FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 100
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«Vedete che avviso vi ha mandato il cielo; per farvi pensare al sodo...
Anch'io l'ho avuta, e son qui per miracolo».
«Ma di Lucia non mi sa ella dir nulla?»
«Figliuol caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in Milano; cioè v'era: di chi può dirsi ora, v'è? Sarà morta: muojono tutti».
«Ma noi siam pur vivi, e...»
«Per miracolo, figliuolo, per miracolo.
E il frutto che ne dobbiam trarre, è di cacciar tutte le bazzecole dalla testa.
In Milano, figliuolo! chi vive in Milano? questo è un purgatorio, ma quello è l'inferno.
Non vi passasse mai pel capo...»
«E Agnese, signor curato?»
«Agnese è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si guarda, si guarda; ha giudizio, non vuol vedere nessuno; non le andate fra piedi, che le fareste dispiacere».
«Sia lodato Dio; ma ella né mi vuole ajutare, né vuole che altri m'ajuti».
«Che dite figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perché vi voglio bene; e perciò vi torno a dire: non vi passasse mai pel capo...
Dio guardi! In Milano! Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un impegno! e con tanti nemici che avete! Dio liberi! e poi, so io quel che dico, potreste trovare...
chi sa? gente che vuol bene, ma...
gente che si piglia impegni di proteggere, e poi...
Sostenere...
cozzare...
basta parlo con tutto il rispetto...
ma Dio solo è da per tutto...
Si vuole, si comanda, si promette, si fa l'impegno...
si scompiglia la matassa, e si dà in mano al curato perché la riordini...
e chi ne va col capo rotto è il curato...
Fate a modo mio, tornate dove siete stato finora».
«Basta», disse Fermo: «non mi aspettava da lei più soccorso di quello che mi abbia avuto.
Io non intendo tutti questi suoi discorsi; ma poi che ella non ha altri consigli da darmi, si contenti ch'io faccia a modo mio».
«No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete in imbroglio me e voi.
Abbiate compassione d'un pover uomo che ha bisogno di quiete; e sarebbe giusto finalmente che la godesse.
Quello che ho patito io, vedete, non lo ha patito nessuno.
Ne ho passate d'ogni sorte: spaventi, crepacuori, fatiche: è venuta la carestia, e m'è toccato di veder persone morirmi di fame su gli occhi.
Ho dovuto fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho trovato cuori duri come selci; e i soldati m'hanno sperperato ogni cosa.
E sono stato...
e ho dovuto...
e basta...
sono stato ricoverato da un degno signore...
basta so io quello che ho patito.
E poi la peste! ho dovuto assistere agli appestati...
e...
ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho presa anch'io, e son qui vittima della mia carità: d'allora in poi non son più quello.
Perpetua è morta, mi ha abbandonato in questi guaj; e mi tocca servirmi da me povero vecchio e malandato, come sono.
Ecco che appena cominciava a star bene, e voi venite per darmi nuovi travagli...»
«Signor curato», disse Fermo, «io le desidero ogni bene; e del travaglio ella ne può bene aver dato a me, ma non io a lei, in fede mia.
La spia ella non me la vorrà fare; del resto io mi rimetto nelle mani di Dio.
Attenda a guarir bene, signor curato».
«Sentite, sentite», continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta una riverenza di risoluto congedo, e camminava verso la casetta di Lucia.
- Oh povero me! questo vi mancava! - continuò a borbottare fra sè Don Abbondio, ritirandosi dalla finestra.
- Povero me! Se costui va a Milano, se trova Lucia, se tornano alle loro antiche pretese, ecco rinnovato l'imbroglio.
Un cardinale che dirà: «voglio che si faccia il matrimonio», un signore che dice: «non voglio»: ed io tra l'incudine e il martello.
Basta...
- disse poi soffiando dopo d'avere alquanto pensato -...
muore tanta gente...
che dovessero rimanere al mondo tutti quelli che si divertono a mettere le pulci nell'orecchio di me pover uomo!
Intanto Fermo arrivò alla casetta d'Agnese, la quale casetta, se il lettore se ne ricorda, era fuori del villaggio, solitaria.
Alla vista di quel luogo una nuova tempesta sorse nel cuore di Fermo; diede egli un gran sospiro, e bussò.
«Chi è là?» gridò da dentro la voce d'Agnese: «state lontano; non bazzicate intorno alla porta; verrò a parlarvi dalla finestra».
«Sono io», rispose Fermo; ma Agnese, non aspettando a basso la risposta aveva fatte in fretta le scale, e apriva la finestra.
«Son io; mi conoscete?» disse ancor Fermo, quando la vide.
«Oh Madonna santissima!» sclamò Agnese: «voi!» «Io», rispose Fermo; «sono il benvenuto?»
«Oh figliuolo!» sclamò di nuovo Agnese, «quanto vi avrei desiderato se non avessi avuto paura per voi! Ma ora che venite voi a fare?»
«A saper nuove di Lucia, e di voi», rispose Fermo.
«A vedere se tutti si sono scordati di me.
Che n'è di Lucia?»
«Figliuolo, sono mesi che non ne ho notizia: prima di quel tempo ella stava bene di salute; ma ora chi può sapere...?»
«Io andrò a vedere, io vi porterò nuova di vostra figlia», disse Fermo risolutamente.
«Voi?» disse Agnese: «ma e...
mi capite.
Basta...»
«Volete aprirmi e parleremo più liberamente?»
«E la peste, figliuolo?»
«Grazie al cielo ella non ha ammazzato me, ed io ho ammazzato lei, e son sano e salvo come mi vedete.
Aprite con sicurezza».
«Scendo ad aprire», rispose Agnese; «oh con quanta consolazione v'avrei riveduto.
Ma ora, bisogna ch'io vi preghi di starmi lontano».
«Come vorrete», rispose Fermo.
«State ad aspettarmi nel mezzo della strada; quando aprirò, non vi affacciate alla porta; lasciatemi rientrare, poi entrerete, e vi porrete in un angolo lontano da me, e ci parleremo; le parole non hanno bisogno di toccarsi.
Oh quante cose ho da dirvi!»
«Ed io a voi», rispose Fermo.
Agnese calò in fretta le scale, giunta alla porta, avvisò ancora Fermo che stesse discosto, aprì, rientrò fino in fondo alla stanza; Fermo entrò pure, prese un trespolo, lo portò in un angolo, vi si pose a sedere, guardando intorno, ricordandosi di tanti momenti passati in quel luogo, e sospirando; Agnese andò a richiuder la porta, e venne a sedersi nell'angolo opposto.
E subito cominciò come una sfida d'inchieste.
«Come vi siete fidato di venir da queste parti?»
«Perché Lucia non mi ha mai risposto?»
«Come avete potuto fuggire?»
«E perché non venire dove io era in sicuro, piuttosto che mandarmi denari?»
«Chi v'ha strascinato in quei garbugli?»
«Quanto tempo Lucia è stata in quello spavento? e come è andata propriamente la cosa?»
Fatte le prime interrogazioni più pressanti ognuno cominciò a rispondere brevemente a quelle del compagno.
Fermo finalmente pregò Agnese ch'ella raccontasse per disteso tutta la sua storia, promettendo di soddisfarla egli poi della propria.
Così Fermo conobbe per la prima volta daddovero le triste vicende di Lucia, e l'esito inaspettato.
Tremò, fremè, impallidì cento volte a quel racconto; ora diede dei pugni all'aria, ed ora giunse le mani in atto di ringraziamento; maledisse la Signora, benedisse il Cardinale, diede maledizioni e benedizioni al Conte del Sagrato, invocò ora la vendetta, ora il perdono del cielo sopra Don Rodrigo.
Ma un punto rimaneva tuttavia oscuro, né Agnese sapeva dilucidarlo.
Perché non è venuta con me? con me suo promesso? con me che doveva, che poteva divenir suo marito? che ostacolo v'era più? non sarebbero mancati che i denari; e il cielo gli aveva mandati.
Agnese non seppe dire, se non ciò ch'ella aveva pur pensato: che Lucia fosse rimasta tanto stordita e sgomentata da quegli orribili accidenti, che non le rimanesse più forza da voler nulla, e fosse disgustata d'ogni cosa.
«Oh! andrò io a saperlo da lei», disse Fermo, «voglio vederne l'acqua chiara.
Ella era mia; mi si era promessa; io non ho fatto niente per demeritarla; e se non mi vuol più...» e qui avrebbe pianto se gli uomini non si vergognassero di piangere, «se non mi vuol più; me lo ha a dire di sua propria bocca; e mi deve dire il perché».
Agnese cercò di racconsolarlo, e lo chiese della sua storia, che Fermo le narrò sinceramente.
Questa storia fece molto piacere ad Agnese, e le rimise Fermo nell'antico buon concetto.
«Voleva ben dire io!» sclamava ella di tratto in tratto.
«Se sapeste come la raccontavano qui, in cento maniere l'una peggio dell'altra.
Ma voi non me l'avete mai fatta scrivere ben chiara».
«E voi, madonna», disse Fermo, «non mi avete mai data soddisfazione sopra quello che io voleva sapere».
«Basta», disse Agnese, «lodato Dio che abbiam potuto parlarci una volta; valgon più quattro parole sincere di due ignoranti che tutti gli scarabocchj di questi sapienti.
Ma voi come vi fidate di andare a Milano, dove vi hanno tanto cercato, dove...?»
«Chi mi conoscerà?» rispose Fermo, «non m'hanno visto che un momento; e il nome...
ne piglierò un altro; non ci vuol gran lettera per questo; e poi chi volete che pensi a me ora? Hanno da pensare alla peste.
Sono tutti in confusione.
Muojono come le mosche, a quel che si dice...
Ah! pur che viva Lucia!»
«Dio lo voglia!» sclamò Agnese; «e lo vorrà, io spero.
Quella poveretta innocente ha tanto patito! Dio gli conterà tutto quel male, per salvarla ora.
Ah! Fermo, io ho buona speranza; andate pure; mi sento tutta riconfortata dell'avervi veduto.
Sento una voce che mi dice che i guaj sono alla fine; e che passeremo ancora insieme dei buoni momenti».
Fermo chiese del Padre Cristoforo, e Agnese non le seppe dir altro se non ch'egli era a Palermo che è un sito lontano, lontano, di là dal mare.
Scontento, e perché sperava da lui ajuto e consiglio, e perché desiderava di raccontare a lui pure la storia genuina; e perché avrebbe riveduto volentieri quell'uomo pel quale sentiva tanta venerazione e tanta riconoscenza.
Disse però: «brav'uomo! vero religioso! è meglio ch'egli sia fuori di questi guai e di questi pericoli».
Agnese offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni sanitarie però di lontananza, di cautela, di non toccar questo, di non avvicinarsi a quell'altro luogo.
Fermo accettò l'ospitalità ben volentieri e promise tutti i riguardi che Agnese desiderava.
Era venuta l'ora della cena; e la massaja si diede ad ammanirla.
Pose al fuoco la pentola per cucinarvi la polenta: Fermo, da giovane ben educato, voleva risparmiare la fatica alla donna, e fare egli il lavoro: ma Agnese, levando la mano: «guardatevi bene dal toccar nulla», disse; «lasciate fare a me».
Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò nell'acqua, la rimenava, dicendo: «Eh! altre volte era Lucia! basta il cuor mi dice che la mia poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in buona compagnia».
Fermo sospirava.
Agnese versò la polenta, raccomandando sempre a Fermo di non si muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la vacca, tornò con una brocca di latte, dicendo: «vedete: quella povera bestia da sei mesi è la mia unica compagnia».
Prese un bel pezzo di polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse a Fermo, stando più lontana che poteva, e stringendosi con l'altra mano la gonna d'intorno alla persona perché non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi allo stesso modo gli sporse una scodella di latte.
Nel tempo della cena si parlò dei disegni di Fermo, Agnese gli diede istruzioni sul nome dei padroni di Lucia, gli comunicò le notizie confuse ch'ella aveva sul luogo della loro dimora; e questi discorsi gli tennero a veglia qualche ora dopo la cena.
Finalmente Agnese indicò all'ospite la stanza, dov'egli doveva coricarsi: era quella di Lucia: Fermo amò meglio di andarsi a gettare sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione per la salute.
Prima dell'alba erano entrambi in piedi.
Agnese diede a Fermo due pani, e due raviggiuoli, fattura delle sue mani, gli riempì di vino il fiaschetto ch'egli aveva portato con sè, dicendo: «in questi tempi potreste morir di fame, prima di trovare chi vi desse da mangiare».
Il congedo fu quale ognuno può immaginarselo, pieno di tenerezza, di accoramento, e di speranza.
Fermo partì, viaggiò tutto quel giorno, e avrebbe potuto la sera entrare in Milano, ma pensò che avrebbe trovato più facilmente un ricovero al di fuori.
Ristette di fatti in una cascina deserta, a un miglio dalla città.
Dormì su le stoppie, e all'alba, levatosi, si avviò, e fece la sua seconda entrata in Milano, che gli comparve in un aspetto più tristo e più strano d'assai che non era stato la prima volta.
CAPITOLO VI
S'io avessi ad inventare una storia, e per descrivere l'aspetto d'una città in una occasione importante, mi fosse venuto a taglio una volta il partito di farvi arrivare, e girar per entro un personaggio, mi guarderei bene dal ripetere inettamente lo stesso partito per descrivere la stessa città in un'altra occasione: che sarebbe un meritarsi l'accusa di sterilità d'invenzione, una delle più terribili che abbian luogo nella repubblica delle lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la saviezza delle sue leggi.
Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una storia quale è accaduta: e gli avvenimenti reali non si astringono alle norme artificiali prescritte all'invenzione, procedono con tutt'altre loro regole, senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto.
Se fosse possibile assoggettarli all'andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse ancor più ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare.
Per questo incolto e materiale procedere dei fatti, è avvenuto che Fermo Spolino sia giunto due volte in Milano appunto in due epoche, diversamente singolari, e che l'una e l'altra volta abbia ricevuta dall'aspetto di quella città una impressione, che noi dobbiamo pur riferire, trattandosi d'uno dei nostri protagonisti.
Nè in questo solo ma anche fra i due soggiorni di Fermo in Milano, anche fra le due partenze v'è un principio singolare di somiglianza: cui ella spiacesse, se la pigli con le cose, che hanno voluto essere a quel modo.
Per una via deserta, fiancheggiata da campi imboschiti, giunto a piè delle mura, Fermo sostette pensoso, e preso da quella specie di spavento che si prova al trovare una vasta, ostinata solitudine in mezzo alle tracce dell'abitato: tese l'orecchio, girò gli occhi intorno: nessun indizio d'uomini, nessun segno di vita, nessun movimento; se non che d'in su la mura, ad intervalli, sorgevano colonne di fumo, che s'allargavano in globi scuri, bigi, folti, e quindi abbattute dal vento si curvavano, scendevano giù al di fuori, diradandosi e diffondendosi nell'aria, e si stendevano sul piano esteriore in nebbia lenta, crassa, fetente.
Erano i mucchj di vesti infette, di cenci, di letti, di spazzature d'ogni sorta che si facevano portare al bastione, e quivi abbruciare.
Tale era il fastidio che quella nebbia diffondeva nell'aria, che Fermo, benché avvezzo a sensazioni di quel genere si turò le nari, con ribrezzo; ma ben tosto ritirò la mano, pensando che all'entrare e all'avanzarsi nella città, non solo il lezzo, ma ogni sorta di fastidio l'avrebbe assalito da tutte le parti, e che bisognava risolversi ad affrontarlo, non pensare a ripararsene.
Fuori della porta era una capannuccia di legno, stazione delle guardie e d'un deputato che doveva guardare a chi entrava ed usciva, richiedere le bollette, escludere i sospetti.
Ma in quella comune disperazione ogni disciplina era dismessa; il deputato a quella porta era caduto di peste il giorno antecedente, le poche guardie stavano nella capanna, badando più a tener lontani i passeggieri dalle loro persone che ad esaminarli.
Dinanzi alla porta era un cancello, ma spalancato, e Fermo vi passò senza che alcuno lo chiedesse di nulla.
Procedendo per quel primo spazio della città tra i bastioni, e il canale chiamato naviglio, spazio occupato da orti (o se volete da ortali, che sarà più vicino al proprio vocabolo municipale, ortaglie) con entrovi sparso qualche convento, e qualche casipola, nulla vide Fermo per qualche tempo che desse indizio esser quello un luogo abitato da uomini.
Il primo indizio di persona viva gli venne, mentre egli passava tutto costernato per quella stradaccia che dal Ponte di Santa Teresa, correndo tra il naviglio, e alcune casuccie, va alla piazza di San Marco.
Un gemito che si sforzava d'essere una chiamata uscì d'una di quelle case; Fermo alzò gli occhj, e vide un tapino alla finestra che scuoteva una funicella alla quale era appeso un sacchetto che scendeva presso al pavimento della strada.
Fermo si fece vicino, e udì una voce fioca: «carità ai poveri sospetti».
