovesciaste intero.
IL CONTE
Questo vi fu riferto? Ella è sventura
di chi regge gli Stati udir con pace
l'impudente menzogna, i turpi sogni
d'un vil di cui non degneria privato
le parole ascoltar.
MARINO
Sventura è vostra
che a tal riferto il vostro oprar s'accordi,
che il rio linguaggio lo confermi, e il vinca.
IL CONTE
Il vostro grado io riverisco in voi,
e questi generosi in mezzo a cui
v'ha posto il caso: e mi conforta almeno
che il non mertato onor di che lor piacque
cingere il loro capitan, lo stesso
udirvi io qui, mostra ch'essi han di lui
altro pensiero.
IL DOGE
Uno è il pensier di tutti.
IL CONTE
E qual?
IL DOGE
L'udiste.
IL CONTE
È del Consiglio il voto
quello che udii?
IL DOGE
Sì: il crederete al Doge.
IL CONTE
Questo dubbio di me?...
IL DOGE
Già da gran tempo
non è più dubbio.
IL CONTE
E m'invitaste a questo?
E taceste finor?
IL DOGE
Sì, per punirvi
del tradimento, e non vi dar pretesti
per consumarlo.
IL CONTE
Io traditor! Comincio
a comprendervi alfin: pur troppo altrui
creder non volli.
Io traditor! Ma questo
titolo infame infimo a me non giunge:
ei non è mio; chi l'ha mertato il tenga.
Ditemi stolto: il soffrirò, che il merto:
tale è il mio posto qui; ma con null'altro
lo cambierei, ch'egli è il più degno ancora.
Io guardo, io torno col pensier sul tempo
che fui vostro soldato: ella è una via
sparsa di fior.
Segnate il giorno in cui
vi parvi un traditor! Ditemi un giorno
che di grazie e di lodi e di promesse
colmo non sia! Che più? Qui siedo; e quando
io venni a questo che alto onor parea,
quando più forte nel mio cor parlava
fiducia, amor, riconoscenza, e zelo...
Fiducia no: pensa a fidarsi forse
quei che invitato tra gli amici arriva?
Io veniva all'inganno! Ebben, ci caddi;
ella è così.
Ma via; poiché gettato
è il finto volto del sorriso ormai,
sia lode al ciel; siamo in un campo almeno
che anch'io conosco.
A voi parlare or tocca;
e difendermi a me: dite, quai sono
i tradimenti miei?
IL DOGE
Gli udrete or ora
dal Collegio segreto.
IL CONTE
Io lo ricuso.
Ciò che feci per voi, tutto lo feci
alla luce del sol; renderne conto
tra insidiose tenebre non voglio.
Giudice del guerrier, solo è il guerriero.
Voglio scolparmi a chi m'intenda; voglio
che il mondo ascolti le difese, e veda...
IL DOGE
Passato è il tempo di voler.
IL CONTE
Qui dunque
mi si fa forza? Le mie guardie!
(alzando la voce, si move per uscire)
IL DOGE
Sono
lunge di qui.
Soldati!
(entrano genti armate)
Eccovi ormai
le vostre guardie.
IL CONTE
Io son tradito!
IL DOGE
Un saggio
pensier fu dunque il rimandarle: a torto
non si pensò che, in suo tramar sorpreso,
farsi ribelle un traditor potria.
IL CONTE
Anche un ribelle, sì: come v'aggrada
ormai potete favellar.
IL DOGE
Sia tratto
al Collegio segreto.
IL CONTE
Un breve istante
udite in pria.
Voi risolveste, il vedo,
la morte mia; ma risolvete insieme
la vostra infamia eterna.
Oltre l'antico
confin l'insegna del Leon si spiega
su quelle torri, ove all'Europa è noto
ch'io la piantai.
Qui tacerassi, è vero;
ma intorno a voi, dove non giunge il muto
terror del vostro impero, ivi librato,
ivi in note indelebili fia scritto
il benefizio e la mercé.
Pensate
ai vostri annali, all'avvenir.
