FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 89
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Pensava finalmente a nascondere il tutto sul luogo, ma la cosa era per sè difficile, e il tempo stringeva.
Di più non aveva ancora saputo scegliere un asilo, e senza farne mostra, era tormentato dallo stesso timore che Agnese.
Girava il pover uomo per la casa tutto affannato e stralunato, non sapendo che farsi, se la prendeva quando col duca di Nivers, come diceva egli, che avrebbe potuto rimanersi in Francia e voleva a forza esser duca di Mantova, quando col duca di Savoja che voleva ingrandirsi, quando coll'imperatore che stava su certi puntigli, e quando con Don Gonzalo di Cordova che non aveva saputo mandare quei diavoli per un'altra strada.
Bestemmiava ancor più la durezza dei suoi parrocchiani che non volevano dargli ajuto.
- Oh che gente! -, sclamava - che gente! ognuno pensa a sè! non c'è carità! - Si faceva alla finestra, e chiamava quelli che passavano con una certa voce mezzo piagnolente, e mezzo rimbrottevole.
«Venite a dare una mano al vostro curato, se avete viscere di misericordia; non siate così cani.
Ajutatemi a portar via quei pochi stracci, quei pochi stracci» ripeteva, perché nessuno sospettasse ch'egli avesse cose preziose da salvare.
«Aspettatemi, che venga anch'io con voi; aspettate almeno che siate quindici o venti, tanto da potermi guardare, ch'io non sia abbandonato.
Volete voi lasciarmi solo in man dei cani? Meritereste che il vostro parroco fosse spogliato, ammazzato.
Misericordia! Fermatevi dunque».
- Eh! tiran di lungo.
Oh che gente!
Bisogna dire che Don Abbondio fosse ben accecato dalla paura per parlare a quel modo.
Quegli a cui egli faceva quelle preghiere e quei rimproveri, passavano dinanzi alla sua casa curvi sotto il peso delle robe loro, quale trascinandosi dietro la sua vaccherella, quale traendosi dietro i figli che a stento lo seguivano, e la donna che portava quegli che non potevano camminare, quale reggendo un vecchio o un infermo.
Altri tornavano scarichi dal monte a raccogliere altre masserizie, finché reggessero le forze, e lo permettesse il pericolo.
Alcuni di loro non rispondevano a Don Abbondio, altri diceva: «eh sì! s'ingegni anch'ella signor curato».
- Oh povero me! oh che gente! - ripeteva egli.
- Ognuno pensa a sè: ognuno pensa a sè; e a me nessuno vuol pensare.
Per buona sorte Perpetua aveva conservato assai più sangue freddo, e operava e dava consigli, come Catterina prima aveva fatto nel campo alle rive del Pruth quando Pietro stretto tra i Turchi e i Tartari, non trovando uscita né consiglio, era caduto d'animo, non sapeva a che partito appigliarsi, e non aveva più energia che per isfogarsi in querele e in rimproveri.
Perpetua ben convinta che non era da fare assegnamento sopra altri, aveva fatto due fardelli uno per sè, uno per Don Abbondio; e poi in fretta e in furia, sparpagliava il resto delle masserizie nei bugigatti più nascosti della casa, sul solajo sotto il pagliajo, dietro i tini.
Quando questa faccenda fosse terminata alla meglio, ella aveva proposto di presentare a Don Abbondio il fardelletto destinato per lui, e d'intimargli di partire, giacché in quel momento era cosa evidente che il padrone non era in caso di governarsi e pel suo meglio bisognava comandargli.
È però vero che Perpetua aveva creduto di riconoscere una simile necessità in mille altri casi, che a gran pezza non erano urgenti come il presente.
In questo frattempo sopravvenne Agnese, e comunicata la sua risoluzione, fece intendere a Don Abbondio ch'ella poteva essere opportuna anche per lui.
«Dite davvero, Agnese?» disse Don Abbondio.
«È un buon parere, signor padrone», disse Perpetua: «andiamo senza perder tempo».
«Senza perder tempo», disse Don Abbondio, «perché costoro possono giungere da un momento all'altro.
Ma saremo sicuri in casa di quel signore? Eh!»
«Andiamo», disse Perpetua, «sicuri come in chiesa: gli parlerò io: siamo amici: è stato nella mia cucina quieto come un agnello: è diventato un uomo del Signore».
«Male non me ne vorrà fare: che dite eh? sarebbe un peccato senza costrutto: quelle poche volte che ho dovuto trovarmi con lui, sono sempre stato così compito! Andiamo, ma la mia povera roba!»
«Anch'io ho dovuto lasciar quasi tutto il poco fatto mio, che sono una povera vedova», disse Agnese.
«Sia fatta la volontà di Dio», disse Don Abbondio: e intanto Perpetua gli diede il fardello, dicendo: «porti questo, ch'io porto quest'altro».
«Oh poveretto me!» disse Don Abbondio.
«Che ci avete messo?»
«Camicie e abiti», rispose Perpetua, indi fattasi all'orecchio di Don Abbondio, domandò sotto voce: «i danari li ha in tasca?»
«Sì, zitto zitto per amor del cielo», rispose Don Abbondio, e prese il fardello.
«Sentite Perpetua», riprese poi tosto al momento di partire: «tirate fuori qualche altro abito che Agnese farà questo servizio al suo curato di portarlo».
«Ma non vede, che ho preso con me tutto quello di mio che poteva portare?» disse Agnese.
«Oh me poveretto!» mormorò Don Abbondio, «ognuno pensa a sè.
Andiamo, andiamo.
Perpetua chiudete bene la porta: alla custodia di Dio.
Aspettate...
ma no no, peggio: sono la metà Luterani! misericordia!»
Don Abbondio rispondeva così ad una proposizione che s'era fatta e che alla prima gli era paruta un bel trovato per preservare la casa.
Voleva staccare dalla chiesa il quadro del Santo protettore, e affiggerlo al di fuori su la porta, per indicare che la casa era sacra, e per fare in modo che non potesse essere intaccata che per mezzo d'una profanazione: ma s'avvide tosto che quel mezzo di difesa, molto debole per sè contra soldati avidi di rapina, poteva in questo caso divenire una provocazione a far peggio: giacché fra quei soldati v'era di molti ai quali uno sberleffo fatto coll'alabarda all'immagine d'un Santo sarebbe sembrato un'opera meritoria, una espiazione anticipata del saccheggio.
Data una occhiata lacrimosa alla casa, Don Abbondio s'incamminò colle due vecchie amazoni, e per tutta la via non fece altro che sospirare, lagnarsi dell'abbandono in cui l'avevano lasciato i suoi parrocchiani, domandare a Perpetua dove avesse riposta la tal cosa e la tal altra, e se credeva che non le avrebbero trovate: enumerare tutte le ragioni per le quali il Conte sarebbe stato peggiore d'un cane se gli avesse fatto male, e divisare dove si sarebbe potuto cercare un asilo se quello a cui si andava fosse stato mal sicuro.
Giunti presso al castello videro un gran movimento, gente che andava, gente che veniva, uomini in arme appostati, altri che giravano in ronda a tre a quattro, tanto che Don Abbondio cominciò a scrollare il capo e a dire: «Che è questa faccenda?» Ma Perpetua gli spiegò tosto che quegli erano evidentemente uomini che vegliavano alla sicurezza del castello, e di quelli che, come si vedeva, andavano ivi a rifuggirsi.
«Ohimè! ohimè!» disse Don Abbondio: «vedo che qui si voglion fare delle pazzie; appunto quando più si vorrebbe stare zitti, rannicchiati senza né meno fiatare, farsi scorgere.
Basta; vedremo: se fanno pazzie per tirarsi addosso la burrasca, dei monti ce n'è, e i precipizj non mi fanno paura: quando si tratti di salvare la pelle, ho coraggio anch'io quanto chi che sia, andrei in mezzo al fuoco».
Dette sotto voce queste parole Don Abbondio proseguiva lentamente, guardando con attenzione a quegli armati, e cercando di comporre il volto alla indifferenza, e di non lasciar trasparire il suo pensiero che diceva dentro: - Scommetterei che questo gradasso ha caro che sia venuto un flagello così orribile per avere il pretesto di fare un po' di rimescolamento.
Oh che gente! Oh che gente!
Del resto le cose erano quivi come Perpetua le aveva immaginate.
Al castello del Conte era rimasta unita una antica opinione di sicurezza e di potenza; e i nuovi costumi del signore ne avevano cancellata affatto l'idea di oppressione e di terrore; dimodoché la gente del contorno dalla banda del Milanese, vi accorreva come ad un asilo forte e pietoso nello stesso tempo.
Il Conte lieto di esser un oggetto di fiducia a quei deboli che aveva tanto spaventati ed oppressi, raccolse tosto i primi che si presentarono.
Ma un tal uomo non avrebbe potuto considerare la sua casa come un asilo disarmato, un nascondiglio di paura, né starsi colle mani in mano quando ad ogni momento poteva presentarsi un'occasione di menarle santamente.
Fece addirittura tirar giù dal solajo le armi irrugginite, le fece ripulire in fretta, ne distribuì ai servitori.
Quindi a misura che accorrevano fuggiaschi, egli trasceglieva gli uomini capaci di portare le armi, dava loro moschetti e partigiane: quando la provvigione fu esaurita, ne fece raccogliere all'intorno: e scompartiva gli uficj a quei nuovi soldati; altri mandava in ronda, altri più lontano per esplorare, altri stavano raccolti per porsi in difesa.
Quando uno era entrato nel castello, ed era passato in rivista dal signore, diveniva verso lui come un soldato col suo antico ufiziale: tanto il Conte possedeva quella forte risolutezza che piega le volontà, e quella parola che toglie il pensiero di fare diversamente da quello ch'ella suona.
Aveva allogate le donne e i fanciulli nelle stanze più riposte; i letti erano pei vecchj, e per gl'infermi: una gran sala serviva di magazzino per le robe che erano portate su dai rifuggiti: tutto era collocato in ordine, con numeri, dei quali il corrispondente era dato ai padroni; ed alla porta della sala era posto come un corpo di guardia; chi aveva portate provvigioni, viveva di quelle, e i poveri erano nutriti dal Conte con razioni che si distribuivano regolarmente come in un campo.
Egli, come l'Ariosto sognò di Carlo in Parigi, di qua di là, non istava mai fermo: dava ordini, visitava posti, metteva a luogo quelli che arrivavano, governava ogni cosa; e dove nascesse qualche garbuglio, qualche contesa, si mostrava, e tutto era finito.
Era appunto su la porta quando giunsero i nostri pellegrini; gli riconobbe tutti e tre, e gli accolse tutti con pronta cordialità; ma alla madre di Lucia fece una accoglienza particolare nella quale traspariva come una gratitudine perché ella gli desse ora una occasione di compensare alquanto in quello stesso castello la terribile ospitalità che vi aveva trovato la figlia.
«Bene avete fatto, brava donna», disse il Conte, «di cercare qui un ricovero.
Bene avete fatto di ricordarvi di me: fate stima di esser in casa vostra.
Voi ci portate la benedizione».
«Oh appunto!» rispose Agnese: «sono venuta a darle incomodo».
Il Conte le chiese con premura novelle di Lucia, e udite che le ebbe, si rivolse a Don Abbondio, e disse: «La ringrazio Signor curato ch'ella degni scegliere un asilo in questa casa».
- Manco male che conosce i suoi meriti - pensò Don Abbondio, e cominciò per rispondere: «In questi frangenti...
in queste circostanze...
non si...
tutto è...» Ma vedendo che la frase così cominciata non poteva venire a bene, la convertì in un inchino profondo.
«Son già arrivati alla sua parrocchia coloro?» domandò il Conte.
«Dio liberi!» rispose Don Abbondio: «Dio liberi! Non sarei qui vivo e sano ad implorare la protezione del Signor Conte».
«Si faccia cuore», ripigliò questi: «qua su non verranno; ma se volessero tentar la prova, siamo pronti a riceverli.
In ogni caso la sua presenza è preziosa, Signor curato: ella potrà animare questa brava gente alla difesa della vita di tanti deboli, della pudicizia di tante donne che confidano in noi».
- Un corno, - disse fra sè Don Abbondio.
«Ella potrà», proseguì il Conte, «assistere quelli fra noi che lasciassero la vita in questa impresa di misericordia».
«Signor Conte», disse Don Abbondio, «sarà quel che Dio vorrà».
E così dicendo girava la testa a guardare qual fosse la più vicina e la più alta delle cime che dominavano il promontorio su cui era posto il castello, per fissarsi uno scampo dove in quel caso poter benedire i combattenti.
Non rimaneva nel castello più che un letto libero; e fu dato, com'era giusto, a Don Abbondio prete e vecchio.
Ma il Conte, memore della notte che Lucia aveva quivi passata, non avrebbe potuto sofferire che la madre di lei, dormisse su la paglia.
Fece quindi portare il suo letto nel dormitorio delle donne, e disporlo quivi per Agnese, intimando ai servi che si guardassero bene dal dire che quello era il letto del padrone: e nella sua stanza fece in quella vece portare una bracciata di paglia.
Quindici giorni circa passarono i nostri rifuggiti nel castello; quindici giorni di batticuore e di sospetto, di spauracchi subitanei, e di rincoranti non è vero, di vigilie, di allarmi, di pericoli, che grazie al cielo tutti svanirono senza danno.
Il castello era fuor di strada, e quei pochi demonj di lanzichenecchi sbandati che capitavano alle falde del promontorio, veggendo su per la via uomini in arme, e non sapendo quanti più ve ne fosse in alto, più curiosi allora di preda che di battaglia, se ne tornavano, pel loro meglio.
Oltracciò la parte dell'esercito che nella marcia si diffondeva lungo l'estremo confine aveva un interesse urgente di tenersi raccolta, e all'erta, e di non disperdersi troppo a buscare.
Sull'altro confine era raccolta una forza dei Veneziani, la quale sotto il comando di Marco Giustiniani, provveditore all'armi in Bergamo era destinata a costeggiare l'esercito alemanno per tutto quel tratto del suo passaggio che toccasse i confini della Repubblica; e a questa forza avevano dato nome di Squadrone volante.
Alla presenza di questi che certo non erano amici, e che vedendo un bel tratto, potevano far da nemici, bisognava camminare con giudizio; e questa fu principalmente la cagione per cui il castello non fu molestato.
Ma anche questa che in fatto era salute, fu pel volgo inerme che vi era ricoverato, e per Don Abbondio principalmente un aumento d'inquietudine.
Poiché, se il confine veneto fosse stato sguernito, Don Abbondio certamente l'avrebbe varcato, e sarebbe andato innanzi fino a che non avesse più inteso parlare di lanzichenecchi.
Ma ora il poveretto non aveva più rifugio: l'accesso ai monti, oltre la fatica, era pieno di pericoli, pei predoni che potevano trovarsi su la via: e attraversare lo Squadrone volante sarebbe stato lo stesso che correre in bocca al lupo: giacché quella era una marmaglia ragunaticcia d'uomini tagliati a un dipresso alla misura dei lanzichenecchi; e nel paese che le era dato a proteggere faceva il peggio che poteva.
Ognuno può immaginarsi come il povero Don Abbondio passasse quei quindici giorni.
Stavasi colle donne coi vecchj e coi fanciulli nel luogo più riposto del castello: di tempo in tempo la paura lo cacciava fuori a domandar novelle, e rare erano quelle che non accrescessero lo spavento.
L'aspetto dell'armi, dei preparativi di difesa da una parte lo rincorava alquanto, dall'altra gli era intolerabile facendogli immaginare tutte quelle bagattelle in movimento a far carne.
Si percoteva il petto e le guance pensando alla minchioneria che aveva fatta.
- Mi son messo in gabbia da me stesso, - diceva tra sè sospirando.
- Oh che bestia! mi sono lasciato condurre da due pettegole.
- E in questo pensiero s'infuriava tanto che più d'una volta tirò da parte Perpetua per isfogarsi in improperj contra di essa.
Ma quando Perpetua giustificandosi alzava la voce, Don Abbondio la faceva tacere, e cessava di garrire anch'egli tutto impaurito che non nascesse qualche scandalo, e il Conte tornando all'antica natura non facesse il diavolo.
Don Abbondio sedeva alla tavola del Conte, che in quell'accampamento era come la tavola dello stato maggiore: v'erano i signori del contorno che facevano da ufiziali, le signore, e qualche prete.
La tavola era lieta: il Conte, da buon generale, metteva in campo e intratteneva discorsi atti ad ispirare risoluzione, a ravvicinare gli animi, a mettere i pensieri in comune, perché i pensieri solitarj sono più vicini allo scoraggiamento.
Bisognava dunque parlare, e ridere, e si rideva; ma per Don Abbondio era un supplizio: e quando il Conte gli rivolgeva in particolare il discorso per animarlo un pochetto, egli allora sforzandosi di mangiare e di ridere, faceva in una volta due smorfie che gli davano una figura veramente compassionevole.
Ma tutte le cose hanno finalmente un termine: passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli d'Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari, passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo, passano i Croati; quando piacque al cielo, passò anche Galasso che fu l'ultimo.
Lo squadrone volante dei Veneziani si mosse anch'esso per tener dietro al movimento dell'esercito alemanno su la riva opposta dell'Adda, fin dove ella era confine fra i due stati, e portarsi poi sull'Oglio a fare la stessa processione.
Quando le due retroguardie furono distanti una giornata dal castello, gli ospiti ne uscirono come uno stormo di passere si sparpaglia all'intorno dai palchi aerei e fronzuti d'una gran quercia dove erano accorse a ricoverarsi dalla tempesta.
Don Abbondio avrebbe voluto gittarsi d'un volo al suo nido, per mirar tosto cogli occhi proprj il suo dolore, e il guasto che v'era stato fatto, e nello stesso tempo perché i barberini, vedendo la casa abbandonata, non venissero a portar via quello che i barbari avevan potuto lasciare.
E poi, per quanto il Conte avesse dato segni e prove d'esser divenuto un galantuomo, Don Abbondio non l'aveva potuto guardar mai in volto senza ricordarsi dell'uomo brusco che era stato altre volte, e non istava con lui di buon animo, massime in picciola brigata.
Ma dall'altra parte lo riteneva la paura di abbattersi in qualche lanzichenecco sbandato, rimasto addietro alla busca, e di affogare in porto.
Era quindi sempre su le mosse, sempre s'indugiava, domandando novelle dei contorni a tutti coloro che giungevano al castello; e le novelle erano dolorose.
Quei pochi rimasti colla speranza di guardar le case, o discesi troppo presto, erano trovati sbigottiti, storditi dalle percosse e dallo spavento: ogni arredo, ogni masserizia sparita, e in quella vece nelle case, un impatto di strame, tizzoni di mobili arsi, greppi di stoviglie, sfracellate per istrazio dopo avervi bevuto il vino rubato, schifezze d'ogni genere, un tanfo che toglieva il respiro; dimodoché ognuno tornando con ansia alla casa derelitta, ne usciva alla prima con fastidio, e doveva farsi forza a poco a poco per rientrarvi a renderla di nuovo abitabile.
In qualche luogo il padrone avanzando così per la casa sua, udiva un gemito; guardava con sospetto che fosse: era un soldato che languiva infermo, che spirava: e il padrone ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e di pietà, di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle membra macchiate del giacente l'immagine confusa ma terribile della peste, che fino allora forse egli aveva sprezzata come un sogno lontano.
Il Conte argomentando da queste relazioni che Agnese se si fosse affrettata di tornare, non avrebbe però trovato nulla da guardare, la ritenne per due o tre giorni; e intanto raccolse di quello che gli rimaneva, un po' di provvigione, fece mettere insieme un po' di biancheria, qualche mobile, qualche attrezzo di cucina, e caricatone un baroccio, volle che Agnese partisse su quello con quella poca scorta, e la fece accompagnare da due suoi tarchiati servi, ordinando loro che ajutassero la povera donna a ripulire la sua casa.
Agnese partì dopo molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di grazie, e Don Abbondio e Perpetua le andarono in compagnia.
La strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione, e della disperazione; ma la giunta fu più trista ancora.
Alla esclamazione cento volte ripetuta di «povera gente» succedette il «povero me»: parola che generalmente parlando esce da una parte più profonda.
Cogli ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il suo povero abituro, ricogliere qualche masserizia sparsa qua e là nell'orto e nel campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra; e tra con questi rimasugli, e con quel di più che il Conte le aveva dato appresso, allogarsi in casa se non come prima, almeno in modo da poterci stare passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi paesani.
Ma il povero Don Abbondio questa volta ebbe campo e ragione più che mai di sclamare: «oh che gente! oh che gente!» La sua casa era la più mal trattata del villaggio, perché era la più apparente; e gli ospiti eroi sospettando che ci dovesse esser più che altrove ricchezza nascosta, vi avevano impiegato più ostinate cure a metter tutto sossopra.
Il sospetto non era mal fondato, né le cure erano state inutili: e Perpetua mettendo il piede su la soglia tra mezzo i mobili spezzati, i fogli lacerati, e le piume delle sue galline, scerse tosto con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose ch'ella pensava aver meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi avevan più ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere.
Don Abbondio, spinto innanzi dall'ansia di vedere i fatti suoi, e rispinto dal ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza, e lo ritraeva, dava tre passi, e ristava.
Quale spettacolo! Ogni stanza oltre il guasto che presentava, dava tosto l'idea del guasto generale; i segni d'un vasto saccheggio erano ristretti in un picciolo angolo, come idee sottintese in un periodo scritto da un uomo di garbo.
Sul focolare della cucina per esempio si vedevano più tizzoni spenti, i quali accennavano ancora d'essere stati un bracciuolo di seggiola, il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una doga del botticino dove Don Abbondio teneva il vino che per una lunga esperienza aveva riconosciuto il migliore amico del suo stomaco.
Di questi e di tanti altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere, e di carboni spenti; e con quei carboni, come per compenso, e per un complimento al padrone, i guastatori avevano schiccherate le pareti di visacci, ingegnandosi con berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei preti, e studiandosi di farli orribili e ridicolosi; intento che per verità non poteva fallire a tali artisti.
Don Abbondio mettendosi le mani in que' due suoi ciuffetti grigj su le tempie, balzò di casa come un forsennato, e andò di porta in porta a gagnolare, a scongiurare quegli che tornati da qualche giorno avevano assestate alla meglio le case loro, che venissero a dare un po' di governo alla sua; e nello stesso viaggio, guardava anche chi fosse più fornito di roba salvata dalla rapina, e accattava in prestito da chi una panca, da chi una coltre, da chi un piatto, da chi una pentola; tanto che cogli ajuti e con le prestanze potè accamparsi quel giorno in casa per riconquistarla e riordinarla poi tutta a poco a poco.
Passati quei primi giorni, e nel tempo appunto delle brighe e delle spese, Don Abbondio ebbe con se stesso e con Perpetua una guerra assai fastidiosa.
Perpetua, parte con la sua vista acuta come il fiuto d'un bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse che molte masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai barbari, ma erano sane e salve in paese nelle mani dei barberini; ne fece tosto avvertito Don Abbondio, perché si facesse rendere il suo.
Ma Don Abbondio non voleva sentir toccare questa corda: non già che non gli spiacesse assai vedersi così rubato a man salva, e sapere il fatto suo in mano d'altri: ma quegli che se lo tenevano erano i più terribili e bizzarri arieti del suo gregge: quegli dai quali Don Abbondio aveva sempre sofferto ogni cosa piuttosto che provocarli al cozzo, che aveva sempre accarezzati, e lodati come i più savj ed esemplari.
Sicché sopra il rovello e il danno aveva egli a tollerare anche le baruffe con Perpetua, e di queste baruffe ve n'era una tutte le volte che Don Abbondio si lagnava di qualche mancanza, domandava qualcheduno di quegli utensili che altri aveva fatti suoi.
«Vada a cercarlo al tale che lo ha», diceva Perpetua, «e che non lo avrebbe tenuto fino a quest'ora se non avesse che fare con un...
buon uomo».
«Zitto, zitto Perpetua, zitto».
«Zitto, zitto», rispondeva Perpetua: «e così ella si lascerebbe mangiar gli occhi del capo.
Rubare agli altri è peccato, ma a lei è peccato non rubare».
«Oh che spropositi! oh che spropositi!» sclamava Don Abbondio.
«Ma sapete pure...
Col nome del cielo...
volete la mia morte!...»
La baruffa andava talvolta in lungo, ma Don Abbondio rimaneva sempre vincitore, perché quando si trattava di paura, egli mostrava una risoluzione e una virtù tale che Perpetua sentiva di non poter competere, e taceva la prima.
Tutto quello che fece Don Abbondio, fu di gittare in predica qualche motto sul dovere di restituire e su la trista sorte di chi va all'altro mondo carico dell'altrui; ma lo diceva con certe perifrasi, con un riserbo, con una delicatezza da fare onore ad un predicatore di corte.
E pure appena quelle parole erano uscite, gli pareva che fossero state troppe e troppo ardite, e per riparare un qualche brutto effetto che ne potesse venire, passava tosto a parlare dell'ira, e della mansuetudine, e del gran male che è l'infierire contra quelli che non vogliono né possono far difesa.
Ma fra mezzo alle cure del passato cominciava a nascere una che doveva tutte sommergerle: si cominciava a sentire che i disastri manifesti e soli fino allora deplorati di quel passaggio, non erano i soli né i più terribili.
In tutta quella striscia del Milanese che la soldatesca aveva attraversata, si videro tutt'ad un tratto uomini d'ogni età e d'ogni sesso infermarsi e cadere come mosche dopo una pioggia autunnale.
I segni che accompagnavano quella infermità erano sconosciuti a quasi tutta la generazione vivente: solo alcuni vecchioni, con parole ravvolte e sospettose accennavano di aver veduti quei segni altra volta.
Erano i pochi i quali potessero ricordarsi d'essere vissuti nella peste che cinquantatrè anni prima aveva desolata una parte d'Italia, e specialmente il Milanese, dove a distinguerla da altre simili calamità fu poi chiamata, e lo è tuttavia: la peste di San Carlo.
Tanto è forte la carità religiosa! Tra le memorie così varie e così solenni d'un disastro universale, ella può far primeggiare quella d'un uomo, perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti ed azioni più memorabili ancora dei mali: può riunire e subordinare alla memoria di lui tutti gli avvenimenti, perché in tutti lo ha spinto ed intromesso a parte dei patimenti, in capo dei soccorsi, esempio, consiglio, vittima volontaria; di ciò che per tutti è una sventura fare per lui come un'impresa; far ch'essa prenda il nome da lui, come una provincia da un suo conquistatore.
Il tribunale della sanità in Milano era composto d'un presidente e di sei conservatori, quattro dei quali tolti da magistrature diverse, e due medici: questi ultimi erano allora Lodovico Settala, e quell'Alessandro Tadino, già da noi citato, e che lo sarà ancor più in seguito.
Il primo, quasi ottuagenario, era uno dei pochi testimonj viventi della peste di San Carlo; né testimonio puramente passivo; ma, fisico fin d'allora molto riputato, benché giovanissimo, ne era stato uno dei più affaccendati e intrepidi curatori.
Questi, che stava all'erta, e richiedeva avvisi dalle terre che l'esercito aveva toccate, ebbe in fatti i primi della mortalità; e fu il primo a riferire nel tribunale che la peste s'era manifestata nel territorio di Lecco.
Sopraggiunsero poi altri avvisi: il tribunale spedì un commissario perché osservasse e facesse relazione: questi in compagnia d'un medico di Como, visitò alcuni dei luoghi indicati; raccolse informazioni superficiali e contradditorie; credette a quelle che attribuivano la mortalità ad un solito effetto dell'autunno in quei luoghi, e rassicurò il tribunale.
Ma ecco giungere avvisi da altri luoghi al tribunale, il quale finalmente delegò due commissarj ad una visita generale dei paesi sospetti; Alessandro Tadino, e Giovanni Visconti Auditore.
Quando questi arrivarono, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offerivano senza ch'essi le andassero cercando.
Trovarono le ville, quale sbarrata per timore del contagio vicino, quale mezzo abbandonata; famiglie accampate o disperse, già piangenti la morte di qualche congiunto, e tremanti per la propria salute: s'inchiesero del numero dei morti, ed era terribile; visitarono gl'infermi e i cadaveri, e rinvennero i segni che tremavano di rinvenire: assunsero informazioni, riseppero che ivi più presto s'era manifestato il male, dove i soldati avevano stanziato più a lungo, o in più gran numero; che i primi percossi erano stati quelli che avevano spogliati i morti per appropriarsi le vestimenta, o che avevan comperata dai rimasti indietro qualche roba tolta ai loro paesani, o che in qualunque modo avevano avuto contatto con quegli ospiti.
Riscrissero quindi al tribunale che i sospetti erano divenuti una dolorosa certezza; e nello stesso tempo diedero quegli ordini che seppero per curare gl'infermi, e preservare i non tocchi, facendo tagliare strade, rinchiudere altri nelle case, altri attendare alla campagna, fissando provvigioni ad un paese, lasciando istruzioni in un altro, piantando in un altro la forca pei disobbedienti; il tutto in fretta e in furia come si poteva in quei tempi, in quelle circostanze, da quegli uomini sopra quegli uomini.
La nuova si diffuse tosto nella città, e vi fu accolta con beffe incredule, e con disprezzo iracondo, e dal popolo e dalla maggior parte di coloro che avrebbero potuto e dovuto dare provvedimenti in tanto pericolo.
Bisogna però eccettuare espressamente il cardinal Federigo, il quale ai primi romori di peste, prescrisse al clero regolamenti di preservazione, e di carità, e ingiunse ai parrochi specialmente che ammonissero i fedeli del grave peccato che avrebbe commesso chi per tema di danno o d'incomodo occultasse il suo o l'altrui morbo contagioso, o per insensata avarizia trafugasse vestimenta o cose di qualunque genere infette o sospette.
CAPITOLO III
Il giorno 22 d'ottobre di quell'anno 1629, Pietro Antonio Lovato, fante in un reggimento italiano alloggiato nel territorio di Lecco, entrò in Milano, carico di vesti rubate o comperate dai soldati alemanni; e andò a porsi in una casa di suoi parenti nel borgo di Porta Orientale.
Appena giunto s'ammalò; fu portato allo spedale: e morì nel quarto giorno.
Nel cadavero si scoperse un carbone che diede sospetto di peste; i parenti del morto, spaventati dall'idea di divenire sospetti anch'essi, e di essere assoggettati alle precauzioni sanitarie, accorsero ad asseverare che quel tumore era stato cagionato dalla fatica del viaggio e della soma.
Tuttavia gli abiti del Lovato e il letto dov'era giaciuto furono arsi nello spedale; ma non si pensò a più lontani provvedimenti.
Tre giorni dopo, due serventi dello spedale, che avevano governato quell'infermo, e un buon frate che lo aveva assistito, si posero giù con febbre, che fu giudicata pestilente.
Allora il tribunale della sanità fece sequestrare la famiglia del Lovato dalle molte altre famiglie, che abitavano nella stessa casa.
Quest'ordine fu dato per abbondare in cautela, a quel che lasciò scritto il Tadino; ma se la cautela fu abbondante, certo non fu a tempo; poiché egli stesso racconta come un Carlo Colonna sonatore di liuto, che dimorava sotto quel tetto, s'ammalò ben tosto, e visitato da lui, morì in breve spazio con tutti i segnali del contagio.
Tutti gl'inquilini di quella casa furono allora mandati al lazzeretto.
Ma dall'arrivo del Lovato erano già corsi forse venticinque giorni, nei quali i parenti, i vicini che avevano praticato con lui, avevano praticato pure con altri senza sospetto e senza riguardo.
Furono ricercate tutte le robe del Lovato e del Colonna; e fatte ardere quelle che si poterono rinvenire.
Ma una parte era stata trafugata, dispersa, nascosta, con quella destrezza, con quella diligenza che tutti noi figli d'Adamo sappiamo mettere nel far male a noi stessi.
I conservatori della sanità lo riseppero da una donna che si moriva per avere avuto di quella abilità; e non poterono fare altro che concepire un gran sospetto per l'avvenire.
Ben presto ogni più tristo sospetto cominciò ad avverarsi: la più parte dei sequestrati nel lazzeretto s'infermarono, e tutti coi medesimi tremendi segnali; e molti di essi morivano in poco d'ora.
Lo stesso accadeva di quando in quando in varj quartieri della città, o per comunicazioni avute colla gente di quella casa funesta, o per nuovo arrivare d'uomini dalle parti del contado dove la peste era più diffusa.
Ma le nuove di quegli accidenti giungevano al tribunale, tarde per lo più, incerte, contraddette.
Il terrore del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni, e faceva sormontare ogni altro terrore: si dissimulavano gli ammalati, si occultavano i cadaveri, si procuravano false attestazioni.
Quegli poi che avevano ottenuto l'intento di evitare il lazzeretto, o la quarantena in casa, e di conservare le robe dei congiunti o degli ospiti loro, cadevano poi talvolta repentinamente nelle vie, nelle chiese soprappresi dalla peste, e manifestavano in se stessi il malore che insensatamente avevano voluto nascondere in altri.
Il tribunale avvertito, faceva portare gl'infermi e i sospetti al lazzeretto, e sequestrare gli altri nelle case.