Cavò egli una moneta, e la ripose nel sacchetto; ma colui invece di tirar la fune a sè, disse con un tuono misto di supplica e d'impazienza: «un po' di pane: ci hanno chiusi in casa come sospetti, e ci hanno dimenticati; e moriamo di fame».
Fermo aveva ancora uno dei pani di Agnese: lo cavò tosto, e lo legò alla fune.
Il rinchiuso, benedicendolo, la trasse in fretta, e Fermo lo vide afferrare quel pane, con ambe le mani, porselo a bocca, e addentarlo avidamente.
Dopo due passi udì un romore confuso che si avvicinava, e cominciò a distinguere un cigolar di ruote, un calpestio di cavalli, uno squillare di cento campanelli, un baccano di grida; guatò dinanzi a sè, ed ecco in capo alla strada dov'egli camminava spuntare due uomini a piede (eran chiamati apparitori) che con le mani alzate accennavano, e ad alta voce gridavano ai passeggeri di ritirarsi.
Dietro a questi vide comparire cavalli che allungando la cervice, e puntando le zampe, avanzavano a stento; e ad ogni passo le campanelle che essi avevano appese intorno alle teste e ai colli, mandavano un tintinnio acuto e assordante: e a fianco dei cavalli, vide monatti in lacere divise rosse, essi pure con le campanelle ai piedi, che a forza di punte e di flagelli e di bestemmie li forzavano a camminare, a proseguire la corsa ritardata dal peso crescente dei cadaveri che raccolti sul passaggio erano gettati sui carri.
I cadaveri v'erano ammonticati, e intrecciati insieme, quasi come un gruppo di serpi che lentamente si svolga al tepore della primavera: nudi la più parte, o male avviluppati in lenzuola cenciose.
Dopo un carro che attraversò la via, ne venne un altro, e poi un altro: dieci ne contò Fermo.
Di tratto in tratto, si vedevano i cadaveri, ad una forte scossa, tremolare sconciamente, e scompaginarsi; le gambe, le braccia, le teste con le chiome arrovesciate si svincolavano dal mucchio, e spenzolavano dal letto del carro, talvolta involte nelle ruote traevano seco i cadaveri sotto di quelle, come per mostrare che quello spettacolo poteva divenire ancor più disonesto e più miserando.
Fermo ristette alquanto, fin che il convoglio fosse passato; e ripresa da poi la via, e giunto in capo a quella su la piazza di San Marco, presso il ponte che ne piglia il nome, vide di nuovo per di dietro quel sozzo corteggio, che per la via del pontaccio, si avviava alla fossa scavata fuori della porta comasina.
Ma un altro spettacolo, su quella piazza, attirò i suoi sguardi, e gli diede a pensare: erano due travi alzate e infisse nel suolo, e una corda passava dall'uno all'altro capo fra due carrucole.
Fermo riconobbe (ella era cosa famigliare a quel tempo) l'abbominevole stromento della tortura; ma non sapeva perché fosse collocato in quel luogo.
La sua maraviglia crebbe da poi quando ne incontrò uno per ogni piazza, in ogni via spaziosa.
V'erano posti, affinché i deputati delle porte e delle parrocchie, muniti a questo d'ogni facoltà più arbitraria, potessero, immediatamente farvi tormentare chi loro paresse, o sequestrati che uscissero, o ministri disubbidienti, o violenti di qualunque sorta.
Era uno di quei rimedii immoderati e inefficaci di cui principalmente in quel tempo si faceva scialacquo: era un dispotismo che non toglieva l'anarchia.
Dopo avere inutilmente guardato su quella piazza, se potesse scorgere alcuno a cui chiedere conto della via dove abitavano i padroni di Lucia, il nostro pellegrino si volse a mano manca, e costeggiando il convento di San Marco, giunse al Ponte al quale Ludovico il Moro diede il nome di Beatrice sua moglie; e per quello entrò nella città propriamente detta.
Quale città! Non istropiccìo di passeggeri, non romore di carrozze, non grida di venditori, né stridore di officine, ma in quella vece gemiti, lamenti, urli che uscivano dalle case, strepito di carri funebri, bestemmie, minacce, o quel che dava un suono ancor più atroce, il baccano festoso, e la ilarità infernale dei monatti.
Lo spazzo sparso e talvolta ingombro di mobili, di coltrici, di vesti, di strame appestato, di cenci, di fasce saniose e sanguinate; e a quando a quando di cadaveri abbandonati! Radi per le vie si vedevano camminare i cittadini che qualche necessità faceva uscire di casa: una parte era fuggita; un'altra parte, al numero circa di quattordici mila, abitava, o moriva nel lazzeretto; un'altra languiva nelle case; e forse cento venti mila erano i morti a quell'ora; prima della peste la popolazione della città era stimata dugento mila persone; numero al quale non risalì mai più dopo quel disastro.
Andavano quei pochi, scompagnati, in silenzio, con la faccia lurida, coi capegli lunghi ed incolti, con le barbe arruffate, perché da quando nella casa dell'infelice barbiere Giangiacomo Mora s'era creduto scoprire la fucina principale delle unzioni, ognuno fuggiva i barbieri divenuti tutti sospetti.
Andavano quei viandanti succinti in farsetto, deposte le cappe, le toghe, le cocolle, ogni ampio vestimento che svolazzando, potesse moltiplicare coi casi di contatto, i rischj della contagione.
Ognuno cercava di tenere il mezzo della via; si aveva orrore delle pareti che potevano esser unte; si temeva che dalle finestre si gettassero sui passeggeri polveri venefiche; e troppo spesso realmente si gettavano i letti, le vesti, le suppellettili dei morti di contagio; talvolta, orribil cosa! i morti stessi; talvolta gli infermi trasportati dalla frenesia del morbo, o spinti dalla disperazione, si gettavano da sè.
Nessuno che parlasse, nessuno che stesse a musare: non v'era creatura ferma fuor che i cadaveri.
Il solo vivente che il nostro pellegrino vedesse immoto nella via presso al muro, fu un uomo che sedeva a canto ad una porta in atto di chi assorto in qualche cura non badi a ciò che accade intorno a lui.
Era un prete che posato sur un trespolo, udiva, dalla porta socchiusa la confessione d'un appestato.
I viandanti portavano per lo più in mano certe palle crivellate di piccioli fori con entro spugne intinte di aceti medicati, di spiriti, e ad ogni momento le fiutavano; e si aveva gran fiducia in quei preservativi: tenevano nell'altra mano un bastone, non tanto per appoggiarsi, come per rimuovere chi avesse troppo voluto accostarsi; alcuni perfino tenevano invece del bastone, una pistola, accennando ai sopravvegnenti che dessero luogo; con quello stromento atto ad ottenere una più certa e più pronta obbedienza.
Se due amici s'incontravano a caso, il saluto era uno stringersi nelle spalle, un alzar delle mani, un sospiro, una occhiata quasi di maraviglia, che voleva dire: - voi siete ancor vivo! - ogni altra più intima accoglienza era dismessa, e in due mesi non accadde forse mai che due mani si stringessero ad espressione di amicizia.
I medici, i chirurghi si distinguevano per un capuccio che portavano come da disciplinati, per calarlo sul volto quando s'appressassero ad un infermo, avevano guanti alle mani per preservarle nel toccare dei polsi, nel medicare; e sospeso a cintola un fiaschetto d'aceto per lavarsi ad ogni visita, e per lavare i danari che erano loro dati in mercede, e che molti con crudele avarizia imponevano esorbitante, non volendo toccare un polso a meno d'uno zecchino.
Su quelle poche facce che si vedevano in volta era per lo più scolpito, compenetrato, e come divenuto fisonomia, l'accoramento, lo stupore, la sfidanza; le forme irrigidite, e come stagnanti in una trista quiete; e gli sguardi non avevano vita che dal terrore e dal sospetto.
Pochissimi però fra quei pochi andavano con passo più alacre, e mostravano una fronte men costernata: erano i guariti dalla peste; altri che portavano al collo o amuleti dai quali speravano d'esser preservati, o una boccetta di vetro con entro argento vivo, persuasi che questo metallo avesse la virtù di assorbire ogni influsso maligno; altri che prima d'uscire avevan mangiata una noce, due fichi secchi, e un po' di ruta, che da essi era riputato efficacissimo preservativo.
E pur troppo tutti questi rimedii producevano un effetto; ma era di crescere la mortalità, rendendo men guardinghi in tutto il resto coloro che avevan fede nell'uno o nell'altro di essi.
Fermo, benché ansioso di giungere al luogo dov'era, dov'egli sperava ancor tremando che fosse colei per cui sola aveva intrapreso quel viaggio, desideroso anche di abbreviare il più che fosse possibile un così tristo cammino, non aveva mai però scorto un volto che gli facesse animo ad interrogare.
Finalmente essendo capitato in uno di costoro, si risolse di rivolgersi a lui, e fece atto di accostarglisi.
Ma costui, che a malgrado del preservativo, era però dei cauti, levò il suo bastone che terminava in uno spiedo, e appuntandolo in dirittura alla pancia di Fermo, disse con voce risoluta: «lontano!» Fermo non si mosse; ma a quella distanza pregò il cittadino che volesse udire una parola, soltanto una parola; e gli chiese dove fosse la tal via, la tal casa.
Non era molto lungi di là; e il cittadino diede brevemente a Fermo l'indirizzo ch'egli desiderava; ma quando questi, dopo averlo ringraziato, si mosse per andare innanzi, l'uomo cauto ripetè: «lontano»; girò il bastone descrivendo intorno a sè un quarto di cerchio a mezz'aria, e segnando così a Fermo la giravolta che doveva fare per non passargli troppo vicino.
Fermo proseguì il suo cammino con un'ansia e con una sospensione d'animo cresciuta dal saper vicino il termine dov'egli sarebbe uscito d'un terribil forse.
Ma per quanto la sua mente tendesse a ricadere in quel pensiero, ne era pure ad ogni momento stirata via dagli oggetti fra i quali egli doveva scorrere.
Dove che i suoi sguardi cadessero non incontravano che dolore e ribrezzo.
Le porte o chiuse per guardia, o spalancate per desolazione; molte segnate d'una croce rozzamente tirata col carbone: quei segni eran posti dai commissarii della Sanità, per indicare ai monatti che vi eran morti da prendere.
Dove lo sgombro era già fatto, le croci si vedevano cancellate; e mettevano ancor più ribrezzo le tracce del segno di salute e di morte, guaste e confuse con le tracce delle palme impure dei monatti, o dei sozzi arredi che egli avevano adoperato a quell'uso.
Qualcheduno pur si mostrava alle finestre, qualche voce si udiva; erano guai di languenti, o urla di frenetici; erano chiamate e suppliche ai monatti, perché venissero a togliere qualche cadavere.
Nei principii della peste, il terrore di vedersi in casa quegli uomini senza legge, aveva fatto che molti nascondessero i cadaveri, gli seppellissero negli orti, nelle cantine, dove, come che fosse; ma poi crescendo il funesto da farsi, e il fastidio vincendo il terrore, si desideravano i monatti per liberarsi da uno spettacolo intollerabile, da una infezione talvolta invecchiata.
E quegli scellerati che da prima usavano introdursi a forza dove non erano richiesti, ora negavano talvolta di entrare pregati, se alle preghiere non si aggiungeva la ricompensa.
Posto il piede nelle case, vi si portavano non da padroni, da guastatori: ma era venuto il tempo che delle ribalderie e delle nefandità loro, già temute più della peste, non si faceva più caso: la disperazione aveva ottuso nei più ogni altro sentimento.
Pure, dinanzi a qualche casa, dove la sciagura non aveva estinto affatto ogni coraggio, né confusi tutti i pensieri, stavano distesi cadaveri, deposti ivi ad aspettare il passaggio del carro funebre; e alcuni pur piamente composti, ravvolti in qualche lenzuolo e celati al ribrezzo dei passeggieri.
E tali depositi, che, in tempi ordinarii, farebbero altrui torcere il guardo, erano allora quasi un conforto pel guardo, troppo offeso dallo spettacolo di altri corpi, che pure avevano ricettata un'anima immortale, e giacevano gettati brutalmente dalle finestre, travolti dalle cadute, o caduti dai carri, mostrando tutte le più diverse e dolorose immagini della morte, salvo l'immagine del riposo.
Aveva Fermo già scorse due vie, e passata la metà del viaggio, quando presso alla rivolta d'un canto, udì un frastuono, e vide due o tre che camminavano dinanzi a lui, dare addietro l'un dopo l'altro, e riprendere la strada donde erano usciti.
Giunto al canto, guardò che fosse la cagione di questi lor pentimenti, e vide nel mezzo di quella via quattro carri fermati; e come in un mercato di grani si vede un andare e venire di gente dai mucchj ai carri, un caricare, un rovesciare di sacca; così era la pressa in quel luogo; monatti che entravano nelle case, monatti che uscivano recandosi un carico su le spalle; e lo ponevano su l'uno o su l'altro carro: talvolta ripigliavano il peso già deposto, sul carro degli infermi, e lo gettavano su quello dei morti; era uno che preso semivivo su le loro spalle, aveva esalato l'ultimo respiro su quel letto abbominato.
Alle finestre, o presso ai carri si vedeva qualche congiunto pio e animoso piangere i suoi morti che partivano, o dare un tristo addio agli infermi.
Il resto della via era sgombro, e muto; se non che da qualche finestra partiva di tratto in tratto una voce sinistra: «qua monatti»: e con suono ancor più sinistro da quel lurido e affaccendato bulicame si sentiva venire per l'aria morta un'aspra voce di risposta: «adesso».
Fermo a quello spettacolo, stette in forse se dovesse egli pure tornare indietro; ma egli era presso al termine della via, d'una via che a stento aveva potuto farsi indicare; se l'abbandonava, chi sa quando avrebbe trovato chi volesse rimetterlo su quella, e chi sa quali inciampi dello stesso genere avrebbe trovati anche in tutt'altra: con questi pensieri e con animo già agguerrito a tali viste, egli proseguì.
Giunto a paro del convoglio, accelerava il passo, e cercava di non guardar quegli orrori se non quanto era necessario per cansarli; ma il suo sguardo vagabondo si abbattè in un oggetto dal quale usciva una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo; e quasi senza avvedersene egli rallentò il passo.
Sur una di quelle soglie stavasi ritta una donna il cui aspetto annunziava una giovinezza matura ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata ed offuscata da un lungo patire, ma non iscomposta; quella bellezza molle e delicata ad un tempo, e grandiosa, e, per così dire, solenne, che brilla nel sangue lombardo.
I suoi occhi non davano lagrime, ma portavan segno di averne tante versate; come in un giardino antico e trasandato, una fonte di bianchissimi marmi che inaridita, tien tuttavia i vestigi degli antichi zampilli.
V'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che raffigurava al di fuori un'anima tutta consapevole, e presente a sentirlo, e quel solo aspetto sarebbe bastato a rivolgere a sè gli sguardi anche fra tanta miseria; ma non era il solo aspetto della donna che ispirasse una sì rara pietà.
Tenevasi ella in braccio una fanciulletta di forse nove anni, morta, ma composta, acconcia, con le chiome divise e rassettate in su la fronte, ravvolta in una veste bianca, mondissima, come se quelle mani l'avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e concessa poi come un premio.
Nè era tenuta a giacere in abbandono, ma sorretta fra le braccia, col petto appoggiato a petto, come se vivesse; se non che il capo posava su le spalle della madre con un abbandono più forte del sonno: della madre, perché se anche la somiglianza di quei volti non ne avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente l'affetto che si dipingeva su quello che era ancora animato.
Fermo ristette senza quasi avvedersene con gli occhi fissi in quello spettacolo.
Ed ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista di prendere dalle sue braccia quel peso; ma pure con una specie d'insolito rispetto, con una esitazione involontaria.
Ma la donna, ritraendosi alquanto, in atto però che non mostrava né sdegno né dispregio: «no», disse, «non la mi toccate per ora; io, deggio comporla su quel carro: prendete».
E così dicendo, aperse una mano, mostrò una borsa, e la lasciò cadere nella mano che il monatto le tese.
Poscia continuò: «promettetemi di non torle un filo dattorno, né di lasciar che altri s'attenti di farlo, e di porla sotterra così.
L'avrei ben posta io; ma ella deve riposarsi nel luogo santo; né io posso portarvela, v'è lassù chi mi aspetta».
Mentre la donna parlava il monatto, divenuto ubbidiente forse più per una nuova riverenza, che pel guadagno, aveva fatto sul carro un po' di luogo al picciolo cadavere.
La donna diede un ultimo bacio alla figlia, la collocò ivi come sur un letto, ve la compose; e rivolta al monatto disse: «ricordatevi: Dio vedrà se mi tenete la promessa; e ripassando di qua sta sera, salite a prender me pure, e non me sola».
Così detto rientrò in casa, e un momento dopo comparve alla finestra, con un'altra più tenera fanciulla nelle braccia viva, ma coi segni della morte in volto.
Stette a contemplare la figlia giacente sul carro, fin che il carro si mosse, finché rimase in vista; e allora ritiratasi depose sul letto quell'altra cara innocente, e vi si sdrajò poi al suo fianco a morire insieme; come la pianta s'inchina col fiore appena sbucciato, al radere della falce che, dove passa, agguaglia tutte l'erbe del prato.