Tra poco
il dì verrà che d'un guerriero ancora
uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro?
Voi provocate la milizia.
Or sono
in vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
ch'io non ci nacqui, che tra gente io nacqui
belligera, concorde: usa gran tempo
a guardar come sua questa qualunque
gloria d'un suo concittadin, non fia
che straniera all'oltraggio ella si tenga.
Qui c'è un inganno: a ciò vi trasse un qualche
vostro nemico e mio: voi non credete
ch'io vi tradissi.
È tempo ancora.
IL DOGE
È tardi.
Quando il delitto meditaste, e baldo
affrontavate chi dovea punirlo,
tempo era allor d'antiveggenza.
IL CONTE
Indegno!
Tu mi rendi a me stesso.
Tu credesti
ch'io chiedessi pietà, ch'io ti pregassi:
tu forse osasti di pensar che un prode
pe' giorni suoi tremava.
Ah! tu vedrai
come si mor.
Va; quando l'ultim'ora
ti coglierà sul vil tuo letto, incontro
non le starai con quella fronte al certo,
che a questa infame, a cui mi traggi, io reco.
(parte il Conte tra i Soldati)
SCENA II
Casa del Conte.
ANTONIETTA, e MATILDE
MATILDE
Ecco l'aurora; e il padre ancor non giunge.
ANTONIETTA
Ah! tu nol sai per prova: i lieti eventi
tardi, aspettati giungono, e non sempre.
Presta soltanto è la sventura, o figlia:
intraveduta appena, ella c'è sopra.
Ma la notte passò: l'ore penose
del desio più non son: tra pochi istanti
quella del gaudio sonerà.
Non puote
ei più tardar; da questo indugio io prendo
un fausto augurio: il consultar sì lungo
tratto non han, che per fermar la pace.
Ei sarà nostro, e per gran tempo.
MATILDE
O madre,
anch'io lo spero.
Assai di notti in pianto,
e di giorni in sospetto abbiam passati.
È tempo ormai che, ad ogni istante, ad ogni
novella, ad ogni susurrar del volgo
più non si tremi, e all'alma combattuta
quell'orrendo pensier più non ritorni:
forse colui che sospirate, or more.
ANTONIETTA
Oh rio pensier! ma almen per ora è lunge.
Figlia, ogni gioia col dolor si compra.
Non ti sovvien quel dì che il tuo gran padre
tratto in trionfo, tra i più grandi accolto,
portò l'insegne de' nemici al tempio?
MATILDE
Oh giorno!
ANTONIETTA
Ognun parea minor di lui;
l'aria sonava del suo nome; e noi
scevre dal volgo, in alto loco intanto
contemplavam quell'uno in cui rivolti
eran tutti gli sguardi: inebbriato
il cor tremava, e ripetea: siam sue.
MATILDE
Felici istanti!
ANTONIETTA
Che avevam noi fatto
per meritarli? A questa gioia il cielo
ci trascelse tra mille.
Il ciel ti scelse,
il ciel ti scrisse un sì gran nome in fronte;
tal don ti fece, che a chiunque il rechi,
n'andrà superbo.
A quanta invidia è segno
la nostra sorte! E noi dobbiam scontarla
con queste angosce.
MATILDE
Ah! son finite...
ascolta;
odo un batter di remi...
ei cresce...
ei cessa...
Si spalancan le porte...
ah! certo ei giunge:
o madre, io vedo un'armatura; è lui.
ANTONIETTA
Chi mai saria s'egli non fosse?...
O sposo...
(va verso la scena)
SCENA III
GONZAGA, e dette.
ANTONIETTA
Gonzaga!...
ov'è il mio sposo? ov'è?...
Ma voi
non rispondete? Oh cielo! il vostro aspetto
annunzia una sventura.
GONZAGA
Ah che pur troppo
annunzia il vero!
MATILDE
A chi sventura?
GONZAGA
O donne!
Perché un incarco sì crudel m'è imposto?
ANTONIETTA
Ah! voi volete esser pietoso, e siete
crudel: tremar più non ci fate.