Ma lo schiamazzare che si faceva contra quel tribunale non è da dirsi: i suoi atti erano oggetto di amara censura e di derisione; le persone oggetto di avversione e di disprezzo.
A volerlo ora dopo due secoli, giudicare con discrezione, bisogna vedere ciò ch'esso poteva fare per distornare la peste, o per diminuirne il guasto; e ciò che fece.
Ora, prima di tutto è cosa troppo evidente che il tribunale della sanità non poteva impedire che entrasse la peste nello stato, quando v'entrava un esercito nel quale era appiccata.
Fin da quando si seppe che la calata di questo esercito era risoluta, quei poveri galantuomini, - e questo fu veramente un abbondare in cautela - rappresentarono al Signor Don Fernando Gonzales di Cordova la rovina che infallibilmente ne sarebbe venuta al paese: ma Don Fernando Gonzales di Cordova rispose chiaramente che il fine politico per cui si faceva passare quella truppa, importava più che non la sanità pubblica.
Non parlò dunque con esattezza quel valentuomo, il quale in un libretto, per altro lodevolissimo, ricercando le cagioni per cui quella peste fu tanto micidiale in Lombardia, nota per la prima «una somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza»: e fa nascere questa spensieratezza «dalla ignoranza e dalla sicurezza nei loro errori, che formò il carattere dei nostri avi».
La non fu spensieratezza; fu posponimento volontario, abbandono pensato della salute degli uomini; e quelli che lo commisero non sono nostri avi.
A ciascheduno quel che gli si viene.
Ma data questa inevitabile ospitalità ad appestati, poteva il tribunale impedire ogni contatto dei paesani con quelli? Qui pure l'impossibilità è manifesta: poiché si trattava di migliaja d'uomini che violentemente si ponevano nelle case, occupavano i letti, prendevano, adoperavano, brancicavano, mal menavano le cose e le persone che potevano aver nelle mani.
Entrato così il contagio negli abitanti, poteva il tribunale circoscriverlo tosto a quei primi infetti, isolarlo, costringerlo nei luoghi dove si manifestava, ottenere quei due scopi egualmente sacri, e tanto difficili a conciliarsi, l'assistenza agli infermi, e la preservazione dei sani? Quando si consideri che i soldati avevano percorse forse cento cinquanta miglia del Milanese, e s'erano diffusi a destra e a sinistra per trovare alloggiamenti, e per rapinare; che in varie parti di quel tratto la pestilenza si manifestò ad un punto, in moltissime persone, si vedrà che anche quest'ultimo scopo era se non impossibile, difficilissimo ad ottenersi dal tribunale, quand'anche questo avesse avuti a sua disposizione mezzi grandissimi, e avesse trovata da per tutto una pronta, attiva, e sapiente cooperazione; del che non era niente.
Ma per conchiudere finalmente, adoperò il tribunale tosto o tentò tutti quei mezzi che aveva se non per distruggere, se non per ridurre a poco, almeno per iscemare in qualche parte il contagio, e per salvare i paesi non ancor tocchi? Qui bisogna distinguere fra le persone stesse del tribunale.
I due medici, convinti dal primo momento della gravità del pericolo, insistettero tosto e sempre perché si dessero pronti provvedimenti; ma non furono secondati dai loro colleghi.
Proposero per esempio che fosse proibito sotto pene severissime, il comperar robe dai soldati alemanni; «ma», dice ingenuamente il Tadino, «non fu possibile persuaderlo al presidente pieno di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaja di persone, per il commercio di questa gente e loro robbe».
Così l'avere a quel primo avviso del Settala, anzi dopo gli iterati avvisi che giungevano dal territorio di Lecco, spedito un ignorante commissario, col solo carico di riferire, fu atto di trascuranza inescusabile; per non parlare di molti altri atti di egual valore.
Certo una condotta simile in simili circostanze d'un tribunale della sanità ai nostri giorni ecciterebbe uno scandalo universale; o per meglio dire non vi sarebbe ora forse in Europa tribunale della sanità che operasse a quel modo.
Ma - e qui appare il carattere singolare di quei tempi - non erano queste le accuse che gli uomini d'allora facevano al tribunale; lo accusavano, indovinate mò; di corrività, e di precipitazione, lo accusavano di credere pazzamente ad un male che non esisteva, di atterrire, di contristare, di tormentare con ordini inutilmente i cittadini.
Dopo tante calamità, parlare anche di peste pareva un raffinamento di crudeltà; il popolo bene o mal vestito gridava ad una voce che quell'orrendo sospetto era una invenzione di alcuni medici per guadagnare sul pubblico terrore.
Molti fra i medici stessi, facendo eco alla voce del popolo, la quale in questo caso - se è lecito fare una eccezione ad un proverbio - non era certamente voce di Dio, ridevano al nome di peste, attribuivano la mortalità ai disagj degli anni scorsi, ed avevano in pronto molti nomi per qualificare variamente gli accidenti di quel male nelle varie persone; quando qualche infermo, rimovendo tristamente la coltre, mostrava loro un tumore che gli dava da pensare, essi sogghignando gli domandavano se non aveva mai veduto foruncoli; quando si parlava di taluno estinto repentinamente, o dopo brevissimo languore, domandavano se non si erano mai conosciute apoplessie.
Con una disposizione universale di questo genere, gli ordini del tribunale dovevano incontrare da per tutto ostacoli, resistenze, inesecuzione.
Così era in fatti; e per immaginarsi a qual segno, basti sapere che gli ufiziali stessi del tribunale, quelli che dovevano fare eseguire gli ordini, erano, come l'universale convinti che fossero pazzie.
Come però erano ordini, che davano ad essi una autorità, e ordini spiacenti a chiunque vi si doveva assoggettare, una gran parte di quegli ufiziali faceva un traffico della inesecuzione.
Era venuto il carnevale; e agli animi avidi di tripudio diveniva ancor più insopportabile la tirannia del tribunale che per un supposto ostinato, per un suo capriccio vi poneva inciampo in mille modi.
Non consta veramente che giungesse all'eccesso di proibire le mascherate; ma faceva far visite incessanti, ma prescriveva sequestri, ma separava gente da gente, ma non rifiniva di tappezzare gli angoli delle vie di ordini minacciosi, malinconici, ma insomma voleva intrudere a forza quella idea di peste in tutto, amareggiava e teneva su la corda ogni galantuomo.
Più ancora fremevano coloro che come sospetti erano rinchiusi nel lazzeretto; e ripensavano tristamente ai divertimenti dai quali erano tenuti in bando; si rodevano di non potere, come i loro concittadini, gettare alle finestre, alle carrozze delle signore uova industriosamente ripiene di acqua odorosa o fetida, secondo il genio leggiadro o spiritoso del dilettante: sollazzo renduto più piccante dal divieto annuo, e dalla destrezza che si doveva impiegare a far le cose in modo da non esser sorpresi, e da schifare la multa di venticinque scudi se il reo era un galantuomo, e due tratti di corda se scarseggiava di scudi.
Pensarono dunque al modo di divertirsi almeno in quel tristo ricinto; e con danari ottennero facilmente dai ministri del tribunale, di confondersi e di praticare liberamente fra loro; ottennero di più che si desse adito nel lazzeretto a chi voleva venire a rallegrarli: vi si fecero feste e balli: la licenza fu tanto più sfrenata in quanto aveva costato desiderj, e denari: e quel luogo che in verità pare dovesse ispirare tutt'altri pensieri, divenne un ridotto di tresche romorose, e di sozzi baccani.
Similmente, molti in casa di cui moriva uno appestato con denaro ottenevano dai ministri del tribunale che la casa non fosse dichiarata sospetta, ottenevano di poter sottrarre all'incendio prescritto dagli ordini le robe del defunto.
Vedendo poi molti di costoro che guadagno ritraevano dalla loro condiscendenza, pensarono a farla comperare anche a chi non ne aveva bisogno; e quel traffico tanto insensato e colpevole si cangiò di più in concussione.
Minacciavano essi del lazzeretto o della quarantena famiglie dove era morto qualcheduno, quantunque con nessun indizio di peste, e per altro male manifesto; prolungavano ad arbitrio le quarantene, intimavano la qualità di sospetti, e le conseguenze di questa qualità coi più vani pretesti a chi conveniva loro; e il solo mezzo d'uscire da quegli artigli era di ugnerli, come si dice.
Queste vessazioni crescevano il malcontento e i clamori: di tutto si dava cagione al tribunale, e alla opinione che vi fosse la peste; giacché tolta questa opinione sarebbero necessariamente cessati colle prescrizioni di cautela, gl'incomodi e gli abusi di quelle.
Ormai chi avesse voluto parlar seriamente di peste sarebbe stato accolto non più con risate, ma con minacce e con insulti: quei medici, che lo ardivano erano nominati, notati, mostrati a dito come pubblici nemici.
Sa il cielo quante quei poveri galantuomini avranno dovuto ingozzarne; le quali sono sepolte nell'obblio con chi le ha fatte e con chi le ha patite.
Uno di quei casi però parve ai contemporanei degno d'esser tramandato ai posteri; e in servizio di quei posteri che forse non l'avessero mai inteso, lo racconteremo di nuovo anche noi.
Ludovico Settala era generalmente riputato il primo medico del suo tempo in Lombardia; e questa riputazione gli è conservata tuttora da coloro che sono in caso d'avere una opinione ragionata su questo fatto.
Oltre questa superiorità di dottrina, era egli celebrato e venerato per bontà di costumi, per uno grande zelo e un gran disinteresse e beneficenza nell'esercizio della sua professione.
Vecchio venerabile, autore di molte opere la più parte latine, lodato dagli esteri, uomo che per amore del luogo natale aveva rifiutati gl'inviti splendidi del duca di Baviera, del granduca di Toscana, del cardinal legato di Bologna, dei signori veneziani, protofisico, lettore di filosofia, egli avrebbe potuto slanciare impunemente, anzi con applauso qualunque sproposito.
Ma egli abusò di tanta popolarità; volle dire una cosa vera, che importava a tutti, e che nessuno voleva intendere; e ne fu severamente punito.
La popolarità e il favore si cangiò in avversione.
Egli, il primo a denunziare la peste, aveva sempre persistito nel proporre provvedimenti, aveva messa ogni cura nel farli eseguire, e più sicuro degli altri per una lunga abitudine di autorità aveva sempre predicato in ogni occasione e con chi che sia che pur troppo il male era certo, e che l'ostinarsi a negarlo, non poteva fare altro che dargli più campo a dilatarsi.
Un giorno sul finire del Marzo 1630, appunto quando il contagio che aveva lentamente serpeggiato nel verno, cominciava a mostrarsi più frequente, essendo il buon vecchio portato in lettiga a visitare suoi malati, cominciarono alcuni del popolo a seguirlo nella via, a mostrarlo agli altri, a sussurrargli intorno.
Si fece folla, e allora si cominciò a gridare più chiaramente: «è il capo della lega: è quegli che vorrebbe che ci fosse la peste: per sostenere il suo puntiglio: per far lavorare i suoi medici impostori.
Uh! Uh! È quegli che mette la paura in corpo alla gente con quel suo cipiglio aggrondato, con quella sua barbaccia.
L'amico della peste: il protettore del contagio.
Uh! Uh! È ora di finirla: Si vorrebbe insegnargli a spaventare tutta una città colle sue imposture».
I lettighieri vedendo la mala parata, approfittarono della vicinanza d'una casa conoscente del loro padrone, e ve lo portarono in salvo da quel tumulto, da quello sdegno che minacciava di diventar furore; ivi il vecchio dovette rifugiarsi come un omicida per avere avuto ragione, e voluto far del bene.
Da avvenimenti di questa sorte si trae troppo spesso una conseguenza falsa e perniciosa: che è pazzia far del bene a noi uomini.
Far del bene è sapienza; la pazzia è proporsi per fine o per premio la nostra riconoscenza, e la lode che noi diamo e ritogliamo a capriccio, come un ragazzo il suo balocco.
Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano quelli che i signori schiamazzavano nelle sale.
I dotti poi, convenendo per la più parte nella opinione comune, la sostenevano però con argomenti un po' più reconditi, e si scatenavano contra il tribunale e contra quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più filosofico.
Per darcene un saggio, l'autore del manoscritto, riferisce una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante, e un Magnifico Signor Lucio, del quale l'autore, tacendo il cognome, accenna alcune qualità.
Era costui professore d'ignoranza, e dilettante d'enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò non ostante, anzi per questo appunto, pretendeva decidere d'ogni cosa; «perché i libri» diceva egli «fanno perdere il buon senso».
Ammetteva bene una scienza che si poteva acquistare colla esperienza, e comunicare per mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so per quale raziocinio, supponeva che non si potesse consegnare altro che bugie.
Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità, che divenendo di giorno in giorno più risoluti cominciavano a non far distinzione di persone, e assoggettavano anche i potenti ad una vigilanza incomoda.
«Tutto questo», diceva il Signor Lucio, «in grazia dei libri, dei sistemi, delle dottrine, che hanno scaldata la testa d'alcuni i quali per nostra sciagura, comandano.
Non è ella cosa che fa rabbia, e pietà nello stesso tempo, il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con giudizio, e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant'anni, e del buon senso che gli ha dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il sentimento d'un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza del contagio; perché? perché l'ha trovata nei suoi autori.
Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci».
«Piano, piano», disse Don Ferrante, il quale benché occupato a dissertare in un altro crocchio aveva intesa quella scappata del Signor Lucio.
«Piano, piano; se si tocca la scienza son qua io a difenderla».
«Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che gli comparte tanti favori», disse una signora, e il tratto riscosse un mormorio di applauso da tutta la brigata.
«Quand'anche ciò fosse vero», disse Don Ferrante, dopo aver pensato soltanto per un mezzo minuto, «una tale parzialità sarebbe da attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità del sesso.
Comunque sia», continuò egli, «son qui a provare che la scienza non ha colpa in quegli spropositi che si metton fuori sotto il suo nome».
«Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere», rispose il Signor Lucio, «che tutte quelle belle ragioni che si dicono da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, che so io, non sieno cavate dalla scienza».
«Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie», rispose Don Ferrante.
«Anzi la scienza, chi la scava un po' al fondo, dice tutto il contrario, e insegna chiaramente che il contagio è una cosa impossibile, una chimera, un non-ente».
«Son cose che le donne possano intendere?» domandò quella signora.
«La materia è un po' spinosa», disse Don Ferrante; «ma vedrò di renderla trattabile.
Dico dunque che in rerum natura non vi ha che due generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non può essere né dell'uno né dell'altro genere; dunque non può esistere in rerum natura.
Le sostanze...
prego di tener dietro al filo del ragionamento...
sono semplici o composte.
Sostanza semplice il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea; perché se fosse, volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe rimanersi a danneggiare i corpi; non è acquea, perché bagnerebbe; non è ignea, perché brucierebbe; non è terrea, perché sarebbe visibile.
Sostanza composta, né meno; perché tutte le sostanze composte si fanno discernere all'occhio o al tatto; e fra tutti i signori medici non vi sarà quell'Argo che possa dire d'aver veduto, non vi sarà quel Briareo che possa dire di aver toccato questo contagio.
Oh benissimo; vediamo ora se può essere accidente.
Peggio che peggio.
Ci dicono questi signori che il contagio si comunica da un corpo all'altro; sarebbe dunque un accidente trasportato.
Ah! ah! un accidente trasportato: due parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone per fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un soggetto all'altro.
Mi pare che la cosa sia evidente».
«Intanto», disse il signor Lucio, «senza tutti questi argomenti, col semplice buon senso, tutti i galantuomini, e il popolo stesso sanno benissimo che questo contagio è un sogno».
«Non lo sanno; perdoni», rispose Don Ferrante, «lo indovinano, a caso, come atomi senza cervello che girando senza sapere dove, concorressero a comporre una figura regolare.
Mi dica un po' di grazia, se sapranno poi dire la cagione vera di questa mortalità».
«Oh bella!» disse il signor Lucio; «la cagione è chiara: in tutti i tempi si muore; in alcuni le morti sono più frequenti perché v'ha più malattie; e questo è il caso nostro».
«Sì», disse Don Ferrante; «ma le malattie, la cagione prima delle malattie?»
«Nè qui pure c'è sotto gran misterio», rispose il signor Lucio: «la carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie».
«Tutto bene», disse Don Ferrante, «ma la cagione prima?»
«Io non so che cosa ella intenda per cagione prima», disse Don Lucio.
«Ora, vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza», disse Don Ferrante.
«Per trovare la cagione prima delle malattie, della carestia, di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto, bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla negli aspetti dei pianeti.
Perché non si vuol fare come il volgo, che guarda in su, vede le stelle, e le considera come tante capocchie di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle influiscono, ma non va poi a cercare né come né quando.
Abbiamo il libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si tratta che di saper leggere.
Ed ecco che due anni fa comparve quella gran cometa causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, apparet cometa magnus in cardine dextro, la quale indicava chiaramente che l'anno susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una terribile carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno, con quelle parole tanto chiare e tanto terribili: Fames in Italia morsque vigebit ubique.
Che se i dotti le avessero trovate prima, non sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il fatto anche i più ostinati debbono tacere.
Ed ora, a furia di osservare, e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è ricavata un'altra predizione egualmente chiara; così non fosse!...»
Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se stesse per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò; la sua voce prese un tuono lugubre e solenne, articolò la formola terribile: «mortales parat morbos; miranda videntur».
«O poveretti noi!» disse una signora, e rivolta al suo vicino chiese che cosa volesse dire quel latino.
«Le prime parole», rispose egli, «voglion dire che il morbo pare mortale: il resto è una esclamazione che non significa niente».
Don Ferrante continuò: «Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove sta l'errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare, e resistere all'evidenza, e credono di spaventarci con un grande apparato di dottrina, come se alla fine, avessero a fare soltanto con gente che non abbia mai toccato il limen della filosofia.
Non basta parlare, a proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni violacei, di foruncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione...»
«Eppure», disse il Signor Lucio, risolutamente, perché gli pareva di avere alle mani una buona ragione, «eppure anche quei medici non negano che l'aspetto dei pianeti presagisca malanni...»
«E qui li voglio», interruppe Don Ferrante; «qui dà in fuora lo sproposito.
Confessano questi signori, perché a negare un tal fatto ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è causato dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica da un uomo all'altro.
Chi ha mai inteso che si possano comunicare le influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni agli altri come tanti pianeti.
Confessano che il male è causato dalle influenze, e dicono poi: state lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e schiferete il male: come se le influenze discese dai corpi celesti in questo mondo sublunare potessero schifarsi: come se quando le stelle inclinano al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe precauzioni ridicole; come se giovasse sfuggire il contatto materiale dei corpi terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei corpi celesti.
Per me, credo che anche questo accecamento dei medici, e appunto dei medici che hanno la mestola in mano, sia un effetto di quella costituzione maligna che domina in questo anno sciagurato, accioché per giunta di tanti mali ci tocchi anche il flagello dei regolamenti».
Tutti quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era contagioso, sapevano che era comparsa quella cometa, avevano inteso dire che l'aspetto dei pianeti in quell'anno era funesto; ma da tutte queste idee non avevano mai pensato a cavare quel sugo che Don Ferrante espresse nella sua bella argomentazione.
Uscirono tutti di quivi più atterriti di prima, e nello stesso tempo più irritati contra i regolamenti, e più disposti a trascurare, come inutili, tutte le cautele.
Lo stesso contraddittore signor Lucio partì da quella disputa più pensoso; perché le predizioni astrologiche erano di quelle cose ch'egli riponeva non nei sogni della scienza, ma nei canoni del buon senso.
Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere, con che fronte sicura sostenute, e predicate, con che fiducia applicate ai casi, e alle deliberazioni della vita, si prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi; non si può a meno di non pensare che se uno di noi avesse potuto trovarsi in quella età con le idee presenti, sarebbe stato in molte cose l'uomo il più illuminato, e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le contraddizioni.
Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto.
E se anche noi ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle età venture? cose da far dire un giorno: pare impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura fossero incocciati di errori tanto marchiani.
E perché no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale, quasi unanime d'idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre, dominanti in somma per una, due, più generazioni; divenute poi il ludibrio delle generazioni susseguenti.
Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno così regnato nelle diverse età, delle origini, dei progressi, e della caduta loro.
Si vedrebbero le più solenni stravaganze, raccolte insieme, e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente avute in conto di verità incontrastabili.
Si direbbe: nel tal secolo il negare la tal cosa che ora nessuno vorrebbe affermare, vi avrebbe fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro l'affermare la tal altra che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio vi avrebbe fatto andar prigione; in quello, la tal proposizione vi avrebbe fatto perdere ogni credito, in quell'altro, era appena lecito avventurarla al tale grand'uomo, e con molta precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi per correzione la tal altra cosa, che ora per noi e fin d'allora era forse per lui stesso una sciocchezza badiale.
Si vedrebbe un tale errore, proposto da prima con timidità, sostenuto con modestia, combattuto acremente, diffuso lentamente fra i contrasti, aver poi dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro annunziato con pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato, cresciuto, e morto in un paese, tale recato da di fuori, e ricevuto con gratitudine, tale sorto tra il popolo illetterato, e a poco a poco ammesso dai dotti, ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo di dottrine; tale, scavato in un libro vecchio; tale immaginato da un corpo, da un uomo autorevole; tale messo fuori da un uomo senza credito, e senza merito, aver fatto grande fortuna perché conforme ad altre idee storte già dominanti, e ad una generale disposizione degli ingegni: e per troncare con una delle specie più singolari una lista che sarebbe troppo difficile e troppo lungo il compiere, si vedrebbe tale errore tenuto fermamente, amato, predicato con ardore fanatico dagli uomini i più colti e pensatori di un'epoca, e rispinto dal popolo, e dalla folla dei dotti minori, quando per amore di prevenzioni diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodoché su quel punto i posteri non trovano da compatire in un'epoca che gli uomini pei quali hanno più di ammirazione.
Talvolta senza proteste senza richiami.
Talvolta però ne troviamo alcuni, ma o non ascoltati, o derisi, o trattati seriamente male: cosa che ci fa strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero ragionevoli, come esprimessero verità le più ovvie, anzi tanto ovvie che l'annunziarle ora con importanza farebbe ridere per un altro verso.
Questi richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di passaggio, per occasione, nelle opere di sommi scrittori, o con più diretta intenzione, con qualche maggiore insistenza in libri strani e sconnessi, dove ardite verità sono confuse con arditi spropositi, e con istravaganze volgari.
Dal che si vede quanto fosse prepotente l'autorità di quelle idee; giacché non ardivano impugnarle che gli uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così dire della letteratura, gli scrittori che non temevano più, o che ambivano la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso.
Volendo poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee si trova generalmente che dopo quei primi assalti staccati comparve qualche scrittore pensante e metodico a combatterle in regola.
Allora, un trambusto da non dire: quelle idee disturbate seriamente nel loro antico e legale possesso, sono sempre state difese con sicurezza, e con ardore.
Si sarebbe detto ch'elle non fossero mai state così forti, così inconcusse come in quel momento: ma noi posteri che vediamo la cosa finita, possiamo giudicare che forza era quella.
Egli era come quando uno va di notte con un lumicino a dar fuoco ad un vespajo: gli abitatori sbucano in furia; è un batter d'ale, un avventarsi, un ronzio terribile; pare che vadano ad una conquista o che celebrino una vittoria: ma guardate il nido, e vedrete ch'egli arde; v'accorgerete che tutto quel concitamento nasce dall'impaccio di non sapere dove andarsi ad alloggiare.
È cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino: in tutte i difensori furono costretti a variare ad ogni momento il sistema della difesa; ad abbandonare ogni giorno argomenti proposti con somma fidanza, e ad inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano malconci, e renduti inservibili.
Alcuni di quei nuovi argomenti furono talvolta molto ingegnosi; ma per chi voleva riflettere, l'epoca stessa della scoperta era un pregiudizio contro di essi; poiché sarebbe cosa troppo strana che dopo cento o dugent'anni di persuasione e di consenso in una opinione si trovino tutto ad un tratto le ragioni fondamentali che la fanno esser vera.
Un altro punto notabile di conformità che hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati a scavare, un po' tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee, per far vedere che lo scrittore il quale veniva in campo a combatterle, non diceva nulla di nuovo.
E quelli che si presero di tali brighe, non s'avvedevano che era un darsi della scure in sul piè: venivano a provare che la verità era già stata annunziata da molto tempo, che era stata posta loro dinanzi, e che essi non l'avevano avvertita, o l'avevano rifiutata avvertitamente.
Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo importante.
Osservando riunite tante opinioni false e credute si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera.
Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si potrebbe osservare se fra le idee dominanti al nostro tempo, ve n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più libero e più fermo, e con un certo sospetto per vedere se mai non fossero di quelle che una età impone a se stessa come un giogo che le età venture scuotono poi da sè con isdegno.
Giacché, è cosa troppo probabile che anche noi ne abbiamo di tali: e sarebbe pretensione troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura comune a tutti i nostri predecessori.
Io credo che molte delle nostre opinioni attuali si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto manifestamente, che senza studio, alla prima occhiata si può scorgere.
Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un orrore della discussione, un'ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto all'autorità dei morti, e al consenso dei vivi per chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso.
Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza; quante dottrine non predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo! Se v'ha chi lo nega, è facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare egli stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare.
Se uno venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente provato che...
Eh ma! signori voi mi fate già la cera brusca! Perdonate, non vado oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il manoscritto del mio autore, e torno alla storia.
CAPITOLO IV
Andavano intanto coll'avanzare della primavera sempre più spesseggiando gli ammalamenti e le morti.
I magistrati, come chi al raddoppiar di chiamate, e al continuo battere della luce, si risenta da un alto sonno, cominciavano a riandare ciò ch'era accaduto, a guardare ciò che accadeva, a sospettare, quindi a risolversi che bisognava far qualche cosa.
Ordinarono contumacie, bollette, purghe di merci, fecero porre cancelli alle porte, delegarono nobili che vi assistessero, intimarono pene a chi trasgredisse gli ordini della Sanità, o turbasse con minacce o con insulti quegli che gli eseguivano, consultarono sui mezzi di fornire alle spese sempre crescenti del Lazzeretto, e di tutti gli altri servizj, e di nutrire una gran parte della popolazione alla quale cessavano i lavori e i mezzi di sussistenza.
Ma la difficoltà era appunto nel trovare questi mezzi.
Il Marchese Spinola de los Balbasos governatore, stavasi a campo sotto Casale, occupato nel suo principal mestiere d'eroe.
I Decurioni spedirono deputati a rappresentargli le urgenze dello Stato, l'esaurimento delle casse municipali, l'impossibilità di aumentare le imposte, quando le correnti non erano pagate per inabilità, e ad implorare che l'erario reale assumesse queste spese straordinarie ed inevitabili.
Il Marchese accoglieva i deputati con molta buona grazia.
Del resto rispose spiacergli assai di non trovarsi a Milano a fare ogni uficio per sollevare quella povera città, ma sperare che i Decurioni avrebbero fatto cose grandi; pensassero essi, da quei bravi uomini che erano, al modo di far danari; esser questo il tempo di non guardare a spese, di profondere per la salvezza della patria; tutte le risoluzioni che essi avrebbero prese a questo fine e in questo senso, egli le avrebbe approvate.
Su le domande, rispose che avrebbe pensato.
Più tardi poi, nel maggior fervore della peste, il governatore pigliò il partito di lavarsene le mani; trasferì con lettere patenti la sua autorità nel gran cancelliere Ferrer; ed affidò a lui e agli altri magistrati la fame e la peste, non ritenendo per sè che la guerra.
In quelle angustie i Decurioni, accattavano somme a prestito, ne chiedevano in elemosina, ponevano contribuzioni particolari ai più facoltosi, aumentavano i carichi, ne inventavano di nuovi: ma il ricavo non bastava ai bisogni, e le cose andavano come potevano.
La confusione cresceva di giorno in giorno: quella qualunque azione dei magistrati che nei tempi ordinarj serviva a mantenere quel qualunque ordine, diveniva ora di giorno in giorno più debole, più incerta, più intralciata, e in molte parti cessava affatto: e nello stesso tempo tutti gli elementi di disordine diffusi in quel corpaccio sociale, acquistavano un nuovo vigore.
I ribaldi sentirono quanto guadagno di licenza e d'impunità poteva trovarsi per essi nel pubblico turbamento, nello sbalordimento dei magistrati, e degli uomini quieti, e ne approfittarono.
Nè basta; l'autorità publica, istituita per reprimere quei ribaldi, fu costretta a servirsi di loro, e ad affidare a quelle mani una porzione spaventosa di forza legale.
Convenne arruolare in fretta e in furia uficiali d'ogni genere pel servizio straordinario, commissarj, guardie, monatti: così con antica denominazione milanese erano disegnati gli uomini condotti a trasportare al lazzeretto gl'infermi, a sotterrare i cadaveri, a purgare ed ardere le robe infette, a vivere insomma della peste in mezzo alla peste.
A questo tristo e pericoloso uficio, dal quale rifuggivano anche gli uomini avvezzi ai più bassi e penosi, si offrivano i più sicuri scellerati, pei quali l'attrattiva delle paghe, della rapina e della licenza era più potente che il timore della morte.
Sul principio fu pure fattibile contenerli entro qualche regola, ma coll'estendersi della peste andò crescendo la loro licenza; e a grado a grado, le case, le cose, le persone furono in loro balìa.
I tempi delle scelleratezze straordinarie sono per lo più illustrati da virtù più solenni, più risolute, straordinarie anch'esse; e di tali non mancò il tempo di cui parliamo.
Si videro esempj di rassegnazione sentita ed animosa, di liberalità costosa, di carità ardente, e per così dire spensierata, di zelo, di attività infatigabile; esempj tutti ispirati dalla religione, e dati in gran parte dai suoi ministri.
Fino dal mese di novembre del 1629, il cardinal Federigo, ragionando dal pulpito sul pericolo vicino della peste, aveva proferite queste parole: «non dubitate, fate animo, che né da me, né da miei preti non sarete giammai abbandonati».
Venuto il caso, egli attenne in tutto la promessa.
Dando per supposto, o accennando come cosa già nota che l'esporre la vita pei fratelli è un obbligo del ministero, egli prescrisse ai parrochi, e a tutti gli ecclesiastici nuove regole sul modo di amministrare i soccorsi della religione; indicò le cautele da usarsi, distribuì somme da erogarsi in ajuti temporali.
Corresse severamente e svergognò quelli che si ritiravano dall'assistere agli infermi: il primo che disertando la sua parrocchia, s'era rifuggito in campagna, lo richiamò egli con rampogne e con minacce d'interdetto al suo posto; né trovo che da poi gli sia più convenuto di ricorrere al rigore per simile motivo.
Egli con quella sua consueta composta operosità, attendeva in casa alla direzione di tutte le opere imposte al clero, non rispingendo mai chi avesse bisogno di conferire con lui; percorreva la città accompagnato da uno che portava moneta da distribuirsi in elemosina; fermandosi sotto le finestre, alle porte dei poverelli per informarsi dei bisogni, e sovvenire, per ascoltare le querele, e dar consolazioni e coraggio: visitava il lazzeretto, dava consigli, e colla sola presenza ratteneva per qualche momento almeno la sfrenatezza dei ribaldi, ed eccitava i ministri publici ad adempire coraggiosamente agli uficj loro.
Rimaso quasi unico superstite di tutta la sua famiglia vescovile, consigliato, tempestato dagli amici, dai parenti, dai medici, da uomini potenti, perché non si esponesse a tanti rischj, e si ritirasse in qualche sua villa, non fu scosso un istante dal suo proposito; tanto che ne ebbe taccia di ostinato: fatto notabile davvero, e che può esser di esempio e di consolazione a quegli che si rammaricano di veder censurate le loro azioni.
Rimase egli dunque fino alla fine; ma non per questo lasciò di trarre profitto dalle sue ville: scelse tra i giovanetti che si educavano al ministero ecclesiastico alcuni distinti per morigeratezza e per diligenza; e gli mandò quivi per sottrarli al comune pericolo, e in tanta strage serbare almeno il meglio ad un migliore avvenire.
La condotta del clero non fu difforme dall'esempio del pastore: non vi fu appestato che desiderasse invano l'assistenza del sacerdote: preti e frati nel lazzeretto, nelle case, nelle vie accorrevano al bisogno, ne andavano in cerca; e il cardinale stesso, e nei pubblici sermoni, e nel suo trattatello della peste, loda con gratitudine i molti che in quell'opera avevano perduta la vita, e i superstiti, che non l'avevano però risparmiata.
Fra quel nobile volgo si distinse un uomo che avrebbe un nome storico, se la storia fosse consecrata a descrivere lo stato delle società nei diversi tempi, e a segnalare i fatti e i caratteri che più servono a far conoscere la natura umana.
Nei molti cappuccini che si offersero ad assistere gli appestati, v'era un Padre Felice Casati di grande autorità presso ogni sorta di persone per la severa santità della vita, per una straordinaria potenza d'animo, e per fama di sapere.
I Decurioni impacciati com'erano, pensarono che un tanto frate poteva essere impiegato a più vasta opera che egli stesso non pensasse; e lo scongiurarono d'assumere il governo del lazzeretto.
Egli andò a chiedere il consiglio di Federigo, il quale abbracciatolo a più riprese, lo animò ad accettare l'incarico.