Fermo si mosse pur egli, più altamente compunto che non fosse mai stato in tutto quel viaggio, e per la prima volta, molle di lagrime.
«O Signore!» diss'egli, «esauditela! pigliatela con voi, sarà una ventura per quella travagliata l'uscire di tanti guai...
Una ventura! E Lucia!» Con questa parola in sul cuore egli s'affrettò su quella via, alla quale, se il cittadino lo aveva bene indirizzato, metteva capo quell'altra a cui egli agognava e tremava di arrivare.
Ed ecco, da quella parte appunto venire un frastuono sordo, poi più risuonante, ma confuso, un suono diverso di voci alte, brevi, e imperiose, di fiochi lamenti, di guai lunghi, di singhiozzi femminili, di garriti fanciulleschi.
A quel suono, al pensiero del luogo donde partiva, Fermo si sentì colpito d'una tristezza più nera che mai, d'una tristezza sospettosa, atterrita, tanto che non potè tenersi, e quasi smarrito andò a corsa verso il crocicchio che faceva la via nella quale egli si trovava con quella a cui era avviato.
Quando fu presso, vide nella via a mano diritta, per quella appunto ov'egli doveva entrare, una torma di gente guidata o cacciata al lazzeretto da un commissario, e da molti monatti.
A misura che quella trista processione passava dinnanzi a Fermo, il suo occhio inquieto, quasi appannato, correva e ricorreva per la moltitudine, trasceglieva e spiava con terrore ogni volto femminile, si spingeva verso quelli che arrivavano, tornava a quegli che erano passati...
Lucia non v'era.
Fermo su le prime respirò come uscito d'un grande spavento; ma tosto ricadde nella sua ambascia, pensando che egli andava non a veder forse, ma ad udire di peggio.
Erano languidi che si strascinavano a stento, alcuni sostenuti dalle braccia di figli, di padri, di fratelli, di mogli, che per pietà o per disperazione sprezzavano il pericolo del contatto; alcuni spinti a forza, resistenti in vano, gridanti in vano che volevano morire sul loro letto, e rispondendo bestemmie impotenti alle bestemmie imperiose dei conduttori; altri che, appoggiati ad un bastone, andavano in silenzio dove erano comandati, senza dolore, senza speranza, insensati; donne coi pargoli in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quei comandi, da quello spettacolo più che dal pensiero oscuro della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre, e le sue braccia fidate, e di restare nel noto soggiorno.
Ahi! e forse la madre, che essi credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, vi s'era gittata oppressa tutt'ad un tratto dal morbo, priva di senso, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro giungeva più tardi.
Talvolta, oh sciagura degna di lagrime ancor più amare! la madre tutta occupata dei suoi patimenti, si stava dimentica d'ogni cosa, anche dei figli, e non aveva più che un amore: di morire in riposo.
Pure in tanta confusione si vedeva ancora qualche esempio di costanza; e di pietà: parenti, fratelli, figli, consorti che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto; né adulti soltanto, ma garzoncelli, ma giovinette appena adolescenti che facevano scorta a fratellini più teneri; e con senno e con misericordia virile li confortavano ad essere obbedienti, promettevano di accompagnarli in luogo ove si terrebbe conto di loro per farli guarire.
Quando Fermo vide la processione quasi tutta passata, e sgombra la sua via, si volse ad uno dei monatti che chiudeva il corteggio, e gli chiese conto della casa di Don Ferrante.
Il monatto non rispose se non: «va in malora, tanghero».
Fermo aveva tutt'altro in testa che di risentirsi, e non replicò: guardò al commissario, gli parve un volto più cristiano; fece a lui la stessa inchiesta; e il commissario, accennando con un bastone la via dalla quale egli veniva disse: «l'ultima casa nobile, a destra»; e passò.
Quelle parole per sè indifferenti, e che non esprimevano se non la nuda notizia che Fermo aveva desiderata, lo colpirono però, come se fossero una sentenza ambigua e temuta.
Egli impallidì dopo d'averle intese, e tremò d'esser giunto al termine che aveva tanto bramato, pel quale aveva intrapreso quel viaggio doloroso, e sostenuto di passare per tanta gramezza.
S'avanzò per quella via a passo interrotto, giunse dinanzi alla casa, la distinse tosto fra le case vicine più umili, e più disadatte, si appressò alla porta che era chiusa, pose la mano al martello, ve la tenne sospesa, come avrebbe fatto se la tenesse in un'urna, prima di cavarne la polizza dove fosse scritta la sua vita, o la sua morte.
Finalmente alzò il martello, e bussò.
Si apre una finestra, e vi compare una donna: era la signora Ghita, che guardò con sospetto se fossero monatti, malandrini, qualche cosa di tristo, di quello che girava in quel tempo: vide quello sconosciuto, e prima ancora d'intendere che egli volesse, disse, o rispose: «Qui non c'è niente».
«Signora», disse Fermo con voce tremante, «sta qui una forese, che si chiama Lucia Mondella?»
«Non c'è più; andate», rispose la Signora Ghita.
«Non c'è più!» gridò Fermo, spaventato da quella ambigua risposta.
«Dov'è ella? per amor del cielo».
«Al lazzeretto grande».
«Con la peste!»
«Con la peste: che maraviglia? andate».
«Da quando v'è ella? e come si può trovarla? Oh Dio! era ella molto aggravata?»
«Non è tempo da rispondere a tante cose», disse col suo tuono agro la signora Ghita.
«V'ho detto anche troppo pel tempo che corre.
Vi replico, andate».
E così dicendo, fece vista di chiudere la finestra.
«No, no», disse Fermo: «che carità è questa? voglio saper nuove di questa creatura; non parto di qui se prima...» Ma mentre egli parlava, la finestra era stata chiusa.
«Quella signora! una parola, una parola!» gridò Fermo, ma non ebbe risposta.
Costernato da un tale annunzio di sventura, smanioso del non aver potuto né pur conoscere quanta ella fosse, incerto qual fosse il più pronto mezzo per trovar conto di Lucia, se insister quivi con preghiere o con minacce, o andare a dirittura al lazzeretto, Fermo stava appoggiato alla porta, tenendo la mano sul martello, talvolta lo alzava, per picchiare alla disperata, poi pentito, lo riteneva, lo stringeva nella mano come se volesse storcerlo, come per isfogare la sua passione.
In questa agitazione, egli per quell'istinto che in qualunque angustia muove l'uomo a cercar soccorso all'uomo, si rivolse alla strada, per vedere se mai gli cadesse sott'occhio qualche vicino, a cui chiedere informazione, indirizzo, consiglio.
Ma quel che vide fu una vecchia, dietro a lui forse a venti passi, la quale con un volto che esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, sbarrando la bocca come se volesse gridare, ma tenendo anche il respiro, sollevando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinze e adunche, come s'ella traesse a sè qualche cosa, accennava manifestamente di voler chiamar gente in modo che un qualcheduno non ne fosse avvertito.
Alla guardatura della vecchia, Fermo s'accorse tosto ch'egli era quel tale; e più stupito che atterrito dal vedersi oggetto di tante passioni, voleva gridare: «che diamine...», quando la vecchia, vedendo ch'egli s'era accorto di lei, e disperando di poterlo sorprendere, lasciò uscire il grido che aveva compresso fin allora: «Ajuto! Ajuto! L'untore! L'untore! dalli! dalli!»
«Taci, bugiarda strega», sclamò Fermo alla vecchia, e le si mosse incontro per farle paura e metterla in fuga.
Ma nello scostarsi dalla porta vide che la fuga diveniva necessaria per lui: lo strillo della vecchia era stato inteso, e dalla parte verso la quale ella lo aveva mandato, usciva gente, e guardava dove fosse l'untore, gente, che forse a qual fosse più pietoso chiamar di soccorso non sarebbe uscita dalle tane dove si stava rimpiattata per paura; ma per graffiare e per prendere un untore era pronta; tanto era il furore contra quegli che si credevano la cagione primaria di tanti mali.
Nello stesso istante s'aperse di nuovo la finestra, e di quivi la signora Ghita gridava a testa: «cacciate quel garritore, che dev'essere un di quei ghiotti, che vanno facendo le poltronerie alle porte e alle muraglie».
Alcuni cominciavano già a correre verso Fermo, urlando: «piglia, piglia, dalli, dalli».
Fermo vide la mala parata; per buona sorte il lato della strada dove stava la vecchia, era quasi sgombro d'altra gente: uno che era accorso per di là volle gittarglisi addosso, ma egli lo stramazzò a terra d'un urto; e a gambe.
Allora la folla vie più ad inseguirlo.
E non era ancora giunto al capo della via che già sentiva quelle grida amare risuonar più forti all'orecchio, sentiva appressarsi il calpestio dei più leggieri ad inseguirlo.
In quell'estremo, egli che sapeva, come ognuno lo sapeva, qual fosse la sorte di chi cadeva nelle mani del popolo o dei giudici col nome di untore, risolse di non lasciarsi pigliare alle spalle da quei furibondi, ma di rivolgersi, di mostrar loro il viso, e di difendere disperatamente la sua vita.
CAPITOLO VII
Così disposto, volse indietro, ma senza però ristarsi ancora dal correre, il volto più torvo e più cagnesco che avesse ancor fatto in vita sua per guatare quali, quanti, a che distanza fossero quei suoi persecutori; ma con maraviglia, e con un sentimento confuso di gioja gli vide tutto ad un tratto restar sui due piedi, in grande esitazione e su quelle figuracce alle brutte contrazioni del furore succedere le brutte contrazioni della paura.
E tosto più presente a se stesso, scerse dinanzi a sè e non lontano, un apparitore, e dietro lui un carro coperto di cadaveri, intese i campanelli, lo scalpito, le ruote, le canzonacce dei monatti, tutto quello strepito che un momento prima percoteva le sue orecchie senza saputa della mente.
Il terrore degli inseguenti per quella comparsa, fece tosto pensare a Fermo che per lui ella era salute: sentì egli che non era momento da far lo schifo: affrettò la corsa verso il carro, tolse la mira ad un picciolo spazio sgombro che vide in quello; spiccò un salto; ed eccovelo ritto, piantato sul destro piede, col sinistro in aria, e con le braccia alzate tuttavia dal lancio di tutta la persona.
«Bravo! bravo!» sclamarono ad una voce i monatti, altri che seguivano il convoglio a piedi, altri, seduti sui carri, altri, per dire la orribile cosa come ella era, seduti sui cadaveri trincando d'un gran fiascone che andava in giro.
«Bravo! bel colpo!»
Gl'insecutori all'avanzare del carro avevano per la più parte volte le spalle, e fuggivano, gridando pure «dalli! all'untore!» se mai qualcheduno più coraggioso di essi, volesse venire a compiere la buona opera; e a quei gridi rispondevano dalle finestre uomini e donne accorse al romore: «dalli! all'untore!» Alcuni però dei primi tentennavano, quasi non potessero rassegnarsi a vedere la fiera uscir salva dalla loro caccia, e digrignavano i denti, facevan gesti di minaccia a Fermo che gli guardava immobile dal carro.
«Lascia fare a me» gli disse un monatto; e strappato di dosso a un cadavere un laido cencio, lo rannodò in fretta, e presolo per un dei capi lo alzò verso quei feroci, come una fionda, fece atto di gittarlo, gridando: «aspetta canaglia».
A quell'atto tutti dieder di volta inorriditi, e Fermo non vide più che schiene di nimici, e calcagna che ballavano rapidamente per aria.
Fra i monatti si sollevò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un «uh!» prolungato, come per accompagnare quella fuga.
«Ah ah! vedi tu se noi sappiamo proteggere i galantuomini», disse a Fermo quel monatto: «val più uno di noi che cento di quei poltroni».
«Certo io vi debbo la vita», disse Fermo: «e vi ringrazio di tutto cuore».
«Niente, niente», disse un altro di quei demonii: «te lo meriti, si vede che sei un bravo giovane.
Fai bene d'ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro che non son buoni a qualche cosa che morti, o birboni; che hanno bisogno di noi, e ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la moria, ci vogliono fare impiccar tutti.
Hanno a finire prima essi che la moria; e rimarremo noi soli a gavazzare in Milano».
«Viva la moria, e muoja la marmaglia», sclamò un altro, e con questo bel brindisi, si pose il fiasco a bocca, e tenendolo con ambe le mani fra i trabalzi del carro, ne tracannò un lungo sorso, indi porse il fiasco a Fermo, dicendogli: «bevi alla nostra salute».
«Ve l'auguro di buon cuore», disse Fermo; «ma non ho sete; non potrei bere in questo momento».
«Tu hai avuto una bella paura, a quel che pare», disse quel monatto: «m'hai cera d'un pover'uomo; altri visi voglion essere a far l'untore».
«Ognuno s'ingegna come può» disse un altro.
«Dammi quel fiasco», insorse un terzo; «voglio vuotarlo io, che l'ho conquistato nella cantina di quel vecchio avaro lì...» e così dicendo prese il fiasco dalle mani di quell'altro; e prima di bere, si volse a Fermo, gli affissò gli occhi in faccia con un'aria di pietà sprezzante, e gli disse: «Convien credere che il diavolo col quale tu hai fatto il patto, sia ben giovane, ben dappoco, poiché se non eravamo noi a salvarti, egli ti dava un bell'ajuto».
E ridendo del suo bel tratto, levò il fiasco, e se lo appiccò alle labbra.
Lo vuotò, e poscia tenendolo con la destra pel collo, lo mosse rapidamente in giro al di sopra del capo, quindi lo gittò lontano a fracassarsi su le pietre del pavimento, gridando: «viva la moria».
Quindi intonò di nuovo la canzone che l'accidente di Fermo aveva interrotta; e tosto a quella voce si accompagnarono tutte le altre di quel turpe coro.
La musica infernale mista al tintinnio dei campanelli, e allo strepito del carro rimbombava orrendamente pel vôto silenzioso delle vie, e stringeva amaramente il cuore dei pochi rinchiusi nelle case dinanzi alle quali il carro trascorreva.
Fermo vi stava ritto tuttavia ansante per la corsa, e per la tema avuta, agitato di dentro in una successione fluttuante di passioni e di pensieri.
Da prima provò un vivo ristoro del vedersi in salvo, quindi dabbene come egli era, ringraziò Dio che lo avesse scampato da un tanto pericolo; ma non lasciò per questo di sentire un gran rancore per quei bestiali suoi persecutori; qualche momento dopo cominciò a parergli ben fastidiosa la compagnia di quei morti da cui era circondato, e di quei vivi pei quali sentiva ad un punto riconoscenza, e orrore.
Pensò da poi che, se ben salvo, era pure ancor bene impacciato, pensò al modo di uscire dal fastidio senza incappare di nuovo nel pericolo e di trovare il lazzeretto, dal quale egli era lontano forse chi sa quanto; e forse se ne andava sempre più allontanando.
Domandarne a quei suoi ricettatori, il cuore non glielo diceva; sarebbe stato un esporsi a mille inchieste, attirarsi Dio sa quali parole, impegnarsi in un colloquio né aggradevole, né troppo sano.
Fermo era già anche troppo imbarazzato in quella poca conversazione, che aveva dovuto fare con essi; vedeva che quegli che lo avevano salvato erano sul conto suo nello stesso inganno di quelli che lo volevano morto; non si curava di sgannare coloro, e nello stesso tempo sentiva troppa ripugnanza a dir cosa che gli confermasse nel loro errore.
Cercava quindi di lasciar cadere i discorsi, senza però mostrare né ripugnanza, né sospetto, né fare atto che gli alienasse l'animo di quegli che alla fine erano i suoi protettori in quel momento.
Chi poteva sapere a che filo tenesse quel loro favore e la loro condiscendenza; forse alla sola idea che Fermo fosse un propagatore della peste; il favore degli uomini benevoli è talvolta così fragile, così permaloso, la buona gente si stanca talvolta per sì poca cosa di proteggere un disgraziato; pensate poi una feccia di ribaldi come quelli.
Per tutte queste ragioni Fermo fu molto contento quando vide che essi non lo stimavano degno della loro attenzione; e fu grato alle sue orecchie (che cosa non può divenir grata in questo mondo!) quel canto, che lo toglieva dall'intrigo di quella conversazione.
Intanto il carro s'era già allontanato abbastanza, perché Fermo non temesse più di esser raggiunto dai suoi nemici; i quali del resto s'eran dispersi; non restava che il pericolo di abbattersi in uno di quelli che lo riconoscesse, e gli aizzasse di nuovo la gente addosso; pericolo lontano, ma che poteva crescere in proporzione della strada che Fermo avrebbe ancora a percorrere.
In questa tempesta di pensieri egli girava attorno uno sguardo sospettoso e irresoluto, quando gli parve di riconoscere il luogo per dove passava, richiamò le sue memorie, guardò più fisamente...
- questa via non mi è nuova, di qua son passato certamente -.
Fermo non s'ingannava: il carro diretto alla gran fossa scavata dietro il lazzeretto e denominata il Foppone di san Gregorio, scorreva nella via chiamata allora il borgo ed ora il corso di porta orientale, per cui Fermo era entrato con molta maraviglia, ed uscito con molta paura un anno e mezzo prima.