In nome
di Dio, parlate; ov'è il mio sposo?
GONZAGA
Il cielo
vi dia la forza d'ascoltarmi.
Il Conte...
MATILDE
Forse è tornato al campo?
GONZAGA
Ah! più non torna...
Egli è in disgrazia de' Signori...
è preso.
ANTONIETTA
Egli preso! perché?
GONZAGA
Gli danno accusa
di tradimento.
ANTONIETTA
Ei traditore?
MATILDE
Oh padre!
ANTONIETTA
Or via, seguite: preparate al tutto
siam noi: che gli faran?
GONZAGA
Dal labbro mio
voi non l'udrete.
ANTONIETTA
Ahi l'hanno ucciso!
GONZAGA
Ei vive;
ma la sentenza è proferita.
ANTONIETTA
Ei vive?
Non pianger, figlia, or che d'oprare è il tempo.
Gonzaga, per pietà, non vi stancate
della nostra sventura; il ciel v'affida
due derelitte: ei v'era amico: andiamo,
siateci scorta ai giudici.
Vien meco,
poverella innocente: oh! vieni: in terra
c'è ancor pietà: son sposi e padri anch'essi.
Mentre scrivean l'empia sentenza, in mente
non venne lor ch'egli era sposo e padre.
Quando vedran di che dolor cagione
è una parola di lor bocca uscita,
ne fremeranno anch'essi; ah! non potranno
non rivocarla: del dolor l'aspetto
è terribile all'uom.
Forse scusarsi
quel prode non degnò, rammentar loro
quanto per essi oprò; noi rammentarlo
sapremo.
Ah! certo ei non pregò; ma noi,
noi pregheremo.
(in atto di partire)
GONZAGA
Oh ciel, perché non posso
lasciarvi almen questa speranza! A preghi
loco non c'è; qui i giudici son sordi,
implacabili, ignoti: il fulmin piomba,
la man che il vibra è nelle nubi ascosa.
Solo un conforto v'è concesso, il tristo
conforto di vederlo, ed io vel reco.
Ma il tempo incalza.
Fate cor; tremenda
è la prova; ma il Dio degl'infelici
sarà con voi.
MATILDE
Non c'è speranza?
ANTONIETTA
Oh figlia!
(partono)
SCENA IV
Prigione.
IL CONTE
A quest'ora il sapranno.
Oh perché almeno
lunge da lor non moio! Orrendo, è vero,
lor giungeria l'annunzio; ma varcata
l'ora solenne del dolor saria;
e adesso innanzi ella ci sta: bisogna
gustarla a sorsi, e insieme.
O campi aperti!
o sol diffuso! o strepito dell'armi!
o gioia de' perigli! o trombe! o grida
de' combattenti! o mio destrier! tra voi
era bello il morir.
Ma...
ripugnante
vo dunque incontro al mio destin, forzato,
siccome un reo, spargendo in sulla via
voti impotenti e misere querele?
E Marco, anch'ei m'avria tradito! Oh vile
sospetto! oh dubbio! oh potess'io deporlo
pria di morir! Ma no: che val di novo
affacciarsi alla vita, e indietro ancora
volgere il guardo ove non lice il passo?
E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?
Io le provai quest'empie gioie anch'io:
quel che vagliano or so.
Ma rivederle!
ma i lor gemiti udir! l'ultimo addio
da quelle voci udir! tra quelle braccia
ritrovarmi...
e staccarmene per sempre!
Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr'esse
un guardo di pietà.
SCENA V
ANTONIETTA, MATILDE, GONZAGA, e il CONTE
ANTONIETTA
Mio sposo!...
MATILDE
Oh padre!
ANTONIETTA
Così ritorni a noi? Questo è il momento
bramato tanto?...
IL CONTE
O misere, sa il cielo
che per voi sole ei m'è tremendo.
Avvezzo
io son da lungo a contemplar la morte,
e ad aspettarla.
Ah! sol per voi bisogno
ho di coraggio; e voi, voi non vorrete
tormelo, è vero? Allor che Dio sui boni
fa cader la sventura, ei dona ancora
il cor di sostenerla.