Il Presidente della Sanità, che era più impacciato d'ogni altro, condusse nel giorno di Pasqua, il Padre Felice con altri capuccini al lazzeretto, e quivi, chiamati gli uficiali, lo presentò ad essi dicendo: «questi è il presidente del lazzeretto, anche sopra il presidente».
Mirabile spettacolo! vedere un magistrato, avvezzo alle gare ansiose e agli ostinati puntigli delle preminenze, abbassarsi volontariamente, discendere al secondo grado, mettere un altro sopra di sè.
Ma vi voleva la peste.
Col crescere della mortalità, col popolarsi del lazzeretto, andavano scemando le mormorazioni e le beffe del popolo; la parola peste era profferita più sovente e fuor di scherzo: al vedere infermi condotti al lazzeretto, e case sequestrate, molti che dapprima avevano schiamazzato contra quei provvedimenti, cominciavano a trovar ben fatto che si allontanasse da loro ciò che finalmente sentivano essere un pericolo.
Per qualche tempo il contagio aveva serpeggiato soltanto nelle case dei poveri; finalmente, dilatandosi, attinse quelle dei nobili; e questi esempj, perché più esposti alla osservazione, produssero una impressione più generale e più forte.
E più d'ogni altro caso fè specie l'udire che era caduto infermo di contagio quel Ludovico Settala che lo aveva da tanto tempo segnalato indarno, e con suo pericolo.
Avranno eglino detto allora: «il povero vecchio aveva ragione»? Probabilmente l'avranno detto quei soli, che fino da principio gli avevano creduto; perché essi soli potevano dar ragione al povero vecchio, senza dar torto a se stessi.
Il povero vecchio, e un suo figliuolo guarirono: la moglie, un altro figliuolo, e sette persone di servizio morirono di peste.
A malgrado d'una sì terribile evidenza, v'era ancora alcuni ostinati: per far capaci anche costoro, il tribunale della Sanità ricorse ad uno strano espediente, usò un linguaggio tipico, adattato veramente all'intelletto di chi doveva esser persuaso e di chi voleva persuadere, degno insomma dei tempi.
Era morta di peste una famiglia intera: la Sanità diede ordine che un giorno festivo in cui il popolo era solito concorrere alla chiesa di San Gregorio posta dietro il lazzeretto, tutti quei morti vi fossero trasportati sovra un carro, ignudi.
La lurida pompa attraversò la folla; alcuni torcevano con orrore e con fastidio gli sguardi, altri accorrevano a guatare con ansiosa curiosità; e questi videro su quei cadaveri i lividori, e i buboni pestilenti, comune cagione ad una famiglia di quelle comuni esequie.
Non restò finalmente chi dubitasse che il male era contagioso.
Ma il ricredersi fu più fanatico, più funesto che non era stata l'ostinazione: da una verità riconosciuta cominciò un periodo di demenza e di atrocità publica, non inaudito certamente nella storia dei traviamenti umani, ma per durata e per casi, notabile e spaventoso.
Riconosciuta una volta l'esistenza del contagio in Lombardia, non pare che si dovesse scrutiniar molto, andar molto lontano a cercarne la causa: ell'era in pronto, immediata, naturale, manifesta; la calata delle truppe alemanne.
Ma non fu così.
Quegli uomini avevano disputato, riso, e sbuffato per sei mesi; non avevano mai voluto ammettere, né sofferire che altri supponesse relazione tra la venuta dell'esercito, e il nuovo malore che regnava in Lombardia: confessare ora finalmente questa relazione, sarebbe stato un confessare d'essere stati bestialmente ostinati e ciechi.
Non vollero quindi né ricordarsi, né parlare, né udir parlare di quella circostanza; e rifiutando la causa naturale, ne immaginarono, come suole avvenire, una stravagante, una che sarebbe ridicola, se quella immaginazione non avesse avute conseguenze, che udite o lette, rendono altrui ritroso al riso, per qualche tempo ancora da poi che il racconto è cessato.
S'immaginarono che la peste fosse disseminata con unguenti, non so, né essi pur sapevano quali, da uomini perversi, collegati sotto qualche capo potente e nascosto, e tutti in società di patti col demonio.
A diffondere questa insana credenza contribuiva la disposizione universale a supporre cause soprannaturali, che ammesse una volta spiegano tutto senza difficoltà, stornando gli ingegni dall'esame delle cose e delle relazioni reali, il quale fa nascere dubbj spinosi da ogni parte.
E fra queste cause soprannaturali una che più facilmente si ammetteva era l'intervenzione del demonio: ogni fenomeno che uscisse dalla sfera angusta delle cognizioni, e della esperienza comune, era opera del demonio, non solo nel male, ma nelle cose innocue, ma nelle pregevoli, ma nelle buone: del che rimane tuttavia un vestigio in più d'un dialetto e d'una lingua che, per dinotare un uomo di abilità straordinaria in qualunque genere, hanno tuttavia questa formola: egli è un diavolo; ha il diavolo addosso.
Contribuiva l'opinione universale, congenere a questa che abbiam detta, sulla esistenza, sulla frequenza delle streghe e degli stregoni: opinione che applicata poi a tanti infelici, faceva nascere dei sospetti che nella persuasione divenivano fatti, e davano così alla opinione stessa la forza e l'autorità della esperienza.
Contribuiva la facilità a credere delitti enormi, strani, intenzioni e disegni di una perversità infernale, gratuita capricciosa: facilità nata in parte da una esperienza troppo reale: non eran rari gli uomini che a forza di conceder delitti alle passioni loro eran giunti a segno, di farsi una passione e una gloria del delitto stesso.
Dei veleni poi l'uso era tanto frequente, come attesta il cardinal Federigo in un suo trattatello su quella peste il quale si conserva manoscritto nella biblioteca ambrosiana, che ne eran comuni gli artefici e le officine.
L'ignoranza e l'irriflessione portavano poi leggiermente una tale corrività a creder misfatti, al di là delle nozioni dell'esperienza; e specialmente in ciò che risguardava le nazioni straniere; l'orgoglio, una stolta rivalità, talvolta una infame politica facevano inventare alla giornata le più atroci imputazioni, o le interpretazioni più assurde di fatti reali: queste erano gettate in mezzo ad una popolazione che non aveva né le notizie di fatto, né le idee generali necessarie per farvi sopra un esame, né l'abitudine di esaminare: erano credute, ripetute, e disponevano le menti a crederne altre, formavano un criterio publico falso, corrivo, ed avventato.
Contribuivano certe tradizioni confuse, ma ridette con asseveranza fra il popolo, di simili trame scoperte nella peste del 1576, e in altri tempi d'eguale sciagura.
Contribuivano le stolte, e ancor più inescusabili erudizioni di molti dotti d'allora, che andavano a pescare nelle storie, e in narrazioni ancor più favolose, ogni menzione di pesti propagate con sortilegj, e con veleni, o come dicevano manofatte: materia pur troppo abbondante; giacché da quella peste che, al dir di Tucidide, gli Ateniesi supponevano cagionata da veleni gettati nei loro pozzi dai Peloponesi, fino alla peste di Roma che nel consolato di P.
Cornelio Cetego, e di M.
Bebio Tamfilo, cominciò, al dir di Livio, da un pianto del simulacro di Giunone Lacinia in Lanuvio, e da altri simili avvenimenti, non vi fu peste, quasi fino ai nostri giorni, della quale il popolo che la pativa non desse cagione in gran parte a frodi umane, o a prodigj superstiziosi.
Ma quello che fissò ad un punto d'errore questa vagabonda ed inquieta credulità, fu una lettera sottoscritta dal re Don Filippo Quarto, spedita fino dall'anno antecedente al Marchese Ambrogio Spinola, nome ancor celebre per le spedizioni di Fiandra, che era stato surrogato al Cordova nel governo di Milano.
In quella lettera si dava avviso al governatore che quattro Francesi sorpresi nell'atto di spargere unguenti pestiferi nella Corte di Madrid, erano sfuggiti, né dove si sapeva: dovesse egli quindi stare all'erta se mai fossero capitati a Milano.
Al primo divolgarsi di quell'avviso non vi si badò più che tanto: ma il contagio che nelle credule menti, era stato associato alla idea di quelle unzioni come un effetto di esse, comparendo ora realmente, risvegliò tosto la ricordanza della sua immaginata cagione; l'idea di unzioni venefiche, che era rimasta infeconda, mise radici, si svolse, fruttificò, come un germe maligno profondamente sepolto, se il vomero lo solleva, e lo appressa alla superficie del terreno.
Unguenti, polveri, comete, malie, trame, congressi, demonio, erano le parole che tornavano in tutti i discorsi.
Si venne tosto a sapere che il demonio aveva pigliata a pigione una casa in Milano; si disegnava il quartiere, si ripeteva il nome del locatore.
Che più? Un uomo e si diceva chi, fermatosi un giorno su la piazza del duomo aveva veduto giungere in carrozza a tiro sei con gran corteggio un gran signore col volto fosco ed abbronzato, cogli occhi infiammati, coi capegli ritti, col labro superiore teso alla minaccia, un viso insomma di quei che il buon milanese non aveva mai veduti.
Mentre questi guatava, il cocchio era ristato, e a colui fatto invito di salire: egli aveva condisceso; e dopo un certo giro il cocchio s'era fermato a quella tal casa, ed ivi egli era smontato con gli altri.
La casa era degna del fittajuolo: andirivieni, deserti, luce, tenebre, là solitudine, qui larve sedute a consiglio, amenità di giardini, e orrore di caverne.
Quivi al galantuomo erano stati mostrati grandi tesori, e promessi, se volesse servire a quel signore nella grande impresa ch'egli macchinava.
Ma il galantuomo, avendo ricusato, era stato rimesso nel cocchio, e ricondotto alla piazza del duomo.
Questa storia non fu soltanto creduta in Milano dov'era nata, ma si diffuse per tutta Europa, e in Germania se ne incise un disegno.
L'arcivescovo elettore di Magonza chiese per lettera al cardinale Federigo Borromeo che fossero tutti codesti portenti che si narravano di Milano: il buon cardinale riscrisse che erano sogni e delirj.
Quand'ecco, il mattino del 17 maggio i primi che uscirono di casa alle loro faccende, videro le muraglie sparse di macchie viscide, giallastre, ineguali, come impresse da spugne lanciate; le porte pure imbrattate della stessa materia, e intrisi i martelli.
Per quanto sia da diffidare delle affermazioni di quel tempo, questo fatto però sembra indubitabile; giacché i contemporanei lo riferiscono come testimonj di veduta; e nessuno lo pone in dubbio; e fra que' testimonj si trova il Ripamonti il quale non poteva essere illuso dalla prevenzione, poiché da tutte le sue parole traspare chiaramente ch'egli non partecipava alla persuasione comune.
D'altronde è ovvia una spiegazione naturale di quel fatto.
V'ha in ogni tempo degli uomini pei quali il terrore pubblico è un divertimento; e che studiano le occasioni di crearlo, o di accrescerlo; e ve n'aveva una trista abbondanza a quei tempi, in cui gli animi erano esercitati singolarmente ad ogni cosa ostile, avvezzi a cercare una superiorità propria nell'abbattimento altrui, una gloria nel fare il male con destrezza, con audacia, e con pericolo.
È probabile che uomini di questa bella indole abbiano vegliata una notte a quelle gloriose pitture, per vedere nel giorno l'effetto che produrrebbero sulle fantasie dei loro concittadini, e per ridere sicuramente d'una paura, della quale essi conoscevano l'illusione.
E in quel trattatello del Cardinal Federigo è scritto che alcuni ebbero poi a confessare di avere unti più luoghi per farsi beffe della gente.
È poi anche probabile che le fantasie insospettite ingrandissero la realtà, e vedessero unzioni artificiali e recenti in ogni macchia, anche in quelle sulle quali più volte prima di quel giorno saranno passati i loro sguardi distratti e inavvertiti.
I primi scopritori delle macchie chiamarono tosto altri ad osservarle: in un momento le vie brulicarono di gente che accorreva, e si addensava innanzi a quelle macchie come ora ai quadri più lodati in una esposizione publica.
Il terrore e lo sdegno invasero tutti gli animi: il sospetto, errante ed incerto alla prima, si determinò tosto a varie certezze; giacché la moltitudine si accontenta bensì dell'indeterminato nei ragionamenti; ma nei fatti vuole del positivo, e lo vuol tosto.
Per alcuni il capo degli untori (il bisogno creò allora il vocabolo) era senza dubbio il tal principe, che voleva far morire gli abitanti del ducato, per impossessarsene a man salva; per altri era il Cordova che voleva vendicarsi degli urli e dei fischj con che nel suo partire l'aveva accomiatato il popolo memore della fame durata nel suo governo; altri nominava D.
Giovanni Padilla figlio del Castellano di Milano; altri il duca di Friedland, Vallenstein; altri disegnava un nobile che si trovava a Roma; e questa voce crebbe tanto, che fu detto e creduto che egli era stato preso, ed era mandato a Milano per subirvi il supplizio: l'universale lo aspettava con ansietà, i parenti tremando e nascosti; e tutto era un sogno.
Alcuni disegnavano altri nobili come complici, alcuni disegnavano uomini sconosciuti; alcuni accertavano che tutto veniva dai Francesi.
Il furore era al colmo, nessun supplizio si stimava troppo crudele pel capo e pei complici.
Nè è da farsene maraviglia; un tal sentimento è troppo facile a nascere in un popolo il quale crede che v'abbia degli uomini che tentano di avvelenarlo in massa.
Dal che si vede, che a volere impedire gli effetti talvolta tanto iniqui e tanto crudeli di simili esacerbazioni popolari, è scarso, e tardo rimedio l'intercedere, il predicare la moderazione, il perdono, quando gli animi sono persuasi della realtà dell'attentato; bisogna cercare di prevenire la persuasione, e sopra tutto guardarsi dal secondarla ripetendo ciecamente i primi romori publici.
Ho detto si vede, e dovetti dire: si dovrebbe vedere; giacché osservando le piaghe dei nostri maggiori non dobbiamo chiuder gli occhi alle nostre; e questa corrività a credere senza prova attentati contra il publico, contra una parte di esso, ad attribuire alle persone fatti e parole immaginarie è una piaga viva tuttodì; e dico viva nei popoli più colti, e dico anche negli uomini più colti di questi popoli.
È cosa strana e trista che nelle cose contemporanee anche molti uomini colti si accontentino di ragioni che gli farebbero ridere applicate in una storia ad avvenimenti lontani.
Nei nostri tempi in cui i fatti si sono affoltati con una terribile celerità, è incredibile l'influenza che hanno avuta in essi queste opinioni così leggermente ricevute: le più inverisimili son divenute spesso norma infallibile, impulso potente di condotta e di azioni: effetti terribili di cause immaginarie, furono poi cagioni di azione pur terribile, vasta, e prolungata.
Su questa corrività non posso trattenermi dal trascrivere alcune parole d'oro da un libro d'un uomo singolarmente osservatore, il quale si trovò ravvolto in avvenimenti d'una terribile complicatezza: «Si je ne l'avois pas vu moi-meme, et plusieurs fois, je ne le croirois pas: il a été fait par des hommes de bien à des hommes atroces, des inculpations qui n'ètoient ni vraies ni vraisemblables.»
Tornando al nostro proposito, v'ebbe pure alcuni i quali pensarono, e dissero che tutto quell'infardamento doveva essere una burla; e l'attribuirono a scolari dello studio di Pavia.
Ma questa opinione non fece presa: quella che supponeva una intenzione più rea, una intenzione atroce era troppo conforme alle altre idee dell'universale: e del resto nelle grandi sciagure gl'ingegni si pascono volentieri di supposizioni orribili.
Quegli che opinavano per la burla non osarono troppo insistere, per non esser presi essi stessi in sospetto di complici o di fautori dell'attentato.
Dal non credere un delitto all'approvarlo il salto è grande; ma la logica delle passioni è agile, e sa farne senza difficoltà anche dei maggiori.
Il suo modo di procedere in questo caso è tale.
Quando a persone inebbriate d'odio e di indegnazione contra il supposto autore d'una grande iniquità contra il pubblico, voi negate che quegli ne sia colpevole, l'idea che rimane nei vostri uditori è che voi intendete di scusarlo.
Ora nelle menti loro, atrocità del delitto, certezza del delitto, reità del tale o dei tali sono idee affatto indivisibili; e quindi scusare la persona è per essi scusare la cosa.
Scusare poi, approvare, favorire, esser complice, esser capo, sono salterelli, che la logica fa quasi senza avvedersene.
Ma ciò che reca maraviglia anche a chi avendo letti i libri di quel tempo ha potuto avvezzarsi al ragionare dei loro autori, si è l'udire taluno di quei medici stessi che avevano sostenuto, insegnato, osservato alla giornata come il contatto trasmettesse e diffondesse rapidamente la peste, udirli dico poi attribuirne la diffusione alle unzioni.
Ai 19 di Maggio, il tribunale della sanità con publica grida, offerse premio ed impunità a chi rivelasse gli autori delle unzioni.
Altre consimili furono poi publicate d'ordine del governatore e del senato.
In mezzo alle suspicioni, ai furori, alle accuse avventate e crudeli, in mezzo pure alla licenza che né le sventure, né le ire avevano frenata, sorse una smania generale di placare la collera di Dio con una processione publica nella quale si portasse per la città il corpo di San Carlo.
Il Vicario e i Dodici di Provvisione, i sessanta decurioni fecero di ciò richiesta al Cardinale Federigo; il quale ricusò da prima, adducendo motivi, che da un tal labbro pare che dovessero portare la persuasione; ma talvolta la ragionevolezza, o l'opportunità delle parole toglie ogni forza anche alla autorità.
Allegava l'uomo savio che il popolo aspettava da quella supplicazione solenne la liberazione dalla peste, non con una speranza condizionata e rassegnata, ma con una certezza superstiziosa; e che a questa, quando fosse delusa, succederebbe una incredulità egualmente superstiziosa, una indegnazione empia.
Un altro motivo da lui addotto era anche conforme ai più cari pregiudizj del publico: e pur non valse.
«Una tale ragunata di popolo», diceva egli, «potrà essere una troppo comoda occasione per questi untori, quando sia pur vero che ve n'abbia».
Giacché Federigo, quantunque fosse lontano dall'ammettere tutte le ragioni che persuadevano su quel punto la maggior parte dei suoi contemporanei, quantunque anche in iscritto abbia mostrato la frivolezza, e l'illusione di alcune, e segnate le cagioni e i modi dell'errore, pure sbalordito da tante grida, sopraffatto da tante testimonianze non ebbe il coraggio di pensare che il delitto era tutto immaginario: e con tutta la nostra riverente propensione per quell'uomo, non possiamo dargli una tal lode, che pur fu meritata da alcuni suoi contemporanei, dei quali non già i nomi, ma una memoria confusa ci è stata conservata dagli scrittori.
E, cosa singolare! tutti quegli scrittori, meno il Ripamonti, insorgono contra quei pochi increduli; di modo che se noi posteri sappiamo che alcuni uomini furono esenti da un funesto errore comune, lo sappiamo soltanto per l'accusa di cecità e di stranezza che gli scrittori credettero di portare contro di quelli al nostro riverito tribunale.
Un'altra ragione, e savia davvero, allegava il buon vescovo: che un pericolo ben più certo, e ben più funesto sarebbe la frequenza, l'addensamento, e la mistura di tante persone: e che era troppo da temersi che un mezzo cercato per ottenere la liberazione della peste, ne divenisse un terribile propagatore.
Ma le insistenze, le importunità furono tali ch'egli acconsentì.
Su di che noi non osiamo né assolvere, né censurare la sua memoria: perché non possiamo sapere quali sarebbero state le conseguenze d'una ripulsa diffinitiva.
Quegli uomini avrebbero potuto fare a furore la loro processione senz'altro permesso; e farla meno ordinata e di più funesto effetto, avrebber potuto fare Dio sa che.
A chi volesse giudicare a rigore il nostro Federigo, noi non auguriamo di aver mai a competere con un qualche migliajo di furiosi ostinati.
Tre giorni furono spesi in preparamenti: si ornarono in fretta le vie per cui doveva passare la processione: i ricchi cavarono fuori le più preziose suppellettili; le fronti delle case povere furono addobbate dai vicini doviziosi, o per cura del publico.
Il tribunale della sanità bandì che nessuna persona di terra sospetta potesse entrare quel giorno in Milano; anzi per accertare l'esecuzione del bando, fece chiudere le porte della città.
E parimenti, perché nessuno dei cittadini infetti o sospetti potesse in quel giorno uscire e mischiarsi alla folla, fece inchiodare le porte delle case già sequestrate.
Con questi ordini si credette che fosse bastantemente ovviato ai pericoli di una accolta così numerosa.
Un momento di riflessione avrebbe dovuto bastare a sbandire una tale fiducia da qualunque intelletto umano: e tanto più fa stupore come ell'abbia potuto prevalere in coloro i quali avevano dovuto vedere e sperimentare quanto rapidi, facili, moltiplici fossero i modi per cui il contagio si comunicava; e quanto scarsi in paragone i mezzi di riconoscere tosto le persone, le cose a cui si era comunicato.
Certo non potevano nutrire la pazza lusinga di aver saputo discernere e sequestrare tutti gli infetti; dovevano anzi tenersi pur troppo certi che molti giravano liberamente, molti si sarebbero trovati in quella folla i quali avevano già nei loro corpi, o nelle vesti appiccato il contagio; non ignoravano che un solo di questi sarebbe bastato ad infettare una città intera: e si fidarono a quei loro provvedimenti.
All'alba del giorno 11 di giugno, festivo a quei tempi nella diocesi milanese pel nome di San Barnaba, il clero e il popolo, ragunatosi parzialmente nelle diverse chiese, convenne in drappelli al Duomo, donde tutti poi insieme si mossero a processione.
Andava innanzi una gran troppa di popolo misto di età, di condizione, e di sesso; quali portando un cero, quali un rosario; molti in segno di penitenza, scalzi.
Venivano quindi con ceri le confraternite vestite di fogge varie di colori e di forme, poi le arti distinte, e precedute ognuna dal suo confalone; poi le varie congregazioni dei frati, neri, bigi, e bianchi, poi il clero secolare, distinto in parrocchie e in capitoli, con varie divise; quindi fra lo splendore di folti ceri, e tra un nembo incessante d'incenso, portata da quattro canonici, l'arca dove giacevano le reliquie invocate di San Carlo.
Dai cristalli che chiudevano i lati traspariva il corpo coperto di splendidi abiti pontificali, e il teschio mitrato, in cui fra lo squallore delle vuote occhiaje, del ringhio spolpato, delle forme mutilate, della cute abbronzata, aggrinzata su l'ossa, traluceva ancora qualche vestigio della faccia antica, esplorato con angosciosa venerazione dai vecchj che avevano veduto vivo il santo pastore.
Gli altri cercavano di raffigurare in quelle reliquie una immagine più presente e più reale di quella faccia che dalla infanzia avevano osservata e venerata nelle imitazioni dell'arte.
Dietro le spoglie del morto pastore, veniva il suo cugino ed imitatore Federigo, consunto egli pure e pallido di vecchiezza, di penitenza, e di accoramento, in quell'aspetto di compunzione che nessuna ipocrisia può contraffare, poiché è l'effetto involontario d'un sentimento che non conosce i modi pei quali si esprime.
Le affezioni temporali pel parente, appena si facevano sentire in quell'animo, assorbite dalla riverenza del santo, e dalla invocazione all'intercessore; il nome comune, tutte le memorie dei tempi vissuti insieme, si perdevano nella fede: non era più che un vescovo che pregava l'uomo vivente presso Dio perché pregasse pel suo popolo.
Colui che aveva cercato di stornare quella cerimonia, vi portava ora forse l'animo il più fervente: le ragioni che l'avevano renduto ritroso ad approvare una risoluzione imprudente non venivano ora a distrarre con ricordi superbi e dispettosi la sua mente dall'intento ragionevole e santo di quella risoluzione: il culto, e la preghiera.
Perché, egli era di quei pochi che adoperano le loro ragioni sol tanto quanto possono sperare di ottenere con esse una utile persuasione; avuto o disperato questo intento non le vanno più rivangando con un inquieto brontolamento: rodersi, o insuperbirsi d'essere stati saggi indarno, non pare ad essi un esercizio ragionevole dell'intelletto; far vedere, e far confessare agli altri che essi avevano meglio pensato di loro, non pare ad essi uno scopo.
Certo anche quei pochi sono soggetti all'errore; ma di quanto scemerebbero in numero gli errori, e quanto meno sarebbero funesti nell'effetto quegli che rimarrebbero, se tutti gli uomini osservassero le cose con una mente disinteressata d'orgoglio.
Dopo l'arcivescovo venivano i magistrati, e i nobili, quali rivestiti di ricche divise, come a dimostrazione solenne di culto, quali in segno di penitenza a piè nudo, coperti di sacco coi cappucci rovesciati sul volto, forati come a finestra dinanzi agli occhi, e cadenti in acuta punta sul petto.
Quindi ancora un'altra gran frotta di popolo; e alla coda i vecchj stanchi, le donne rimaste addietro coi fanciulli, gli attratti, i zoppi, i deboli; molti ritardati dal fermento della peste che già covavano senza saperlo, o senza volerlo sapere, e che toglieva loro a grado a grado le forze.
La processione sboccata dalla porta maggiore del Duomo, s'incamminò per la via de' cappellaj, al crocicchio detto il Bottonuto, dove allora era una croce, e quindi con un giro interno, toccando tutti i quartieri, e sostando a tutti i crocicchj dove erano allora le croci, alcune delle quali rimangono tuttavia, tornò al Duomo per la piazza dei mercanti.
Tutta la via era adombrata da una striscia perpetua di tele, sostenuta da pali e da correnti composti come a pergolato; i pali rivestiti di rami frondosi tagliati di fresco; e tra gl'intervalli, drappelloni di varie stoffe rannodati e pendenti; le pareti tutte coperte di tappeti, di strati, di quadri; i davanzali delle finestre ornati di fiori o a mazzi, o vegetanti nei vasi, e di arredi antichi, o preziosi, e da per tutto ceri ardenti che restituivano la luce esclusa da quei folti adornamenti.
Fra tanta pompa si vedevano alle finestre molti di quei poveri sequestrati, alcuni scarnati, e coi segni della morte in volto, tendere a stento le braccia supplichevoli all'arca che passava.
Da quelle case usciva un ronzio di voci che accompagnavano gli inni dei passeggeri; e di tratto in tratto un risalto di gemiti, uno sclamar di preghiere che terminavano in singhiozzi ed in guaj.
Nè alle finestre soltanto, ma sui tetti delle case vicine e soprastanti si vedevano di quegli spettatori ai quali non era stato concesso di mescersi alla supplicazione comune; e sur alcuni tetti si distinguevano all'abito drappelli di monache ivi tirate dalla curiosità e dalla divozione.
Gli altri quartieri della città deserti, muti, se non dove giungeva a poco a poco il mormorio della processione che passava non lontano, e pure a poco a poco diveniva più fievole, e moriva.
Quegli abitanti tendevano l'orecchio appoggiati alle finestre, o sollevati sul letto mortale; per distinguere il suono della preghiera nella quale erano ricordati anch'essi, quasi per udire in quel muto abbandono un romore che gli assicurasse che altri pure viveva e si moveva in quella città di cui non vedevano che la solitudine.
La processione tornò al duomo dopo un giro di dodici ore.
L'arca rimase esposta sull'altare maggiore del duomo per otto giorni.
Il tristo presagio del Cardinal Federigo non tardò ad avverarsi.
Prima della processione le case chiuse erano intorno a cinquecento; pochi giorni dopo, si notavano quelle dove il contagio non fosse entrato.
V'era due mille persone nel lazzeretto; in breve crebbero a dodici mila: non bastando le stanze e i portici, furono in fretta, costruite capanne di legno nel vasto ricinto: né quelle pure bastando furono eretti tre altri lazzeretti in diversi punti fuora delle mura della città.
La mortalità comune che era prima di cento trenta persone alla giornata, per rapidi salti venne a mille ottocento.
Due fosse erano state scavate pei cadaveri, ampie, si diceva, enormi, quasi per lusso di previdenza; sperando che in giorni non lontani, lieti per un gran timore cessato, quella stessa terra, che ne era stata cavata servirebbe in gran parte a ricolmarle: ma i cadaveri deposti, poi ammucchiati, poi gettati a fascio, venivano rapidamente adeguandosi al terreno: convenne scavarne cinque altre.
La cagione d'un così subito e portentoso aumento del male fu data a voce di popolo agli untori: si disse con asseveranza, e si ripetè con furore, che quegli uomini congiurati allo sterminio della città, prendendo il destro della processione, che l'aveva posta tutta unita per così dire in loro balìa, avevano unti in quel giorno quanti avevano potuto, e sparso tutto il cammino di polveri venefiche, per le quali il contagio s'era appiccato alle vesti, ai piedi scalzi, anche alle scarpe dei divoti e inavvertiti pellegrinanti.
L'opinione delle unzioni che fino allora non aveva prodotta che una vaga inquietudine, e ciarle, dopo questo, ch'ella prendeva per un gran fatto, cominciò a partorire ben altri effetti.
Due principali furono distinti, e notati dal Ripamonti, uomo, che in molti punti liberandosi, e segregandosi dalla opinione publica dei suoi tempi, volse la mira delle sue osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno avvertiva, esaminò quella opinione stessa, mutò sovente i termini della questione, fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece intendere che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare il giudizio pubblico, il quale, come traspare chiaramente dalla sua storia, gli faceva una gran paura e una gran compassione nel tempo stesso.
Un effetto fu che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati in ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei segreti delle corti, per arzigogolare quale dei principi, quale dei re stranieri potesse essere il capo della trama, non pensavano a quello che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della peste; e spaventati poi dalla vastità supposta, e dalla oscurità stessa delle insidie si abbandonavano sempre più a quella stanca trascuratezza che è compagna della disperazione.
L'altro effetto più deplorabile, atroce, fu di estendere, di facilitare, di irritare i sospetti e di giustificare di santificare, tutte le offese più crudeli che quei sospetti potevano suggerire.
Non solo dallo straniero, dal nimico, dalla via publica si temeva, ma si guardava alle mani dell'amico, del servo, del congiunto, ma si poneva il piede con sospetto per la casa, ma orribil cosa! si tremava al contatto della mensa, del letto nuziale.
Il viandante straniero che non ben sapendo fra che uomini si trovava, si rallentasse a baloccare sul cammino, o che stanco si sdrajasse per riposare, il mendico che per città si accostava altrui tendendo la mano, colui che inavvertentemente toccasse la parete d'una casa, l'affrettato che urtasse altri per via, erano untori; al terribile grido d'accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l'infelice era oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o strascinato alle carceri tra gli urli e sotto le battiture, benediceva nel suo cuore affranto quelle porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto.
E quante volte saranno accorsi alle grida, avranno partecipato al furore comune, di quegli stessi che più tardi poi dovevano esser vittime d'un simile furore.
Così l'irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa ed arbitraria della religione aveva estesa ed accresciuta.
Dico l'irreligione, perché se l'ignoranza e la falsa scienza delle cose fisiche, e tutte le altre cagioni di cui abbiamo parlato di sopra poterono far ricevere comunemente l'opinione astratta di unzioni e di congiure, furono certamente le disposizioni anti-cristiane di quel popolo corrotto che rendettero quella opinione attiva, e feroce nell'applicazione.
Nessuna ignoranza avrebbe bastato a così orrendi effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che dispone gli animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a pensar di nuovo quando il pensiero diventa un giudizio, una azione su le persone; se fosse stata insomma congiunta con quella carità che è paziente, benigna, che non s'irrita, che non pensa il male, che tutto soffre.
Ma l'intolleranza della sventura, la disistima e l'obblio delle speranze superiori a tutte le sventure del tempo, l'orrore pusillanime e furioso della morte, erano le cagioni che mantenevano negli animi una irritazione avida di sfogo e di vendetta, e quindi sempre in cerca di fatti che ne dessero l'occasione, quindi ancora pronta a trovar questi fatti ad ogni momento.
Il Ripamonti riferisce due esempj di quel furor popolare, avvertendo bene i suoi lettori di averli trascelti, non già perché fossero dei più atroci fra quegli che accadevano alla giornata, ma perché di quei due egli fu testimonio.
Tre giovani francesi, un letterato, un pittore, e un meccanico in mal punto venuti per istudio, e per guadagno, stavano contemplando il duomo al di fuori.
«È tutto marmo», dicevano; e come per accertarsi, stesero la mano a toccare la liscia superficie.
Bastò! la folla agglomerata in un istante gl'involse; furono stretti, tenuti, percossi con tanto più di furore, perché le vesti, la chioma, il volto, le grida stesse gli accusavano stranieri, e quel che era peggio, francesi.
A calci, a pugni, a strascichi, furono menati in carcere.
Per buona sorte le carceri eran vicine, e vi giunsero vivi; e per una sorte ancor più felice, i giudici gli trovarono innocenti, e gli rilasciarono.
L'altro caso fu più funesto.
Un giorno solenne, nella chiesa di Sant'Antonio, frequente di popolo quanto poteva comportare quel tempo, un vecchio più che ottogenario aveva orato lungamente ginocchioni.