Ad ogni passo, nuovi oggetti altra volta veduti, rendevano più vivo e più chiaro il riconoscimento di Fermo; ma dove ebbe la perfezione fu al passare dinanzi alla piazza, al convento dei capuccini.
Allora riconobbe la porta orientale; si risovvenne che al di fuori di quella era il lazzeretto; e per quanto pieno di dolore, di difficoltà, e d'angosce fosse l'affare che lo strascinava in quel luogo, pure il povero giovane si sentì tutto rincorato nel pensiero d'esservi giunto senza studio, sicuramente, in carrozza, quale ella si fosse; questo gli parve un buon principio, e un buon augurio.
Oltrepassato il convento, Fermo pensò che sarebbe meglio spacciarsi da quella compagnia e uscir dalla porta a piede.
Vide che i monatti invasati nel loro canto non badavano a lui, fece un cenno di saluto e di ringraziamento ad uno che gli era più vicino, e balzò dal carro in sul pavimento.
Quel monatto lo accompagnò con un saluto schernevole della mano e del volto, dicendogli: «va, va, povero untorello: tu non sarai quello che spianti Milano».
Per buona sorte non v'era anima vivente nella via che potesse udire quelle parole.
Fermo s'indugiò, tirando presso al muro, tanto che il carro si allontanasse; e a passo lento giunse presso alla porta; vide spuntare l'angolo di quel recinto, dove erano addensati più guai che non ne fossero sparsi nella dolorosa città ch'egli aveva percorsa: passò il cancello, e gli si spiegò dinanzi la scena esteriore del lazzeretto; il principio appena, e come la mostra dei guai, e già una vasta, diversa, inenarrabile scena.
A noi, come certamente al lettore, incresce ormai un così lungo avvolgerci tra tanto dolore, e tanto fastidio: quindi ci guarderemo dal tentare anche di descrivere a parte a parte quella scena: bastino alcuni tratti generali a dare un'idea comunque dello spettacolo che s'offerse agli sguardi di Fermo.
Fin dove il suo occhio poteva giungere nello spazio che circonda al di fuori il lato meridionale e l'orientale del lazzeretto, quello spazio era sparso di languenti, a cui non erano bastate le forze per giungere fino al lazzeretto, di morti che ivi giacevano, era percorso da gente che entrava, da infermi che ne uscivano, e che erravano sbandati, la più parte fuori di sè, quale imperversato, quale istupidito.
Altri pareva tutto infervorato a raccontare le sue sciaurate fantasie al tapino che giaceva oppresso dal male, o ad un altro infelice, preoccupato da altre fantasie; un altro si mostrava assorto e tranquillo in un immaginato contento; e quella apparenza di gioja e di serenità in mezzo a tanta miseria, pure ne accresceva l'orrore; tanto è terribile all'uomo il vedere in altri oscurato quel lume divino che lo fa esser uomo.
Altri per un trasporto che fu notato in altre pestilenze, vogliosi d'immergersi nell'acque, si gettavano nel fossato che gira attorno al lazzeretto; e vi morivano affogati, o vi rimanevano disensati; taluno canticchiando, le ore, i giorni interi.
Tra quella confusione giravano monatti a prendere i morti, a contenere, a rispingere, a guidare nel lazzeretto i miseri così vivi, giravano commissarj, delegati, a dare ordini, a dirigere come si poteva i monatti.
E Fermo scorrendo tra quella folla per avviarsi alla porta di quel lato che tira lungo la strada maestra, Fermo doveva pure per quanto intollerabili gli fossero quegli oggetti, fissare sovr'essi lo sguardo perché fra essi, uno di essi, poteva essere quello di ch'egli andava in traccia.
Giunto su quella porta, ristette sopraffatto dal nuovo spettacolo che gli si parava dinanzi e dattorno.
Dinanzi, il vasto campo interno del lazzeretto, ingombro qua e là di trabacche, di capanne, coperto e animato da un popolo, del quale il veduto al di fuori non era che un saggio; e a destra e a sinistra le due interminate fughe di porticato spesse pure, e gremite, e brulicanti a quel modo: uno sciame, un trambusto, un rimescolamento da far vertigine, da offendere con subita fatica lo sguardo, quando fosse pure stata una festa.
Il cuore di Fermo fu soverchiato a quella vista; ed egli stette un momento in fra due se dovesse tornarsene, e abbandonare una ricerca che superava le sue forze.
Ma l'affetto dal quale egli era stato tratto su quel limitare, aveva pigliato ancor più forza dalla incertezza, e l'immagine di Lucia, forse inferma quivi, abbandonata, era divenuta più forte e più pietosa nell'animo di lui.
Pensò che se egli si ritraeva allora da quel luogo, vi sarebbe stato ben tosto sospinto di nuovo da tutti i suoi pensieri: partirsi senza aver nulla saputo di Lucia, aspettarne le novelle, fin quando, da chi? partir dal luogo dove soltanto si poteva sperare di trovarla: fuggire da dove ella era forse a pochi passi di distanza...
Fermo si mosse, rivolse una viva preghiera al Signore e si gittò in mezzo a quella confusione, abbandonandosi alla scorta di Lui.
Non aveva alcun filo per dirigersi, né una ragione per cominciare la sua ricerca più tosto a destra che a sinistra, nel campo che sotto il portico; ma il campo gli era in faccia, e s'ingolfò in quello alla ventura.
Nei principii della pestilenza il lazzeretto era stato scompartito in quartieri pei ministri e per quelli che entravano ad esser curati: le femmine separate dai maschj, e ogni sesso suddiviso in sospetti, in infetti, in quarantenanti.
E già fin d'allora quell'ordine, come abbiam detto non s'era potuto interamente serbare; ma nel bollore della peste, e nel crescere della moltitudine, tutto s'era rimescolato, come una botte fecciosa nella furia del temporale.
Oltre di che quello scompartimento non era stato fatto che nel fabbricato, in tempo che nessuno prevedeva che questo non sarebbe bastato, che l'immenso circuito interno sarebbe divenuto spesso, traboccante, insufficiente anch'esso, e quando questo cominciò a popolarsi, (e cominciò con una folla) non fu possibile applicare ad esso le divisioni già stabilite.
Pure le sollecitudini dei sopraintendenti e principalmente del Padre Felice, per mantenere quel primo ordine, nel fabbricato, ne facevano se non altro rimanere qualche traccia; la massa principale e il fondo per così dire degli abitatori di ciascun quartiere era del sesso e della condizione a cui quello era stato destinato.
Se Fermo fosse stato informato di ciò, si sarebbe diretto a destra, al lato settentrionale che guarda al cimitero di san Gregorio; il qual lato era assegnato alle donne.
Ma Fermo, come abbiam detto, era nuovo affatto di quella bolgia, e non aveva una guida; quindi procedeva a caso, mettendo il piede dove scorgeva un passaggio, dove il passaggio era meno intricato d'inciampi compassionevoli o ributtanti.
Andava d'una capanna nell'altra, s'appressava ad ogni giaciglio, dove vedesse una donna; guatava, e seguiva la sua strada.
Da per tutto lo stesso spettacolo così terribilmente variato, e così terribilmente conforme: corpi immobili nella morte, o dibattuti nelle angosce mortali; miseri che brancolavano a stento, o balzavano di luogo in luogo infuriati.
I soli che si vedessero camminar ritti, e con un passo regolare erano monatti, e religiosi, varii di vesti e di età: gli uni e gli altri intrepidi, occupati delle loro faccende, come se fossero faccende ordinarie, con una fortezza che certo era cresciuta negli uni e negli altri da una circostanza comune, la consuetudine ormai antica di quegli orrori; ma era nata da principii, quanto lontani! negli uni una selvaggia ed empia durezza, negli altri una carità più forte della commozione.
La più parte di essi s'era conservata a quei servigi, non per ubbidienza, (e certo un volonteroso e pronto obbedire in tali circostanze non è una virtù volgare) ma per un impulso spontaneo: molti avevan fatto broglio per esser deputati al lazzeretto; avevan reputato guadagno la perdita della vita, e questo guadagno era già toccato ad un buon numero di essi: taluno perfino, passando dal disprezzo della morte al desiderio, e dal desiderio alla ricerca, trascurò le cautele che pure erano compatibili con l'opera, quasi per non lasciarsi sfuggire il premio.
Il che si chiamerebbe volentieri un bell'eccesso, chi non riflettesse che la religione proscrive tutti gli eccessi; perché il saggio, il temperato, il ragionevole ch'ella comanda o consiglia, è più nobile e più bello di qualunque esaltazione fantastica.
Nel suo tristo giro, Fermo s'abbattè in un luogo dove quella carità offriva uno spettacolo singolare.
Vide nel campo un picciol parco, una steccaja, come per tenervi ragunato un gregge.
Si avvicinò; v'era in fatti un gregge di capre; e il vecchio pastore, con una lunga barba bianchissima, succinto e affaccendato, era un capuccino.
Le capre davano la poppa; ma quali erano i piccioli lattanti! bambinelli che raccolti in quel recinto presso la madre spirata, o staccati dal petto inanimato eran quivi portati a vivere.
Quel nuovo pastore sprimacciava un letticciuolo di paglia ad un bambino, ne accostava un altro alle mamme; i belati rispondevano ai vagiti; e alcune di quelle nuove nutrici già avvezze a tali allievi si avvicinavano, e si acconciavano ad essi come con senso umano; alcune perfino distinguevano quello che era loro toccato il primo, distinguevano il suo grido, e si ritraevano, strepitavano se un altro bambino veniva presentato alle loro poppe.
Fermo ristette ivi alquanto a contemplare la novità dello spettacolo, e a riposarvi gli occhi affaticati d'orrore.
Ma movendosi di quivi vi si trovò ingolfato di nuovo; e rifinito dalla lunga costernazione, dalla fatica e dal digiuno, egli pensava già ad uscire di là, per riprendere se non altro nuove forze col riposo, per andare in traccia di cibo.
Quando vide lontano per mezzo a quella varietà di cose e di movimenti un altro capuccino che presso ad una gran pentola andava riempiendo scodelle, e le portava nelle capanne, o le distribuiva presso di sè nel campo aperto.
Risolse allora di condursi da quella parte, e di chiedere al frate un poco di quel nutrimento, persuaso ch'egli non lo negherebbe ad un affamato quantunque sano.
Camminando sempre verso quel luogo, e tenendo di mira il pentolone, perché il frate andando attorno spariva di tratto in tratto ai suoi occhi per gli oggetti frapposti, lo vide finalmente sedersi anch'egli, su la porta d'una capannuccia, e recarsi in mano una scodella, e mangiare.
Era il frate rivolto con la faccia verso Fermo che veniva; e questi guardandolo più attentamente credette di scorgere una somiglianza singolare, della persona, perché non era tanto vicino che potesse nulla discernere dell'aria del volto.
In quel baleno sentì egli una gioja, una speranza improvvisa; ma ricordandosi tosto ciò che Agnese gli aveva detto di Palermo, di quel paese di là dal mare, cacciò quella speranza come una illusione.
E pure ad ogni passo la somiglianza diveniva più forte, più viva, il frate diveniva il Padre Cristoforo.
Era proprio il Padre Cristoforo.
Alle prime novelle che s'erano avute in Palermo della peste dichiarata in Milano, il nostro buon frate a cui quarant'anni di tonaca e di capuccio non avevan potuto togliere dalla mente una rimembranza del tempo in cui portava cappa e spada, e che aveva desiderato per quarant'anni di finir la sua vita spendendola pel prossimo, colse con trasporto quella occasione e scrisse a Milano supplicando d'essere chiamato al servizio degli appestati.
Fu esaudito: il Conte Zio del Consiglio segreto era morto, e del resto in quella confusione, e in quel bisogno di soccorsi, anche un puntiglio avrebbe potuto essere posposto, o dimenticato.
Fra Cristoforo, ricevuta l'obbedienza, venne a dirittura a Milano, si presentò al convento, fu mandato al lazzeretto, e vi stava da un mese.
Aveva quivi una sua capannuccia, e s'era fatto all'intorno come un picciolo distretto, pel quale girava, facendo il confessore, l'infermiere, il cuoco, agli appestati che si succedevano in quello spazio; e in quel mese aveva forse veduta rinnovarsi otto o dieci volte la popolazione di quel suo distretto.
«Padre Cristoforo!» gridò Fermo con un tuono tra l'esclamazione e la chiamata, a quaranta passi di distanza, quando fu certo che vedeva realmente quell'uomo che egli avrebbe tanto desiderato, se non avesse creduto cosa impossibile che un tal desiderio potesse essere soddisfatto.
«Vengo», rispose tosto il Padre, credendo d'esser chiamato come gli accadeva ad ogni istante, per qualche servizio dei suoi infermi; e messa a terra la scodella, levò la testa, per vedere se qualche altro segno gl'indicasse il canto donde era venuta la chiamata.
Ma vide invece un giovane sano e diritto che s'avvicinava; e riconobbe tosto Fermo, il quale giunto a lui, tra la consolazione e la maraviglia non seppe dir altro che: «Padre Cristoforo!»
«Tu qui!» sclamò questi: «che vieni a cercare in questo luogo? la peste? la morte?»
Mentre il frate proferiva queste parole, Fermo lo guardava fisamente, e sentiva amareggiarsi la consolazione, che aveva provata nel primo istante di quel ritrovamento.
Il volto del frate era mutato, ben più, e bene in altro modo che non avessero potuto fare per sè quei venti mesi cresciuti alla sua vecchiezza, né le fatiche.
Gli occhi già così vivaci erano spenti, le guance scarne, sparute, tinte d'un pallore cadaverico, la voce aveva un non so che di crocchiante; e in tutto si vedeva una natura sopraccaricata, e quasi esausta, sostenuta e alimentata da una costanza interiore.
Fermo con la trista pratica che aveva dovuta acquistare, s'addiede tosto che il suo buon protettore era colpito dalla peste, sicché invece di rispondere lo richiese ansiosamente: «Ma ella, padre, come sta ella?»
«Come Dio vuole», rispose il vecchio, «non parliamo di questo.
Ma tu, dimmi, come, perché sei tu in questo luogo? Perché vieni così ad affrontare la peste?»
«L'ho avuta, e ne sono uscito salvo, grazie a Dio.
Vengo a cercare...
Lucia».
«Lucia!» sclamò il Padre: «Lucia è qui?»
«È qui», rispose Fermo, «se pure...
v'è ancora».
«È ella tua moglie?» domandò il Padre.
«Ah no!» rispose Fermo con un sospiro; «ma s'ella vive...
lo sarà, spero;...
ne son certo...
perché no? Oh padre! quante cose avrei da raccontarle!»
«Padre Vittore!» gridò il vecchio ad un suo giovane confratello che girava quivi poco distante; e che accorse tosto: «Padre Vittore, fatemi la carità di attendere a questi miei poveretti mentre io me ne sto ritirato un quarto d'ora; se però alcuno mi volesse, compiacetevi di chiamarmi».
Il Padre Vittore accettò l'incarico, e il Padre Cristoforo disse a Fermo: «Vien qua dentro con me: sii breve: le faccende son molte, come tu vedi, e il tempo è scarso, misurato...
Ma che? tu sei ben rifinito: hai tu bisogno di cibo?»...
«A dire il vero...», rispose Fermo.
«Piglia di quello che dà il convento», disse il frate con una frase usuale capuccinesca.
E tolta una scodella, la riempì della minestra del pentolone, e la porse a Fermo: soggiungendo: «Quando la provvigione è finita, Iddio ne manda: più volte quando ci siam trovati lì lì per rimanere in secco, ci son venute le carra di roba, senza che sapessimo da chi mandate; né ancora lo sappiamo.
Entra, e mangia questa carità; e avrai anche uova e pane, e un bicchiere di vino: tu ne hai bisogno, a quel che veggio».
Così dicendo raccolse anch'egli la scodella che conteneva il resto del suo pranzo, ed entrò con Fermo nella capannuccia, e sedette con lui sul saccone che gli serviva di letto.
Fermo, tra un cucchiajo e l'altro raccontò succintamente la storia di Lucia, o la parte che gli era nota; come il frate di Monza l'aveva posta in guardia della Signora, come ella era stata rapita...
«Gran Dio!» sclamò a quel punto il padre Cristoforo: «ed io...
io l'ho indirizzata in quel paese! Ma voi sapete ch'io la toglieva da un pericolo evidente, e credeva di porla a salvamento.
Parla», seguì poi con voce animata, «finisci questa storia dolorosa».
Fermo, in poco più parole che noi non ve ne impieghiamo, proseguì a narrare come Lucia fu condotta al castello del Conte del Sagrato, come mirabilmente da questo renduta alla madre, come collocata poi in casa di Don Ferrante.
E qui il frate respirò più liberamente.
Fermo narrò pure le sue imprese, non senza vergogna; la sua fuga, e la sua dimora in Bergamo, la sua risoluzione di venire a sapere che accadesse di Lucia, il suo viaggio a Lecco, le sue ricerche di quella mattina, e la notizia ch'egli aveva ricevuta da quella signora alla finestra, che Lucia era al lazzeretto.