Ah! pari il vostro
alla sventura or sia.
Godiam di questo
abbracciamento: è un don del cielo anch'esso.
Figlia, tu piangi! e tu, consorte!...
Ah! quando
ti feci mia, sereni i giorni tuoi
scorreano in pace; io ti chiamai compagna
del mio tristo destin: questo pensiero
m'avvelena il morir.
Deh ch'io non veda
quanto per me sei sventurata!
ANTONIETTA
O sposo
de' miei bei dì, tu che li festi; il core
vedimi; io moio di dolor; ma pure
bramar non posso di non esser tua.
IL CONTE
Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed ora
non far che troppo il senta.
MATILDE
Oh gli omicidi!
IL CONTE
No, mia dolce Matilde; il tristo grido
della vendetta e del rancor non sorga
dall'innocente animo tuo, non turbi
quest'istanti: son sacri.
Il torto è grande;
ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali
un'alta gioia anco riman.
La morte!
Il più crudel nemico altro non puote
che accelerarla.
Oh! gli uomini non hanno
inventata la morte: ella saria
rabbiosa, insopportabile: dal cielo
essa ci viene; e l'accompagna il cielo
con tal conforto, che né dar né torre
gli uomini ponno.
O sposa, o figlia, udite
le mie parole estreme: amare, il vedo,
vi piombano sul cor; ma un giorno avrete
qualche dolcezza a rammentarle insieme.
Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi;
questa infelice orba non sia del tutto.
Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi
la riconduci: ella è lor sangue; ad essi
fosti sì cara un dì! Consorte poi
del lor nemico, il fosti men; le crude
ire di Stato avversi fean gran tempo
de' Carmagnola e de' Visconti il nome.
Ma tu riedi infelice; il tristo oggetto
dell'odio è tolto: è un gran pacier la morte.
E tu, tenero fior, tu che tra l'armi
a rallegrare il mio pensier venivi,
tu chini il capo: oh! la tempesta rugge
sopra di te! tu tremi, ed al singulto
più non regge il tuo sen; sento sul petto
le tue infocate lagrime cadermi;
e tergerle non posso: a me tu sembri
chieder pietà, Matilde: ah! nulla il padre
può far per te; ma pei diserti in cielo
c è un Padre, il sai.
Confida in esso, e vivi
a dì tranquilli se non lieti: Ei certo
te li prepara.
Ah! perché mai versato
tutto il torrente dell'angoscia avria
sul tuo mattin, se non serbasse al resto
tutta la sua pietà? Vivi, e consola
questa dolente madre.
Oh ch'ella un giorno
a un degno sposo ti conduca in braccio!
Gonzaga, io t'offro questa man che spesso
stringesti il dì della battaglia, e quando
dubbi eravam di rivederci a sera.
Vuoi tu stringerla ancora, e la tua fede
darmi che scorta e difensor sarai
di queste donne, fin che sian rendute
ai lor congiunti?
GONZAGA
Io tel prometto.
IL CONTE
Or sono
contento.
E quindi, se tu riedi al campo,
saluta i miei fratelli, e dì lor ch'io
moio innocente: testimon tu fosti
dell'opre mie, de' miei pensieri, e il sai.
Dì lor che il brando io non macchiai con l'onta
d'un tradimento: io nol macchiai: son io
tradito.
E quando squilleran le trombe,
quando l'insegne agiteransi al vento,
dona un pensiero al tuo compagno antico.
E il dì che segue la battaglia, quando
sul campo della strage il sacerdote,
tra il suon lugubre, alzi le palme, offrendo
il sacrifizio per gli estinti al cielo,
ricordivi di me, che anch'io credea
morir sul campo.
ANTONIETTA
Oh Dio, pietà di noi!
IL CONTE
Sposa, Matilde, ormai vicina è l'ora;
convien lasciarci...
addio.
MATILDE
No, padre...
IL CONTE
Ancora
una volta venite a questo seno;
e per pietà partite.