E forse, pensando agli anni suoi, e al contagio che minacciava ogni persona, egli avrà offerto a Dio il sacrificio d'una vita ormai tanto caduca.
Ma un destino più maturo della vecchiezza, più sollecito della peste, il furore degli uomini gli stava sopra.
Stanco egli volle sedersi; e prima con la cappa spolverò alquanto la panca.
«Il vecchio unge le panche!» gridarono alcune donne che videro quell'atto.
Il vecchio! e a quel nome che richiama pensieri di compassione e di riverenza, il sospetto in quel momento non lasciò associare altre idee che di una più fredda malizia, d'una perversità incallita.
Il grido passò di bocca in bocca; tutti si levarono; una turba fu addosso al vecchio.
Lo presero, gli stracciarono i capegli bianchi, gli acciaccarono di pugni il volto e le membra: avrebbero ficcati i pugnali in quel corpo quasi esanime; se un furore più pensato non gli avesse consigliati di serbarlo alle carceri, ai giudici, alle torture.
«Io lo vidi, così strascinato», dice il Ripamonti, «né altro seppi della fine; ma stimo ch'egli sia tosto morto dagli strazj.
E alcuni» aggiunge questo scrittore, «che mossi a pietà di così indegno caso, chiesero contezza dell'essere di quello sventurato, riseppero che egli era un uomo dabbene».
I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo furore, lo imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati al pari di quei popolari che abbiam riferiti, con carnificine più lente, più studiate, più infernali.
Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero.
Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero.
CAPITOLO V
Una sera, verso il mezzo d'Agosto, Don Rodrigo tornava alla sua casa in Milano, dove era sempre rimasto dal giorno che vi era tornato dalla villa in forma di fuggitivo.
A quella villa non voleva ricomparire se non in aspetto di vendicatore, e in modo da restituir con usura ai tangheri lo spavento, e l'umiliazione che gli avevan fatto provare: ma i tempi non erano mai stati propizj.
Quella elazione d'animi aveva durato qualche tempo; di poi la fame cresciuta aveva prodotti gli sbandamenti, e il vagabondare di molti, e nei rimasti un fermento di disperazione: erano cani tuttavia ringhiosi, e non ancora disposti ad accosciarsi sotto la mano alzata del signore; poi eran passati i lanzichenecchi, che avevano spogliato il castellotto; poi era venuta la peste; non v'era insomma stata mai una tranquillità di cose in cui Don Rodrigo avesse potuto farsi sentire.
La sera di cui ora parliamo, tornava egli da uno stravizzo, nel quale con alcuni suoi degni amici aveva egli cercato di sommergere le malinconie e i terrori della peste.
E siccome le idee di quella entravano per tutti i sensi, si trovavano accumulate nella mente, si associavano per forza ad ogni suo intendere, sicché non era possibile farne astrazione; in quelle idee stesse s'erano essi sforzati di trovare qualche soggetto d'ilarità.
Avevano ricapitolate burlescamente le virtù di qualche loro amico defunto; e Don Rodrigo in ispecie aveva molto divertita la brigata con l'orazione funebre del conte Attilio.
Si raccontavano o anche s'inventavano prodezze d'ogni genere compiute col favore della confusione, e dello spavento publico; si disegnavano nuove vittime; e la vile e impunita sfrenatezza si vantava anticipatamente dei nuovi trionfi che meditava.
Tornando da tutta questa allegria, Don Rodrigo sentiva però una gravezza di tutte le membra, una difficoltà crescente nel camminare, una ansietà di respiro, una inquietudine, un grande abbattimento; ma cercava di attribuir tutto questo al sonno.
Sentiva un'arsura interna, una noja, un peso degli abiti, ma cercava di attribuirlo alla stagione, ed al vino.
Giunto a casa, chiamò il fedel Griso, uno dei pochi famigliari che gli erano rimasti, e gli comandò che gli facesse lume alla stanza dove sperava di finir tutto con un buon sonno.
Il Griso vide la faccia del suo signore stravolta, d'un rosso infiammato e splendente, e gli occhi luccicanti; e si tenne lontano con una certa aria di sospetto; perché ogni mascalzone aveva in quel tempo dovuto farsi l'occhio medico.
«Ho bevuto, ho bevuto», disse Don Rodrigo, che non potè non avvedersi di quell'atto e del pensiero nascosto; «siamo stati allegri: sto bene, benone, Griso: ho sonno: oh che sonno! Levami un po' dinanzi quel lume che mi abbaglia.
Diavolo, che quel lume mi dia tanto fastidio! Debb'essere quella vernaccia certamente, che te ne pare? eh Griso? Domani sarò vispo come un pesce».
«Sicuro», disse il Griso tenendosi sempre discosto: «ma si corichi presto, che il dormire gli farà bene».
«Hai ragione; ma sto bene ve' Griso: levami quel lume dinanzi».
Il Griso non se lo fece ripetere, e partì col lume, al momento che Don Rodrigo si gettava sul letto.
Quando vi fu, la coltre gli pareva un monte, e se la rigettò da dosso: sentiva un sopore come invincibile, e quando stava per assonnare, si risentiva come se un importuno venisse a scuoterlo per non lasciarlo dormire: il caldo cresceva, cresceva la smania, e il terrore rispinto ritornava più forte: così passò qualche ora.
Finalmente, presso al mattino s'addormentò.
E tosto gli parve di trovarsi in quella chiesa dei capuccini di Pescarenico, dinanzi alla quale, se vi ricorda, egli sogghignò in passando, nella sua gita al Conte del Sagrato.
Gli pareva d'essere innanzi innanzi nella chiesa, circondato e stretto da una gran folla; non sapeva come gli fosse venuto il pensiero di portarsi in quel luogo, e si rodeva contra se stesso.
Guardava quei circostanti; erano sparuti e lividi, con gli occhi spenti, incavati, colle labbra pendenti, come insensati; e gli stavano addosso, e lo stringevano, quasi col loro peso, e sopra tutto gli pareva che o con le gomita, o come che fosse lo premessero al lato sinistro al di sopra del cuore, dove sentiva una puntura spiacevole, dolorosa.
Voleva dire: «largo canaglia», faceva atti di minaccia a coloro perché gli dessero passaggio ad uscire; ma quegli né parevano muoversi, né mutare sembianza, né risentirsi in alcun modo: stavano tuttavia come insensati.
Alcuni su la faccia, su le spalle che nude uscivano dalle vesti lacere, mostravano macchie, e buboni.
Don Rodrigo si ristringeva in sè, ritirava le mani, le membra, per non toccare quei corpi pestilenti; ma ad ogni movimento incappava in qualche membro infetto.
E non vedendo la via d'uscire, strepitava, ansava, l'affanno l'avrebbe destato; quand'ecco gli parve che tutti gli occhi si volgessero alla parte della chiesa dov'era il pulpito: guatò anch'egli, e vide spuntare in su dal parapetto, un non so che di liscio e lucido; poi alzarsi e comparir più distinto un cocuzzolo calvo, poi due occhi, una faccia, una barba lunga e bianca, un frate ritto ed alto: era Fra Cristoforo.
Tanto più Don Rodrigo avrebbe voluto fuggire; ma la folla degli incantati era fitta ed immobile.
Gli parve allora che il frate girando gli occhj su l'uditorio senza fermarli sopra di lui, sclamasse ad alta voce: «Per li nostri peccati, la fame! Per li nostri peccati, la guerra! Per li nostri peccati, la peste! La peste! Povera gente! ella vi rode tutti, dal primo fino all'ultimo: tutti avete i segni della morte in volto: beati quelli fra voi che sono preparati a riceverla.
Ma...» e qui pareva a Don Rodrigo che il frate ristesse, come sopraffatto da un pensiero repentino e profondo: ed egli stava ansioso attendendo.
Gli pareva che gli uditori non facessero pur vista di scuotersi, e che il frate tutto ad un tratto, guardando a lui, e come ravvisandolo, fermandolo col guardo e con la mano alzata, come un bracco sopra una pernice, dicesse ad alta voce: «Tu sei quell'uomo! Or ci sei giunto; ascolta.
Quanto ti sarebbe costato il rinunziare a quel capriccio infame? Torna indietro con la mente e dillo.
Un picciolo pensiero di pietà; ma tu non hai voluto.
Tu hai messo da una parte su la bilancia l'angoscia, l'obbrobrio, il crepacuore, il terrore, d'un'anima innocente; hai pesato; e hai detto - non è niente: pesa più il mio capriccio -.
Ora le bilance sono rivolte: l'angoscia si versa sopra di te: prova se è niente».
A queste parole Don Rodrigo, voleva gridare, nascondersi, fuggire, e si destò spaventato.
Stette un momento a ravvisarsi; vide che era un sogno; ma aprendo gli occhi sentì ancor più vivo il ribrezzo e il dolore della luce; forzandosi di guardare intorno, vide il letto, le scranne, i travicelli della soffitta confondersi in forme strane; sentì nelle orecchie un ronzio nojoso e violento, al cuore un battito accelerato, affannoso; si sentì più spossato e più arso che alla sera antecedente, sentì più viva quella puntura che aveva provata in sogno; esitò qualche tempo, senza osare di vedere che fosse; finalmente sorse a sedere, scoperse tremando la parte dogliosa, cercò di fissarvi lo sguardo, e a stento, ma con qual raccapriccio Dio 'l sa, scorse un sozzo gavocciolo, d'un livido pavonazzo; il segnale manifesto del contagio.
L'uomo si vide perduto: il terrore della morte lo invase; ma con un senso ancor più vivo, il terrore di cadere in balìa altrui, d'essere preso, maneggiato, tratto intorno come un cencio, senza potersi far sentire, d'essere portato al lazzeretto, gittato e confuso fra tanti oggetti d'orrore, oggetto d'orrore egli stesso.
Voleva deliberare sul modo di evitar questa sorte toccata a tanti altri; ma sentiva le sue idee confondersi e intenebrarsi, divenir tanto più incerte quanto più erano atterrite; sentiva avvicinarsi sempre più il momento, in cui egli avrebbe avuto sol tanto di coscienza, quanto bastava a disperare: provò un bisogno di soccorso istantaneo; afferrò un campanello che teneva presso al letto, e lo scosse con violenza.
Ed ecco comparire il Griso che stava all'erta.
Si fermò egli presso all'uscio, guatò attentamente il padrone, e il sospetto divenne certezza.
«Griso», disse Don Rodrigo sollevandosi, «tu sei sempre stato il mio fido».
«Signor sì», rispose il Griso, col laconismo, e col tuono ambiguo del tristo che dal preambolo s'accorge che l'uomo avvezzo a proteggerlo, gli vuol domandare protezione, e fargli far qualche cosa per riconoscenza.
«Sto male, Griso».
«Me ne accorgo, Signore».
«Se guarisco, ti farò star meglio che tu non sia mai stato».
Il Griso non rispose nulla, ed aspettò che Don Rodrigo continuasse.
«Non voglio fidarmi d'altri che di te.
Fammi una carità, Griso».
Erano forse anni che Don Rodrigo non aveva proferita questa parola.
«Vediamo», disse il Griso.
«Sai tu dove abita il Chiodo, chirurgo?»
«Lo so benissimo».
«È un galantuomo, che se è ben pagato, tien segreti gli ammalati.
Vallo a cercare; digli che lo pagherò bene, meglio di chi che sia, quanto vorrà, e fammelo venir qui segretamente, che nessuno se ne avvegga».
«Ben pensato», disse il Griso: «vado e torno».
«Senti, Griso, dammi prima un bicchier d'acqua: mi sento arso che non ne posso più».
«No, signore», disse il Griso: «niente senza il parere del medico; non c'è tempo da perdere: stia quieto, aspetti un momento, son qui col Chiodo».
Così dicendo, tolse la chiave dalla toppa, uscì, chiuse Don Rodrigo in istanza e se ne andò.
Don Rodrigo rimase in una agitata aspettazione, in una incertezza sospettosa, e iraconda, col terrore crescente.
L'abbominevole Griso aveva già fatto nella notte i suoi conti pel caso che ora si era avverato.
Allontanò tosto di casa con un ordine finto del padrone, l'altro servo; e corse al posto più vicino di monatti.
Ivi, tratti in disparte due che erano suoi conoscenti e insieme dei più scellerati, propose ad essi una occasione di dividere spoglie opime.
Quegli accettarono prima d'intendere le condizioni: ma il Griso le espresse tosto; non si trattava d'altro che di venire a prendere Don Rodrigo, e di portarlo al lazzeretto.
Dieder tosto di mano ad una bussola, delle quali era provvigione a quel posto, se la caricarono, e seguirono il Griso.
Don Rodrigo stava con l'orecchio teso, spiando ogni romore per sentire se il chirurgo giungeva; e questo sforzo d'attenzione sosteneva alquanto il vigore delle sue membra, sospendeva il senso del male, e teneva in sesto la sua mente.
Tutto ad un tratto intese egli uno squillo acuto, continuo, che si avvicinava: erano le campanelle che i monatti portavano legate ai piedi a foggia di sproni.
Un orrendo sospetto corse al suo pensiero; si levò egli a sedere in furia; e in quel momento sentì la chiave girar nella toppa, e vide aprirsi, entrare i monatti, col Griso.
«Ah traditore! via canaglia!» urlò Don Rodrigo; e tosto si gettò dall'altra parte per afferrare le pistole che teneva appese a fianco del letto.
Ma un monatto gli fu sopra, lo fece raccosciare sul covile, gli tenne le mani, e gridò con un orribile ghigno di collera:
«Ah! birbone! contra i ministri del tribunale!»
«Tienlo ben saldo», disse il compagno, «finché lo portiamo via: egli è frenetico».
Lo sventurato Rodrigo lo divenne: si divincolava, mandava urli, lanciava bestemmie contra i monatti, e più contra il Griso, ch'egli vedeva frugare insieme con quel compagno nei cassettoni, spezzar le serrature dello scrigno, cavarne il danaro, e far le parti; mentre colui che teneva il padrone dava un'occhiata a questo per tenerlo bene, e una occhiata a quegli altri, dicendo: «fate le cose da galantuomini, altrimenti...»
Il corpo e la mente di Don Rodrigo, già dissestati dal male, non ressero allo sforzo, al dibattimento, e a tanta passione: il meschino cadde tutto ad un tratto come sfinito e stupido; guardava però come un incantato; e di tratto in tratto dava qualche scossa, o usciva in qualche imprecazione.
Fatte le parti, i monatti lo posero nella bussola, e lo portarono al lazzeretto.
Il Griso rimase a scegliere quel di più che poteva essere il caso suo; fece un fardello, e sfrattò.
Ma in quella furia del frugare, egli aveva presi presso al letto i panni del padrone, e scossigli per vedere se vi fosse denaro; né in quel momento aveva badato a quello che si facesse.
Se ne accorse però il giorno dopo, che preso dagli stessi accidenti che, con occhio così spietato, aveva mirati nell'infelice suo padrone, cadde infermo in una osteria, dove era andato a gozzovigliare; abbandonato da tutti, fu spogliato dai monatti anch'egli, trattato come aveva trattato altrui, e strascinato sur un carro al lazzeretto, dove finì.
Lasciando ora Don Rodrigo nel suo tristo ricovero, ci conviene andare in cerca d'un personaggio separato da lui per condizione, per abitudini, e per inclinazioni, e la storia del quale non sarebbe mai stata immischiata alla sua, se egli non lo avesse voluto a forza.
Fermo, del quale intendiamo parlare, aveva campucchiato quell'anno della carestia, parte col suo lavoro, parte coi soccorsi di quel suo buon parente; alla fine per non essergli troppo a carico, intaccò i cento scudi di Lucia, ma col proposito di restituire, se mai Lucia non fosse più quella per lui.
Il passaggio della soldatesca interruppe quelle scarse, e imbrogliate comunicazioni di pensieri e di notizie che passavano tra lui ed Agnese.
Dietro la soldatesca venne la peste, ai primi avvisi della quale i magistrati di Bergamo interdissero il commercio col territorio milanese finittimo, mandarono commissarj ad invigilare al confine, fecero por guardie e cancelli.
Pure, come era accaduto nel milanese, la disobbedienza fu più attenta, più destra, più ingegnosa che la vigilanza; gli abitanti del confine bergamasco non credevano né pur essi molto alla peste, e trattavano di soppiatto coi loro vicini: e con molta fatica e con molto pericolo ottennero di potere avere anch'essi la peste in casa.
Entrata che fu, invase poco a poco il contado, poi i sobborghi di Bergamo, poi la città.
La peste di Bergamo, e nei modi con cui si propagò, e in tutti i suoi accidenti, presenta molti tratti di somiglianza notabile con quella del Milanese.
Come in questo paese, così nel bergamasco, dopo scoverta la peste si trovò ch'ella si sarebbe dovuta prevedere per evidenti segni astrologici, e per inauditi portenti; v'ebbe pure la incredulità di molti abitanti, e la negligenza delle precauzioni, v'ebbero i dispareri fra i medici, l'inesecuzione degli ordini, e il rilasciamento nei magistrati stessi, nato da una falsa fiducia che il male fosse cessato.
Quivi pure una processione contrastata con ragioni savie, e voluta con fanatismo, diffuse rapidamente il contagio nella città; quivi pure molte vite generosamente sagrificate in pro' del prossimo da cittadini, e particolarmente da ecclesiastici; quivi pure licenza, e avanie degli infermieri e becchini che ivi erano chiamati nettezzini come in Milano monatti; quivi pure preservativi e rimedii strani o superstiziosi.
Quivi pure come in Milano subitanei spaventi per voci sparse di sorprese nemiche sognate dalla paura, o inventate dalla malizia; e finalmente, per non dir tutto, quivi pure all'udire che in Milano v'era gente che disseminava il contagio con unzioni, nacque un terrore che il simile non avvenisse, anzi parve di vedere unti i catenacci e i martelli delle porte, e le pile delle Chiese.
Ma la cosa non andò oltre; e come in questo particolare, così nel resto gli accidenti tristi che abbiam toccati furono in Bergamo men gravi, meno portentosi: l'incredulità fu meno ostinata, men clamorosa, la trascuranza men crassa, la superstizione meno feroce, la violenza meno bestiale, e meno impunita.
Di questa differenza v'era molte cagioni, alcune presenti, altre antiche, quale nelle persone, e quale nelle cose; la ricerca delle quali cagioni è fuori affatto del nostro argomento.
Quello che ora importa di sapere si è che Fermo contrasse la peste, e la superò felicemente.
Tornato alla vita, dopo d'averla disperata, dopo quell'abbandono e quell'abbattimento, sentì egli rinascere più che mai fresche e rigogliose le speranze, le cure e i desiderj della vita; cioè pensò più che mai a Lucia, alle antiche affezioni, agli antichi disegni, alla incertezza in cui era da tanto tempo dei pensieri di essa, e alla nuova terribile incertezza della salute, della vita di lei in quel tempo dove il vivere e l'esser sano era come una eccezione alla regola.
Tutte queste passioni crescevano nell'animo di Fermo di pari passo che il vigore nelle sue membra; e quando queste furono ben riconfortate, egli con la risolutezza d'un giovane convalescente, disse in se stesso: - andrò, e vedrò io come stanno le cose -.
Il pericolo della cattura gli dava poca molestia; da quello che si passava in Bergamo, egli vedeva che la peste assorbiva o affogava tutte le sollecitudini, ch'ella era come un'obblivione o un giubileo generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati avevano ben poca forza e poca voglia d'agire contra i delitti della giornata, e tanto meno contra reati ormai rancidi; e sapeva per la voce pubblica che in Milano il rilasciamento d'ogni disciplina buona e cattiva era ancor più grande.
Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome, di procedere con cautela, e di scoprir paese, e prender voce nel suo paesetto natale, prima che avventurarsi in Milano.
Con questo disegno, egli lasciò in deposito presso un buon prete (quel suo fidato parente era morto di peste) gran parte degli scudi che gli rimanevano, ne prese pochetti con sè, si tolse un pajo di pani, un po' di companatico e un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo sul finire di Luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al lazzeretto.
I pochi che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra popolazione, come una razza privilegiata.
Una grandissima parte della gente languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano contratto il male ne vivevano in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva col tocco esser cagione di morte, così di tutto si guardavano; i passi erano misurati e sospettosi, i movimenti ritrosi, irresoluti, fretta ed esitazione in un tempo, un allarme incessante, una disposizione a fuggire; e con tutto questo il pensiero sempre vivo che forse tante precauzioni erano inutili, forse il male era già fatto.
I pochi risanati invece, non temendo più del contagio, camminavano ed operavano senza tutte quelle precauzioni, e l'aspetto della incertezza altrui cresceva in molte occasioni la fiducia e la scioltezza loro; erano come i cavalieri dell'undecimo secolo coperti d'elmo, di visiera, di corazza, di cosciali, di gambiere, con una buona lancia nella destra, un buon brocchiere alla sinistra, una buona spada al fianco, una buona provvigione di giavellotti, sur un buon palafreno agile all'inseguimento ed alla ritratta, in mezzo ad una marmaglia di villani a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti di vestimenti, che per offesa e per difesa non avevano che due braccia e due gambe, e il resto delle membra non atto ad altro che a toccar percosse.
L'immunità dal pericolo ispira il sentimento, e dà il contegno del coraggio; è la parte meno nobile, ma spesso una gran parte di esso; e questa verità si è sapientemente trasfusa nella nostra lingua, dove il vocabolo sicuro, che in origine vale fuor di pericolo, fu traslato a significare anche ardito.
Con questa baldezza temperata però dalle inquietudini che noi sappiamo, e dalla pietà di tanti mali altrui, camminava Fermo in un bel mattino d'estate, per coste amene donde ad ogni tratto si scopre un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto un cielo ridente, tra il fresco e spezzato luccicare della ruggiada, all'aria frizzante dell'alba, e al soave calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte.
Ma dove appariva l'uomo, dove si vedevano i segni della sua dimora, del suo passaggio, spariva tutta la bellezza di quello spettacolo: erano villaggi deserti, animati soltanto da gemiti, attraversati da qualche cadavere che era portato alla fossa, senza accompagnamento, senza romore di canto funebre: qua e là uomini sparuti che erravano, infermi che uscivano disperati dal coviglio, per morire all'aria aperta, birboni, che agguatavano dove fosse da spogliare impunemente.
Fermo cercò di schivare tutte le parti abitate, venendo pei campi: sul mezzo giorno si riposò in un bosco, vicino ad una sorgente, ivi si rifocillò col cibo che aveva portato seco; lasciò passare le ore più infocate; riprese la sua strada; cominciò a riveder luoghi noti, misti alle memorie della sua fanciullezza, e due ore circa prima del tramonto scoperse il suo paesetto.
Alla prima vista Fermo ristette un momento, come sopraffatto dalle rimembranze, e dai pensieri dell'avvenire, e ripreso fiato procedette, entrò nel paese.
L'aspetto era come quello di tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu ben più forte che egli non l'avesse ancor provata.
Guardò se vedeva attorno qualche suo conoscente, qualche persona viva: nessuno; le porte chiuse, o abbandonate; avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare, lo guardò, durò fatica a riconoscerlo, travisato com'era dal male; ma non fu riconosciuto da esso che gli piantò in faccia due occhj insensati, e non fece motto.
Fermo lo chiamò per nome, non ne ebbe risposta, e più che mai accorato si avviò alla sua casa.
Ella era, quale l'avevano lasciata i lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e là, qua e là affumicata, e dentro vuota ma non già pulita, che vi rimaneva ancor lo strame che era stato letto ai soldati.
Ne uscì Fermo in fretta inorridito, ritraendo l'occhio dallo spettacolo, e la mente dai pensieri e dai ricordi che quello spettacolo faceva nascere, e si incamminò alla casa d'Agnese, con l'ansia di rivedere un volto amico, di udire da lei ciò che tanto gli stava a cuore, e col battito di non ritrovarla, di non ritrovar pure chi gli sapesse dire s'ella viveva.
Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa, dov'era pure la casa del curato.
Quando fu in luogo donde la piazza si poteva vedere, guardò egli alla casa del curato, e vide una finestra aperta, e nel vano di quella un non so che di bianco-giallastro in campo nero, una figura immobile appoggiata ad un lato della finestra.
Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un vecchio ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del pittore, e per l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al muro, per la buona intenzione di ornare qualche solennità.
Fermo che aveva sospettato chi doveva essere, arrivato su la piazza lo riconobbe, e da prima, tornandogli a mente che egli era una delle cagioni delle sue traversie, sentì rivivere un po' di stizza, e volle passar di lungo.
Ma tosto l'antico rispetto pel curato, quel desiderio di sentire una voce umana e conosciuta così potente in quelle circostanze, la speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero nell'animo di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando il volto alla finestra, disse: «Oh signor curato, come sta ella in questi tempi?» Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era sembrato di riconoscerlo: ma quando sentì la voce che non gli lasciava più dubbio, «per amor del cielo!» disse, «voi qui? Che venite a fare in queste parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella poca bagattella di cattura...?»
«Oh via, signor curato», disse Fermo non senza dispetto: «mi vuol ella fare anche la spia?»
«Parlo per vostro bene», disse Don Abbondio, «che nessuno ci sente.
Chi volete che ci senta? Non vedete che son tutti morti? Che venite a cercare fra queste belle allegrie? Andate, tornate dove siete stato finora; non venite a porre in imbroglio voi e me; perché quando si tratti di castigar voi, e di tormentare me pover uomo vi sarà dei vivi ancora».
«Signor curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?»
«Oh Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri noi! Che serve che vengano i flagelli, se gli uomini non voglion far giudizio! E la peste, figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la peste?»
«Ella deve ricordarsi, signor curato», disse Fermo, con voce alquanto risentita, «che Lucia ed io...
non erano grilli...»
«Oh!» disse Don Abbondio, «figliuol caro, voi avete sempre avuto il timor di Dio, spero che non sarete cangiato.
Per questo vi parlo con libertà, da vero padre, perché vi ho sempre voluto bene.
So io quel che dico, questo non è paese per voi: se vi dovesse accadere qualche disgrazia, (e già pur troppo non la schivereste) che crepacuore per me! La cattura è terribile; v'è un fuoco contro di voi! E poi la peste...»
«La peste l'ho avuta», disse Fermo: «son guarito, e non ho più paura».
«Vedete che avviso vi ha mandato il cielo; per farvi pensare al sodo...
Anch'io l'ho avuta, e son qui per miracolo».
«Ma di Lucia non mi sa ella dir nulla?»
«Figliuol caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in Milano; cioè v'era: di chi può dirsi ora, v'è? Sarà morta: muojono tutti».
«Ma noi siam pur vivi, e...»
«Per miracolo, figliuolo, per miracolo.
E il frutto che ne dobbiam trarre, è di cacciar tutte le bazzecole dalla testa.
In Milano, figliuolo! chi vive in Milano? questo è un purgatorio, ma quello è l'inferno.
Non vi passasse mai pel capo...»
«E Agnese, signor curato?»
«Agnese è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si guarda, si guarda; ha giudizio, non vuol vedere nessuno; non le andate fra piedi, che le fareste dispiacere».
«Sia lodato Dio; ma ella né mi vuole ajutare, né vuole che altri m'ajuti».
«Che dite figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perché vi voglio bene; e perciò vi torno a dire: non vi passasse mai pel capo...
Dio guardi! In Milano! Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un impegno! e con tanti nemici che avete! Dio liberi! e poi, so io quel che dico, potreste trovare...
chi sa? gente che vuol bene, ma...
gente che si piglia impegni di proteggere, e poi...
Sostenere...
cozzare...
basta parlo con tutto il rispetto...
ma Dio solo è da per tutto...
Si vuole, si comanda, si promette, si fa l'impegno...
si scompiglia la matassa, e si dà in mano al curato perché la riordini...
e chi ne va col capo rotto è il curato...
Fate a modo mio, tornate dove siete stato finora».
«Basta», disse Fermo: «non mi aspettava da lei più soccorso di quello che mi abbia avuto.
Io non intendo tutti questi suoi discorsi; ma poi che ella non ha altri consigli da darmi, si contenti ch'io faccia a modo mio».
«No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete in imbroglio me e voi.
Abbiate compassione d'un pover uomo che ha bisogno di quiete; e sarebbe giusto finalmente che la godesse.
Quello che ho patito io, vedete, non lo ha patito nessuno.
Ne ho passate d'ogni sorte: spaventi, crepacuori, fatiche: è venuta la carestia, e m'è toccato di veder persone morirmi di fame su gli occhi.
Ho dovuto fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho trovato cuori duri come selci; e i soldati m'hanno sperperato ogni cosa.
E sono stato...
e ho dovuto...
e basta...
sono stato ricoverato da un degno signore...
basta so io quello che ho patito.
E poi la peste! ho dovuto assistere agli appestati...
e...
ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho presa anch'io, e son qui vittima della mia carità: d'allora in poi non son più quello.
Perpetua è morta, mi ha abbandonato in questi guaj; e mi tocca servirmi da me povero vecchio e malandato, come sono.
Ecco che appena cominciava a star bene, e voi venite per darmi nuovi travagli...»
«Signor curato», disse Fermo, «io le desidero ogni bene; e del travaglio ella ne può bene aver dato a me, ma non io a lei, in fede mia.
La spia ella non me la vorrà fare; del resto io mi rimetto nelle mani di Dio.
Attenda a guarir bene, signor curato».
«Sentite, sentite», continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta una riverenza di risoluto congedo, e camminava verso la casetta di Lucia.
- Oh povero me! questo vi mancava! - continuò a borbottare fra sè Don Abbondio, ritirandosi dalla finestra.
- Povero me! Se costui va a Milano, se trova Lucia, se tornano alle loro antiche pretese, ecco rinnovato l'imbroglio.
Un cardinale che dirà: «voglio che si faccia il matrimonio», un signore che dice: «non voglio»: ed io tra l'incudine e il martello.
Basta...
- disse poi soffiando dopo d'avere alquanto pensato -...
muore tanta gente...
che dovessero rimanere al mondo tutti quelli che si divertono a mettere le pulci nell'orecchio di me pover uomo!
Intanto Fermo arrivò alla casetta d'Agnese, la quale casetta, se il lettore se ne ricorda, era fuori del villaggio, solitaria.
Alla vista di quel luogo una nuova tempesta sorse nel cuore di Fermo; diede egli un gran sospiro, e bussò.
«Chi è là?» gridò da dentro la voce d'Agnese: «state lontano; non bazzicate intorno alla porta; verrò a parlarvi dalla finestra».
«Sono io», rispose Fermo; ma Agnese, non aspettando a basso la risposta aveva fatte in fretta le scale, e apriva la finestra.
«Son io; mi conoscete?» disse ancor Fermo, quando la vide.
«Oh Madonna santissima!» sclamò Agnese: «voi!» «Io», rispose Fermo; «sono il benvenuto?»
«Oh figliuolo!» sclamò di nuovo Agnese, «quanto vi avrei desiderato se non avessi avuto paura per voi! Ma ora che venite voi a fare?»
«A saper nuove di Lucia, e di voi», rispose Fermo.
«A vedere se tutti si sono scordati di me.
Che n'è di Lucia?»
«Figliuolo, sono mesi che non ne ho notizia: prima di quel tempo ella stava bene di salute; ma ora chi può sapere...?»
«Io andrò a vedere, io vi porterò nuova di vostra figlia», disse Fermo risolutamente.
«Voi?» disse Agnese: «ma e...
mi capite.
Basta...»
«Volete aprirmi e parleremo più liberamente?»
«E la peste, figliuolo?»
«Grazie al cielo ella non ha ammazzato me, ed io ho ammazzato lei, e son sano e salvo come mi vedete.
Aprite con sicurezza».
«Scendo ad aprire», rispose Agnese; «oh con quanta consolazione v'avrei riveduto.
Ma ora, bisogna ch'io vi preghi di starmi lontano».
«Come vorrete», rispose Fermo.
«State ad aspettarmi nel mezzo della strada; quando aprirò, non vi affacciate alla porta; lasciatemi rientrare, poi entrerete, e vi porrete in un angolo lontano da me, e ci parleremo; le parole non hanno bisogno di toccarsi.
Oh quante cose ho da dirvi!»
«Ed io a voi», rispose Fermo.
Agnese calò in fretta le scale, giunta alla porta, avvisò ancora Fermo che stesse discosto, aprì, rientrò fino in fondo alla stanza; Fermo entrò pure, prese un trespolo, lo portò in un angolo, vi si pose a sedere, guardando intorno, ricordandosi di tanti momenti passati in quel luogo, e sospirando; Agnese andò a richiuder la porta, e venne a sedersi nell'angolo opposto.
E subito cominciò come una sfida d'inchieste.
«Come vi siete fidato di venir da queste parti?»
«Perché Lucia non mi ha mai risposto?»
«Come avete potuto fuggire?»
«E perché non venire dove io era in sicuro, piuttosto che mandarmi denari?»
«Chi v'ha strascinato in quei garbugli?»
«Quanto tempo Lucia è stata in quello spavento? e come è andata propriamente la cosa?»
Fatte le prime interrogazioni più pressanti ognuno cominciò a rispondere brevemente a quelle del compagno.
Fermo finalmente pregò Agnese ch'ella raccontasse per disteso tutta la sua storia, promettendo di soddisfarla egli poi della propria.