«Onde», conchiuse, «vengo a cercarla qui; vengo a vedere s'ella è viva, se si ricorda di me, se mi vuole ancora...»
«O giovane!» disse il Padre Cristoforo, «e in questi tempi, fra questi oggetti, tu hai potuto, tu puoi ancora occuparti di tali pensieri?»
«Ma, caro padre mio...» cominciò per rispondere il giovane; e non seppe dir più: perché sentiva egli bene una grande importanza in quei suoi pensieri; erano per lui un affare molto serio; ma era impacciato a trovar le parole convenienti per esprimere una tale idea ad un vecchio capuccino, che era venuto quivi a vivere, a morire, nel ribrezzo, e nelle fatiche per servire a sconosciuti.
Parlar d'amore, accennarlo pure con circollocuzioni, addurre l'amore come un motivo importante, come una faccenda, in quel luogo, ad un tal uomo, pareva a Fermo una vergogna: e in fatti però non avrebbe potuto parlar d'altro, perché l'amore era il motivo che l'aveva condotto lì.
Ma il buon frate lo cavò tosto d'impaccio, rispondendo per lui.
L'interrogazione mista quasi di rimprovero che gli era uscita, non veniva dal fondo della sua mente: erano di quelle parole volgari, che precedono la riflessione, e delle quali anche gli uomini avvezzi a riflettere contraggono l'uso dalla conversazione comune.
«Tu hai ragione», diss'egli a Fermo che esitava: «tu hai ben fatto.
Quei che stanno per morire, debbono pensare alla morte, non altro; ma l'uomo che è nel vigore della salute e dell'età, l'uomo che può vivere ancora, deve, pensando alla morte, provvedere alla vita; non per cercare in essa un contento che non v'è, ma per condurla, secondo l'ordine di Dio, fino alla morte.
Tu seguivi quest'ordine quando cercasti una compagna della vita, una compagna d'affetto, di occupazioni, di travagli, di consolazioni e di preghiere.
Iddio permise che il mondo vi separasse.
Fu ella una prova? o era volere di Dio che voi vi santificaste divisi, che dopo esservi avviati insieme, giungeste a Lui per diverse strade? Egli lo sa.
Tu intanto ben fai di stare in quel proposito ragionevole da cui la sola violenza ti aveva allontanato: ben fai di andare in cerca di quella creatura alla quale tu hai promesso d'essere un compagno e un appoggio.
Ma come sei tu indirizzato a trovar qui Lucia? hai qualche indizio della parte dov'ella fu riposta, del quando venne?»
«Nulla, caro padre, nulla, se non che ella è stata condotta al lazzeretto».
«Oh poveretto!» disse il padre Cristoforo: «egli è come se ti fosse stato detto che un anello è caduto nel lago, e tu vi ti attuffassi a caso per ripigliarlo».
«Girerò, cercherò, guarderò», disse Fermo.
«Ascolta», disse il frate; «gli appestati che son guariti in questo luogo (ahi che picciola parte di quelli che vi sono entrati!) quegli fra loro che ponno reggersi e camminare, debbono oggi esser condotti al Gentilino, al di là della città, fuori di porta Ticinese, a fare la quarantena: v'era ben destinata qui una parte del fabbricato a tale uso; ma il fabbricato e il recinto non bastano come vedi agli infermi.
Questi che debbon partire si vanno ora ragunando intorno alla Chiesa che è nel mezzo, per moversi di là tutti insieme: jeri sono stati avvertiti e...
sta: odi tu una squilla tra questo doloroso mormorio? è il terzo tocco della campanella che li chiama.
Va dunque colà; osserva tra quella brigata, se tu vedi colei che tu cerchi; se ella è fra le spighe rimaste in piedi dopo la messe.
Se non ve la scorgi; fa cuore tuttavia, e cammina innanzi verso questa banda (e accennò a mano manca).
Quella banda del fabbricato», seguì poi, «è stata da principio destinata alle donne.
Ora, a dir vero, tutto è confuso; pure quella poveretta certamente, sarà rimasta al luogo dove l'avranno collocata; e se v'è ancora speranza di trovarla, è da quella parte.
Cercala ivi; Dio ti conduca: e che che avvenga delle tue ricerche, prima d'uscire da questo recinto, vieni ancor qui a darmene conto: anch'io vorrei saper s'ella vive!»
Il padre Cristoforo proferì queste parole con una commozione compressa, e presa la mano di Fermo, che aveva finito di ristorarsi, e s'alzava, lo condusse su la porta della capanna, e gli segnò più distintamente il lato dove doveva fare le sue ricerche.
«Vado», disse Fermo; «lo scorrerò tutto, guarderò di stanza in stanza, di capanna in capanna; se non è quivi, girerò tutto il lazzeretto, e se non la trovo...»
E a questa sospensione tutto ad un tratto s'oscurò in volto, stravolse gli sguardi, e mandò un soffio di furore dalle labbra tremanti.
«Se non la trovi?» disse il padre in contegno di gravità, e di aspettazione, tenendolo forte per mano.
«Se non la trovo, farò di trovare qualche altro.
O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo del mondo o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante, che ci ha separati: quel birbone, che se non fosse stato egli, Lucia sarebbe mia da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti insieme, almeno avremmo potuto soccorrerci; essa non sarebbe qui abbandonata, io non sarei qui mezzo disperato.
Lo troverò colui, e se la peste non ha fatto già una giustizia...»
«E se lo trovi?» disse il padre, con una gravità fatta più severa e quasi sdegnosa.
«Non è più il tempo», continuò Fermo, sempre più cieco di collera, «non è più il tempo che un poltrone coi suoi bravi, coi suoi giudici, coi suoi amici prepotenti faccia tremare: è venuto il tempo che gli uomini s'incontrino da solo a solo...»
«Sciaurato!» gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripigliata tutta l'antica pienezza e sonorità: «sciaurato!» e il suo capo gravato sul petto s'era sollevato, le guance si coloravano dell'antica vita e gli occhi mandavano le antiche faville.
«Guarda, sciaurato!» e così dicendo, mentre con una mano stringeva e scoteva forte la mano di Fermo, girava l'altra distesa in cerchio dinanzi a sè, verso la scena dolorosa che li circondava.
«Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che percote e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu sai, tu, quale sia la giustizia? Va, sciaurato, vattene! Io sperava...
sì, ho sperato che, prima di morire, Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentire che la mia povera Lucia fosse viva, forse di vederla, e di sentirmi promettere ch'ella manderebbe una preghiera là verso quella fossa dov'io sarò.
Va; tu m'hai tolta la mia speranza.
Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo non hai l'ardimento di crederti degno che Dio pensi a consolarti.
Avrà pensato a lei; poiché ella era di quelle anime a cui son riservate le consolazioni eterne.
Va; non ho tempo di più darti retta».
E, così dicendo, gettò da sè la mano di Fermo, e si mosse verso una capanna d'infermi.
«Ah padre!» disse Fermo con voce affranta, «mi vuol ella mandar via a questo modo?»
«Come!» riprese con voce non meno severa il capuccino: «ardiresti tu di pretendere ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, che aspettano ch'io parli loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di rabbia, i tuoi disegni di vendetta? Ti ho ascoltato quando tu potevi aver bisogno di conforto, chiedevi consolazione, e indirizzo; mi son tolto alla carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore; che vuoi da me? Vattene; ho veduti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori, che avrebber voluto potersi umiliare dinanzi all'offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che posso fare?...
se tu non gli perdoni da vero, e...»
Il suono di queste ultime voci era raddolcito, e l'aspetto del vecchio nel proferirle, pure in mezzo alla severità annunziava una tenerezza pronta a scoppiare.
«Ah gli perdono!» disse Fermo piangendo: «così Dio perdoni a me! così possa io tornar qui a dirle che Lucia è viva, che Lucia vivrà».
«Vien qua» disse il padre, pigliandolo per mano; e lo ricondusse nella capannuccia, e lo fece seder come prima presso di sè.
Fermo stava tutto intento e commosso.
«Sai tu», disse il padre, «perché io porto quest'abito?»
Fermo esitava: «Lo sai tu?» riprese il padre.
«Lo so», rispose Fermo.
«Tu sai che questa mano ha ucciso!»
«Sì, ma un prepotente che l'aveva aizzato, uno di quei...»
«Taci», interruppe il frate.
«Credi tu che se vi fosse stata una buona ragione, io non l'avrei trovata in quarant'anni? perché, son quarant'anni ch'io vi penso, e grazie a Dio, per quarant'anni ne ho avuto dolore, e mi sono accusato: e ho pregato Dio che in segno del suo perdono eterno, Egli mi punisse in questa vita, che pigliasse la mia in sacrificio, come io aveva ardito disporre di quella d'un uomo; che mi facesse morire in servizio d'altrui; e spero d'essere esaudito.
Non creder tu ora dunque di poter consolarmi: consolati piuttosto di essere tu in tempo a perdonare: non ispender vane parole; ascolta piuttosto le mie; v'è dentro il pensiero di tutta la mia vita, della men trista parte di essa.
Sai tu perché io ho ucciso? Perché v'era una cosa ch'io amava troppo.
Sì, figliuolo, ciò ch'io chiamava il mio onore, io lo amava ardentemente, sopra ogni cosa, come avrei dovuto amar Dio.
E quando la vita d'un uomo...
gran Dio! la vita d'uno fatto a vostra immagine! si trovò in confronto col mio onore, io gliel'ho sagrificata.
M'hai tu inteso!»
Fermo tutto commosso, rispose sinceramente: «padre sì».
In fatti egli intendeva qualche cosa di molto ragionevole, che bisogna amar Dio sovra ogni cosa, e non ammazzare.
Ma l'intento di quel discorso non passava nel suo intelletto: l'uomo che esprime le idee che sono state per lui soggetto d'una lunga e ripetuta meditazione, è oscuro, senza volerlo, anche per gente più colta che non fosse il nostro giovane montanaro.
Il padre Cristoforo continuò: «Il mio affetto era stolto, e superbo: il tuo è ragionevole e buono; la mia era passione non solo d'uomo furioso, ma di ragazzo stolido; perché che voleva io? che voleva io ad ogni costo? camminar rasente il muro, e non pigliare il mezzo della via; e tu, tu pensi da uomo savio a desiderare per tua compagna una di quelle donne che il cielo destina come un premio ai buoni; quella che tu scegliesti, e che ti scelse.
Ma il tuo affetto diventa ingiusto, diventa stolido com'era il mio, se tu non lo sottometti al volere di Colui che solo può renderlo santo.
E un tale amore, bada bene alle mie parole, un tale amore, quando tutto ti andasse a seconda, quando tu ottenessi ciò che più desideri, un tale amore tosto, o tardi, più tosto che tardi, ti tornerebbe in amaro: come; io non lo so, ma senza dubbio: e parlo dal tetto in giù.
Or pensa che bel conforto avresti di questo amore, se, perduto ciò che te lo fa parer tanto dolce, non te ne rimanesse che un odio, nessuna speranza che d'una vendetta, nessun frutto che un omici...»
«Non lo dica», interruppe Fermo, come atterrito.
«Rendi grazie a Dio», riprese il padre, «che tu non abbi a pentirti che d'un pensiero.
Ma il pentirsi del fatto...
ah! è ben amaro! E il non pentirsi è orrendo, orrendo più che non si possa comprendere in questa vita.
Fermo! giuri tu il perdono?»
«Ah! lo giuro», rispose Fermo in tuono solenne.
«A chi giuri tu di perdonare?»
«A quell'uomo...»
«A chi?»
«Sì, padre, a Don Rodrigo».
«Sì, Fermo, a Don Rodrigo: è un nome che fu posto sul fonte della rigenerazione ad una creatura redenta col Sangue d'un Dio; è un nome che forse è scritto sul libro della vita: perché Dio perdona; guai a te, se non fosse!» Dette queste parole, il vecchio stette pensoso un momento, tenendo tuttavia la mano di Fermo, poi abbandonatala, prese la sua sporta, ne trasse dal fondo un pezzo di pane arido, e scolorato, lo mostrò a Fermo, e disse:
«Vedi tu questo pane? Lo conservo da quarant'anni; l'ho mendicato nella casa di quello sventurato...
l'ho avuto dai suoi come un pegno di pace, e di perdono.
Ah! se avessi potuto prenderlo dalle sue mani! Prendi», - e porse il pane a Fermo - «conservalo ora tu: è il dono ch'io posso lasciarti per mia memoria.
E se, come spero, Iddio ti vuol condurre per quella via alla quale pare che Egli ti avesse chiamato, se tu sarai padre; mostra questo pane ai tuoi figli, conta loro la mia trista storia, di' loro che preghino pel povero capuccino, che morì pentito.
Saranno provocati, saranno offesi; di' loro che perdonino sempre, sempre, tutto, tutto.
Tu rimani a vivere in un secolo doloroso: i giorni che noi veggiamo son cattivi; quei che si preparano saranno peggiori: i figli dei provocatori, dei superbi, dei violenti, lo saranno più dei padri loro.
Gran Dio! questo flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna già maledetta: tanti grappoli abbatte; e quei che rimangono, son più tristi, più agresti, più guasti di prima.
Tu stesso, o Fermo, tu stesso, qui dove l'uomo non dovrebbe aver cuore che per la misericordia, tu odiavi ancora!»
Fermo non disse nulla, ma il suo volto esprimeva il pentimento.
«Or va», disse il padre alzandosi, «Iddio benedica le tue ricerche».
«Vuol dire, padre, ch'io la troverò?» richiese Fermo ansiosamente, come se parlasse ad uomo che ne potesse saper più di lui.
«Cercala con perseveranza», rispose il padre, «cercala con fiducia, e con rassegnazione.
Iddio può fare che tu la trovi, ma non te l'ha promesso.
Ti ha promesso di perdonare tutti i tuoi falli, se tu perdoni a chi t'ha offeso, ti ha promesso di renderti felice per sempre al fine di questa vita, se tu osservi la sua legge.
Non ti basta? Va; e qualunque sia il frutto della tua ricerca, vieni a darmene contezza: noi ringrazieremo Dio insieme».
Così dicendo, egli pose le mani su le spalle di Fermo, e stette un momento colla faccia elevata in atto di preghiera e di benedizione.
Poi staccandosi, disse; «Intanto io pregherò per voi; assistendo a questi vostri fratelli, io pregherò per voi».
Fermo si prostrò ginocchioni, stette un momento con le mani compresse al volto piangendo, e pregando; s'alzò, guardò intorno, uscì dalla capanna, e si diresse alla Chiesa, come gli aveva indicato il capuccino.
Egli era scomparso, e andava cercando intorno dove fosse più bisogno della sua assistenza.
CAPITOLO VIII
All'intorno del picciolo tempio v'era un picciolo spazio sgombro di capanne, e Fermo giungendovi, lo vide occupato da una folla distinta in ragazzi, in donne, e in uomini, tutti composti e in gran silenzio, fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria che veniva dal tempio.
Questo, elevato d'alcuni gradi al disopra del suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne disposte in circolo; nel mezzo v'era un altare che si poteva vedere da tutti i punti del lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi sono murati.
Ritto, su la predella dell'altare stava un capuccino, alto della persona, fra la virilità, e la vecchiezza; teneva con la destra una croce posata al suolo che gli sopravvanzava il capo di tutto il traverso; e con l'altra mano accompagnava di gesti il discorso che andava facendo.
Era questi il Padre Felice sopraintendente del Lazzeretto.
Fermo, giunto sull'orlo di quella adunanza avrebbe voluto avanzarsi a trascorrerla, e cercare ciò che gli stava a cuore; ma senza contare un altro capuccino che, con un aspetto tanto severo anzi burbero, quanto quello dell'oratore era pietoso, stava ritto in mezzo alla brigata per tener l'ordine; quella quiete generale, quell'attento silenzio, e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro ansioso che ogni movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio, e irriverenza.
Stette egli dunque alla estremità della brigata ad aspettare, e udì la perorazione di quel singolare oratore.
«Diamo adunque», diceva egli, «un ultimo sguardo a questo luogo di miserie e di misericordia, pensando quanti vi sono entrati, quanti ne sono stati tratti fuora per la fossa, quanti vi rimangono, quanto pochi al paragone siam noi, che ne usciamo non illesi, ma salvi, ma colla voce da lodarne Iddio.
L'anima nostra ha guadato il torrente; l'anima nostra ha guadate le acque soverchiatrici: benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia, benedetto nella morte, benedetto nella salvezza, benedetto nel discernimento ch'Egli ha fatto di noi in questo sì vasto, sì smisurato eccidio! Ah possa essere questo un discernimento di clemenza! possa la nostra condotta da questo momento esserne un indizio manifesto! Attraversando questo mare di guaj, diamo uno sguardo di pietà, e di conforto, a quegli che si dibattono tuttavia con la tempesta, e dei quali, ah quanto pochi, potranno come noi afferrare un porto terreno.