ANTONIETTA
Ah no! dovranno
staccarci a forza.
(si sente uno strepito d'armati)
MATILDE
Oh qual fragor!
ANTONIETTA
Gran Dio!
(s'apre la porta di mezzo, e s'affacciano genti armate; il capo di esse s'avanza verso il Conte: le due donne cadono svenute)
IL CONTE
O Dio pietoso, tu le involi a questo
crudel momento; io ti ringrazio.
Amico,
tu le soccorri, a questo infausto loco
le togli; e quando rivedran la luce
dì lor...
che nulla da temer più resta.
FINE DELLA TRAGEDIA
(1) Sono differenti in questo (l'Epopea e la Tragedia), che quella ha il verso misurato semplice, ed è raccontativa, e formata di lunghezza; e questa si sforza, quanto può il più, di stare sotto un giro del sole, o di mutarne poco; ma l'Epopea è smoderata per tempo, ed in ciò è differente dalla Tragedia.
Traduzione del Castelvetro.
(2) Corso di Letteratura drammatica, Lezione x.
(3) Batteux, Principes de la littérature, Traité V, chap.
4.
(4) Marmontel, Éléments de littérature, art.
Unité.
(5) Batteux, l.
c.
(6) Fleury, Murs des Israélites, X.
(7) Altre circostanze non hanno permesso all'autore di mantenere questa promessa.
E lo dice senza riguardo, sapendo bene che sono mancanze le quali, lungi dal far perdere a un autore il titolo di galantuomo, gli acquistano spesso quello di benemerito.
Del rimanente, questo punto è stato toccato in parte nella Lettre à M.r Ch...
sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie.
E forse, per ciò che riguarda la questione generale, basta osservare che tutta l'argomentazione di quegli scrittori è fondata sulla supposizione, che il dramma non possa interessare, se non in quanto comunichi allo spettatore o al lettore le passioni rappresentate in esso.
Supposizione venuta dall'aver preso per condizione universale e naturale del dramma ciò ch'era un fatto speciale de' drammi esaminati da loro, e della quale la più parte de' drammi immortali di Shakespeare sono una confutazione tanto evidente quanto magnifica.
(8) Corso di Letteratura drammatica, Lezione III.
(9) Filippo la fece decapitare come rea d'adulterio con Michele Orombelli.
Il più degli storici la credono innocente.
(10) Hist.
lib.
4; Rer.
Ital.
Script., T.
XIX, col.
72.
(11) Tutto questo racconto è cavato dal Bigli.
(12) Sanuto, Vite dei duchi di Venezia; Rer.
Ital., XXII, 978.
(13) Machiavelli, Ist.
Fior., Lib.
4.
(14) Per servire alla dignità del verso, il nome di quest'ultimo personaggio nella tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio.
La storia stessa ha suggerito questo cambiamento; giacché il Piccinino era nipote di Braccio Fortebracci, e dopo la morte dello zio fu capo de' soldati della fazione Braccesca.
(15) Istos quoque jubeo solita lege dimitti.
Bigli, lib.
6.
(16) Ad ligonem stipendiarii.
Chron.
Tarv.; Rer.
It., XIX, 864.
(17) Ai 13 di luglio, essendo stato proclamato Nicolò Trevisano, che fu capitano nel Po, ed essendosi egli assentato, gli Avogadori di Comune andarono al consiglio de' Pregadi, e messero di procedere contro di lui, per essere stato rotto in Po da' galeoni del Duca di Milano ai 21 di giugno passato, in vitupero del Dominio, e per non aver fatto il suo dovere, immo vilissime essersi portato; immo perché andò pregando gli altri che fuggissero via.
Sanuto, Rer.
Ital., XXII, 1017.
(18) Navagero, Stor.
Ven.; Rer.
Ital., XXIII, 1096.
(19) Sanuto: Rer.
It., XXII, 1028.
(20) Cronica di Bologna: Rer.
It., XVIII 645.
(21) Poggii, Hist.
lib.
VI.
(22) Rivoluzioni d'Italia, lib.
XX, cap.
1.
...
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