Così Fermo conobbe per la prima volta daddovero le triste vicende di Lucia, e l'esito inaspettato.
Tremò, fremè, impallidì cento volte a quel racconto; ora diede dei pugni all'aria, ed ora giunse le mani in atto di ringraziamento; maledisse la Signora, benedisse il Cardinale, diede maledizioni e benedizioni al Conte del Sagrato, invocò ora la vendetta, ora il perdono del cielo sopra Don Rodrigo.
Ma un punto rimaneva tuttavia oscuro, né Agnese sapeva dilucidarlo.
Perché non è venuta con me? con me suo promesso? con me che doveva, che poteva divenir suo marito? che ostacolo v'era più? non sarebbero mancati che i denari; e il cielo gli aveva mandati.
Agnese non seppe dire, se non ciò ch'ella aveva pur pensato: che Lucia fosse rimasta tanto stordita e sgomentata da quegli orribili accidenti, che non le rimanesse più forza da voler nulla, e fosse disgustata d'ogni cosa.
«Oh! andrò io a saperlo da lei», disse Fermo, «voglio vederne l'acqua chiara.
Ella era mia; mi si era promessa; io non ho fatto niente per demeritarla; e se non mi vuol più...» e qui avrebbe pianto se gli uomini non si vergognassero di piangere, «se non mi vuol più; me lo ha a dire di sua propria bocca; e mi deve dire il perché».
Agnese cercò di racconsolarlo, e lo chiese della sua storia, che Fermo le narrò sinceramente.
Questa storia fece molto piacere ad Agnese, e le rimise Fermo nell'antico buon concetto.
«Voleva ben dire io!» sclamava ella di tratto in tratto.
«Se sapeste come la raccontavano qui, in cento maniere l'una peggio dell'altra.
Ma voi non me l'avete mai fatta scrivere ben chiara».
«E voi, madonna», disse Fermo, «non mi avete mai data soddisfazione sopra quello che io voleva sapere».
«Basta», disse Agnese, «lodato Dio che abbiam potuto parlarci una volta; valgon più quattro parole sincere di due ignoranti che tutti gli scarabocchj di questi sapienti.
Ma voi come vi fidate di andare a Milano, dove vi hanno tanto cercato, dove...?»
«Chi mi conoscerà?» rispose Fermo, «non m'hanno visto che un momento; e il nome...
ne piglierò un altro; non ci vuol gran lettera per questo; e poi chi volete che pensi a me ora? Hanno da pensare alla peste.
Sono tutti in confusione.
Muojono come le mosche, a quel che si dice...
Ah! pur che viva Lucia!»
«Dio lo voglia!» sclamò Agnese; «e lo vorrà, io spero.
Quella poveretta innocente ha tanto patito! Dio gli conterà tutto quel male, per salvarla ora.
Ah! Fermo, io ho buona speranza; andate pure; mi sento tutta riconfortata dell'avervi veduto.
Sento una voce che mi dice che i guaj sono alla fine; e che passeremo ancora insieme dei buoni momenti».
Fermo chiese del Padre Cristoforo, e Agnese non le seppe dir altro se non ch'egli era a Palermo che è un sito lontano, lontano, di là dal mare.
Scontento, e perché sperava da lui ajuto e consiglio, e perché desiderava di raccontare a lui pure la storia genuina; e perché avrebbe riveduto volentieri quell'uomo pel quale sentiva tanta venerazione e tanta riconoscenza.
Disse però: «brav'uomo! vero religioso! è meglio ch'egli sia fuori di questi guai e di questi pericoli».
Agnese offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni sanitarie però di lontananza, di cautela, di non toccar questo, di non avvicinarsi a quell'altro luogo.
Fermo accettò l'ospitalità ben volentieri e promise tutti i riguardi che Agnese desiderava.
Era venuta l'ora della cena; e la massaja si diede ad ammanirla.
Pose al fuoco la pentola per cucinarvi la polenta: Fermo, da giovane ben educato, voleva risparmiare la fatica alla donna, e fare egli il lavoro: ma Agnese, levando la mano: «guardatevi bene dal toccar nulla», disse; «lasciate fare a me».
Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò nell'acqua, la rimenava, dicendo: «Eh! altre volte era Lucia! basta il cuor mi dice che la mia poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in buona compagnia».
Fermo sospirava.
Agnese versò la polenta, raccomandando sempre a Fermo di non si muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la vacca, tornò con una brocca di latte, dicendo: «vedete: quella povera bestia da sei mesi è la mia unica compagnia».
Prese un bel pezzo di polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse a Fermo, stando più lontana che poteva, e stringendosi con l'altra mano la gonna d'intorno alla persona perché non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi allo stesso modo gli sporse una scodella di latte.
Nel tempo della cena si parlò dei disegni di Fermo, Agnese gli diede istruzioni sul nome dei padroni di Lucia, gli comunicò le notizie confuse ch'ella aveva sul luogo della loro dimora; e questi discorsi gli tennero a veglia qualche ora dopo la cena.
Finalmente Agnese indicò all'ospite la stanza, dov'egli doveva coricarsi: era quella di Lucia: Fermo amò meglio di andarsi a gettare sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione per la salute.
Prima dell'alba erano entrambi in piedi.
Agnese diede a Fermo due pani, e due raviggiuoli, fattura delle sue mani, gli riempì di vino il fiaschetto ch'egli aveva portato con sè, dicendo: «in questi tempi potreste morir di fame, prima di trovare chi vi desse da mangiare».
Il congedo fu quale ognuno può immaginarselo, pieno di tenerezza, di accoramento, e di speranza.
Fermo partì, viaggiò tutto quel giorno, e avrebbe potuto la sera entrare in Milano, ma pensò che avrebbe trovato più facilmente un ricovero al di fuori.
Ristette di fatti in una cascina deserta, a un miglio dalla città.
Dormì su le stoppie, e all'alba, levatosi, si avviò, e fece la sua seconda entrata in Milano, che gli comparve in un aspetto più tristo e più strano d'assai che non era stato la prima volta.
CAPITOLO VI
S'io avessi ad inventare una storia, e per descrivere l'aspetto d'una città in una occasione importante, mi fosse venuto a taglio una volta il partito di farvi arrivare, e girar per entro un personaggio, mi guarderei bene dal ripetere inettamente lo stesso partito per descrivere la stessa città in un'altra occasione: che sarebbe un meritarsi l'accusa di sterilità d'invenzione, una delle più terribili che abbian luogo nella repubblica delle lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la saviezza delle sue leggi.
Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una storia quale è accaduta: e gli avvenimenti reali non si astringono alle norme artificiali prescritte all'invenzione, procedono con tutt'altre loro regole, senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto.
Se fosse possibile assoggettarli all'andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare.
Per questo incolto e materiale procedere dei fatti, è avvenuto che Fermo Spolino sia giunto due volte in Milano appunto in due epoche, diversamente singolari, e che l'una e l'altra volta abbia ricevuta dall'aspetto di quella città una impressione, che noi dobbiamo pur riferire, trattandosi d'uno dei nostri protagonisti.
Nè in questo solo ma anche fra i due soggiorni di Fermo in Milano, anche fra le due partenze v'è un principio singolare di somiglianza: cui ella spiacesse, se la pigli con le cose, che hanno voluto essere a quel modo.
Per una via deserta, fiancheggiata da campi imboschiti, giunto a piè delle mura, Fermo sostette pensoso, e preso da quella specie di spavento che si prova al trovare una vasta, ostinata solitudine in mezzo alle tracce dell'abitato: tese l'orecchio, girò gli occhi intorno: nessun indizio d'uomini, nessun segno di vita, nessun movimento; se non che d'in su la mura, ad intervalli, sorgevano colonne di fumo, che s'allargavano in globi scuri, bigi, folti, e quindi abbattute dal vento si curvavano, scendevano giù al di fuori, diradandosi e diffondendosi nell'aria, e si stendevano sul piano esteriore in nebbia lenta, crassa, fetente.
Erano i mucchj di vesti infette, di cenci, di letti, di spazzature d'ogni sorta che si facevano portare al bastione, e quivi abbruciare.
Tale era il fastidio che quella nebbia diffondeva nell'aria, che Fermo, benché avvezzo a sensazioni di quel genere si turò le nari, con ribrezzo; ma ben tosto ritirò la mano, pensando che all'entrare e all'avanzarsi nella città, non solo il lezzo, ma ogni sorta di fastidio l'avrebbe assalito da tutte le parti, e che bisognava risolversi ad affrontarlo, non pensare a ripararsene.
Fuori della porta era una capannuccia di legno, stazione delle guardie e d'un deputato che doveva guardare a chi entrava ed usciva, richiedere le bollette, escludere i sospetti.
Ma in quella comune disperazione ogni disciplina era dismessa; il deputato a quella porta era caduto di peste il giorno antecedente, le poche guardie stavano nella capanna, badando più a tener lontani i passeggieri dalle loro persone che ad esaminarli.
Dinanzi alla porta era un cancello, ma spalancato, e Fermo vi passò senza che alcuno lo chiedesse di nulla.
Procedendo per quel primo spazio della città tra i bastioni, e il canale chiamato naviglio, spazio occupato da orti (o se volete da ortali, che sarà più vicino al proprio vocabolo municipale, ortaglie) con entrovi sparso qualche convento, e qualche casipola, nulla vide Fermo per qualche tempo che desse indizio esser quello un luogo abitato da uomini.
Il primo indizio di persona viva gli venne, mentre egli passava tutto costernato per quella stradaccia che dal Ponte di Santa Teresa, correndo tra il naviglio, e alcune casuccie, va alla piazza di San Marco.
Un gemito che si sforzava d'essere una chiamata uscì d'una di quelle case; Fermo alzò gli occhj, e vide un tapino alla finestra che scuoteva una funicella alla quale era appeso un sacchetto che scendeva presso al pavimento della strada.
Fermo si fece vicino, e udì una voce fioca: «carità ai poveri sospetti».
Cavò egli una moneta, e la ripose nel sacchetto; ma colui invece di tirar la fune a sè, disse con un tuono misto di supplica e d'impazienza: «un po' di pane: ci hanno chiusi in casa come sospetti, e ci hanno dimenticati; e moriamo di fame».
Fermo aveva ancora uno dei pani di Agnese: lo cavò tosto, e lo legò alla fune.
Il rinchiuso, benedicendolo, la trasse in fretta, e Fermo lo vide afferrare quel pane, con ambe le mani, porselo a bocca, e addentarlo avidamente.
Dopo due passi udì un romore confuso che si avvicinava, e cominciò a distinguere un cigolar di ruote, un calpestio di cavalli, uno squillare di cento campanelli, un baccano di grida; guatò dinanzi a sè, ed ecco in capo alla strada dov'egli camminava spuntare due uomini a piede (eran chiamati apparitori) che con le mani alzate accennavano, e ad alta voce gridavano ai passeggeri di ritirarsi.
Dietro a questi vide comparire cavalli che allungando la cervice, e puntando le zampe, avanzavano a stento; e ad ogni passo le campanelle che essi avevano appese intorno alle teste e ai colli, mandavano un tintinnio acuto e assordante: e a fianco dei cavalli, vide monatti in lacere divise rosse, essi pure con le campanelle ai piedi, che a forza di punte e di flagelli e di bestemmie li forzavano a camminare, a proseguire la corsa ritardata dal peso crescente dei cadaveri che raccolti sul passaggio erano gettati sui carri.
I cadaveri v'erano ammonticati, e intrecciati insieme, quasi come un gruppo di serpi che lentamente si svolga al tepore della primavera: nudi la più parte, o male avviluppati in lenzuola cenciose.
Dopo un carro che attraversò la via, ne venne un altro, e poi un altro: dieci ne contò Fermo.
Di tratto in tratto, si vedevano i cadaveri, ad una forte scossa, tremolare sconciamente, e scompaginarsi; le gambe, le braccia, le teste con le chiome arrovesciate si svincolavano dal mucchio, e spenzolavano dal letto del carro, talvolta involte nelle ruote traevano seco i cadaveri sotto di quelle, come per mostrare che quello spettacolo poteva divenire ancor più disonesto e più miserando.
Fermo ristette alquanto, fin che il convoglio fosse passato; e ripresa da poi la via, e giunto in capo a quella su la piazza di San Marco, presso il ponte che ne piglia il nome, vide di nuovo per di dietro quel sozzo corteggio, che per la via del pontaccio, si avviava alla fossa scavata fuori della porta comasina.
Ma un altro spettacolo, su quella piazza, attirò i suoi sguardi, e gli diede a pensare: erano due travi alzate e infisse nel suolo, e una corda passava dall'uno all'altro capo fra due carrucole.
Fermo riconobbe (ella era cosa famigliare a quel tempo) l'abbominevole stromento della tortura; ma non sapeva perché fosse collocato in quel luogo.
La sua maraviglia crebbe da poi quando ne incontrò uno per ogni piazza, in ogni via spaziosa.
V'erano posti, affinché i deputati delle porte e delle parrocchie, muniti a questo d'ogni facoltà più arbitraria, potessero, immediatamente farvi tormentare chi loro paresse, o sequestrati che uscissero, o ministri disubbidienti, o violenti di qualunque sorta.
Era uno di quei rimedii immoderati e inefficaci di cui principalmente in quel tempo si faceva scialacquo: era un dispotismo che non toglieva l'anarchia.
Dopo avere inutilmente guardato su quella piazza, se potesse scorgere alcuno a cui chiedere conto della via dove abitavano i padroni di Lucia, il nostro pellegrino si volse a mano manca, e costeggiando il convento di San Marco, giunse al Ponte al quale Ludovico il Moro diede il nome di Beatrice sua moglie; e per quello entrò nella città propriamente detta.
Quale città! Non istropiccìo di passeggeri, non romore di carrozze, non grida di venditori, né stridore di officine, ma in quella vece gemiti, lamenti, urli che uscivano dalle case, strepito di carri funebri, bestemmie, minacce, o quel che dava un suono ancor più atroce, il baccano festoso, e la ilarità infernale dei monatti.
Lo spazzo sparso e talvolta ingombro di mobili, di coltrici, di vesti, di strame appestato, di cenci, di fasce saniose e sanguinate; e a quando a quando di cadaveri abbandonati! Radi per le vie si vedevano camminare i cittadini che qualche necessità faceva uscire di casa: una parte era fuggita; un'altra parte, al numero circa di quattordici mila, abitava, o moriva nel lazzeretto; un'altra languiva nelle case; e forse cento venti mila erano i morti a quell'ora; prima della peste la popolazione della città era stimata dugento mila persone; numero al quale non risalì mai più dopo quel disastro.
Andavano quei pochi, scompagnati, in silenzio, con la faccia lurida, coi capegli lunghi ed incolti, con le barbe arruffate, perché da quando nella casa dell'infelice barbiere Giangiacomo Mora s'era creduto scoprire la fucina principale delle unzioni, ognuno fuggiva i barbieri divenuti tutti sospetti.
Andavano quei viandanti succinti in farsetto, deposte le cappe, le toghe, le cocolle, ogni ampio vestimento che svolazzando, potesse moltiplicare coi casi di contatto, i rischj della contagione.
Ognuno cercava di tenere il mezzo della via; si aveva orrore delle pareti che potevano esser unte; si temeva che dalle finestre si gettassero sui passeggeri polveri venefiche; e troppo spesso realmente si gettavano i letti, le vesti, le suppellettili dei morti di contagio; talvolta, orribil cosa! i morti stessi; talvolta gli infermi trasportati dalla frenesia del morbo, o spinti dalla disperazione, si gettavano da sè.
Nessuno che parlasse, nessuno che stesse a musare: non v'era creatura ferma fuor che i cadaveri.
Il solo vivente che il nostro pellegrino vedesse immoto nella via presso al muro, fu un uomo che sedeva a canto ad una porta in atto di chi assorto in qualche cura non badi a ciò che accade intorno a lui.
Era un prete che posato sur un trespolo, udiva, dalla porta socchiusa la confessione d'un appestato.
I viandanti portavano per lo più in mano certe palle crivellate di piccioli fori con entro spugne intinte di aceti medicati, di spiriti, e ad ogni momento le fiutavano; e si aveva gran fiducia in quei preservativi: tenevano nell'altra mano un bastone, non tanto per appoggiarsi, come per rimuovere chi avesse troppo voluto accostarsi; alcuni perfino tenevano invece del bastone, una pistola, accennando ai sopravvegnenti che dessero luogo; con quello stromento atto ad ottenere una più certa e più pronta obbedienza.
Se due amici s'incontravano a caso, il saluto era uno stringersi nelle spalle, un alzar delle mani, un sospiro, una occhiata quasi di maraviglia, che voleva dire: - voi siete ancor vivo! - ogni altra più intima accoglienza era dismessa, e in due mesi non accadde forse mai che due mani si stringessero ad espressione di amicizia.
I medici, i chirurghi si distinguevano per un capuccio che portavano come da disciplinati, per calarlo sul volto quando s'appressassero ad un infermo, avevano guanti alle mani per preservarle nel toccare dei polsi, nel medicare; e sospeso a cintola un fiaschetto d'aceto per lavarsi ad ogni visita, e per lavare i danari che erano loro dati in mercede, e che molti con crudele avarizia imponevano esorbitante, non volendo toccare un polso a meno d'uno zecchino.
Su quelle poche facce che si vedevano in volta era per lo più scolpito, compenetrato, e come divenuto fisonomia, l'accoramento, lo stupore, la sfidanza; le forme irrigidite, e come stagnanti in una trista quiete; e gli sguardi non avevano vita che dal terrore e dal sospetto.
Pochissimi però fra quei pochi andavano con passo più alacre, e mostravano una fronte men costernata: erano i guariti dalla peste; altri che portavano al collo o amuleti dai quali speravano d'esser preservati, o una boccetta di vetro con entro argento vivo, persuasi che questo metallo avesse la virtù di assorbire ogni influsso maligno; altri che prima d'uscire avevan mangiata una noce, due fichi secchi, e un po' di ruta, che da essi era riputato efficacissimo preservativo.
E pur troppo tutti questi rimedii producevano un effetto; ma era di crescere la mortalità, rendendo men guardinghi in tutto il resto coloro che avevan fede nell'uno o nell'altro di essi.
Fermo, benché ansioso di giungere al luogo dov'era, dov'egli sperava ancor tremando che fosse colei per cui sola aveva intrapreso quel viaggio, desideroso anche di abbreviare il più che fosse possibile un così tristo cammino, non aveva mai però scorto un volto che gli facesse animo ad interrogare.
Finalmente essendo capitato in uno di costoro, si risolse di rivolgersi a lui, e fece atto di accostarglisi.
Ma costui, che a malgrado del preservativo, era però dei cauti, levò il suo bastone che terminava in uno spiedo, e appuntandolo in dirittura alla pancia di Fermo, disse con voce risoluta: «lontano!» Fermo non si mosse; ma a quella distanza pregò il cittadino che volesse udire una parola, soltanto una parola; e gli chiese dove fosse la tal via, la tal casa.
Non era molto lungi di là; e il cittadino diede brevemente a Fermo l'indirizzo ch'egli desiderava; ma quando questi, dopo averlo ringraziato, si mosse per andare innanzi, l'uomo cauto ripetè: «lontano»; girò il bastone descrivendo intorno a sè un quarto di cerchio a mezz'aria, e segnando così a Fermo la giravolta che doveva fare per non passargli troppo vicino.
Fermo proseguì il suo cammino con un'ansia e con una sospensione d'animo cresciuta dal saper vicino il termine dov'egli sarebbe uscito d'un terribil forse.
Ma per quanto la sua mente tendesse a ricadere in quel pensiero, ne era pure ad ogni momento stirata via dagli oggetti fra i quali egli doveva scorrere.
Dove che i suoi sguardi cadessero non incontravano che dolore e ribrezzo.
Le porte o chiuse per guardia, o spalancate per desolazione; molte segnate d'una croce rozzamente tirata col carbone: quei segni eran posti dai commissarii della Sanità, per indicare ai monatti che vi eran morti da prendere.
Dove lo sgombro era già fatto, le croci si vedevano cancellate; e mettevano ancor più ribrezzo le tracce del segno di salute e di morte, guaste e confuse con le tracce delle palme impure dei monatti, o dei sozzi arredi che egli avevano adoperato a quell'uso.
Qualcheduno pur si mostrava alle finestre, qualche voce si udiva; erano guai di languenti, o urla di frenetici; erano chiamate e suppliche ai monatti, perché venissero a togliere qualche cadavere.
Nei principii della peste, il terrore di vedersi in casa quegli uomini senza legge, aveva fatto che molti nascondessero i cadaveri, gli seppellissero negli orti, nelle cantine, dove, come che fosse; ma poi crescendo il funesto da farsi, e il fastidio vincendo il terrore, si desideravano i monatti per liberarsi da uno spettacolo intollerabile, da una infezione talvolta invecchiata.
E quegli scellerati che da prima usavano introdursi a forza dove non erano richiesti, ora negavano talvolta di entrare pregati, se alle preghiere non si aggiungeva la ricompensa.
Posto il piede nelle case, vi si portavano non da padroni, da guastatori: ma era venuto il tempo che delle ribalderie e delle nefandità loro, già temute più della peste, non si faceva più caso: la disperazione aveva ottuso nei più ogni altro sentimento.
Pure, dinanzi a qualche casa, dove la sciagura non aveva estinto affatto ogni coraggio, né confusi tutti i pensieri, stavano distesi cadaveri, deposti ivi ad aspettare il passaggio del carro funebre; e alcuni pur piamente composti, ravvolti in qualche lenzuolo e celati al ribrezzo dei passeggieri.
E tali depositi, che, in tempi ordinarii, farebbero altrui torcere il guardo, erano allora quasi un conforto pel guardo, troppo offeso dallo spettacolo di altri corpi, che pure avevano ricettata un'anima immortale, e giacevano gettati brutalmente dalle finestre, travolti dalle cadute, o caduti dai carri, mostrando tutte le più diverse e dolorose immagini della morte, salvo l'immagine del riposo.
Aveva Fermo già scorse due vie, e passata la metà del viaggio, quando presso alla rivolta d'un canto, udì un frastuono, e vide due o tre che camminavano dinanzi a lui, dare addietro l'un dopo l'altro, e riprendere la strada donde erano usciti.
Giunto al canto, guardò che fosse la cagione di questi lor pentimenti, e vide nel mezzo di quella via quattro carri fermati; e come in un mercato di grani si vede un andare e venire di gente dai mucchj ai carri, un caricare, un rovesciare di sacca; così era la pressa in quel luogo; monatti che entravano nelle case, monatti che uscivano recandosi un carico su le spalle; e lo ponevano su l'uno o su l'altro carro: talvolta ripigliavano il peso già deposto, sul carro degli infermi, e lo gettavano su quello dei morti; era uno che preso semivivo su le loro spalle, aveva esalato l'ultimo respiro su quel letto abbominato.
Alle finestre, o presso ai carri si vedeva qualche congiunto pio e animoso piangere i suoi morti che partivano, o dare un tristo addio agli infermi.
Il resto della via era sgombro, e muto; se non che da qualche finestra partiva di tratto in tratto una voce sinistra: «qua monatti»: e con suono ancor più sinistro da quel lurido e affaccendato bulicame si sentiva venire per l'aria morta un'aspra voce di risposta: «adesso».
Fermo a quello spettacolo, stette in forse se dovesse egli pure tornare indietro; ma egli era presso al termine della via, d'una via che a stento aveva potuto farsi indicare; se l'abbandonava, chi sa quando avrebbe trovato chi volesse rimetterlo su quella, e chi sa quali inciampi dello stesso genere avrebbe trovati anche in tutt'altra: con questi pensieri e con animo già agguerrito a tali viste, egli proseguì.
Giunto a paro del convoglio, accelerava il passo, e cercava di non guardar quegli orrori se non quanto era necessario per cansarli; ma il suo sguardo vagabondo si abbattè in un oggetto dal quale usciva una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo; e quasi senza avvedersene egli rallentò il passo.
Sur una di quelle soglie stavasi ritta una donna il cui aspetto annunziava una giovinezza matura ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata ed offuscata da un lungo patire, ma non iscomposta; quella bellezza molle e delicata ad un tempo, e grandiosa, e, per così dire, solenne, che brilla nel sangue lombardo.
I suoi occhi non davano lagrime, ma portavan segno di averne tante versate; come in un giardino antico e trasandato, una fonte di bianchissimi marmi che inaridita, tien tuttavia i vestigi degli antichi zampilli.
V'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che raffigurava al di fuori un'anima tutta consapevole, e presente a sentirlo, e quel solo aspetto sarebbe bastato a rivolgere a sè gli sguardi anche fra tanta miseria; ma non era il solo aspetto della donna che ispirasse una sì rara pietà.
Tenevasi ella in braccio una fanciulletta di forse nove anni, morta, ma composta, acconcia, con le chiome divise e rassettate in su la fronte, ravvolta in una veste bianca, mondissima, come se quelle mani l'avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e concessa poi come un premio.
Nè era tenuta a giacere in abbandono, ma sorretta fra le braccia, col petto appoggiato a petto, come se vivesse; se non che il capo posava su le spalle della madre con un abbandono più forte del sonno: della madre, perché se anche la somiglianza di quei volti non ne avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente l'affetto che si dipingeva su quello che era ancora animato.
Fermo ristette senza quasi avvedersene con gli occhi fissi in quello spettacolo.
Ed ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista di prendere dalle sue braccia quel peso; ma pure con una specie d'insolito rispetto, con una esitazione involontaria.
Ma la donna, ritraendosi alquanto, in atto però che non mostrava né sdegno né dispregio: «no», disse, «non la mi toccate per ora; io, deggio comporla su quel carro: prendete».
E così dicendo, aperse una mano, mostrò una borsa, e la lasciò cadere nella mano che il monatto le tese.
Poscia continuò: «promettetemi di non torle un filo dattorno, né di lasciar che altri s'attenti di farlo, e di porla sotterra così.
L'avrei ben posta io; ma ella deve riposarsi nel luogo santo; né io posso portarvela, v'è lassù chi mi aspetta».
Mentre la donna parlava il monatto, divenuto ubbidiente forse più per una nuova riverenza, che pel guadagno, aveva fatto sul carro un po' di luogo al picciolo cadavere.
La donna diede un ultimo bacio alla figlia, la collocò ivi come sur un letto, ve la compose; e rivolta al monatto disse: «ricordatevi: Dio vedrà se mi tenete la promessa; e ripassando di qua sta sera, salite a prender me pure, e non me sola».
Così detto rientrò in casa, e un momento dopo comparve alla finestra, con un'altra più tenera fanciulla nelle braccia viva, ma coi segni della morte in volto.
Stette a contemplare la figlia giacente sul carro, fin che il carro si mosse, finché rimase in vista; e allora ritiratasi depose sul letto quell'altra cara innocente, e vi si sdrajò poi al suo fianco a morire insieme; come la pianta s'inchina col fiore appena sbucciato, al radere della falce che, dove passa, agguaglia tutte l'erbe del prato.
Fermo si mosse pur egli, più altamente compunto che non fosse mai stato in tutto quel viaggio, e per la prima volta, molle di lagrime.
«O Signore!» diss'egli, «esauditela! pigliatela con voi, sarà una ventura per quella travagliata l'uscire di tanti guai...
Una ventura! E Lucia!» Con questa parola in sul cuore egli s'affrettò su quella via, alla quale, se il cittadino lo aveva bene indirizzato, metteva capo quell'altra a cui egli agognava e tremava di arrivare.
Ed ecco, da quella parte appunto venire un frastuono sordo, poi più risuonante, ma confuso, un suono diverso di voci alte, brevi, e imperiose, di fiochi lamenti, di guai lunghi, di singhiozzi femminili, di garriti fanciulleschi.
A quel suono, al pensiero del luogo donde partiva, Fermo si sentì colpito d'una tristezza più nera che mai, d'una tristezza sospettosa, atterrita, tanto che non potè tenersi, e quasi smarrito andò a corsa verso il crocicchio che faceva la via nella quale egli si trovava con quella a cui era avviato.
Quando fu presso, vide nella via a mano diritta, per quella appunto ov'egli doveva entrare, una torma di gente guidata o cacciata al lazzeretto da un commissario, e da molti monatti.
A misura che quella trista processione passava dinnanzi a Fermo, il suo occhio inquieto, quasi appannato, correva e ricorreva per la moltitudine, trasceglieva e spiava con terrore ogni volto femminile, si spingeva verso quelli che arrivavano, tornava a quegli che erano passati...
Lucia non v'era.
Fermo su le prime respirò come uscito d'un grande spavento; ma tosto ricadde nella sua ambascia, pensando che egli andava non a veder forse, ma ad udire di peggio.
Erano languidi che si strascinavano a stento, alcuni sostenuti dalle braccia di figli, di padri, di fratelli, di mogli, che per pietà o per disperazione sprezzavano il pericolo del contatto; alcuni spinti a forza, resistenti in vano, gridanti in vano che volevano morire sul loro letto, e rispondendo bestemmie impotenti alle bestemmie imperiose dei conduttori; altri che, appoggiati ad un bastone, andavano in silenzio dove erano comandati, senza dolore, senza speranza, insensati; donne coi pargoli in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quei comandi, da quello spettacolo più che dal pensiero oscuro della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre, e le sue braccia fidate, e di restare nel noto soggiorno.
Ahi! e forse la madre, che essi credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, vi s'era gittata oppressa tutt'ad un tratto dal morbo, priva di senso, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro giungeva più tardi.
Talvolta, oh sciagura degna di lagrime ancor più amare! la madre tutta occupata dei suoi patimenti, si stava dimentica d'ogni cosa, anche dei figli, e non aveva più che un amore: di morire in riposo.
Pure in tanta confusione si vedeva ancora qualche esempio di costanza; e di pietà: parenti, fratelli, figli, consorti che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto; né adulti soltanto, ma garzoncelli, ma giovinette appena adolescenti che facevano scorta a fratellini più teneri; e con senno e con misericordia virile li confortavano ad essere obbedienti, promettevano di accompagnarli in luogo ove si terrebbe conto di loro per farli guarire.
Quando Fermo vide la processione quasi tutta passata, e sgombra la sua via, si volse ad uno dei monatti che chiudeva il corteggio, e gli chiese conto della casa di Don Ferrante.
Il monatto non rispose se non: «va in malora, tanghero».
Fermo aveva tutt'altro in testa che di risentirsi, e non replicò: guardò al commissario, gli parve un volto più cristiano; fece a lui la stessa inchiesta; e il commissario, accennando con un bastone la via dalla quale egli veniva disse: «l'ultima casa nobile, a destra»; e passò.
Quelle parole per sè indifferenti, e che non esprimevano se non la nuda notizia che Fermo aveva desiderata, lo colpirono però, come se fossero una sentenza ambigua e temuta.
Egli impallidì dopo d'averle intese, e tremò d'esser giunto al termine che aveva tanto bramato, pel quale aveva intrapreso quel viaggio doloroso, e sostenuto di passare per tanta gramezza.
S'avanzò per quella via a passo interrotto, giunse dinanzi alla casa, la distinse tosto fra le case vicine più umili, e più disadatte, si appressò alla porta che era chiusa, pose la mano al martello, ve la tenne sospesa, come avrebbe fatto se la tenesse in un'urna, prima di cavarne la polizza dove fosse scritta la sua vita, o la sua morte.
Finalmente alzò il martello, e bussò.
Si apre una finestra, e vi compare una donna: era la signora Ghita, che guardò con sospetto se fossero monatti, malandrini, qualche cosa di tristo, di quello che girava in quel tempo: vide quello sconosciuto, e prima ancora d'intendere che egli volesse, disse, o rispose: «Qui non c'è niente».
«Signora», disse Fermo con voce tremante, «sta qui una forese, che si chiama Lucia Mondella?»
«Non c'è più; andate», rispose la Signora Ghita.
«Non c'è più!» gridò Fermo, spaventato da quella ambigua risposta.
«Dov'è ella? per amor del cielo».
«Al lazzeretto grande».
«Con la peste!»
«Con la peste: che maraviglia? andate».
«Da quando v'è ella? e come si può trovarla? Oh Dio! era ella molto aggravata?»
«Non è tempo da rispondere a tante cose», disse col suo tuono agro la signora Ghita.
«V'ho detto anche troppo pel tempo che corre.
Vi replico, andate».
E così dicendo, fece vista di chiudere la finestra.
«No, no», disse Fermo: «che carità è questa? voglio saper nuove di questa creatura; non parto di qui se prima...» Ma mentre egli parlava, la finestra era stata chiusa.
«Quella signora! una parola, una parola!» gridò Fermo, ma non ebbe risposta.
Costernato da un tale annunzio di sventura, smanioso del non aver potuto né pur conoscere quanta ella fosse, incerto qual fosse il più pronto mezzo per trovar conto di Lucia, se insister quivi con preghiere o con minacce, o andare a dirittura al lazzeretto, Fermo stava appoggiato alla porta, tenendo la mano sul martello, talvolta lo alzava, per picchiare alla disperata, poi pentito, lo riteneva, lo stringeva nella mano come se volesse storcerlo, come per isfogare la sua passione.
In questa agitazione, egli per quell'istinto che in qualunque angustia muove l'uomo a cercar soccorso all'uomo, si rivolse alla strada, per vedere se mai gli cadesse sott'occhio qualche vicino, a cui chiedere informazione, indirizzo, consiglio.