Ci vedano uscirne, rendendo grazie per noi, ed elevando preghiere per essi! Attraversando la città già sì popolosa, noi scarsa restituzione dell'immenso tributo ch'essa mandò in questo luogo, mostriamo agli scarsi suoi abitatori un popolo scemato sì, ma rigenerato.
Procediamo con la compunzione nel volto, e coi cantici su le labbra.
Quegli che son ritornati nella pienezza dell'antico vigore, porgano un braccio soccorrevole ai fiacchi; gli adulti reggano i teneri, i giovani sostengano con riverenza e con amore i vecchj, ai quali la salute ritornata non apporta che pochi giorni di stento.
E se in questo soggiorno di prova, in questo stesso crogiuolo di purgazione abbiam peccato; se abbiamo abusato anche dei flagelli, se abbiamo sciupati i doni e le ricchezze dello sdegno, come già quelli della benignità; ebbene! non abbiam però potuto esaurire il tesoro del perdono: ricorriamo ad esso di nuovo.
Per me...»
E qui l'oratore fece pausa, straordinariamente commosso; poi tolse una corda che gli stava ai piedi, se la avvinghiò al collo come ad un malfattore, cadde ginocchioni, e proseguì:
«Per me, e per tutti i miei compagni, i quali, sebbene immeritevoli, siamo stati per una ineffabile degnazione trascelti all'alto privilegio di servir Cristo in voi; se, come è pur troppo, non abbiamo degnamente corrisposto ad un tanto favore, se non abbiam degnamente adempiuto un sì grande ministero...
perdonateci! Se la fiacchezza, o la ritrosia della carne ci ha resi men pronti ai vostri bisogni, alle vostre chiamate, perdonateci! se una ingiusta impazienza se una noja colpevole ci ha fatto talvolta nei vostri mali mostrarvi un volto severo, e fastidito, perdonateci! Se la corruttela d'Adamo ci ha fatto trascorrere in qualche azione che vi sia stata cagione di tristezza, e di scandalo, perdonateci! Nessuno porti fuor di qui altra amaritudine che delle sue proprie colpe!»
Così detto, stette egli ginocchioni, come aspettando un segno che l'umile e cordiale suo prego era accetto ed esaudito.
Un singhiozzo, un pianto, un gemito universale si levò da quella turba a rispondere.
Dopo qualche momento il frate s'alzò, prese la croce ad ambe mani, e l'inalberò; scese dalla predella, e quivi depose i sandali; gridò ad alta voce: «andiamo in pace»; poi intonò il Miserere; e scalzo, portando dinanzi a sè quell'alta croce pesante, scese gli scaglioni del tempio dalla parte rivolta alla porta meridionale del lazzeretto che sbocca dinanzi alla mura della città; e s'incamminò verso quella.
Dietro lui s'avviò la torma dei fanciulletti, di quelli cioè che potevano reggersi, e sapevano condursi da sè; poi le donne, alcune delle quali tenevan per mano, o nelle braccia fanciulline, o bambini, e con fioca voce cantavano il salmo intonato dal guidatore; poi gli uomini pur cantando; poi carri di convalescenti, e delle bagaglie di quei che partivano: quelle che in tanta confusione s'eran potuto serbare, e raccogliere.
Ultimo veniva quell'altro capuccino che abbiamo menzionato, con un gran vincastro in mano; e coi cenni di quello, con gli occhi e con la voce, teneva in sesto il convoglio.
Era questi un Padre Michele Pozzobonelli, il coadiutore più autorevole, e come il primo ministro del Padre Felice, in quel regno di desolazione.
Fermo, tosto ch'ebbe veduto questo scender dal tempio, e notato da che parte s'avviava, entrò di nuovo fra le capanne per pigliare i passi innanzi, senza dare né ricever disturbo e sboccar poi di nuovo su la strada per dove la processione doveva passare.
Dalla porta meridionale al tempio v'era infatti come una strada, uno spazio che s'era lasciato sgombro di capanne per dar passaggio ai carri degli infermi che per lo più entravano da quella porta, e da quello spazio poi si distribuivano a dritta e a sinistra, come si poteva.
Fermo riuscì su quella, al mezzo in circa; e vide venire il vecchio crocifero, lo vide passare, vide passare i ragazzi, e poi con un gran battito al cuore, esaminò le donne che pur passavano; e lo potè fare a suo agio, perché elle procedevano a due a due.
Passa, passa; guarda, guarda: qui non v'è, qui né pure; più che la metà è passata; poche ne rimangono; compajono le ultime della fila femminile; ecco gli uomini: Lucia non v'era.
Quanta speranza svanita! Rimanevano però i carri ancora: Fermo gli vedeva venire; e i primi erano carichi di donne.
Stette dunque aspettando, lasciò passare la schiera degli uomini; guardò ad uno ad uno quei carri.
Passavano lentamente, si arrestavano talvolta come accade nelle processioni e nelle marce d'ogni genere; di modo che Fermo potè aver la trista certezza che nessuna di quelle donne era sfuggita alla sua vista; e che Lucia non v'era.
Le braccia gli caddero, quando si vide finire in mano l'unico, o almeno il più forte filo delle sue speranze.
Anche prima di vedere trascorrere quella per lui sì trista rassegna, egli sentiva pur troppo, quanto era più probabile che Lucia fosse nel numero dei tanti portati fuora dal lazzeretto sui carri, che dei pochi risanati: ma pure, come si suole egli metteva il suo desiderio sul guscio della speranza, e faceva traboccare le bilance da quella parte.
Ma ora, egli credeva di dovere esser certo che Lucia non era tra i guariti, né tra i convalescenti: la contingenza più lieta per lui, l'unica sua speranza (quale speranza!) era ormai ch'ella fosse ivi languente, ma viva.
Passato tutto il convoglio, passato il Padre Michele, Fermo si mise senza troppo pensare dove andasse, su quella via rimasta sgombra, e le sue gambe lo portarono dinanzi al tempio.
Quivi gli vennero alla mente le parole del buon frate Cristoforo: - Se non ve la scorgi, fa cuore tuttavia...
Cercala con rassegnazione.
- Si prostrò su gli scaglioni del tempio, fece a Dio una preghiera, o per dir meglio, un viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni, di domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non si fanno agli uomini, perché non hanno abbastanza penetrazione per intenderli, né sofferenza per ascoltarli; non sono abbastanza grandi per sentirne compassione senza disprezzo.
Si levò di là più rincorato e si avviò.
Dal tempio alla porta che divide il lato settentrionale a cui tendeva Fermo, scorreva, come dalla parte opposta, un viale sgombro di capanne; e si sarebbe potuto chiamare la via dei morti, perché ivi facevano capo e giravano i carri, che portavano alla fossa di San Gregorio le centinaja che perivano ogni giorno nel lazzeretto.
Fermo scelse quella via come la meno impedita, e la più breve; e studiando il passo alla meglio, tra l'incontro continuo dei carri e l'inciampo frequente di altri tristissimi ingombri, pervenne a pochi passi dalla porta.
Ma quivi un occorrimento di carri vuoti che entravano, di colmi che uscivano faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo anziché affrontarlo, o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare tra le capanne per riuscire di quindi al fabbricato.
Le capanne in quel luogo eran tutte abitate da donne; ed egli procedeva lentamente d'una in altra, guardando.
Or mentre passando, come per un vicolo, tra due di queste, l'una delle quali aveva l'apertura sul suo passaggio, e l'altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella prima, sentì venire dall'altra, per lo fesso delle assacce ond'era connessa, sentì venire una voce...
una voce, giusto cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio, articolava parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che certamente non gli erano mai state proferite: «Non dubitate: son qui tutta per voi: non vi abbandonerò mai».
Se Fermo non mise uno strido, non fu perché lo rattenesse il riguardo di fare scandalo, il timore di farsi troppo scorgere e d'essere preso o cacciato; fu perché gli mancò la voce.
Le ginocchia gli tremarono sotto, la vista gli s'appannò un momento; ma come accade per lo più quando dopo una gran sorpresa rimane qualche cosa d'importante da farsi o da sapere, l'animo gli ritornò tosto, e più concitato di prima.
In tre balzi girò la capanna, fu su la porta, vide una donna inclinata sur un letto, che andava assestando.
«Lucia!» chiamò Fermo con gran forza e sottovoce ad un tempo: «Lucia!»
Trabalzò ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare, si volse precipitosamente, vide che non era sogno, e gridò: «Oh Signore benedetto!» Fermo rimase su la porta tacito e ansante, e Lucia pure dopo quel grido stette immota in silenzio più tempo che non bisogni a raccontare in compendio le sue vicende dal punto in cui l'abbiamo lasciata.
Ella era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un certo tempo sotto la vigilanza severa di Donna Prassede.
Ma allo spiegarsi della peste questa signora, messe da un canto tutte le altre cure, dimenticate tutte le brighe, non solo le sue proprie, ma anche quelle di cui prima andava tanto volentieri in cerca, non ebbe più che un pensiero, di guardarsi dal pericolo comune.
Pensò ella che, per fare del bene, la prima condizione è di essere in vita, e per allora, volle assicurar questa.
Quanto al prossimo, non pensò più a regolarlo, ma soltanto a tenerselo lontano, tanto che non gli comunicasse la pestilenza.
Don Ferrante invece, persuaso che tutte le precauzioni immaginabili non avrebbero potuto fare che la congiunzione di Saturno con Giove non fosse avvenuta, né stornare le conseguenze di un avvenimento di quella sorte, non cangiò nulla al suo tenore solito di vita: e contrasse la pestilenza, che in un giorno lo spicciò.
Donna Prassede s'era ritirata con la signora Ghita, nella stanza più remota della casa; Prospero che alla morte di Don Ferrante era certo di dovere andare a spasso, pensava a farsi un po' di fardello, il resto della famiglia seguiva il suo esempio; e il povero astrologo sarebbe morto abbandonato, se Lucia non avesse avuta la carità di prestargli qualche servigio.
Il giorno stesso in cui Don Ferrante morì, Lucia fu presa da un gran sopore, rimase come insensata, e cadde senza forze: donna Prassede ordinò tosto che ella fosse portata nella via, ad aspettare un carro o una bussola che la portasse al lazzeretto.
Così fu fatto, e così avvenne.
Lucia deposta in quella capannuccia, stette alcuni giorni fuori di sè, senza prender cibo, né rimedii, lottando il vigore della natura con la violenza del male; e non riprese l'uso delle sue facoltà se non quando il male fu superato.
Ma quale risvegliamento! in quel tumulto di morte, in quello scompiglio di guai, senza vedere un volto conosciuto, senza udire una voce famigliare! Pure, in quel tempo, come in tutte le grandi calamità la vista o il racconto, e l'aspettazione continua dei mali rendeva preparati a tutto anche gli animi i meno agguerriti; questa preparazione, la gran ragione della necessità, la cascaggine stessa che il male aveva lasciata addosso a Lucia, la fecero avvezzare ben tosto alla sua situazione; la fiducia in Dio gliela raddolcì.
La capannuccia non capiva che due letti, o covili che fossero: in pochi giorni Lucia cangiò più volte di compagnia.
Finalmente, quando ella cominciava a potersi reggere, vi fu portata una donna che era moglie, anzi vedova d'un ricco mercante di stoffe, madre, anzi orba di due figli: la peste le aveva tutto portato via.
Questa rimasta sola in casa, e sentendosi pure colpita dal morbo, aveva chiamato un commissario della sanità che conosceva per sua buona sorte, e che per una sorte ancor più rara era un galantuomo; e gli aveva raccomandata sè e la sua casa.
Egli la fece chiudere e sigillare, promise di vegliarla, e fece portare la donna al lazzeretto, con tutta quella cura particolare che si poteva in quelle circostanze.
Lucia assistette la sua compagna, che superò pure la malattia; e come è facile ad intendersi, tra quella che prestava sì pietosi servigj, e quella che gli riceveva, ambedue deserte, buone ambedue, s'era formata una strettissima amicizia.
La vedova, prima di venire al lazzeretto aveva nascosta nella sua casa una buona somma di danari, e vi aveva lasciate molte mercanzie protette dal sigillo publico, e ancor più dalla indifferenza dei monatti per le robe che non fossero di pronto uso o di facile smercio.
Trovandosi quindi sola e doviziosa, ella aveva proposto a Lucia di tenerla con sè, come una sua figlia, e Lucia ringraziando Dio che le aveva preparato un asilo, e la buona donna che glielo offeriva, lo aveva accettato, ma solo per qualche tempo, tanto che potesse aver notizie di sua madre, e pensare a prendere una risoluzione stabile.
Ciò ch'ella aveva promesso alla sua compagna era di non abbandonarla finch'ella non potesse uscire dal lazzeretto; e per ciò, Lucia, non s'era unita ai convalescenti che erano partiti quel giorno alla guida del Padre Felice.
Ma la buona vedova avvezza a quella dolce compagnia, e atterrita dal solo pensiero di restarne priva, nella desolazione, esprimeva di tempo in tempo quel suo terrore, e si faceva rinnovare da Lucia la promessa in cui trovava la quiete dell'animo suo.
E per dissipare appunto una di queste dubitanze Lucia aveva dette le soavi parole che colpirono l'orecchio di Fermo, e che abbiamo riferite.
Fermo era dimorato su la porta; e di là il suo secondo sguardo s'era rivolto su la persona alla quale quelle parole erano state dirette; e fu molto contento quando vide a che sesso ella apparteneva.
«Ah! siete viva; e v'ho trovata!» diss'egli quando potè ricuperar la parola; ed entrò nella capanna.
«Voi!» sclamò Lucia.
«Son venuto qui per cercarvi, e v'ho trovata!» rispose Fermo.
«E la peste?»
«L'ho avuta».
«Ah!» fece Lucia con un gran respiro, che significava assai più che un: - me ne rallegro infinitamente -.
«Ma come...
qui?»
«Son venuto a cercarvi in Milano, appena ho potuto; m'hanno detto che eravate qui; ci son venuto».
«Oh Signore!» disse Lucia, stringendo le mani giunte, alzando gli occhi al cielo, e con una voce che i singhiozzi stavano per interrompere.
Poi, come entrata di repente in un altro pensiero, chiese ansiosamente: «Sapete qualche cosa di mia madre?»
«L'ho veduta jeri; è sana, vi saluta, e potete credere...
era tutta in pensiero per voi, e sospira di vedervi».
Lucia rispose con un altro respiro di consolazione.
Fermo continuò: «sospira di vedervi, e crede...
tiene per sicuro...
Ma voi,...
voi, mi parete stupita...
ch'io sia venuto a cercarvi.
Io...
son sempre lo stesso...
non vi ricordate...? che è avvenuto, Lucia?»
«Tante cose!» rispose ella sospirando.
«Ecco!» disse Fermo: «sa il cielo che cosa v'avranno detto di me!»
«Che importa», rispose Lucia, «quel che dica la gente?»
«Dunque...»
«Dunque...
io credeva...
che dopo tanto tempo...
dopo tanti guai...
non avreste più pensato a me».
«L'avete creduto? e me lo dite? quando son qui...»
«L'ho creduto», disse Lucia troncando in fretta le parole appassionate di Fermo, «l'ho creduto, perché sarebbe stato meglio...
è meglio».
Lucia aveva sempre tenuti gli occhi bassi; ma proferendo non senza fatica queste parole, chinò anche la testa, e la tenne appoggiata sul petto, come per riposarsi d'un grande sforzo.
«È meglio!» disse Fermo, stordito e contristato di quel mistero, e guardando fiso nel volto di Lucia per trovarvi la spiegazione di quelle tronche ed oscure parole.
«È meglio! che cosa v'ho fatto io? è colpa mia se...
Non sono io quello a cui avete promesso? Che vi mancava perché foste mia? un momento...
e...
ma gli ho perdonato, non siete voi più quella...? Dopo tanto sperare! dopo tanto pensare a voi! dopo...
Parlate chiaro: dite che non mi volete più; dite il perché; non mi fate...»
«Fermo», disse con voce più riposata e solenne, Lucia che mentre egli parlava, aveva cercato di raccogliere tutte le sue forze.
«Fermo! ascoltatemi tranquillamente: pensate dove siamo: vedete questa buona creatura che ha bisogno di quiete: ascoltatemi.
Io non sarò mai di nessuno...
e non posso più esser vostra».
«No non l'avete detta voi questa parola»; rispose Fermo, «no che non l'ascolto: che ho fatto io? perché? chi ve l'ha detto? chi è entrato fra voi e me? chi c'è entrato? voglio saperlo».
«Zitto zitto, non andate avanti, per amor del Cielo», disse Lucia.
«Quando lo saprete, se siete ancora quello di prima, se temete Dio come una volta, non direte così».
«Parlate per amor del cielo!»
«Sapete voi in che casi, in che spaventi io mi son trovata, in che pericoli?»
«Lo so, lo so, e...
gli ho perdonato».
«Ora sappiate quello che nessuno, né pure mia madre, ha udito finora dalla mia bocca.
In una notte...
Vergine santissima! qual notte!...
lontana da ogni soccorso...
senza speranza di liberazione...
sola...
io sola, in mezzo...
all'inferno, ho guardato in su, ho domandato l'ajuto di quel Solo che può fare i miracoli...
ho domandato un miracolo, e ho dovuto fare una promessa...
mi son votata alla Madonna, che se per sua intercessione, io usciva salva da quel pericolo, non...
sarei mai stata sposa d'un uomo».
«Ahi! che avete fatto!» sclamò dolorosamente Fermo: «che avete fatto!»
«Ho ottenuto il miracolo», riprese Lucia: «la Madonna mi ha salvata».
«Bastava pregarla, e vi avrebbe salvata.
Che avete fatto! Che avete fatto! Non dovevate fate un tal voto».
«L'ho fatto: che giova parlarne più? Che giova pentirsi? Pentirsi? No no, Dio liberi! Egli pure è sempre a tempo a pentirsi d'avermi salvata.
Può lasciarmi cadere ancora in un pericolo, e allora, chi pregherò io? che promessa potrei fare?»
«Lucia!» disse Fermo, «e se non fosse il voto...? dite; sareste la stessa per me?»
«Uomo senza cuore!» rispose Lucia, contenendo le lagrime, «quando mi avreste fatte dire delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbe forse peccati, sareste voi contento? Partite, scordatevi di me: non eravamo destinati; ci rivedremo lassù».
Dopo queste parole, le lagrime soverchiarono, e fra i singhiozzi ella continuò: «dite a mia madre ch'io son guarita, che ho trovata questa buona amica che pensa a me; ditele che spero ch'ella sarà preservata da questi guai, che Dio provvederà a tutto, e che ci rivedremo.
Partite, per amor del cielo; e non vi ricordate di me, che quando pregate il Signore».
«Lucia!» disse Fermo con tuono riposato e solenne egli pure; «noi siamo due poveri figliuoli senza studio: quel brav'uomo, quel gran religioso, quel nostro padre, il padre Cristoforo...»
«Ebbene?»
«È qui, nel lazzeretto, ad assistere gli appestati».
«È qui!» disse Lucia: «ah! non mi fa maraviglia: oh se potessi vederlo, sentir la sua voce! È egli sano?»
«È in piedi», disse Fermo, «ma il suo volto...
Dio voglia che sieno gli anni, e le fatiche!»
«Voi l'avete veduto!» disse Lucia.
«L'ho veduto, e gli ho parlato», rispose Fermo: «egli mi ha fatto animo, a cercarvi, mi ha fatto promettere che tornerei a rendergli conto delle mie ricerche.
Corro da lui: egli ci ha sempre ajutati; e spero che ci ajuterà anche in questa occasione».
«Che dite voi? che volete ch'egli faccia? preghiamo Dio che ci ajuti...
che vi ajuti a sopportare.
Ditegli che io ho sempre pregato per lui; che se può venga a trovarmi, a consolarmi, e voi...
voi...» - Non tornate più qui per amor del cielo, - voleva ella dire, ma non lo disse.
Dopo fatto quel voto, Lucia aveva sempre creduto di essersi legata irrevocabilmente, e non aveva supposto mai che alcuna autorità potesse annullare un patto col cielo; aveva rispinto come colpevole il pensiero stesso, e non aveva mai confidato a persona il suo doloroso segreto.
Ma quando Fermo parlò d'una speranza nel padre Cristoforo, quella stessa speranza confusa entrò nel cuore di Lucia; le balenò nella mente un: - chi sa? -, intravide come non impossibile che il Padre Cristoforo potrebbe trovar qualche mezzo...
e in quel dubbio ella stimò inutile di dire risolutamente a Fermo: «non tornate».
Egli partì, senza far altre parole, come un uomo che pensa di tornar ben tosto, e s'avviò alla capanna del buon frate.
La vedova compagna di Lucia era rimasta con gli occhi sbarrati a guardare quel personaggio sconosciuto e ad udire quel dialogo nuovo per lei; giacché Lucia, la quale, come si è potuto vedere in altre parti di questa storia, era molto discreta, non le aveva mai parlato né della sua promessa di matrimonio, né per conseguenza delle vicende conseguenti.
Ma ora non potè scusarsi di fargliene il racconto; e a dir vero, la disposizione d'animo di Lucia in quel momento s'accordava assai bene con le voglie curiose e benevole ad un tempo della vedova.
Quelle memorie compresse e rispinte per tanto tempo, s'erano ora presentate tutte in tanta folla e con tanto impeto all'animo di Lucia, che il parlarne diveniva per lei quasi uno sfogo necessario.
Dopo aver dunque risposto alla meglio ai rimproveri che la vedova le fece di un tanto segreto tenuto con lei, cominciò il racconto che fu spesso interrotto dai suoi singhiozzi, e dalle esclamazioni e dalle inchieste della ascoltatrice.
Fermo intanto era giunto alla capannuccia del Padre Cristoforo, e avendolo veduto lì fuori presso, che pregando, chiudeva gli occhi ad un morente, si era ritirato nella capannuccia senza dar voce né far segno che turbasse quel pio e doloroso uficio.
Quando il poveretto fu spacciato, Fermo si mostrò, e il Padre Cristoforo andò a lui, che tosto gli raccontò la lietissima scoperta ch'egli aveva fatta di Lucia viva e sana, e quell'altra scoperta che era venuta, come a tradimento, a guastargli una tanta consolazione.
Benché egli in questa parte del racconto volesse aver l'aria di chi propone un dubbio superiore ai suoi lumi aspettando il giudizio d'un sapiente, pure non lasciò scappare nessuna occasione di qualificare d'imprudenza e di pazzia quel voto che veniva per lui così male a proposito.
Così faceva sentire che per la parte sua il giudizio era bell'e fatto; e intanto guardava attentamente al volto del Padre Cristoforo per iscoprire un pensiero, dal quale avrebbe potuto dipendere la sua sorte.
Ma non potendo leggervi nulla, terminò con una aperta domanda: «Che ne dice, padre?» Il Padre stava pensoso: combattuto fra il desiderio di rivedere Lucia, e la speranza di consolarla forse, e il timore di rendersi colpevole, abbandonando per qualche tempo i suoi infermi.
Dopo essere così rimasto alquanto, pronunziò ad alta voce la conclusione del dibattimento che era stato tra i suoi pensieri.
«Ho un dovere con quella creatura», diss'egli.
«Dio l'aveva in altri tempi indirizzata a me, ed ora non me l'ha fatta venir così presso perché io ricusi di esserle utile.
Andiamo».
Lasciò per la seconda volta i suoi ammalati alla cura del Padre Vittore, e si mosse con Fermo.
Questi andava innanzi tacito facendo la guida per quel triste labirinto, e dirigendosi al viale per cui era passato la prima volta, e il Frate pur tacito gli teneva dietro.
Gli oggetti che ad ogni mutar di passo si succedevano alla vista, tenevano occupato l'animo di quella compunzione che non trova parole; e in quel momento su quel mesto spettacolo pareva che scendesse e pesasse una mestizia più cupa e più grave dell'ordinario.
Una nuvola comparsa all'occidente aveva a poco a poco coperto tutto il cielo: e alla oscurità crescente, avresti detto che il giorno era finito, se il sole lontano ancor forse due ore dal tramonto non avesse mostrato come dietro ad un velo spesso ed immobile, il suo disco grande e biancastro, donde partivano, non vivi raggi e diretti, ma un barlume scialbo e circonfuso che mandava una caldura morta e gravosa.
L'aria non dava un soffio: non si vedeva muovere una tenda delle trabacche, né piegar la cima d'un pioppo nelle campagne d'intorno.
Solo si vedeva la rondine, sdrucciolando rapidamente dall'alto, rasentare con l'ali tese, per un picciol tratto la superficie ingombra e confusa di quel terreno; e tosto risalire, volteggiare per l'aria in cerchii veloci, e piombar di nuovo.
Un'afa faticosa prostrava gli animi con una oppressione straordinaria: la lotta del morire era più affannosa; i gemiti dei languenti erano soppressi dall'ambascia; il movimento delle opere era stanco, rallentato, come sospeso: quella dubbia luce dava al colore della morte e della infermità un non so che di più livido; un non so che di più squallido all'abbattimento ond'erano atteggiate le figure dei sani: e su quel luogo di desolazione non era forse ancor passata un'ora amara al par di questa.
Eppure quegli che sopravvissero rammentarono quell'ora con gioja per tutta la vita; era la preparazione d'una burasca, che scoppiò la notte, e menò poi per due giorni una pioggia continua, dopo la quale il contagio cessò quasi ad un tratto.
Sotto il fascio di quella comune gravezza, procedevano il giovane e il vecchio, con la fronte bassa il primo e con l'animo diviso fra lo studio della via, fra l'orrore delle cose che vedeva, e l'ansietà del suo destino futuro; e l'altro levando di tratto in tratto al cielo la faccia smunta come per cercare un più libero respiro, e per secondare con quell'atto una speranza interna.
«È qui», disse Fermo con voce tremante accennando la capanna; e v'entrarono che Lucia col volto lagrimoso stava proseguendo il suo racconto.
Al riveder Fermo ella trasalì, e al vedere il Padre Cristoforo balzò dal saccone di paglia ov'era seduta, e gli si gettò incontro su la porta.
«Oh Padre!...
Signore Iddio! come sta ella?» soggiunse poi tosto vedendogli i segni della morte in volto.
«Come Dio vuole, mia buona figlia», rispose il Frate: «e presto spero starò bene affatto».
«Come?...» disse Lucia.
«Come Dio vorrà», riprese egli tosto.
«Parliamo ora di voi, per cui son venuto».
«Oh Padre! quanto tempo! quante cose!» disse Lucia.
«Quante cose!» ripetè il Frate: «e certo se fossimo là ai vostri monti, seduti in su la porta della casetta di quella buona Agnese, mi lascerei andar volentieri a farne lunghi discorsi.
Ma qui il tempo è misurato».
E tosto trattala in disparte in un angolo della capanna, continuò:
«Fermo mi ha detto che avete fatto voto di non maritarvi».
«È vero», rispose Lucia, arrossando.
«Avete voi pensato allora», proseguì il vecchio, «che voi avevate un impegno solenne di matrimonio, e che offerivate alla Vergine una libertà della quale avevate già disposto? E che riprendevate una parola già data, senza sapere se quegli che l'aveva ricevuta avrebbe consentito a restituirvela?»
«Ho fatto male?» chiese Lucia, con sorpresa, e con un rimorso che non era tutto doloroso.
«Avete voi confidato a nessuno questo vostro nuovo impegno?» interrogò di nuovo il Frate: «avete chiesto consiglio?»
«Non ho ardito», rispose Lucia.
«Ed ora», proseguì egli, «che vi dice il vostro cuore di quel voto?»
«Che vuol ella che me ne dica?» rispose Lucia arrossando più che mai e chiudendo quasi del tutto gli occhi ch'erano già chini a terra.
«Se non lo aveste fatto, lo fareste?»
«Se...
non fossi in quel pericolo...
in un grande pericolo...
e poi, se non è permesso...
non lo farei».
«Se non lo aveste fatto, sareste tuttavia risoluta di sposare quell'uomo a cui avevate promesso?»
«Io credeva...
che fosse male il pensarvi...
ma poi ch'Ella me ne domanda...
ah Padre sì!»
Fermo intanto adocchiava ansiosamente verso quell'angolo, e la vedova anch'essa stava in una tacita aspettazione.
Il Frate si fece presso a loro, accennando a Lucia, che lo seguì con gli occhi bassi.
Allora egli con voce spiegata le rivolse questa nuova interrogazione:
«Credete voi che la santa madre Chiesa ha ricevuta da Dio l'autorità di sciogliere e di legare?»
«Lo credo», rispose Lucia.
«Credete voi dunque che ella possa in suo nome ricevere, confermare, o rimettere i voti che gli son fatti, interpretando la sua volontà in questo come nel perdono dei peccati, e usando una potestà che tiene da Lui?»
«Lo credo», rispose ancora Lucia.
«Domandate voi alla Chiesa di essere sciolta dal voto di verginità che avete fatto, o inteso di fare alla Madre santissima di Dio?»
«Lo domando», rispose Lucia con una prontezza, alla quale Fermo non ebbe nulla a desiderare, e che potrà parere forse troppa a chi non essendo stato presente a quell'atto, non rifletta che la solennità della richiesta, l'aria autorevole di chi l'aveva fatta, non lasciavan luogo a titubamenti leziosi, e che ivi la verecondia doveva essere tutta nella sincerità.
«Ed io», disse allora il buon Frate, con tuono ancor più solenne, «prego umilmente la Vergine regina di tutti i santi, che abbia sempre per aggradito il sentimento del vostro divoto e travagliato sacrificio, e lo offra al suo e nostro Signore; e con l'autorità che la Chiesa mi ha affidata, vi sciolgo dal voto, annullando ciò che vi potè essere d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione, se ne avete contratta».
Non parleremo dell'effetto, che queste parole produssero nell'animo dei due giovani: la buona vedova era tutta commossa.
Il Frate continuò rivolto a Lucia: «Siate moglie pudica, moglie affettuosa moglie contenta di quella contentezza che conduce all'eterna.
Questo Iddio ha voluto e vuole da voi».
Quindi levò le mani verso i due giovani come per parlare ad ambedue.
Essi caddero ginocchioni ai suoi piedi, ed egli tutto assorto, e quasi senza avvedersi di quell'atto, stese le mani su le loro teste, e stette un momento pensoso.
Erano nel fondo della capanna, come chiusi tra quello e il letto della vedova che teneva gli occhi fissi su di loro: i giovani inginocchiati con la fronte bassa, e il Frate ritto dinanzi a loro con le spalle rivolte alla porta.
«Figliuoli», disse egli, «che ho amati, e che amerò sempre, ricordatevi che se la Chiesa vi assolve da un sagrificio, non lo fa per procurarvi le consolazioni di questa vita che deve esser tutta un sacrificio; ma per mettervi su la via della santificazione.
Amatevi, come compagni di viaggio, col pensiero di avere a lasciarvi, con la speranza di ritrovarvi ancora e per sempre.
Rendete grazie al cielo che vi ha condotti a questo stato non con le allegrezze turbolente e passeggiere, ma coi travagli, e fra le miserie per disporvi ad una gioja raccolta temperata, e continua.
E nei vostri discorsi qualche volta, e sempre nelle vostre preghiere, ricordatevi...»
Queste parole che rinchiudevano come un presentimento, e un tristo addio, rinnovarono nell'animo di Lucia l'impressione dolorosa che le aveva prodotta l'aspetto di chi le proferiva.
Levò ella gli occhi quasi involontariamente, tutta commossa, a riguardarlo di nuovo; ma insieme con l'oggetto che cercava il suo sguardo un altro inaspettato le se ne offerse su la porta della capanna, alla vista del quale ella mandò uno strido repentino.
Tutti gli occhi si rivolsero a quella parte donde le era venuta quella subita commozione.
CAPITOLO IX
Ritto sul mezzo dell'uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi nei quali si dipingeva ad un punto l'attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire.
Ma in quello sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri due.
Quell'infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sè, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre Cristoforo; senza esser veduto da loro.
Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta l'antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle immagini odiose che le erano come sfumate dinanzi.
In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un tale delirio s'era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da lontano a quei due.
Ma quando essi uscendo dalla via s'internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto.
Entratovi anch'egli da un altro punto poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna, tanto che s'era trovato a quella in cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure.
Quivi ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo una impressione che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia.
Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva che le biscie stessero all'incanto; quando Lucia s'accorse di lui.
Dopo la sorpresa il primo sentimento di quella poveretta fu una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione.
Entrambi si mossero verso quell'infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella verso la chiesa.
Il frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve corsa, egli s'abbattè presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera.
Un romore si levò all'intorno, un grido di «piglia, piglia»; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s'inalberava, e scappava vie più verso il tempio.
I due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti compresi alla capanna, dove Lucia stava ancora tutta tremante.
«Giudizii di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per quell'infelice».
Dopo un momento di silenzio, il pensiero che venne a tutti fu di concertare insieme quello che era da farsi: e i concerti furon questi: che Fermo partirebbe tosto, giacché ivi non v'era ospitalità da offerirgli, cercherebbe un ricovero per la notte in qualche albergo, e all'indomani si rimetterebbe in via pel suo paese, porterebbe ad Agnese le nuove della sua Lucia, andrebbe poi a Bergamo a disporre la casa dove intendeva di stabilirsi con la moglie e con la suocera; e tornerebbe poi ad aspettare Lucia nel suo paese, dove dovevano celebrarsi le nozze: ne avvertirebbe intanto Don Abbondio, il quale era da sperarsi che invece di frapporre nuove difficoltà, sarebbe vergognoso di quelle che aveva frapposte altra volta.
Quanto a Lucia, ella protestò prima d'ogni cosa che non si staccherebbe dalla sua buona compagna, finché questa non fosse affatto guarita, e ristabilita nella sua casa.
Il Padre la lodò, Fermo non v'ebbe nulla a ridire, e la vedova tutta commossa, promise che accompagnerebbe essa Lucia a casa, e la consegnerebbe a sua madre.
«E voglio farle il corredo», aggiunse all'orecchio del Padre a cui aveva fatto cenno di avvicinarsi.