Ma quel che vide fu una vecchia, dietro a lui forse a venti passi, la quale con un volto che esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, sbarrando la bocca come se volesse gridare, ma tenendo anche il respiro, sollevando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinze e adunche, come s'ella traesse a sè qualche cosa, accennava manifestamente di voler chiamar gente in modo che un qualcheduno non ne fosse avvertito.
Alla guardatura della vecchia, Fermo s'accorse tosto ch'egli era quel tale; e più stupito che atterrito dal vedersi oggetto di tante passioni, voleva gridare: «che diamine...», quando la vecchia, vedendo ch'egli s'era accorto di lei, e disperando di poterlo sorprendere, lasciò uscire il grido che aveva compresso fin allora: «Ajuto! Ajuto! L'untore! L'untore! dalli! dalli!»
«Taci, bugiarda strega», sclamò Fermo alla vecchia, e le si mosse incontro per farle paura e metterla in fuga.
Ma nello scostarsi dalla porta vide che la fuga diveniva necessaria per lui: lo strillo della vecchia era stato inteso, e dalla parte verso la quale ella lo aveva mandato, usciva gente, e guardava dove fosse l'untore, gente, che forse a qual fosse più pietoso chiamar di soccorso non sarebbe uscita dalle tane dove si stava rimpiattata per paura; ma per graffiare e per prendere un untore era pronta; tanto era il furore contra quegli che si credevano la cagione primaria di tanti mali.
Nello stesso istante s'aperse di nuovo la finestra, e di quivi la signora Ghita gridava a testa: «cacciate quel garritore, che dev'essere un di quei ghiotti, che vanno facendo le poltronerie alle porte e alle muraglie».
Alcuni cominciavano già a correre verso Fermo, urlando: «piglia, piglia, dalli, dalli».
Fermo vide la mala parata; per buona sorte il lato della strada dove stava la vecchia, era quasi sgombro d'altra gente: uno che era accorso per di là volle gittarglisi addosso, ma egli lo stramazzò a terra d'un urto; e a gambe.
Allora la folla vie più ad inseguirlo.
E non era ancora giunto al capo della via che già sentiva quelle grida amare risuonar più forti all'orecchio, sentiva appressarsi il calpestio dei più leggieri ad inseguirlo.
In quell'estremo, egli che sapeva, come ognuno lo sapeva, qual fosse la sorte di chi cadeva nelle mani del popolo o dei giudici col nome di untore, risolse di non lasciarsi pigliare alle spalle da quei furibondi, ma di rivolgersi, di mostrar loro il viso, e di difendere disperatamente la sua vita.
CAPITOLO VII
Così disposto, volse indietro, ma senza però ristarsi ancora dal correre, il volto più torvo e più cagnesco che avesse ancor fatto in vita sua per guatare quali, quanti, a che distanza fossero quei suoi persecutori; ma con maraviglia, e con un sentimento confuso di gioja gli vide tutto ad un tratto restar sui due piedi, in grande esitazione e su quelle figuracce alle brutte contrazioni del furore succedere le brutte contrazioni della paura.
E tosto più presente a se stesso, scerse dinanzi a sè e non lontano, un apparitore, e dietro lui un carro coperto di cadaveri, intese i campanelli, lo scalpito, le ruote, le canzonacce dei monatti, tutto quello strepito che un momento prima percoteva le sue orecchie senza saputa della mente.
Il terrore degli inseguenti per quella comparsa, fece tosto pensare a Fermo che per lui ella era salute: sentì egli che non era momento da far lo schifo: affrettò la corsa verso il carro, tolse la mira ad un picciolo spazio sgombro che vide in quello; spiccò un salto; ed eccovelo ritto, piantato sul destro piede, col sinistro in aria, e con le braccia alzate tuttavia dal lancio di tutta la persona.
«Bravo! bravo!» sclamarono ad una voce i monatti, altri che seguivano il convoglio a piedi, altri, seduti sui carri, altri, per dire la orribile cosa come ella era, seduti sui cadaveri trincando d'un gran fiascone che andava in giro.
«Bravo! bel colpo!»
Gl'insecutori all'avanzare del carro avevano per la più parte volte le spalle, e fuggivano, gridando pure «dalli! all'untore!» se mai qualcheduno più coraggioso di essi, volesse venire a compiere la buona opera; e a quei gridi rispondevano dalle finestre uomini e donne accorse al romore: «dalli! all'untore!» Alcuni però dei primi tentennavano, quasi non potessero rassegnarsi a vedere la fiera uscir salva dalla loro caccia, e digrignavano i denti, facevan gesti di minaccia a Fermo che gli guardava immobile dal carro.
«Lascia fare a me» gli disse un monatto; e strappato di dosso a un cadavere un laido cencio, lo rannodò in fretta, e presolo per un dei capi lo alzò verso quei feroci, come una fionda, fece atto di gittarlo, gridando: «aspetta canaglia».
A quell'atto tutti dieder di volta inorriditi, e Fermo non vide più che schiene di nimici, e calcagna che ballavano rapidamente per aria.
Fra i monatti si sollevò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un «uh!» prolungato, come per accompagnare quella fuga.
«Ah ah! vedi tu se noi sappiamo proteggere i galantuomini», disse a Fermo quel monatto: «val più uno di noi che cento di quei poltroni».
«Certo io vi debbo la vita», disse Fermo: «e vi ringrazio di tutto cuore».
«Niente, niente», disse un altro di quei demonii: «te lo meriti, si vede che sei un bravo giovane.
Fai bene d'ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro che non son buoni a qualche cosa che morti, o birboni; che hanno bisogno di noi, e ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la moria, ci vogliono fare impiccar tutti.
Hanno a finire prima essi che la moria; e rimarremo noi soli a gavazzare in Milano».
«Viva la moria, e muoja la marmaglia», sclamò un altro, e con questo bel brindisi, si pose il fiasco a bocca, e tenendolo con ambe le mani fra i trabalzi del carro, ne tracannò un lungo sorso, indi porse il fiasco a Fermo, dicendogli: «bevi alla nostra salute».
«Ve l'auguro di buon cuore», disse Fermo; «ma non ho sete; non potrei bere in questo momento».
«Tu hai avuto una bella paura, a quel che pare», disse quel monatto: «m'hai cera d'un pover'uomo; altri visi voglion essere a far l'untore».
«Ognuno s'ingegna come può» disse un altro.
«Dammi quel fiasco», insorse un terzo; «voglio vuotarlo io, che l'ho conquistato nella cantina di quel vecchio avaro lì...» e così dicendo prese il fiasco dalle mani di quell'altro; e prima di bere, si volse a Fermo, gli affissò gli occhi in faccia con un'aria di pietà sprezzante, e gli disse: «Convien credere che il diavolo col quale tu hai fatto il patto, sia ben giovane, ben dappoco, poiché se non eravamo noi a salvarti, egli ti dava un bell'ajuto».
E ridendo del suo bel tratto, levò il fiasco, e se lo appiccò alle labbra.
Lo vuotò, e poscia tenendolo con la destra pel collo, lo mosse rapidamente in giro al di sopra del capo, quindi lo gittò lontano a fracassarsi su le pietre del pavimento, gridando: «viva la moria».
Quindi intonò di nuovo la canzone che l'accidente di Fermo aveva interrotta; e tosto a quella voce si accompagnarono tutte le altre di quel turpe coro.
La musica infernale mista al tintinnio dei campanelli, e allo strepito del carro rimbombava orrendamente pel vôto silenzioso delle vie, e stringeva amaramente il cuore dei pochi rinchiusi nelle case dinanzi alle quali il carro trascorreva.
Fermo vi stava ritto tuttavia ansante per la corsa, e per la tema avuta, agitato di dentro in una successione fluttuante di passioni e di pensieri.
Da prima provò un vivo ristoro del vedersi in salvo, quindi dabbene come egli era, ringraziò Dio che lo avesse scampato da un tanto pericolo; ma non lasciò per questo di sentire un gran rancore per quei bestiali suoi persecutori; qualche momento dopo cominciò a parergli ben fastidiosa la compagnia di quei morti da cui era circondato, e di quei vivi pei quali sentiva ad un punto riconoscenza, e orrore.
Pensò da poi che, se ben salvo, era pure ancor bene impacciato, pensò al modo di uscire dal fastidio senza incappare di nuovo nel pericolo e di trovare il lazzeretto, dal quale egli era lontano forse chi sa quanto; e forse se ne andava sempre più allontanando.
Domandarne a quei suoi ricettatori, il cuore non glielo diceva; sarebbe stato un esporsi a mille inchieste, attirarsi Dio sa quali parole, impegnarsi in un colloquio né aggradevole, né troppo sano.
Fermo era già anche troppo imbarazzato in quella poca conversazione, che aveva dovuto fare con essi; vedeva che quegli che lo avevano salvato erano sul conto suo nello stesso inganno di quelli che lo volevano morto; non si curava di sgannare coloro, e nello stesso tempo sentiva troppa ripugnanza a dir cosa che gli confermasse nel loro errore.
Cercava quindi di lasciar cadere i discorsi, senza però mostrare né ripugnanza, né sospetto, né fare atto che gli alienasse l'animo di quegli che alla fine erano i suoi protettori in quel momento.
Chi poteva sapere a che filo tenesse quel loro favore e la loro condiscendenza; forse alla sola idea che Fermo fosse un propagatore della peste; il favore degli uomini benevoli è talvolta così fragile, così permaloso, la buona gente si stanca talvolta per sì poca cosa di proteggere un disgraziato; pensate poi una feccia di ribaldi come quelli.
Per tutte queste ragioni Fermo fu molto contento quando vide che essi non lo stimavano degno della loro attenzione; e fu grato alle sue orecchie (che cosa non può divenir grata in questo mondo!) quel canto, che lo toglieva dall'intrigo di quella conversazione.
Intanto il carro s'era già allontanato abbastanza, perché Fermo non temesse più di esser raggiunto dai suoi nemici; i quali del resto s'eran dispersi; non restava che il pericolo di abbattersi in uno di quelli che lo riconoscesse, e gli aizzasse di nuovo la gente addosso; pericolo lontano, ma che poteva crescere in proporzione della strada che Fermo avrebbe ancora a percorrere.
In questa tempesta di pensieri egli girava attorno uno sguardo sospettoso e irresoluto, quando gli parve di riconoscere il luogo per dove passava, richiamò le sue memorie, guardò più fisamente...
- questa via non mi è nuova, di qua son passato certamente -.
Fermo non s'ingannava: il carro diretto alla gran fossa scavata dietro il lazzeretto e denominata il Foppone di san Gregorio, scorreva nella via chiamata allora il borgo ed ora il corso di porta orientale, per cui Fermo era entrato con molta maraviglia, ed uscito con molta paura un anno e mezzo prima.
Ad ogni passo, nuovi oggetti altra volta veduti, rendevano più vivo e più chiaro il riconoscimento di Fermo; ma dove ebbe la perfezione fu al passare dinanzi alla piazza, al convento dei capuccini.
Allora riconobbe la porta orientale; si risovvenne che al di fuori di quella era il lazzeretto; e per quanto pieno di dolore, di difficoltà, e d'angosce fosse l'affare che lo strascinava in quel luogo, pure il povero giovane si sentì tutto rincorato nel pensiero d'esservi giunto senza studio, sicuramente, in carrozza, quale ella si fosse; questo gli parve un buon principio, e un buon augurio.
Oltrepassato il convento, Fermo pensò che sarebbe meglio spacciarsi da quella compagnia e uscir dalla porta a piede.
Vide che i monatti invasati nel loro canto non badavano a lui, fece un cenno di saluto e di ringraziamento ad uno che gli era più vicino, e balzò dal carro in sul pavimento.
Quel monatto lo accompagnò con un saluto schernevole della mano e del volto, dicendogli: «va, va, povero untorello: tu non sarai quello che spianti Milano».
Per buona sorte non v'era anima vivente nella via che potesse udire quelle parole.
Fermo s'indugiò, tirando presso al muro, tanto che il carro si allontanasse; e a passo lento giunse presso alla porta; vide spuntare l'angolo di quel recinto, dove erano addensati più guai che non ne fossero sparsi nella dolorosa città ch'egli aveva percorsa: passò il cancello, e gli si spiegò dinanzi la scena esteriore del lazzeretto; il principio appena, e come la mostra dei guai, e già una vasta, diversa, inenarrabile scena.
A noi, come certamente al lettore, incresce ormai un così lungo avvolgerci tra tanto dolore, e tanto fastidio: quindi ci guarderemo dal tentare anche di descrivere a parte a parte quella scena: bastino alcuni tratti generali a dare un'idea comunque dello spettacolo che s'offerse agli sguardi di Fermo.
Fin dove il suo occhio poteva giungere nello spazio che circonda al di fuori il lato meridionale e l'orientale del lazzeretto, quello spazio era sparso di languenti, a cui non erano bastate le forze per giungere fino al lazzeretto, di morti che ivi giacevano, era percorso da gente che entrava, da infermi che ne uscivano, e che erravano sbandati, la più parte fuori di sè, quale imperversato, quale istupidito.
Altri pareva tutto infervorato a raccontare le sue sciaurate fantasie al tapino che giaceva oppresso dal male, o ad un altro infelice, preoccupato da altre fantasie; un altro si mostrava assorto e tranquillo in un immaginato contento; e quella apparenza di gioja e di serenità in mezzo a tanta miseria, pure ne accresceva l'orrore; tanto è terribile all'uomo il vedere in altri oscurato quel lume divino che lo fa esser uomo.
Altri per un trasporto che fu notato in altre pestilenze, vogliosi d'immergersi nell'acque, si gettavano nel fossato che gira attorno al lazzeretto; e vi morivano affogati, o vi rimanevano disensati; taluno canticchiando, le ore, i giorni interi.
Tra quella confusione giravano monatti a prendere i morti, a contenere, a rispingere, a guidare nel lazzeretto i miseri così vivi, giravano commissarj, delegati, a dare ordini, a dirigere come si poteva i monatti.
E Fermo scorrendo tra quella folla per avviarsi alla porta di quel lato che tira lungo la strada maestra, Fermo doveva pure per quanto intollerabili gli fossero quegli oggetti, fissare sovr'essi lo sguardo perché fra essi, uno di essi, poteva essere quello di ch'egli andava in traccia.
Giunto su quella porta, ristette sopraffatto dal nuovo spettacolo che gli si parava dinanzi e dattorno.
Dinanzi, il vasto campo interno del lazzeretto, ingombro qua e là di trabacche, di capanne, coperto e animato da un popolo, del quale il veduto al di fuori non era che un saggio; e a destra e a sinistra le due interminate fughe di porticato spesse pure, e gremite, e brulicanti a quel modo: uno sciame, un trambusto, un rimescolamento da far vertigine, da offendere con subita fatica lo sguardo, quando fosse pure stata una festa.
Il cuore di Fermo fu soverchiato a quella vista; ed egli stette un momento in fra due se dovesse tornarsene, e abbandonare una ricerca che superava le sue forze.
Ma l'affetto dal quale egli era stato tratto su quel limitare, aveva pigliato ancor più forza dalla incertezza, e l'immagine di Lucia, forse inferma quivi, abbandonata, era divenuta più forte e più pietosa nell'animo di lui.
Pensò che se egli si ritraeva allora da quel luogo, vi sarebbe stato ben tosto sospinto di nuovo da tutti i suoi pensieri: partirsi senza aver nulla saputo di Lucia, aspettarne le novelle, fin quando, da chi? partir dal luogo dove soltanto si poteva sperare di trovarla: fuggire da dove ella era forse a pochi passi di distanza...
Fermo si mosse, rivolse una viva preghiera al Signore e si gittò in mezzo a quella confusione, abbandonandosi alla scorta di Lui.
Non aveva alcun filo per dirigersi, né una ragione per cominciare la sua ricerca più tosto a destra che a sinistra, nel campo che sotto il portico; ma il campo gli era in faccia, e s'ingolfò in quello alla ventura.
Nei principii della pestilenza il lazzeretto era stato scompartito in quartieri pei ministri e per quelli che entravano ad esser curati: le femmine separate dai maschj, e ogni sesso suddiviso in sospetti, in infetti, in quarantenanti.
E già fin d'allora quell'ordine, come abbiam detto non s'era potuto interamente serbare; ma nel bollore della peste, e nel crescere della moltitudine, tutto s'era rimescolato, come una botte fecciosa nella furia del temporale.
Oltre di che quello scompartimento non era stato fatto che nel fabbricato, in tempo che nessuno prevedeva che questo non sarebbe bastato, che l'immenso circuito interno sarebbe divenuto spesso, traboccante, insufficiente anch'esso, e quando questo cominciò a popolarsi, (e cominciò con una folla) non fu possibile applicare ad esso le divisioni già stabilite.
Pure le sollecitudini dei sopraintendenti e principalmente del Padre Felice, per mantenere quel primo ordine, nel fabbricato, ne facevano se non altro rimanere qualche traccia; la massa principale e il fondo per così dire degli abitatori di ciascun quartiere era del sesso e della condizione a cui quello era stato destinato.
Se Fermo fosse stato informato di ciò, si sarebbe diretto a destra, al lato settentrionale che guarda al cimitero di san Gregorio; il qual lato era assegnato alle donne.
Ma Fermo, come abbiam detto, era nuovo affatto di quella bolgia, e non aveva una guida; quindi procedeva a caso, mettendo il piede dove scorgeva un passaggio, dove il passaggio era meno intricato d'inciampi compassionevoli o ributtanti.
Andava d'una capanna nell'altra, s'appressava ad ogni giaciglio, dove vedesse una donna; guatava, e seguiva la sua strada.
Da per tutto lo stesso spettacolo così terribilmente variato, e così terribilmente conforme: corpi immobili nella morte, o dibattuti nelle angosce mortali; miseri che brancolavano a stento, o balzavano di luogo in luogo infuriati.
I soli che si vedessero camminar ritti, e con un passo regolare erano monatti, e religiosi, varii di vesti e di età: gli uni e gli altri intrepidi, occupati delle loro faccende, come se fossero faccende ordinarie, con una fortezza che certo era cresciuta negli uni e negli altri da una circostanza comune, la consuetudine ormai antica di quegli orrori; ma era nata da principii, quanto lontani! negli uni una selvaggia ed empia durezza, negli altri una carità più forte della commozione.
La più parte di essi s'era conservata a quei servigi, non per ubbidienza, (e certo un volonteroso e pronto obbedire in tali circostanze non è una virtù volgare) ma per un impulso spontaneo: molti avevan fatto broglio per esser deputati al lazzeretto; avevan reputato guadagno la perdita della vita, e questo guadagno era già toccato ad un buon numero di essi: taluno perfino, passando dal disprezzo della morte al desiderio, e dal desiderio alla ricerca, trascurò le cautele che pure erano compatibili con l'opera, quasi per non lasciarsi sfuggire il premio.
Il che si chiamerebbe volentieri un bell'eccesso, chi non riflettesse che la religione proscrive tutti gli eccessi; perché il saggio, il temperato, il ragionevole ch'ella comanda o consiglia, è più nobile e più bello di qualunque esaltazione fantastica.
Nel suo tristo giro, Fermo s'abbattè in un luogo dove quella carità offriva uno spettacolo singolare.
Vide nel campo un picciol parco, una steccaja, come per tenervi ragunato un gregge.
Si avvicinò; v'era in fatti un gregge di capre; e il vecchio pastore, con una lunga barba bianchissima, succinto e affaccendato, era un capuccino.
Le capre davano la poppa; ma quali erano i piccioli lattanti! bambinelli che raccolti in quel recinto presso la madre spirata, o staccati dal petto inanimato eran quivi portati a vivere.
Quel nuovo pastore sprimacciava un letticciuolo di paglia ad un bambino, ne accostava un altro alle mamme; i belati rispondevano ai vagiti; e alcune di quelle nuove nutrici già avvezze a tali allievi si avvicinavano, e si acconciavano ad essi come con senso umano; alcune perfino distinguevano quello che era loro toccato il primo, distinguevano il suo grido, e si ritraevano, strepitavano se un altro bambino veniva presentato alle loro poppe.
Fermo ristette ivi alquanto a contemplare la novità dello spettacolo, e a riposarvi gli occhi affaticati d'orrore.
Ma movendosi di quivi vi si trovò ingolfato di nuovo; e rifinito dalla lunga costernazione, dalla fatica e dal digiuno, egli pensava già ad uscire di là, per riprendere se non altro nuove forze col riposo, per andare in traccia di cibo.
Quando vide lontano per mezzo a quella varietà di cose e di movimenti un altro capuccino che presso ad una gran pentola andava riempiendo scodelle, e le portava nelle capanne, o le distribuiva presso di sè nel campo aperto.
Risolse allora di condursi da quella parte, e di chiedere al frate un poco di quel nutrimento, persuaso ch'egli non lo negherebbe ad un affamato quantunque sano.
Camminando sempre verso quel luogo, e tenendo di mira il pentolone, perché il frate andando attorno spariva di tratto in tratto ai suoi occhi per gli oggetti frapposti, lo vide finalmente sedersi anch'egli, su la porta d'una capannuccia, e recarsi in mano una scodella, e mangiare.
Era il frate rivolto con la faccia verso Fermo che veniva; e questi guardandolo più attentamente credette di scorgere una somiglianza singolare, della persona, perché non era tanto vicino che potesse nulla discernere dell'aria del volto.
In quel baleno sentì egli una gioja, una speranza improvvisa; ma ricordandosi tosto ciò che Agnese gli aveva detto di Palermo, di quel paese di là dal mare, cacciò quella speranza come una illusione.
E pure ad ogni passo la somiglianza diveniva più forte, più viva, il frate diveniva il Padre Cristoforo.
Era proprio il Padre Cristoforo.
Alle prime novelle che s'erano avute in Palermo della peste dichiarata in Milano, il nostro buon frate a cui quarant'anni di tonaca e di capuccio non avevan potuto togliere dalla mente una rimembranza del tempo in cui portava cappa e spada, e che aveva desiderato per quarant'anni di finir la sua vita spendendola pel prossimo, colse con trasporto quella occasione e scrisse a Milano supplicando d'essere chiamato al servizio degli appestati.
Fu esaudito: il Conte Zio del Consiglio segreto era morto, e del resto in quella confusione, e in quel bisogno di soccorsi, anche un puntiglio avrebbe potuto essere posposto, o dimenticato.
Fra Cristoforo, ricevuta l'obbedienza, venne a dirittura a Milano, si presentò al convento, fu mandato al lazzeretto, e vi stava da un mese.
Aveva quivi una sua capannuccia, e s'era fatto all'intorno come un picciolo distretto, pel quale girava, facendo il confessore, l'infermiere, il cuoco, agli appestati che si succedevano in quello spazio; e in quel mese aveva forse veduta rinnovarsi otto o dieci volte la popolazione di quel suo distretto.
«Padre Cristoforo!» gridò Fermo con un tuono tra l'esclamazione e la chiamata, a quaranta passi di distanza, quando fu certo che vedeva realmente quell'uomo che egli avrebbe tanto desiderato, se non avesse creduto cosa impossibile che un tal desiderio potesse essere soddisfatto.
«Vengo», rispose tosto il Padre, credendo d'esser chiamato come gli accadeva ad ogni istante, per qualche servizio dei suoi infermi; e messa a terra la scodella, levò la testa, per vedere se qualche altro segno gl'indicasse il canto donde era venuta la chiamata.
Ma vide invece un giovane sano e diritto che s'avvicinava; e riconobbe tosto Fermo, il quale giunto a lui, tra la consolazione e la maraviglia non seppe dir altro che: «Padre Cristoforo!»
«Tu qui!» sclamò questi: «che vieni a cercare in questo luogo? la peste? la morte?»
Mentre il frate proferiva queste parole, Fermo lo guardava fisamente, e sentiva amareggiarsi la consolazione, che aveva provata nel primo istante di quel ritrovamento.
Il volto del frate era mutato, ben più, e bene in altro modo che non avessero potuto fare per sè quei venti mesi cresciuti alla sua vecchiezza, né le fatiche.
Gli occhi già così vivaci erano spenti, le guance scarne, sparute, tinte d'un pallore cadaverico, la voce aveva un non so che di crocchiante; e in tutto si vedeva una natura sopraccaricata, e quasi esausta, sostenuta e alimentata da una costanza interiore.
Fermo con la trista pratica che aveva dovuta acquistare, s'addiede tosto che il suo buon protettore era colpito dalla peste, sicché invece di rispondere lo richiese ansiosamente: «Ma ella, padre, come sta ella?»
«Come Dio vuole», rispose il vecchio, «non parliamo di questo.
Ma tu, dimmi, come, perché sei tu in questo luogo? Perché vieni così ad affrontare la peste?»
«L'ho avuta, e ne sono uscito salvo, grazie a Dio.
Vengo a cercare...
Lucia».
«Lucia!» sclamò il Padre: «Lucia è qui?»
«È qui», rispose Fermo, «se pure...
v'è ancora».
«È ella tua moglie?» domandò il Padre.
«Ah no!» rispose Fermo con un sospiro; «ma s'ella vive...
lo sarà, spero;...
ne son certo...
perché no? Oh padre! quante cose avrei da raccontarle!»
«Padre Vittore!» gridò il vecchio ad un suo giovane confratello che girava quivi poco distante; e che accorse tosto: «Padre Vittore, fatemi la carità di attendere a questi miei poveretti mentre io me ne sto ritirato un quarto d'ora; se però alcuno mi volesse, compiacetevi di chiamarmi».
Il Padre Vittore accettò l'incarico, e il Padre Cristoforo disse a Fermo: «Vien qua dentro con me: sii breve: le faccende son molte, come tu vedi, e il tempo è scarso, misurato...
Ma che? tu sei ben rifinito: hai tu bisogno di cibo?»...
«A dire il vero...», rispose Fermo.
«Piglia di quello che dà il convento», disse il frate con una frase usuale capuccinesca.
E tolta una scodella, la riempì della minestra del pentolone, e la porse a Fermo: soggiungendo: «Quando la provvigione è finita, Iddio ne manda: più volte quando ci siam trovati lì lì per rimanere in secco, ci son venute le carra di roba, senza che sapessimo da chi mandate; né ancora lo sappiamo.
Entra, e mangia questa carità; e avrai anche uova e pane, e un bicchiere di vino: tu ne hai bisogno, a quel che veggio».
Così dicendo raccolse anch'egli la scodella che conteneva il resto del suo pranzo, ed entrò con Fermo nella capannuccia, e sedette con lui sul saccone che gli serviva di letto.
Fermo, tra un cucchiajo e l'altro raccontò succintamente la storia di Lucia, o la parte che gli era nota; come il frate di Monza l'aveva posta in guardia della Signora, come ella era stata rapita...
«Gran Dio!» sclamò a quel punto il padre Cristoforo: «ed io...
io l'ho indirizzata in quel paese! Ma voi sapete ch'io la toglieva da un pericolo evidente, e credeva di porla a salvamento.
Parla», seguì poi con voce animata, «finisci questa storia dolorosa».
Fermo, in poco più parole che noi non ve ne impieghiamo, proseguì a narrare come Lucia fu condotta al castello del Conte del Sagrato, come mirabilmente da questo renduta alla madre, come collocata poi in casa di Don Ferrante.
E qui il frate respirò più liberamente.
Fermo narrò pure le sue imprese, non senza vergogna; la sua fuga, e la sua dimora in Bergamo, la sua risoluzione di venire a sapere che accadesse di Lucia, il suo viaggio a Lecco, le sue ricerche di quella mattina, e la notizia ch'egli aveva ricevuta da quella signora alla finestra, che Lucia era al lazzeretto.
«Onde», conchiuse, «vengo a cercarla qui; vengo a vedere s'ella è viva, se si ricorda di me, se mi vuole ancora...»
«O giovane!» disse il Padre Cristoforo, «e in questi tempi, fra questi oggetti, tu hai potuto, tu puoi ancora occuparti di tali pensieri?»
«Ma, caro padre mio...» cominciò per rispondere il giovane; e non seppe dir più: perché sentiva egli bene una grande importanza in quei suoi pensieri; erano per lui un affare molto serio; ma era impacciato a trovar le parole convenienti per esprimere una tale idea ad un vecchio capuccino, che era venuto quivi a vivere, a morire, nel ribrezzo, e nelle fatiche per servire a sconosciuti.
Parlar d'amore, accennarlo pure con circollocuzioni, addurre l'amore come un motivo importante, come una faccenda, in quel luogo, ad un tal uomo, pareva a Fermo una vergogna: e in fatti però non avrebbe potuto parlar d'altro, perché l'amore era il motivo che l'aveva condotto lì.
Ma il buon frate lo cavò tosto d'impaccio, rispondendo per lui.
L'interrogazione mista quasi di rimprovero che gli era uscita, non veniva dal fondo della sua mente: erano di quelle parole volgari, che precedono la riflessione, e delle quali anche gli uomini avvezzi a riflettere contraggono l'uso dalla conversazione comune.
«Tu hai ragione», diss'egli a Fermo che esitava: «tu hai ben fatto.
Quei che stanno per morire, debbono pensare alla morte, non altro; ma l'uomo che è nel vigore della salute e dell'età, l'uomo che può vivere ancora, deve, pensando alla morte, provvedere alla vita; non per cercare in essa un contento che non v'è, ma per condurla, secondo l'ordine di Dio, fino alla morte.
Tu seguivi quest'ordine quando cercasti una compagna della vita, una compagna d'affetto, di occupazioni, di travagli, di consolazioni e di preghiere.
Iddio permise che il mondo vi separasse.
Fu ella una prova? o era volere di Dio che voi vi santificaste divisi, che dopo esservi avviati insieme, giungeste a Lui per diverse strade? Egli lo sa.
Tu intanto ben fai di stare in quel proposito ragionevole da cui la sola violenza ti aveva allontanato: ben fai di andare in cerca di quella creatura alla quale tu hai promesso d'essere un compagno e un appoggio.
Ma come sei tu indirizzato a trovar qui Lucia? hai qualche indizio della parte dov'ella fu riposta, del quando venne?»
«Nulla, caro padre, nulla, se non che ella è stata condotta al lazzeretto».
«Oh poveretto!» disse il padre Cristoforo: «egli è come se ti fosse stato detto che un anello è caduto nel lago, e tu vi ti attuffassi a caso per ripigliarlo».
«Girerò, cercherò, guarderò», disse Fermo.
«Ascolta», disse il frate; «gli appestati che son guariti in questo luogo (ahi che picciola parte di quelli che vi sono entrati!) quegli fra loro che ponno reggersi e camminare, debbono oggi esser condotti al Gentilino, al di là della città, fuori di porta Ticinese, a fare la quarantena: v'era ben destinata qui una parte del fabbricato a tale uso; ma il fabbricato e il recinto non bastano come vedi agli infermi.
Questi che debbon partire si vanno ora ragunando intorno alla Chiesa che è nel mezzo, per moversi di là tutti insieme: jeri sono stati avvertiti e...
sta: odi tu una squilla tra questo doloroso mormorio? è il terzo tocco della campanella che li chiama.
Va dunque colà; osserva tra quella brigata, se tu vedi colei che tu cerchi; se ella è fra le spighe rimaste in piedi dopo la messe.
Se non ve la scorgi; fa cuore tuttavia, e cammina innanzi verso questa banda (e accennò a mano manca).
Quella banda del fabbricato», seguì poi, «è stata da principio destinata alle donne.
Ora, a dir vero, tutto è confuso; pure quella poveretta certamente, sarà rimasta al luogo dove l'avranno collocata; e se v'è ancora speranza di trovarla, è da quella parte.
Cercala ivi; Dio ti conduca: e che che avvenga delle tue ricerche, prima d'uscire da questo recinto, vieni ancor qui a darmene conto: anch'io vorrei saper s'ella vive!»
Il padre Cristoforo proferì queste parole con una commozione compressa, e presa la mano di Fermo, che aveva finito di ristorarsi, e s'alzava, lo condusse su la porta della capanna, e gli segnò più distintamente il lato dove doveva fare le sue ricerche.
«Vado», disse Fermo; «lo scorrerò tutto, guarderò di stanza in stanza, di capanna in capanna; se non è quivi, girerò tutto il lazzeretto, e se non la trovo...»
E a questa sospensione tutto ad un tratto s'oscurò in volto, stravolse gli sguardi, e mandò un soffio di furore dalle labbra tremanti.
«Se non la trovi?» disse il padre in contegno di gravità, e di aspettazione, tenendolo forte per mano.
«Se non la trovo, farò di trovare qualche altro.
O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo del mondo o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante, che ci ha separati: quel birbone, che se non fosse stato egli, Lucia sarebbe mia da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti insieme, almeno avremmo potuto soccorrerci; essa non sarebbe qui abbandonata, io non sarei qui mezzo disperato.
Lo troverò colui, e se la peste non ha fatto già una giustizia...»
«E se lo trovi?» disse il padre, con una gravità fatta più severa e quasi sdegnosa.
«Non è più il tempo», continuò Fermo, sempre più cieco di collera, «non è più il tempo che un poltrone coi suoi bravi, coi suoi giudici, coi suoi amici prepotenti faccia tremare: è venuto il tempo che gli uomini s'incontrino da solo a solo...»
«Sciaurato!» gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripigliata tutta l'antica pienezza e sonorità: «sciaurato!» e il suo capo gravato sul petto s'era sollevato, le guance si coloravano dell'antica vita e gli occhi mandavano le antiche faville.
«Guarda, sciaurato!» e così dicendo, mentre con una mano stringeva e scoteva forte la mano di Fermo, girava l'altra distesa in cerchio dinanzi a sè, verso la scena dolorosa che li circondava.
«Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che percote e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu sai, tu, quale sia la giustizia? Va, sciaurato, vattene! Io sperava...
sì, ho sperato che, prima di morire, Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentire che la mia povera Lucia fosse viva, forse di vederla, e di sentirmi promettere ch'ella manderebbe una preghiera là verso quella fossa dov'io sarò.
Va; tu m'hai tolta la mia speranza.
Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo non hai l'ardimento di crederti degno che Dio pensi a consolarti.
Avrà pensato a lei; poiché ella era di quelle anime a cui son riservate le consolazioni eterne.
Va; non ho tempo di più darti retta».
E, così dicendo, gettò da sè la mano di Fermo, e si mosse verso una capanna d'infermi.
«Ah padre!» disse Fermo con voce affranta, «mi vuol ella mandar via a questo modo?»
«Come!» riprese con voce non meno severa il capuccino: «ardiresti tu di pretendere ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, che aspettano ch'io parli loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di rabbia, i tuoi disegni di vendetta? Ti ho ascoltato quando tu potevi aver bisogno di conforto, chiedevi consolazione, e indirizzo; mi son tolto alla carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore; che vuoi da me? Vattene; ho veduti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori, che avrebber voluto potersi umiliare dinanzi all'offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che posso fare?...
se tu non gli perdoni da vero, e...»
Il suono di queste ultime voci era raddolcito, e l'aspetto del vecchio nel proferirle, pure in mezzo alla severità annunziava una tenerezza pronta a scoppiare.
«Ah gli perdono!» disse Fermo piangendo: «così Dio perdoni a me! così possa io tornar qui a dirle che Lucia è viva, che Lucia vivrà».
«Vien qua» disse il padre, pigliandolo per mano; e lo ricondusse nella capannuccia, e lo fece seder come prima presso di sè.
Fermo stava tutto intento e commosso.
«Sai tu», disse il padre, «perché io porto quest'abito?»
Fermo esitava: «Lo sai tu?» riprese il padre.
«Lo so», rispose Fermo.
«Tu sai che questa mano ha ucciso!»
«Sì, ma un prepotente che l'aveva aizzato, uno di quei...»
«Taci», interruppe il frate.
«Credi tu che se vi fosse stata una buona ragione, io non l'avrei trovata in quarant'anni? perché, son quarant'anni ch'io vi penso, e grazie a Dio, per quarant'anni ne ho avuto dolore, e mi sono accusato: e ho pregato Dio che in segno del suo perdono eterno, Egli mi punisse in questa vita, che pigliasse la mia in sacrificio, come io aveva ardito disporre di quella d'un uomo; che mi facesse morire in servizio d'altrui; e spero d'essere esaudito.
Non creder tu ora dunque di poter consolarmi: consolati piuttosto di essere tu in tempo a perdonare: non ispender vane parole; ascolta piuttosto le mie; v'è dentro il pensiero di tutta la mia vita, della men trista parte di essa.
Sai tu perché io ho ucciso? Perché v'era una cosa ch'io amava troppo.
Sì, figliuolo, ciò ch'io chiamava il mio onore, io lo amava ardentemente, sopra ogni cosa, come avrei dovuto amar Dio.
E quando la vita d'un uomo...
gran Dio! la vita d'uno fatto a vostra immagine! si trovò in confronto col mio onore, io gliel'ho sagrificata.
M'hai tu inteso!»
Fermo tutto commosso, rispose sinceramente: «padre sì».
In fatti egli intendeva qualche cosa di molto ragionevole, che bisogna amar Dio sovra ogni cosa, e non ammazzare.
Ma l'intento di quel discorso non passava nel suo intelletto: l'uomo che esprime le idee che sono state per lui soggetto d'una lunga e ripetuta meditazione, è oscuro, senza volerlo, anche per gente più colta che non fosse il nostro giovane montanaro.
Il padre Cristoforo continuò: «Il mio affetto era stolto, e superbo: il tuo è ragionevole e buono; la mia era passione non solo d'uomo furioso, ma di ragazzo stolido; perché che voleva io? che voleva io ad ogni costo? camminar rasente il muro, e non pigliare il mezzo della via; e tu, tu pensi da uomo savio a desiderare per tua compagna una di quelle donne che il cielo destina come un premio ai buoni; quella che tu scegliesti, e che ti scelse.
Ma il tuo affetto diventa ingiusto, diventa stolido com'era il mio, se tu non lo sottometti al volere di Colui che solo può renderlo santo.
E un tale amore, bada bene alle mie parole, un tale amore, quando tutto ti andasse a seconda, quando tu ottenessi ciò che più desideri, un tale amore tosto, o tardi, più tosto che tardi, ti tornerebbe in amaro: come; io non lo so, ma senza dubbio: e parlo dal tetto in giù.
Or pensa che bel conforto avresti di questo amore, se, perduto ciò che te lo fa parer tanto dolce, non te ne rimanesse che un odio, nessuna speranza che d'una vendetta, nessun frutto che un omici...»
«Non lo dica», interruppe Fermo, come atterrito.
«Rendi grazie a Dio», riprese il padre, «che tu non abbi a pentirti che d'un pensiero.
Ma il pentirsi del fatto...
ah! è ben amaro! E il non pentirsi è orrendo, orrendo più che non si possa comprendere in questa vita.
Fermo! giuri tu il perdono?»
«Ah! lo giuro», rispose Fermo in tuono solenne.
«A chi giuri tu di perdonare?»
«A quell'uomo...»
«A chi?»
«Sì, padre, a Don Rodrigo».
«Sì, Fermo, a Don Rodrigo: è un nome che fu posto sul fonte della rigenerazione ad una creatura redenta col Sangue d'un Dio; è un nome che forse è scritto sul libro della vita: perché Dio perdona; guai a te, se non fosse!» Dette queste parole, il vecchio stette pensoso un momento, tenendo tuttavia la mano di Fermo, poi abbandonatala, prese la sua sporta, ne trasse dal fondo un pezzo di pane arido, e scolorato, lo mostrò a Fermo, e disse:
«Vedi tu questo pane? Lo conservo da quarant'anni; l'ho mendicato nella casa di quello sventurato...
l'ho avuto dai suoi come un pegno di pace, e di perdono.
Ah! se avessi potuto prenderlo dalle sue mani! Prendi», - e porse il pane a Fermo - «conservalo ora tu: è il dono ch'io posso lasciarti per mia memoria.
E se, come spero, Iddio ti vuol condurre per quella via alla quale pare che Egli ti avesse chiamato, se tu sarai padre; mostra questo pane ai tuoi figli, conta loro la mia trista storia, di' loro che preghino pel povero capuccino, che morì pentito.
Saranno provocati, saranno offesi; di' loro che perdonino sempre, sempre, tutto, tutto.
Tu rimani a vivere in un secolo doloroso: i giorni che noi veggiamo son cattivi; quei che si preparano saranno peggiori: i figli dei provocatori, dei superbi, dei violenti, lo saranno più dei padri loro.
Gran Dio! questo flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna già maledetta: tanti grappoli abbatte; e quei che rimangono, son più tristi, più agresti, più guasti di prima.
Tu stesso, o Fermo, tu stesso, qui dove l'uomo non dovrebbe aver cuore che per la misericordia, tu odiavi ancora!»
Fermo non disse nulla, ma il suo volto esprimeva il pentimento.
«Or va», disse il padre alzandosi, «Iddio benedica le tue ricerche».
«Vuol dire, padre, ch'io la troverò?» richiese Fermo ansiosamente, come se parlasse ad uomo che ne potesse saper più di lui.
«Cercala con perseveranza», rispose il padre, «cercala con fiducia, e con rassegnazione.
Iddio può fare che tu la trovi, ma non te l'ha promesso.
Ti ha promesso di perdonare tutti i tuoi falli, se tu perdoni a chi t'ha offeso, ti ha promesso di renderti felice per sempre al fine di questa vita, se tu osservi la sua legge.
Non ti basta? Va; e qualunque sia il frutto della tua ricerca, vieni a darmene contezza: noi ringrazieremo Dio insieme».
Così dicendo, egli pose le mani su le spalle di Fermo, e stette un momento colla faccia elevata in atto di preghiera e di benedizione.
Poi staccandosi, disse; «Intanto io pregherò per voi; assistendo a questi vostri fratelli, io pregherò per voi».
Fermo si prostrò ginocchioni, stette un momento con le mani compresse al volto piangendo, e pregando; s'alzò, guardò intorno, uscì dalla capanna, e si diresse alla Chiesa, come gli aveva indicato il capuccino.
Egli era scomparso, e andava cercando intorno dove fosse più bisogno della sua assistenza.
CAPITOLO VIII
All'intorno del picciolo tempio v'era un picciolo spazio sgombro di capanne, e Fermo giungendovi, lo vide occupato da una folla distinta in ragazzi, in donne, e in uomini, tutti composti e in gran silenzio, fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria che veniva dal tempio.
Questo, elevato d'alcuni gradi al disopra del suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne disposte in circolo; nel mezzo v'era un altare che si poteva vedere da tutti i punti del lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi sono murati.
Ritto, su la predella dell'altare stava un capuccino, alto della persona, fra la virilità, e la vecchiezza; teneva con la destra una croce posata al suolo che gli sopravvanzava il capo di tutto il traverso; e con l'altra mano accompagnava di gesti il discorso che andava facendo.
Era questi il Padre Felice sopraintendente del Lazzeretto.
Fermo, giunto sull'orlo di quella adunanza avrebbe voluto avanzarsi a trascorrerla, e cercare ciò che gli stava a cuore; ma senza contare un altro capuccino che, con un aspetto tanto severo anzi burbero, quanto quello dell'oratore era pietoso, stava ritto in mezzo alla brigata per tener l'ordine; quella quiete generale, quell'attento silenzio, e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro ansioso che ogni movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio, e irriverenza.
Stette egli dunque alla estremità della brigata ad aspettare, e udì la perorazione di quel singolare oratore.
«Diamo adunque», diceva egli, «un ultimo sguardo a questo luogo di miserie e di misericordia, pensando quanti vi sono entrati, quanti ne sono stati tratti fuora per la fossa, quanti vi rimangono, quanto pochi al paragone siam noi, che ne usciamo non illesi, ma salvi, ma colla voce da lodarne Iddio.
L'anima nostra ha guadato il torrente; l'anima nostra ha guadate le acque soverchiatrici: benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia, benedetto nella morte, benedetto nella salvezza, benedetto nel discernimento ch'Egli ha fatto di noi in questo sì vasto, sì smisurato eccidio! Ah possa essere questo un discernimento di clemenza! possa la nostra condotta da questo momento esserne un indizio manifesto! Attraversando questo mare di guaj, diamo uno sguardo di pietà, e di conforto, a quegli che si dibattono tuttavia con la tempesta, e dei quali, ah quanto pochi, potranno come noi afferrare un porto terreno.
Ci vedano uscirne, rendendo grazie per noi, ed elevando preghiere per essi! Attraversando la città già sì popolosa, noi scarsa restituzione dell'immenso tributo ch'essa mandò in questo luogo, mostriamo agli scarsi suoi abitatori un popolo scemato sì, ma rigenerato.
Procediamo con la compunzione nel volto, e coi cantici su le labbra.
Quegli che son ritornati nella pienezza dell'antico vigore, porgano un braccio soccorrevole ai fiacchi; gli adulti reggano i teneri, i giovani sostengano con riverenza e con amore i vecchj, ai quali la salute ritornata non apporta che pochi giorni di stento.
E se in questo soggiorno di prova, in questo stesso crogiuolo di purgazione abbiam peccato; se abbiamo abusato anche dei flagelli, se abbiamo sciupati i doni e le ricchezze dello sdegno, come già quelli della benignità; ebbene! non abbiam però potuto esaurire il tesoro del perdono: ricorriamo ad esso di nuovo.
Per me...»
E qui l'oratore fece pausa, straordinariamente commosso; poi tolse una corda che gli stava ai piedi, se la avvinghiò al collo come ad un malfattore, cadde ginocchioni, e proseguì:
«Per me, e per tutti i miei compagni, i quali, sebbene immeritevoli, siamo stati per una ineffabile degnazione trascelti all'alto privilegio di servir Cristo in voi; se, come è pur troppo, non abbiamo degnamente corrisposto ad un tanto favore, se non abbiam degnamente adempiuto un sì grande ministero...
perdonateci! Se la fiacchezza, o la ritrosia della carne ci ha resi men pronti ai vostri bisogni, alle vostre chiamate, perdonateci! se una ingiusta impazienza se una noja colpevole ci ha fatto talvolta nei vostri mali mostrarvi un volto severo, e fastidito, perdonateci! Se la corruttela d'Adamo ci ha fatto trascorrere in qualche azione che vi sia stata cagione di tristezza, e di scandalo, perdonateci! Nessuno porti fuor di qui altra amaritudine che delle sue proprie colpe!»
Così detto, stette egli ginocchioni, come aspettando un segno che l'umile e cordiale suo prego era accetto ed esaudito.
Un singhiozzo, un pianto, un gemito universale si levò da quella turba a rispondere.
Dopo qualche momento il frate s'alzò, prese la croce ad ambe mani, e l'inalberò; scese dalla predella, e quivi depose i sandali; gridò ad alta voce: «andiamo in pace»; poi intonò il Miserere; e scalzo, portando dinanzi a sè quell'alta croce pesante, scese gli scaglioni del tempio dalla parte rivolta alla porta meridionale del lazzeretto che sbocca dinanzi alla mura della città; e s'incamminò verso quella.
Dietro lui s'avviò la torma dei fanciulletti, di quelli cioè che potevano reggersi, e sapevano condursi da sè; poi le donne, alcune delle quali tenevan per mano, o nelle braccia fanciulline, o bambini, e con fioca voce cantavano il salmo intonato dal guidatore; poi gli uomini pur cantando; poi carri di convalescenti, e delle bagaglie di quei che partivano: quelle che in tanta confusione s'eran potuto serbare, e raccogliere.
Ultimo veniva quell'altro capuccino che abbiamo menzionato, con un gran vincastro in mano; e coi cenni di quello, con gli occhi e con la voce, teneva in sesto il convoglio.
Era questi un Padre Michele Pozzobonelli, il coadiutore più autorevole, e come il primo ministro del Padre Felice, in quel regno di desolazione.
Fermo, tosto ch'ebbe veduto questo scender dal tempio, e notato da che parte s'avviava, entrò di nuovo fra le capanne per pigliare i passi innanzi, senza dare né ricever disturbo e sboccar poi di nuovo su la strada per dove la processione doveva passare.
Dalla porta meridionale al tempio v'era infatti come una strada, uno spazio che s'era lasciato sgombro di capanne per dar passaggio ai carri degli infermi che per lo più entravano da quella porta, e da quello spazio poi si distribuivano a dritta e a sinistra, come si poteva.
Fermo riuscì su quella, al mezzo in circa; e vide venire il vecchio crocifero, lo vide passare, vide passare i ragazzi, e poi con un gran battito al cuore, esaminò le donne che pur passavano; e lo potè fare a suo agio, perché elle procedevano a due a due.
Passa, passa; guarda, guarda: qui non v'è, qui né pure; più che la metà è passata; poche ne rimangono; compajono le ultime della fila femminile; ecco gli uomini: Lucia non v'era.
Quanta speranza svanita! Rimanevano però i carri ancora: Fermo gli vedeva venire; e i primi erano carichi di donne.
Stette dunque aspettando, lasciò passare la schiera degli uomini; guardò ad uno ad uno quei carri.
Passavano lentamente, si arrestavano talvolta come accade nelle processioni e nelle marce d'ogni genere; di modo che Fermo potè aver la trista certezza che nessuna di quelle donne era sfuggita alla sua vista; e che Lucia non v'era.
Le braccia gli caddero, quando si vide finire in mano l'unico, o almeno il più forte filo delle sue speranze.
Anche prima di vedere trascorrere quella per lui sì trista rassegna, egli sentiva pur troppo, quanto era più probabile che Lucia fosse nel numero dei tanti portati fuora dal lazzeretto sui carri, che dei pochi risanati: ma pure, come si suole egli metteva il suo desiderio sul guscio della speranza, e faceva traboccare le bilance da quella parte.
Ma ora, egli credeva di dovere esser certo che Lucia non era tra i guariti, né tra i convalescenti: la contingenza più lieta per lui, l'unica sua speranza (quale speranza!) era ormai ch'ella fosse ivi languente, ma viva.
Passato tutto il convoglio, passato il Padre Michele, Fermo si mise senza troppo pensare dove andasse, su quella via rimasta sgombra, e le sue gambe lo portarono dinanzi al tempio.
Quivi gli vennero alla mente le parole del buon frate Cristoforo: - Se non ve la scorgi, fa cuore tuttavia...
Cercala con rassegnazione.
- Si prostrò su gli scaglioni del tempio, fece a Dio una preghiera, o per dir meglio, un viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni, di domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non si fanno agli uomini, perché non hanno abbastanza penetrazione per intenderli, né sofferenza per ascoltarli; non sono abbastanza grandi per sentirne compassione senza disprezzo.
Si levò di là più rincorato e si avviò.
Dal tempio alla porta che divide il lato settentrionale a cui tendeva Fermo, scorreva, come dalla parte opposta, un viale sgombro di capanne; e si sarebbe potuto chiamare la via dei morti, perché ivi facevano capo e giravano i carri, che portavano alla fossa di San Gregorio le centinaja che perivano ogni giorno nel lazzeretto.
Fermo scelse quella via come la meno impedita, e la più breve; e studiando il passo alla meglio, tra l'incontro continuo dei carri e l'inciampo frequente di altri tristissimi ingombri, pervenne a pochi passi dalla porta.
Ma quivi un occorrimento di carri vuoti che entravano, di colmi che uscivano faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo anziché affrontarlo, o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare tra le capanne per riuscire di quindi al fabbricato.
Le capanne in quel luogo eran tutte abitate da donne; ed egli procedeva lentamente d'una in altra, guardando.
Or mentre passando, come per un vicolo, tra due di queste, l'una delle quali aveva l'apertura sul suo passaggio, e l'altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella prima, sentì venire dall'altra, per lo fesso delle assacce ond'era connessa, sentì venire una voce...
una voce, giusto cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio, articolava parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che certamente non gli erano mai state proferite: «Non dubitate: son qui tutta per voi: non vi abbandonerò mai».
Se Fermo non mise uno strido, non fu perché lo rattenesse il riguardo di fare scandalo, il timore di farsi troppo scorgere e d'essere preso o cacciato; fu perché gli mancò la voce.
Le ginocchia gli tremarono sotto, la vista gli s'appannò un momento; ma come accade per lo più quando dopo una gran sorpresa rimane qualche cosa d'importante da farsi o da sapere, l'animo gli ritornò tosto, e più concitato di prima.
In tre balzi girò la capanna, fu su la porta, vide una donna inclinata sur un letto, che andava assestando.
«Lucia!» chiamò Fermo con gran forza e sottovoce ad un tempo: «Lucia!»
Trabalzò ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare, si volse precipitosamente, vide che non era sogno, e gridò: «Oh Signore benedetto!» Fermo rimase su la porta tacito e ansante, e Lucia pure dopo quel grido stette immota in silenzio più tempo che non bisogni a raccontare in compendio le sue vicende dal punto in cui l'abbiamo lasciata.
Ella era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un certo tempo sotto la vigilanza severa di Donna Prassede.
Ma allo spiegarsi della peste questa signora, messe da un canto tutte le altre cure, dimenticate tutte le brighe, non solo le sue proprie, ma anche quelle di cui prima andava tanto volentieri in cerca, non ebbe più che un pensiero, di guardarsi dal pericolo comune.
Pensò ella che, per fare del bene, la prima condizione è di essere in vita, e per allora, volle assicurar questa.
Quanto al prossimo, non pensò più a regolarlo, ma soltanto a tenerselo lontano, tanto che non gli comunicasse la pestilenza.
Don Ferrante invece, persuaso che tutte le precauzioni immaginabili non avrebbero potuto fare che la congiunzione di Saturno con Giove non fosse avvenuta, né stornare le conseguenze di un avvenimento di quella sorte, non cangiò nulla al suo tenore solito di vita: e contrasse la pestilenza, che in un giorno lo spicciò.
Donna Prassede s'era ritirata con la signora Ghita, nella stanza più remota della casa; Prospero che alla morte di Don Ferrante era certo di dovere andare a spasso, pensava a farsi un po' di fardello, il resto della famiglia seguiva il suo esempio; e il povero astrologo sarebbe morto abbandonato, se Lucia non avesse avuta la carità di prestargli qualche servigio.
Il giorno stesso in cui Don Ferrante morì, Lucia fu presa da un gran sopore, rimase come insensata, e cadde senza forze: donna Prassede ordinò tosto che ella fosse portata nella via, ad aspettare un carro o una bussola che la portasse al lazzeretto.
Così fu fatto, e così avvenne.
Lucia deposta in quella capannuccia, stette alcuni giorni fuori di sè, senza prender cibo, né rimedii, lottando il vigore della natura con la violenza del male; e non riprese l'uso delle sue facoltà se non quando il male fu superato.
Ma quale risvegliamento! in quel tumulto di morte, in quello scompiglio di guai, senza vedere un volto conosciuto, senza udire una voce famigliare! Pure, in quel tempo, come in tutte le grandi calamità la vista o il racconto, e l'aspettazione continua dei mali rendeva preparati a tutto anche gli animi i meno agguerriti; questa preparazione, la gran ragione della necessità, la cascaggine stessa che il male aveva lasciata addosso a Lucia, la fecero avvezzare ben tosto alla sua situazione; la fiducia in Dio gliela raddolcì.
La capannuccia non capiva che due letti, o covili che fossero: in pochi giorni Lucia cangiò più volte di compagnia.
Finalmente, quando ella cominciava a potersi reggere, vi fu portata una donna che era moglie, anzi vedova d'un ricco mercante di stoffe, madre, anzi orba di due figli: la peste le aveva tutto portato via.
Questa rimasta sola in casa, e sentendosi pure colpita dal morbo, aveva chiamato un commissario della sanità che conosceva per sua buona sorte, e che per una sorte ancor più rara era un galantuomo; e gli aveva raccomandata sè e la sua casa.
Egli la fece chiudere e sigillare, promise di vegliarla, e fece portare la donna al lazzeretto, con tutta quella cura particolare che si poteva in quelle circostanze.
Lucia assistette la sua compagna, che superò pure la malattia; e come è facile ad intendersi, tra quella che prestava sì pietosi servigj, e quella che gli riceveva, ambedue deserte, buone ambedue, s'era formata una strettissima amicizia.
La vedova, prima di venire al lazzeretto aveva nascosta nella sua casa una buona somma di danari, e vi aveva lasciate molte mercanzie protette dal sigillo publico, e ancor più dalla indifferenza dei monatti per le robe che non fossero di pronto uso o di facile smercio.
Trovandosi quindi sola e doviziosa, ella aveva proposto a Lucia di tenerla con sè, come una sua figlia, e Lucia ringraziando Dio che le aveva preparato un asilo, e la buona donna che glielo offeriva, lo aveva accettato, ma solo per qualche tempo, tanto che potesse aver notizie di sua madre, e pensare a prendere una risoluzione stabile.
Ciò ch'ella aveva promesso alla sua compagna era di non abbandonarla finch'ella non potesse uscire dal lazzeretto; e per ciò, Lucia, non s'era unita ai convalescenti che erano partiti quel giorno alla guida del Padre Felice.
Ma la buona vedova avvezza a quella dolce compagnia, e atterrita dal solo pensiero di restarne priva, nella desolazione, esprimeva di tempo in tempo quel suo terrore, e si faceva rinnovare da Lucia la promessa in cui trovava la quiete dell'animo suo.
E per dissipare appunto una di queste dubitanze Lucia aveva dette le soavi parole che colpirono l'orecchio di Fermo, e che abbiamo riferite.
Fermo era dimorato su la porta; e di là il suo secondo sguardo s'era rivolto su la persona alla quale quelle parole erano state dirette; e fu molto contento quando vide a che sesso ella apparteneva.
«Ah! siete viva; e v'ho trovata!» diss'egli quando potè ricuperar la parola; ed entrò nella capanna.
«Voi!» sclamò Lucia.
«Son venuto qui per cercarvi, e v'ho trovata!» rispose Fermo.
«E la peste?»
«L'ho avuta».
«Ah!» fece Lucia con un gran respiro, che significava assai più che un: - me ne rallegro infinitamente -.
«Ma come...
qui?»
«Son venuto a cercarvi in Milano, appena ho potuto; m'hanno detto che eravate qui; ci son venuto».
«Oh Signore!» disse Lucia, stringendo le mani giunte, alzando gli occhi al cielo, e con una voce che i singhiozzi stavano per interrompere.
Poi, come entrata di repente in un altro pensiero, chiese ansiosamente: «Sapete qualche cosa di mia madre?»
«L'ho veduta jeri; è sana, vi saluta, e potete credere...
era tutta in pensiero per voi, e sospira di vedervi».
Lucia rispose con un altro respiro di consolazione.
Fermo continuò: «sospira di vedervi, e crede...
tiene per sicuro...
Ma voi,...
voi, mi parete stupita...
ch'io sia venuto a cercarvi.
Io...
son sempre lo stesso...
non vi ricordate...? che è avvenuto, Lucia?»
«Tante cose!» rispose ella sospirando.
«Ecco!» disse Fermo: «sa il cielo che cosa v'avranno detto di me!»
«Che importa», rispose Lucia, «quel che dica la gente?»
«Dunque...»
«Dunque...
io credeva...
che dopo tanto tempo...
dopo tanti guai...
non avreste più pensato a me».
«L'avete creduto? e me lo dite? quando son qui...»
«L'ho creduto», disse Lucia troncando in fretta le parole appassionate di Fermo, «l'ho creduto, perché sarebbe stato meglio...
è meglio».
Lucia aveva sempre tenuti gli occhi bassi; ma proferendo non senza fatica queste parole, chinò anche la testa, e la tenne appoggiata sul petto, come per riposarsi d'un grande sforzo.
«È meglio!» disse Fermo, stordito e contristato di quel mistero, e guardando fiso nel volto di Lucia per trovarvi la spiegazione di quelle tronche ed oscure parole.
«È meglio! che cosa v'ho fatto io? è colpa mia se...
Non sono io quello a cui avete promesso? Che vi mancava perché foste mia? un momento...
e...
ma gli ho perdonato, non siete voi più quella...? Dopo tanto sperare! dopo tanto pensare a voi! dopo...
Parlate chiaro: dite che non mi volete più; dite il perché; non mi fate...»
«Fermo», disse con voce più riposata e solenne, Lucia che mentre egli parlava, aveva cercato di raccogliere tutte le sue forze.
«Fermo! ascoltatemi tranquillamente: pensate dove siamo: vedete questa buona creatura che ha bisogno di quiete: ascoltatemi.
Io non sarò mai di nessuno...
e non posso più esser vostra».
«No non l'avete detta voi questa parola»; rispose Fermo, «no che non l'ascolto: che ho fatto io? perché? chi ve l'ha detto? chi è entrato fra voi e me? chi c'è entrato? voglio saperlo».
«Zitto zitto, non andate avanti, per amor del Cielo», disse Lucia.
«Quando lo saprete, se siete ancora quello di prima, se temete Dio come una volta, non direte così».
«Parlate per amor del cielo!»
«Sapete voi in che casi, in che spaventi io mi son trovata, in che pericoli?»
«Lo so, lo so, e...
gli ho perdonato».
«Ora sappiate quello che nessuno, né pure mia madre, ha udito finora dalla mia bocca.
In una notte...
Vergine santissima! qual notte!...
lontana da ogni soccorso...
senza speranza di liberazione...
sola...
io sola, in mezzo...
all'inferno, ho guardato in su, ho domandato l'ajuto di quel Solo che può fare i miracoli...
ho domandato un miracolo, e ho dovuto fare una promessa...
mi son votata alla Madonna, che se per sua intercessione, io usciva salva da quel pericolo, non...
sarei mai stata sposa d'un uomo».
«Ahi! che avete fatto!» sclamò dolorosamente Fermo: «che avete fatto!»
«Ho ottenuto il miracolo», riprese Lucia: «la Madonna mi ha salvata».
«Bastava pregarla, e vi avrebbe salvata.
Che avete fatto! Che avete fatto! Non dovevate fate un tal voto».
«L'ho fatto: che giova parlarne più? Che giova pentirsi? Pentirsi? No no, Dio liberi! Egli pure è sempre a tempo a pentirsi d'avermi salvata.
Può lasciarmi cadere ancora in un pericolo, e allora, chi pregherò io? che promessa potrei fare?»
«Lucia!» disse Fermo, «e se non fosse il voto...? dite; sareste la stessa per me?»
«Uomo senza cuore!» rispose Lucia, contenendo le lagrime, «quando mi avreste fatte dire delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbe forse peccati, sareste voi contento? Partite, scordatevi di me: non eravamo destinati; ci rivedremo lassù».
Dopo queste parole, le lagrime soverchiarono, e fra i singhiozzi ella continuò: «dite a mia madre ch'io son guarita, che ho trovata questa buona amica che pensa a me; ditele che spero ch'ella sarà preservata da questi guai, che Dio provvederà a tutto, e che ci rivedremo.
Partite, per amor del cielo; e non vi ricordate di me, che quando pregate il Signore».
«Lucia!» disse Fermo con tuono riposato e solenne egli pure; «noi siamo due poveri figliuoli senza studio: quel brav'uomo, quel gran religioso, quel nostro padre, il padre Cristoforo...»
«Ebbene?»
«È qui, nel lazzeretto, ad assistere gli appestati».
«È qui!» disse Lucia: «ah! non mi fa maraviglia: oh se potessi vederlo, sentir la sua voce! È egli sano?»
«È in piedi», disse Fermo, «ma il suo volto...
Dio voglia che sieno gli anni, e le fatiche!»
«Voi l'avete veduto!» disse Lucia.
«L'ho veduto, e gli ho parlato», rispose Fermo: «egli mi ha fatto animo, a cercarvi, mi ha fatto promettere che tornerei a rendergli conto delle mie ricerche.
Corro da lui: egli ci ha sempre ajutati; e spero che ci ajuterà anche in questa occasione».
«Che dite voi? che volete ch'egli faccia? preghiamo Dio che ci ajuti...
che vi ajuti a sopportare.
Ditegli che io ho sempre pregato per lui; che se può venga a trovarmi, a consolarmi, e voi...
voi...» - Non tornate più qui per amor del cielo, - voleva ella dire, ma non lo disse.
Dopo fatto quel voto, Lucia aveva sempre creduto di essersi legata irrevocabilmente, e non aveva supposto mai che alcuna autorità potesse annullare un patto col cielo; aveva rispinto come colpevole il pensiero stesso, e non aveva mai confidato a persona il suo doloroso segreto.
Ma quando Fermo parlò d'una speranza nel padre Cristoforo, quella stessa speranza confusa entrò nel cuore di Lucia; le balenò nella mente un: - chi sa? -, intravide come non impossibile che il Padre Cristoforo potrebbe trovar qualche mezzo...
e in quel dubbio ella stimò inutile di dire risolutamente a Fermo: «non tornate».
Egli partì, senza far altre parole, come un uomo che pensa di tornar ben tosto, e s'avviò alla capanna del buon frate.
La vedova compagna di Lucia era rimasta con gli occhi sbarrati a guardare quel personaggio sconosciuto e ad udire quel dialogo nuovo per lei; giacché Lucia, la quale, come si è potuto vedere in altre parti di questa storia, era molto discreta, non le aveva mai parlato né della sua promessa di matrimonio, né per conseguenza delle vicende conseguenti.
Ma ora non potè scusarsi di fargliene il racconto; e a dir vero, la disposizione d'animo di Lucia in quel momento s'accordava assai bene con le voglie curiose e benevole ad un tempo della vedova.
Quelle memorie compresse e rispinte per tanto tempo, s'erano ora presentate tutte in tanta folla e con tanto impeto all'animo di Lucia, che il parlarne diveniva per lei quasi uno sfogo necessario.
Dopo aver dunque risposto alla meglio ai rimproveri che la vedova le fece di un tanto segreto tenuto con lei, cominciò il racconto che fu spesso interrotto dai suoi singhiozzi, e dalle esclamazioni e dalle inchieste della ascoltatrice.
Fermo intanto era giunto alla capannuccia del Padre Cristoforo, e avendolo veduto lì fuori presso, che pregando, chiudeva gli occhi ad un morente, si era ritirato nella capannuccia senza dar voce né far segno che turbasse quel pio e doloroso uficio.
Quando il poveretto fu spacciato, Fermo si mostrò, e il Padre Cristoforo andò a lui, che tosto gli raccontò la lietissima scoperta ch'egli aveva fatta di Lucia viva e sana, e quell'altra scoperta che era venuta, come a tradimento, a guastargli una tanta consolazione.
Benché egli in questa parte del racconto volesse aver l'aria di chi propone un dubbio superiore ai suoi lumi aspettando il giudizio d'un sapiente, pure non lasciò scappare nessuna occasione di qualificare d'imprudenza e di pazzia quel voto che veniva per lui così male a proposito.
Così faceva sentire che per la parte sua il giudizio era bell'e fatto; e intanto guardava attentamente al volto del Padre Cristoforo per iscoprire un pensiero, dal quale avrebbe potuto dipendere la sua sorte.
Ma non potendo leggervi nulla, terminò con una aperta domanda: «Che ne dice, padre?» Il Padre stava pensoso: combattuto fra il desiderio di rivedere Lucia, e la speranza di consolarla forse, e il timore di rendersi colpevole, abbandonando per qualche tempo i suoi infermi.
Dopo essere così rimasto alquanto, pronunziò ad alta voce la conclusione del dibattimento che era stato tra i suoi pensieri.
«Ho un dovere con quella creatura», diss'egli.
«Dio l'aveva in altri tempi indirizzata a me, ed ora non me l'ha fatta venir così presso perché io ricusi di esserle utile.
Andiamo».
Lasciò per la seconda volta i suoi ammalati alla cura del Padre Vittore, e si mosse con Fermo.
Questi andava innanzi tacito facendo la guida per quel triste labirinto, e dirigendosi al viale per cui era passato la prima volta, e il Frate pur tacito gli teneva dietro.
Gli oggetti che ad ogni mutar di passo si succedevano alla vista, tenevano occupato l'animo di quella compunzione che non trova parole; e in quel momento su quel mesto spettacolo pareva che scendesse e pesasse una mestizia più cupa e più grave dell'ordinario.
Una nuvola comparsa all'occidente aveva a poco a poco coperto tutto il cielo: e alla oscurità crescente, avresti detto che il giorno era finito, se il sole lontano ancor forse due ore dal tramonto non avesse mostrato come dietro ad un velo spesso ed immobile, il suo disco grande e biancastro, donde partivano, non vivi raggi e diretti, ma un barlume scialbo e circonfuso che mandava una caldura morta e gravosa.
L'aria non dava un soffio: non si vedeva muovere una tenda delle trabacche, né piegar la cima d'un pioppo nelle campagne d'intorno.
Solo si vedeva la rondine, sdrucciolando rapidamente dall'alto, rasentare con l'ali tese, per un picciol tratto la superficie ingombra e confusa di quel terreno; e tosto risalire, volteggiare per l'aria in cerchii veloci, e piombar di nuovo.
Un'afa faticosa prostrava gli animi con una oppressione straordinaria: la lotta del morire era più affannosa; i gemiti dei languenti erano soppressi dall'ambascia; il movimento delle opere era stanco, rallentato, come sospeso: quella dubbia luce dava al colore della morte e della infermità un non so che di più livido; un non so che di più squallido all'abbattimento ond'erano atteggiate le figure dei sani: e su quel luogo di desolazione non era forse ancor passata un'ora amara al par di questa.
Eppure quegli che sopravvissero rammentarono quell'ora con gioja per tutta la vita; era la preparazione d'una burasca, che scoppiò la notte, e menò poi per due giorni una pioggia continua, dopo la quale il contagio cessò quasi ad un tratto.
Sotto il fascio di quella comune gravezza, procedevano il giovane e il vecchio, con la fronte bassa il primo e con l'animo diviso fra lo studio della via, fra l'orrore delle cose che vedeva, e l'ansietà del suo destino futuro; e l'altro levando di tratto in tratto al cielo la faccia smunta come per cercare un più libero respiro, e per secondare con quell'atto una speranza interna.
«È qui», disse Fermo con voce tremante accennando la capanna; e v'entrarono che Lucia col volto lagrimoso stava proseguendo il suo racconto.
Al riveder Fermo ella trasalì, e al vedere il Padre Cristoforo balzò dal saccone di paglia ov'era seduta, e gli si gettò incontro su la porta.
«Oh Padre!...
Signore Iddio! come sta ella?» soggiunse poi tosto vedendogli i segni della morte in volto.
«Come Dio vuole, mia buona figlia», rispose il Frate: «e presto spero starò bene affatto».
«Come?...» disse Lucia.
«Come Dio vorrà», riprese egli tosto.
«Parliamo ora di voi, per cui son venuto».
«Oh Padre! quanto tempo! quante cose!» disse Lucia.
«Quante cose!» ripetè il Frate: «e certo se fossimo là ai vostri monti, seduti in su la porta della casetta di quella buona Agnese, mi lascerei andar volentieri a farne lunghi discorsi.
Ma qui il tempo è misurato».
E tosto trattala in disparte in un angolo della capanna, continuò:
«Fermo mi ha detto che avete fatto voto di non maritarvi».
«È vero», rispose Lucia, arrossando.
«Avete voi pensato allora», proseguì il vecchio, «che voi avevate un impegno solenne di matrimonio, e che offerivate alla Vergine una libertà della quale avevate già disposto? E che riprendevate una parola già data, senza sapere se quegli che l'aveva ricevuta avrebbe consentito a restituirvela?»
«Ho fatto male?» chiese Lucia, con sorpresa, e con un rimorso che non era tutto doloroso.
«Avete voi confidato a nessuno questo vostro nuovo impegno?» interrogò di nuovo il Frate: «avete chiesto consiglio?»
«Non ho ardito», rispose Lucia.
«Ed ora», proseguì egli, «che vi dice il vostro cuore di quel voto?»
«Che vuol ella che me ne dica?» rispose Lucia arrossando più che mai e chiudendo quasi del tutto gli occhi ch'erano già chini a terra.
«Se non lo aveste fatto, lo fareste?»
«Se...
non fossi in quel pericolo...
in un grande pericolo...
e poi, se non è permesso...
non lo farei».
«Se non lo aveste fatto, sareste tuttavia risoluta di sposare quell'uomo a cui avevate promesso?»
«Io credeva...
che fosse male il pensarvi...
ma poi ch'Ella me ne domanda...
ah Padre sì!»
Fermo intanto adocchiava ansiosamente verso quell'angolo, e la vedova anch'essa stava in una tacita aspettazione.
Il Frate si fece presso a loro, accennando a Lucia, che lo seguì con gli occhi bassi.
Allora egli con voce spiegata le rivolse questa nuova interrogazione:
«Credete voi che la santa madre Chiesa ha ricevuta da Dio l'autorità di sciogliere e di legare?»
«Lo credo», rispose Lucia.
«Credete voi dunque che ella possa in suo nome ricevere, confermare, o rimettere i voti che gli son fatti, interpretando la sua volontà in questo come nel perdono dei peccati, e usando una potestà che tiene da Lui?»
«Lo credo», rispose ancora Lucia.
«Domandate voi alla Chiesa di essere sciolta dal voto di verginità che avete fatto, o inteso di fare alla Madre santissima di Dio?»
«Lo domando», rispose Lucia con una prontezza, alla quale Fermo non ebbe nulla a desiderare, e che potrà parere forse troppa a chi non essendo stato presente a quell'atto, non rifletta che la solennità della richiesta, l'aria autorevole di chi l'aveva fatta, non lasciavan luogo a titubamenti leziosi, e che ivi la verecondia doveva essere tutta nella sincerità.
«Ed io», disse allora il buon Frate, con tuono ancor più solenne, «prego umilmente la Vergine regina di tutti i santi, che abbia sempre per aggradito il sentimento del vostro divoto e travagliato sacrificio, e lo offra al suo e nostro Signore; e con l'autorità che la Chiesa mi ha affidata, vi sciolgo dal voto, annullando ciò che vi potè essere d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione, se ne avete contratta».
Non parleremo dell'effetto, che queste parole produssero nell'animo dei due giovani: la buona vedova era tutta commossa.
Il Frate continuò rivolto a Lucia: «Siate moglie pudica, moglie affettuosa moglie contenta di quella contentezza che conduce all'eterna.
Questo Iddio ha voluto e vuole da voi».
Quindi levò le mani verso i due giovani come per parlare ad ambedue.
Essi caddero ginocchioni ai suoi piedi, ed egli tutto assorto, e quasi senza avvedersi di quell'atto, stese le mani su le loro teste, e stette un momento pensoso.
Erano nel fondo della capanna, come chiusi tra quello e il letto della vedova che teneva gli occhi fissi su di loro: i giovani inginocchiati con la fronte bassa, e il Frate ritto dinanzi a loro con le spalle rivolte alla porta.
«Figliuoli», disse egli, «che ho amati, e che amerò sempre, ricordatevi che se la Chiesa vi assolve da un sagrificio, non lo fa per procurarvi le consolazioni di questa vita che deve esser tutta un sacrificio; ma per mettervi su la via della santificazione.
Amatevi, come compagni di viaggio, col pensiero di avere a lasciarvi, con la speranza di ritrovarvi ancora e per sempre.
Rendete grazie al cielo che vi ha condotti a questo stato non con le allegrezze turbolente e passeggiere, ma coi travagli, e fra le miserie per disporvi ad una gioja raccolta temperata, e continua.
E nei vostri discorsi qualche volta, e sempre nelle vostre preghiere, ricordatevi...»
Queste parole che rinchiudevano come un presentimento, e un tristo addio, rinnovarono nell'animo di Lucia l'impressione dolorosa che le aveva prodotta l'aspetto di chi le proferiva.
Levò ella gli occhi quasi involontariamente, tutta commossa, a riguardarlo di nuovo; ma insieme con l'oggetto che cercava il suo sguardo un altro inaspettato le se ne offerse su la porta della capanna, alla vista del quale ella mandò uno strido repentino.
Tutti gli occhi si rivolsero a quella parte donde le era venuta quella subita commozione.
CAPITOLO IX
Ritto sul mezzo dell'uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi nei quali si dipingeva ad un punto l'attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire.
Ma in quello sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri due.
Quell'infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sè, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre Cristoforo; senza esser veduto da loro.
Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta l'antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle immagini odiose che le erano come sfumate dinanzi.
In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un tale delirio s'era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da lontano a quei due.
Ma quando essi uscendo dalla via s'internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto.
Entratovi anch'egli da un altro punto poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna, tanto che s'era trovato a quella in cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure.
Quivi ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo una impressione che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia.
Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva che le biscie stessero all'incanto; quando Lucia s'accorse di lui.
Dopo la sorpresa il primo sentimento di quella poveretta fu una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione.
Entrambi si mossero verso quell'infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella verso la chiesa.
Il frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve corsa, egli s'abbattè presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera.
Un romore si levò all'intorno, un grido di «piglia, piglia»; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s'inalberava, e scappava vie più verso il tempio.
I due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti compresi alla capanna, dove Lucia stava ancora tutta tremante.
«Giudizii di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per quell'infelice».
Dopo un momento di silenzio, il pensiero che venne a tutti fu di concertare insieme quello che era da farsi: e i concerti furon questi: che Fermo partirebbe tosto, giacché ivi non v'era ospitalità da offerirgli, cercherebbe un ricovero per la notte in qualche albergo, e all'indomani si rimetterebbe in via pel suo paese, porterebbe ad Agnese le nuove della sua Lucia, andrebbe poi a Bergamo a disporre la casa dove intendeva di stabilirsi con la moglie e con la suocera; e tornerebbe poi ad aspettare Lucia nel suo paese, dove dovevano celebrarsi le nozze: ne avvertirebbe intanto Don Abbondio, il quale era da sperarsi che invece di frapporre nuove difficoltà, sarebbe vergognoso di quelle che aveva frapposte altra volta.
Quanto a Lucia, ella protestò prima d'ogni cosa che non si staccherebbe dalla sua buona compagna, finché questa non fosse affatto guarita, e ristabilita nella sua casa.
Il Padre la lodò, Fermo non v'ebbe nulla a ridire, e la vedova tutta commossa, promise che accompagnerebbe essa Lucia a casa, e la consegnerebbe a sua madre.
«E voglio farle il corredo», aggiunse all'orecchio del Padre a cui aveva fatto cenno di avvicinarsi.
«Dio vi benedica», le rispose il buon vecchio.
«E tu», disse poi a Fermo, «che stai qui tardando? il tempo, come vedi, si fa più nero, e la notte si avvicina: affrettati di cercare un ricovero».
Convien dire ancora ad onore di Fermo, che in quel momento non gli doleva tanto lo staccarsi da Lucia appena trovata, è vero, ma ch'egli contava di riveder presto, quanto dal Padre Cristoforo, che restava lì a morire.
«Ci rivedremo, padre?» disse il buon giovane.
«Se Dio vorrà, e quando Egli vorrà» rispose il frate, vincendo una commozione che andava crescendo.
«Va, va che non c'è tempo da perdere».
Fermo, disse con voce accorata; riverisco, al Padre che lo benedisse, e gli strinse la mano: disse addio a Lucia e alla vedova, sopprimendo un: - a rivederci presto -, che gli veniva su le labbra; poi spiccatosi in fretta, partì.
«Vi raccomando l'una all'altra, buone creature», disse, il frate; e fece atto pure di andarsene: ma nel dare a Lucia uno sguardo di commiato, vide nell'aspetto di lei mista alla commozione una grande inquetudine; s'avvisò tosto di ciò che poteva esserne la cagione, e disse: «Di che state inquieta?»
«Quell'uomo...!» disse Lucia.
«Poveretto!» rispose il frate, «non è più in caso di far paura a nessuno: non lo vedrete più, siatene certa.
Pure», soggiunse, dopo d'aver pensato un momento, «per ogni altro evento, sarà meglio ch'io vi raccomandi a qualcheduno dei nostri».
Così detto, uscì, girò un poco in ronda, finché trovò un capuccino, e condottolo alla capanna, gli mostrò le due donne, e gli disse: «sono due derelitte; vi prego di averne una cura particolare.
Vi lascio con Dio», disse poi alle donne, e uscì dalla capanna.
Lucia lagrimando lo seguiva, ed egli le imponeva che tornasse, e così si trovarono entrambi sulla grande strada, dove videro una folla di monatti, che accorreva in tumulto, gridando «aspetta, aspetta», ad altri monatti che guidavano un carro verso la porta.
Il carro si fermò quasi davanti ai nostri due amici: quei monatti sopraggiunsero tosto ansanti; e due che portavano un morto lo gittarono sul carro, dicendo un d'essi: «mettetelo bene in fondo costui, che non torni a cavallo, a farci tribolare».
«Che diavolo è stato», disse più d'uno di quei carrettieri.
«Il diavolo», rispose il monatto, «l'aveva in corpo costui: è andato su e giù finch'ebbe fiato: se durava ancora, faceva crepare il cavallo: ma è crepato egli, e allora per amore o per forza ha dovuto scendere».
Il Padre Cristoforo, rivolto allora a Lucia le disse: «ricordatevi di pregare per questa povera anima voi, e vostro marito, per tutta la vita, e di far pregare i vostri figliuoli, se Dio ve ne concede.
Tornate alla vostra compagna.
Iddio sia sempre con voi».
Dette queste parole, prese in fretta il viale, per andarsene alla sua stazione; Lucia, compunta di quella separazione, e atterrita dallo spettacolo, tornò a capo basso e col petto ansante alla sua capanna; e Don Rodrigo su la cima d'un tristo mucchio, fra lo strepito e le bestemmie, usciva dal lazzeretto per andarsene alla fossa.
Usciamone una volta anche noi; e teniam dietro a Fermo, il quale alloggiò la notte come potè, il giorno seguente benché la pioggia venisse a secchie si rimise in cammino, e si condusse fin presso al suo paese, dove giunse il terzo dì, molle, affaticato, sciupato, ma pure più lieto che non fosse stato da un gran pezzo.
Il rivedersi di lui e d'Agnese, la gioja di questa alle novelle che gli eran date, sono di quelle cose che i narratori passano in silenzio, nel supposto ragionevole, che il lettore se le può immaginare.
Con Don Abbondio le cose non furono così chiare.
Prima di tutto egli si fece pregare alquanto prima di aprire la porta a Fermo; anzi non vi si ridusse che allorquando la voce di questo gli parve un po' alterata, e le parole tinte un po' di minaccia.
Apertogli, lo accolse con quella cera che un uomo imbrattato di debiti mostra ad un creditore che vorrebbe sapere mille miglia lontano, ma che pure non vorrebbe irritare al segno che quegli gli desse un libello.
«Siete qui voi!» disse Don Abbondio.
«Son qui», rispose Fermo, «grazie a Dio, e sono ad avvertirla che presto sarà qui anche Lucia Mondella, con la quale ella avrebbe dovuto sposarmi, è un anno e dieci mesi, e con la quale ora ella mi sposerà.
Meglio tardi che mai».
«Oh santo Dio benedetto!» sclamò Don Abbondio.
«Signor curato», ripigliò Fermo: «quel signore che diede tanto fastidio a noi poveretti ed anche a lei, non ne darà più a nessuno».
«Che vuol dire?» chiese Don Abbondio.
«Vuol dire», rispose Fermo, «che Don Rodrigo a quest'ora debb'esser all'altro mondo».
«Chi lo dice? chi lo dice?»
«Lo dico io», rispose Fermo, «che l'ho veduto al Lazzeretto, col male addosso, acconciato pel dì delle feste, che faceva pietà».
«Eh figliuolo! si guarisce, si guarisce dalla peste.
Siam guariti anche noi».
«Le dico, che a quest'ora sarà morto sicuro».
- Se fosse la vacca d'un pover'uomo, - disse Don Abbondio fra sè e sè.
«Basta», soggiunse Fermo con quel tuono risoluto che spiaceva tanto al suo ascoltatore; «basta, quel che è stato, è stato, ma finalmente quel che si doveva fare prima s'ha a fare ora, e si farà».
«Ma un parere, un parere d'amico», disse con una amabile modestia Don Abbondio, «non ha da potervelo dare un vecchio, che vi vuol bene?»
«Che parere?»
«Con quella cattura che avete su le spalle, compatitemi, non vi conviene star qui: maritatevi altrove; e Dio vi benedica».
«Le torno a dire che nessuno pensa né alla cattura, né a me: ho girato il mondo, e so anch'io che impicci porta, e che tempo domanda il maritarsi lontano da casa sua: qui abbiamo le nostre case, qui si può concluder tutto in un momento, senza impicci; basta che ella voglia; e le dico io ch'ella vorrà».
«Ma figliuolo, ma figliuolo...»
«La riverisco», rispose il figliuolo, e lasciando Don Abbondio in quei pensieri che il lettore conosce, gli volse le spalle; e se ne andò a Bergamo a disporre le sue faccende, e la casa per la sposa.
Questa frattanto, guarita la vedova, era uscita con essa dal lazzeretto, il quale di giorno in giorno si andava spopolando.
Perché come abbiamo accennato, dopo quella dirotta, il contagio mollò, come suol dirsi, repentinamente; e così venne a cessare la trista trasmigrazione della cittadinanza al lazzeretto; quei che v'erano, in poco tempo morirono, o risanarono.
La vedova trovò la sua casa intatta, v'entrò con Lucia: ivi stettero insieme a fare un po' di quarantena; deposero ed arsero i panni della malattia; il fondaco somministrò la materia dei nuovi vestimenti: e la vedova attenendo quello che aveva promesso al padre Cristoforo volle ad ogni costo provvedere Lucia d'un bel fornimento d'abiti, con tutto il lusso contadinesco; e vi lavorarono insieme per tutto quel tempo che stettero rinchiuse.
Il giorno stesso dell'arrivo in casa, la vedova per servire alle giuste premure della sua ospite mandò ai capuccini a chieder conto del Padre Cristoforo.
Come il lettore l'avrà indovinato, il nostro buono e caro amico, era morto al lazzeretto.
Lasceremo pure che il lettore s'immagini il dolore di Lucia; e senza più perderci in lungaggini, diremo che un bel giorno ella giunse alla sua casetta, in compagnia della vedova, in una delle più belle carrozze che usassero i mercanti d'allora.
In quel frattempo, il contagio era cessato quasi da pertutto, e tutte le precauzioni erano dismesse.
Agnese non istette dunque alla lontana dalla figlia, come aveva fatto con Fermo, ma le gettò le braccia al collo, e fece tosto una grande amicizia con la vedova.
Fermo che era tornato e che stava quivi aspettando l'arrivo desiderato, si trovava in casa d'Agnese in quel momento.
Le accoglienze, il tripudio di tutti non è da dirsi, e i discorsi, i racconti non sono da ripetersi: son cose che il lettore in parte sa, in parte può immaginarsi.
Il giorno seguente, andarono tutti e quattro da Don Abbondio, il quale al tocco della porta accorse alla finestra, e veduta quella brigata, scese gemendo, e grattandosi in capo, ad aprire.
Le accoglienze furon fredde, e imbarazzate: e a dir vero faceva proprio rabbia a vedere quella faccia svogliata e soffusa per dir così d'un mal umore e d'una stizza repressa, in mezzo a tanti aspetti allegri.
Ma Fermo che conosceva il male del pover uomo, gli amministrò tosto la medicina con queste parole: «Quel signore è poi morto davvero».
Don Abbondio non si abbandonò alla gioja da spensierato, ma volle sapere con che fondamento si affermasse una tale...
notizia.
«L'ho veduto io pur troppo», disse Lucia, raccapricciando ancora al ricordarsene.
Don Abbondio volle sentire il racconto, si fece ripetere molte circostanze, e quando fu ben certo che Don Rodrigo era veramente passato all'altra vita, mise un gran respiro, i suoi occhi s'animarono, tutti i lineamenti del suo volto si spiegarono come un fiore che sbuccia al raggio di primavera.
«È morto!» sclamò egli: «Oh provvidenza! provvidenza! Ecco se Domeneddio arriva certa gente.
È morto senza successione, per un giusto giudizio, e anche per un gran benefizio della provvidenza; perché se colui avesse lasciato gente della sua razza, bisognerebbe dire: è morto un buon cavaliere: peccato! un degno gentiluomo.
Così, si può finalmente dire il suo cuore.
Ah! Non c'è più quel burbero, quel soperchiatore, quello spaventacchio.
Questa pestilenza è stata un flagello, figliuoli, un flagello; ma è stata anche una scopa: ha spazzato via certa gente, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: birboni, freschi, verdi, vigorosi, che sperare di far loro le esequie, sarebbe stata una prosunzione peccaminosa; si sarebbe detto che il prete destinato ad asperger loro la cassa stava ancora facendo i latinucci; e in un batter d'occhio sono iti: requiescant.
Ah!...
Ma, che facciamo noi qui», soggiunse poi, come ravvedendosi, «qui in piedi, in questo andito? venite figliuoli, venite nella mia saletta; venga signora mia, ben venuta in queste parti; andiamo a sedere, e a discorrere tranquillamente dei fatti nostri.
Perché», continuò egli camminando, «quello che s'ha da fare voglio che lo facciamo presto; che è troppo giusto.
Non mi piace, vedete, far penare la gente.
E principalmente voi, figliuoli cari»,: e qui eran giunti nella sala, e fatti sedere da Don Abbondio, che proseguì: «principalmente voi, ai quali ho sempre voluto bene.
Ma che volete? Alle volte bisogna far bella cera a quegli che si vorrebbero veder lontani le mille miglia, e cera brusca a quelli che si amano: si pare amici dei birboni, e nemici dei galantuomini; ma, santo cielo! bisogna vestirsi dei panni d'un povero galantuomo.
Basta; è finita; veniamo a noi.
Figliuoli, non bisogna perder tempo; oggi, che giorno è?...
Venerdì: posdomani rinnoveremo le pubblicazioni; perché quelle altre già fatte, dopo tanto tempo, non valgono più nulla; e poi voglio avere io la consolazione di maritarvi; e subito subito, voglio darne parte a Sua Eminenza».
«Chi è Sua Eminenza?» domandò Agnese.
«Il nostro arcivescovo», rispose Don Abbondio, «quel degno prelato: non sapete che il nostro santo padre Urbano ottavo, che Dio conservi, fino dal mese di Giugno, ha ordinato che ai cardinali si dia il titolo di Eminenza?»
«Ed io», replicò Agnese, «che gli ho parlato, come parlo a Vossignoria, ho inteso che tutti gli dicevano: Monsignore illustrissimo».
«E se gli aveste a parlare ora», replicò Don Abbondio, «dovreste dirgli: Eminenza, sotto pena di passare per malcreata, o per ignorante.
Così ha voluto il papa: è ben vero che alcuni principi sono in collera, e non vorrebbero questa novità: ma, tra loro magnati se la strighino: io povero pretazzuolo non ho di questi affanni.
Torniamo al fatto nostro.
Voglio che stiamo allegri: abbiamo avuto tanto tempo di malinconia.
Farete un po' di banchetto: eh?»
«Da poveri figliuoli», rispose Fermo.
«Ed io verrò a stare allegro con voi; verrò, vedete», disse Don Abbondio.
«Oh signor curato», rispose Fermo, «intendevamo bene di pregarla...»
«Ed io vi ho prevenuti», riprese Don Abbondio, «per farvi vedere che vi sono amico; che vi voglio bene, quantunque m'abbiate dato anche voi qualche travaglio: non parlo di te che sei un malandrinaccio», disse rivolto a Fermo, sorridendo, «ma anche voi con quell'aria di quietina»: e qui rivolto a Lucia, e alzata la mano con l'indice teso, e stretto il rimanente del pugno la moveva verso di essa in atto di amichevole rimbrotto; e continuò: «bricconcella, anche voi mi avete voluto fare un tiro: quella sera: quella sorpresa: quel clandestino: basta non ne parliamo più; quel ch'è stato è stato: non è colpa vostra; è un mio destino, che tutti più o meno debbano darmi qualche fastidio: tutto è finito: pensiamo a stare allegri».
Lucia sorrise; Agnese stava per aprir la bocca ad argomentare contra Don Abbondio, e provargli che il torto era suo; ma Fermo le fece cenno di tacere; e rispose egli in vece con un complimento al curato; e con qualche altro complimento, il congresso finì con universale soddisfazione.
Il tempo che scorse tra le pubblicazioni e le nozze, fu impiegato dagli sposi ai preparativi pel traslocamento a Bergamo, e pel trasporto colà del loro modico avere, e Agnese, la quale come il lettore se n'è avveduto, pareva sempre voler dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna, viveva per gli altri, e faceva a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si arrabbattò per la causa comune: la vedova anch'essa non lasciava di dare una mano.
Forse taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari altrui, a prima giunta, che non vegga colui di chi sono gli affari, dopo avervi molto pensato, domanderà per qual motivo quella famiglia volesse abbandonare il luogo natale, la sua casuccia, il suo picciol fondo, ora che era tolto di mezzo colui che gl'impediva di posarvisi tranquillamente.
Per tre ragioni principalmente.
La prima: quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per quella sua impresa di Milano, e la cattura fosse un titolo inoperoso; pure un sospetto, una reminiscenza, un mal uficio, poteva far risorgere l'antica querela, e rimetterlo in Dio sa quale impiccio.
La seconda, è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si contano quasi per nulla, ma che nel caso concreto sono più potenti a determinare che molte altre.
Ciò che Fermo aveva sofferto, e temuto nel suo paese, gliel'aveva reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le angherie d'un soverchiatore, i pericoli della prigione, e di peggio, poi il furore del popolo, che lo cercava a morte.
Memorie di questo genere disgustano l'uomo dai luoghi che le richiamino, e se quei luoghi sono la patria, ne lo disgustano tanto più, appunto perché gli guardava prima con fiducia, e con affezione.
Anche il bambolo riposa volentieri sul seno della nutrice, rifugge a quello da tutti i terrori, cerca con avidità la poppa che lo ha nutricato fin allora, e s'accheta quando l'ha presa: ma se la nutrice, per divezzarlo, intinge la poppa d'assenzio, il bambino torce con dolore e con pianto il labbro da quella nuova amaritudine, e desidera un cibo diverso.
Finalmente, i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste circostanze gli avevano costretti a dismettere per molto tempo la loro professione; ma né l'uno né l'altro aveva amore all'ozio; e il loro disegno era di ripigliare tosto il lavoro per vivere tranquillamente e onestamente, e per nutrire ed allevare i figliuoli che speravano, come tutti gli sposi fanno.
Ora l'industria della seta, come tutte le altre era già decaduta spaventosamente nel milanese, prima di quelle recenti sciagure; e queste le avevan poi dato l'ultimo crollo.
Non è questo il luogo di descrivere quello stato di cose, e di toccarne le cagioni.
Già molte nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità appajono anche troppo in questa lunga storia: chi volesse conoscere le più immediate legga, se non le ha lette, le belle memorie storiche del conte P.
Verri sulla economia pubblica dello Stato di Milano; e se vuol conoscere più a fondo, frughi nei documenti originali, da cui quel valentuomo ha cavate le sue memorie.
Basti a noi il dire che l'uomo il quale aveva abilità e voglia di lavorare, stentava nel Milanese, e che nel Bergamasco, come in altri stati vicini si offerivano esenzioni, privilegii, ed altri incoraggiamenti ai lavoratori che volessero trasportarvisi.
Questa differenza fece uscire una folla di operaj, e rivivere in quegli stati molte manifatture che perirono nel milanese dove avevano fiorito.
Differente per conseguenza era anche l'aspetto dei due paesi.
In Bergamo (non vogliam dire che fosse il paradiso terrestre) dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i tristi segni, e i tristi effetti di quella: la spopolazione, le terre incolte, l'ardire cresciuto nei ribaldi, le abitudini dell'ozio, e del vagabondare: ma in quella petulanza stessa v'era una certa aria di allegria nata se non dalla abbondanza, almeno dalla sufficienza dei mezzi e dei capitali: quegli poi che avevano voglia di far bene trovavano in quei capitali una facilità grande e pronta.
Ma nel Milanese una cagione viva e incessante di miseria sopravviveva alle miserie della peste; un sistema che onorava l'orgoglio ozioso, che favoriva la soverchieria perturbatrice, che alimentava tutti gli studj del raggiro, e delle ciarle, un sistema oppressivo e impotente, insensato e immutabile, un sistema di rapine e di ostacoli, impediva l'industria, la pace, e l'allegria.
Scelta dunque un'altra patria, i nostri eroi, erano però impacciati del come convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove erano nati: ma la fortuna - non osiamo dire la provvidenza - la fortuna che voleva favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar lietamente una storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo.
I beni di Don Rodrigo erano passati per fedecommesso ad un parente lontano; il quale era un uomo di ben diverso conio; un galantuomo, un amico del cardinal Federigo.
Prima di andare a prender possesso di quella eredità, trovandosi egli col cardinale gliene parlò.
«Avrete forse una occasione di far del bene e di riparare il male che ha fatto Don Rodrigo», gli disse il cardinale, e gli raccontò in succinto la persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri sposi, e il danno di ogni genere che ne avevan patito.
«Se son vivi tuttora», soggiunse, «non vi prego di far loro del bene, che con voi non fa bisogno; ma di darmi notizia di loro, e di dire a quella buona giovane ch'io mi ricordo sempre di lei, e mi raccomando alle sue orazioni».
Il galantuomo, appena giunto al castellotto, si fece indicare il villaggio degli sposi, e si presentò al curato.
Don Abbondio al vedere il nuovo padrone di quella altre volte caverna di ladroni, umano, cortese, affabile, rispettoso verso i preti, voglioso di far del bene, non si può dire quanto ne fosse edificato.
E quando quel signore lo richiese di Fermo e di Lucia, e gli manifestò le sue intenzioni benevole, Don Abbondio, non solo si prestò volentieri, a secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto felice.
«Signor mio», diss'egli «questa buona gente è risoluta di lasciar questo paese; e il miglior servizio ch'ella possa render loro è di comperare quei pochi fondi che tengono qui.
A lei potrà convenire di aggiungerli ai suoi possessi; e quella gente si troverà fuori d'un grande impiccio».
Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio se non sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi, e insieme a conoscere quella brava gente.
«È un onore immortale», disse Don Abbondio facendo una gran riverenza; e andò in trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la proposta, che fu molto gradita.
Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio, a cui il signore disse all'orecchio, che lo stabilisse molto alto.
Don Abbondio così fece; ma il signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i ringraziamenti dei venditori, gli invitò a pranzo nel suo castello pel giorno dopo quello delle nozze.
Quel giorno benedetto venne finalmente: gli sposi promessi, furono marito e moglie; il banchetto fu molto lieto.
Il giorno seguente ognuno può immaginarsi quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don Abbondio, entrando non solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed onorevole nel castello, che era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa, mancava il Padre Cristoforo: ma egli era andato a star meglio.
Non possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il padrone non vi sedè; allegando che il pranzare a quell'ora non si confaceva al suo stomaco.
Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel brav'uomo non aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli, che si sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in una malattia.
Tanto anche a chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro non comandi la vittoria.
Il terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse di rivedersi, che si fanno anche quando s'ignora se e quando si potranno adempire, si staccò dalla sua Lucia, e tornò a Milano: e gli sposi con la buona Agnese che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un po' di crepacuore ai loro monti, e s'avviarono a Bergamo.
Avrebbero certamente divertito dalla loro strada, per far una visita al Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste contratta nell'assistere ai primi appestati.
La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con la buona condotta.
Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio».
Ella visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare bella giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo.
Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: «d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra».
Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse.
A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi.
Quando tu non volessi dire», aggiunse ella soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te».
Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì ordinariamente de' guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende utili per una vita migliore.
Questa conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.
17 settembre 1823
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