«Dio vi benedica», le rispose il buon vecchio.
«E tu», disse poi a Fermo, «che stai qui tardando? il tempo, come vedi, si fa più nero, e la notte si avvicina: affrettati di cercare un ricovero».
Convien dire ancora ad onore di Fermo, che in quel momento non gli doleva tanto lo staccarsi da Lucia appena trovata, è vero, ma ch'egli contava di riveder presto, quanto dal Padre Cristoforo, che restava lì a morire.
«Ci rivedremo, padre?» disse il buon giovane.
«Se Dio vorrà, e quando Egli vorrà» rispose il frate, vincendo una commozione che andava crescendo.
«Va, va che non c'è tempo da perdere».
Fermo, disse con voce accorata; riverisco, al Padre che lo benedisse, e gli strinse la mano: disse addio a Lucia e alla vedova, sopprimendo un: - a rivederci presto -, che gli veniva su le labbra; poi spiccatosi in fretta, partì.
«Vi raccomando l'una all'altra, buone creature», disse, il frate; e fece atto pure di andarsene: ma nel dare a Lucia uno sguardo di commiato, vide nell'aspetto di lei mista alla commozione una grande inquetudine; s'avvisò tosto di ciò che poteva esserne la cagione, e disse: «Di che state inquieta?»
«Quell'uomo...!» disse Lucia.
«Poveretto!» rispose il frate, «non è più in caso di far paura a nessuno: non lo vedrete più, siatene certa.
Pure», soggiunse, dopo d'aver pensato un momento, «per ogni altro evento, sarà meglio ch'io vi raccomandi a qualcheduno dei nostri».
Così detto, uscì, girò un poco in ronda, finché trovò un capuccino, e condottolo alla capanna, gli mostrò le due donne, e gli disse: «sono due derelitte; vi prego di averne una cura particolare.
Vi lascio con Dio», disse poi alle donne, e uscì dalla capanna.
Lucia lagrimando lo seguiva, ed egli le imponeva che tornasse, e così si trovarono entrambi sulla grande strada, dove videro una folla di monatti, che accorreva in tumulto, gridando «aspetta, aspetta», ad altri monatti che guidavano un carro verso la porta.
Il carro si fermò quasi davanti ai nostri due amici: quei monatti sopraggiunsero tosto ansanti; e due che portavano un morto lo gittarono sul carro, dicendo un d'essi: «mettetelo bene in fondo costui, che non torni a cavallo, a farci tribolare».
«Che diavolo è stato», disse più d'uno di quei carrettieri.
«Il diavolo», rispose il monatto, «l'aveva in corpo costui: è andato su e giù finch'ebbe fiato: se durava ancora, faceva crepare il cavallo: ma è crepato egli, e allora per amore o per forza ha dovuto scendere».
Il Padre Cristoforo, rivolto allora a Lucia le disse: «ricordatevi di pregare per questa povera anima voi, e vostro marito, per tutta la vita, e di far pregare i vostri figliuoli, se Dio ve ne concede.
Tornate alla vostra compagna.
Iddio sia sempre con voi».
Dette queste parole, prese in fretta il viale, per andarsene alla sua stazione; Lucia, compunta di quella separazione, e atterrita dallo spettacolo, tornò a capo basso e col petto ansante alla sua capanna; e Don Rodrigo su la cima d'un tristo mucchio, fra lo strepito e le bestemmie, usciva dal lazzeretto per andarsene alla fossa.
Usciamone una volta anche noi; e teniam dietro a Fermo, il quale alloggiò la notte come potè, il giorno seguente benché la pioggia venisse a secchie si rimise in cammino, e si condusse fin presso al suo paese, dove giunse il terzo dì, molle, affaticato, sciupato, ma pure più lieto che non fosse stato da un gran pezzo.
Il rivedersi di lui e d'Agnese, la gioja di questa alle novelle che gli eran date, sono di quelle cose che i narratori passano in silenzio, nel supposto ragionevole, che il lettore se le può immaginare.
Con Don Abbondio le cose non furono così chiare.
Prima di tutto egli si fece pregare alquanto prima di aprire la porta a Fermo; anzi non vi si ridusse che allorquando la voce di questo gli parve un po' alterata, e le parole tinte un po' di minaccia.
Apertogli, lo accolse con quella cera che un uomo imbrattato di debiti mostra ad un creditore che vorrebbe sapere mille miglia lontano, ma che pure non vorrebbe irritare al segno che quegli gli desse un libello.
«Siete qui voi!» disse Don Abbondio.
«Son qui», rispose Fermo, «grazie a Dio, e sono ad avvertirla che presto sarà qui anche Lucia Mondella, con la quale ella avrebbe dovuto sposarmi, è un anno e dieci mesi, e con la quale ora ella mi sposerà.
Meglio tardi che mai».
«Oh santo Dio benedetto!» sclamò Don Abbondio.
«Signor curato», ripigliò Fermo: «quel signore che diede tanto fastidio a noi poveretti ed anche a lei, non ne darà più a nessuno».
«Che vuol dire?» chiese Don Abbondio.
«Vuol dire», rispose Fermo, «che Don Rodrigo a quest'ora debb'esser all'altro mondo».
«Chi lo dice? chi lo dice?»
«Lo dico io», rispose Fermo, «che l'ho veduto al Lazzeretto, col male addosso, acconciato pel dì delle feste, che faceva pietà».
«Eh figliuolo! si guarisce, si guarisce dalla peste.
Siam guariti anche noi».
«Le dico, che a quest'ora sarà morto sicuro».
- Se fosse la vacca d'un pover'uomo, - disse Don Abbondio fra sè e sè.
«Basta», soggiunse Fermo con quel tuono risoluto che spiaceva tanto al suo ascoltatore; «basta, quel che è stato, è stato, ma finalmente quel che si doveva fare prima s'ha a fare ora, e si farà».
«Ma un parere, un parere d'amico», disse con una amabile modestia Don Abbondio, «non ha da potervelo dare un vecchio, che vi vuol bene?»
«Che parere?»
«Con quella cattura che avete su le spalle, compatitemi, non vi conviene star qui: maritatevi altrove; e Dio vi benedica».
«Le torno a dire che nessuno pensa né alla cattura, né a me: ho girato il mondo, e so anch'io che impicci porta, e che tempo domanda il maritarsi lontano da casa sua: qui abbiamo le nostre case, qui si può concluder tutto in un momento, senza impicci; basta che ella voglia; e le dico io ch'ella vorrà».
«Ma figliuolo, ma figliuolo...»
«La riverisco», rispose il figliuolo, e lasciando Don Abbondio in quei pensieri che il lettore conosce, gli volse le spalle; e se ne andò a Bergamo a disporre le sue faccende, e la casa per la sposa.
Questa frattanto, guarita la vedova, era uscita con essa dal lazzeretto, il quale di giorno in giorno si andava spopolando.
Perché come abbiamo accennato, dopo quella dirotta, il contagio mollò, come suol dirsi, repentinamente; e così venne a cessare la trista trasmigrazione della cittadinanza al lazzeretto; quei che v'erano, in poco tempo morirono, o risanarono.
La vedova trovò la sua casa intatta, v'entrò con Lucia: ivi stettero insieme a fare un po' di quarantena; deposero ed arsero i panni della malattia; il fondaco somministrò la materia dei nuovi vestimenti: e la vedova attenendo quello che aveva promesso al padre Cristoforo volle ad ogni costo provvedere Lucia d'un bel fornimento d'abiti, con tutto il lusso contadinesco; e vi lavorarono insieme per tutto quel tempo che stettero rinchiuse.
Il giorno stesso dell'arrivo in casa, la vedova per servire alle giuste premure della sua ospite mandò ai capuccini a chieder conto del Padre Cristoforo.
Come il lettore l'avrà indovinato, il nostro buono e caro amico, era morto al lazzeretto.
Lasceremo pure che il lettore s'immagini il dolore di Lucia; e senza più perderci in lungaggini, diremo che un bel giorno ella giunse alla sua casetta, in compagnia della vedova, in una delle più belle carrozze che usassero i mercanti d'allora.
In quel frattempo, il contagio era cessato quasi da pertutto, e tutte le precauzioni erano dismesse.
Agnese non istette dunque alla lontana dalla figlia, come aveva fatto con Fermo, ma le gettò le braccia al collo, e fece tosto una grande amicizia con la vedova.
Fermo che era tornato e che stava quivi aspettando l'arrivo desiderato, si trovava in casa d'Agnese in quel momento.
Le accoglienze, il tripudio di tutti non è da dirsi, e i discorsi, i racconti non sono da ripetersi: son cose che il lettore in parte sa, in parte può immaginarsi.
Il giorno seguente, andarono tutti e quattro da Don Abbondio, il quale al tocco della porta accorse alla finestra, e veduta quella brigata, scese gemendo, e grattandosi in capo, ad aprire.
Le accoglienze furon fredde, e imbarazzate: e a dir vero faceva proprio rabbia a vedere quella faccia svogliata e soffusa per dir così d'un mal umore e d'una stizza repressa, in mezzo a tanti aspetti allegri.
Ma Fermo che conosceva il male del pover uomo, gli amministrò tosto la medicina con queste parole: «Quel signore è poi morto davvero».
Don Abbondio non si abbandonò alla gioja da spensierato, ma volle sapere con che fondamento si affermasse una tale...
notizia.
«L'ho veduto io pur troppo», disse Lucia, raccapricciando ancora al ricordarsene.
Don Abbondio volle sentire il racconto, si fece ripetere molte circostanze, e quando fu ben certo che Don Rodrigo era veramente passato all'altra vita, mise un gran respiro, i suoi occhi s'animarono, tutti i lineamenti del suo volto si spiegarono come un fiore che sbuccia al raggio di primavera.
«È morto!» sclamò egli: «Oh provvidenza! provvidenza! Ecco se Domeneddio arriva certa gente.
È morto senza successione, per un giusto giudizio, e anche per un gran benefizio della provvidenza; perché se colui avesse lasciato gente della sua razza, bisognerebbe dire: è morto un buon cavaliere: peccato! un degno gentiluomo.
Così, si può finalmente dire il suo cuore.
Ah! Non c'è più quel burbero, quel soperchiatore, quello spaventacchio.
Questa pestilenza è stata un flagello, figliuoli, un flagello; ma è stata anche una scopa: ha spazzato via certa gente, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: birboni, freschi, verdi, vigorosi, che sperare di far loro le esequie, sarebbe stata una prosunzione peccaminosa; si sarebbe detto che il prete destinato ad asperger loro la cassa stava ancora facendo i latinucci; e in un batter d'occhio sono iti: requiescant.
Ah!...
Ma, che facciamo noi qui», soggiunse poi, come ravvedendosi, «qui in piedi, in questo andito? venite figliuoli, venite nella mia saletta; venga signora mia, ben venuta in queste parti; andiamo a sedere, e a discorrere tranquillamente dei fatti nostri.
Perché», continuò egli camminando, «quello che s'ha da fare voglio che lo facciamo presto; che è troppo giusto.
Non mi piace, vedete, far penare la gente.
E principalmente voi, figliuoli cari»,: e qui eran giunti nella sala, e fatti sedere da Don Abbondio, che proseguì: «principalmente voi, ai quali ho sempre voluto bene.
Ma che volete? Alle volte bisogna far bella cera a quegli che si vorrebbero veder lontani le mille miglia, e cera brusca a quelli che si amano: si pare amici dei birboni, e nemici dei galantuomini; ma, santo cielo! bisogna vestirsi dei panni d'un povero galantuomo.
Basta; è finita; veniamo a noi.
Figliuoli, non bisogna perder tempo; oggi, che giorno è?...
Venerdì: posdomani rinnoveremo le pubblicazioni; perché quelle altre già fatte, dopo tanto tempo, non valgono più nulla; e poi voglio avere io la consolazione di maritarvi; e subito subito, voglio darne parte a Sua Eminenza».
«Chi è Sua Eminenza?» domandò Agnese.
«Il nostro arcivescovo», rispose Don Abbondio, «quel degno prelato: non sapete che il nostro santo padre Urbano ottavo, che Dio conservi, fino dal mese di Giugno, ha ordinato che ai cardinali si dia il titolo di Eminenza?»
«Ed io», replicò Agnese, «che gli ho parlato, come parlo a Vossignoria, ho inteso che tutti gli dicevano: Monsignore illustrissimo».
«E se gli aveste a parlare ora», replicò Don Abbondio, «dovreste dirgli: Eminenza, sotto pena di passare per malcreata, o per ignorante.
Così ha voluto il papa: è ben vero che alcuni principi sono in collera, e non vorrebbero questa novità: ma, tra loro magnati se la strighino: io povero pretazzuolo non ho di questi affanni.
Torniamo al fatto nostro.
Voglio che stiamo allegri: abbiamo avuto tanto tempo di malinconia.
Farete un po' di banchetto: eh?»
«Da poveri figliuoli», rispose Fermo.
«Ed io verrò a stare allegro con voi; verrò, vedete», disse Don Abbondio.
«Oh signor curato», rispose Fermo, «intendevamo bene di pregarla...»
«Ed io vi ho prevenuti», riprese Don Abbondio, «per farvi vedere che vi sono amico; che vi voglio bene, quantunque m'abbiate dato anche voi qualche travaglio: non parlo di te che sei un malandrinaccio», disse rivolto a Fermo, sorridendo, «ma anche voi con quell'aria di quietina»: e qui rivolto a Lucia, e alzata la mano con l'indice teso, e stretto il rimanente del pugno la moveva verso di essa in atto di amichevole rimbrotto; e continuò: «bricconcella, anche voi mi avete voluto fare un tiro: quella sera: quella sorpresa: quel clandestino: basta non ne parliamo più; quel ch'è stato è stato: non è colpa vostra; è un mio destino, che tutti più o meno debbano darmi qualche fastidio: tutto è finito: pensiamo a stare allegri».
Lucia sorrise; Agnese stava per aprir la bocca ad argomentare contra Don Abbondio, e provargli che il torto era suo; ma Fermo le fece cenno di tacere; e rispose egli in vece con un complimento al curato; e con qualche altro complimento, il congresso finì con universale soddisfazione.
Il tempo che scorse tra le pubblicazioni e le nozze, fu impiegato dagli sposi ai preparativi pel traslocamento a Bergamo, e pel trasporto colà del loro modico avere, e Agnese, la quale come il lettore se n'è avveduto, pareva sempre voler dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna, viveva per gli altri, e faceva a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si arrabbattò per la causa comune: la vedova anch'essa non lasciava di dare una mano.
Forse taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari altrui, a prima giunta, che non vegga colui di chi sono gli affari, dopo avervi molto pensato, domanderà per qual motivo quella famiglia volesse abbandonare il luogo natale, la sua casuccia, il suo picciol fondo, ora che era tolto di mezzo colui che gl'impediva di posarvisi tranquillamente.
Per tre ragioni principalmente.
La prima: quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per quella sua impresa di Milano, e la cattura fosse un titolo inoperoso; pure un sospetto, una reminiscenza, un mal uficio, poteva far risorgere l'antica querela, e rimetterlo in Dio sa quale impiccio.
La seconda, è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si contano quasi per nulla, ma che nel caso concreto sono più potenti a determinare che molte altre.
Ciò che Fermo aveva sofferto, e temuto nel suo paese, gliel'aveva reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le angherie d'un soverchiatore, i pericoli della prigione, e di peggio, poi il furore del popolo, che lo cercava a morte.
Memorie di questo genere disgustano l'uomo dai luoghi che le richiamino, e se quei luoghi sono la patria, ne lo disgustano tanto più, appunto perché gli guardava prima con fiducia, e con affezione.
Anche il bambolo riposa volentieri sul seno della nutrice, rifugge a quello da tutti i terrori, cerca con avidità la poppa che lo ha nutricato fin allora, e s'accheta quando l'ha presa: ma se la nutrice, per divezzarlo, intinge la poppa d'assenzio, il bambino torce con dolore e con pianto il labbro da quella nuova amaritudine, e desidera un cibo diverso.
Finalmente, i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste circostanze gli avevano costretti a dismettere per molto tempo la loro professione; ma né l'uno né l'altro aveva amore all'ozio; e il loro disegno era di ripigliare tosto il lavoro per vivere tranquillamente e onestamente, e per nutrire ed allevare i figliuoli che speravano, come tutti gli sposi fanno.
Ora l'industria della seta, come tutte le altre era già decaduta spaventosamente nel milanese, prima di quelle recenti sciagure; e queste le avevan poi dato l'ultimo crollo.
Non è questo il luogo di descrivere quello stato di cose, e di toccarne le cagioni.
Già molte nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità appajono anche troppo in questa lunga storia: chi volesse conoscere le più immediate legga, se non le ha lette, le belle memorie storiche del conte P.
Verri sulla economia pubblica dello Stato di Milano; e se vuol conoscere più a fondo, frughi nei documenti originali, da cui quel valentuomo ha cavate le sue memorie.
Basti a noi il dire che l'uomo il quale aveva abilità e voglia di lavorare, stentava nel Milanese, e che nel Bergamasco, come in altri stati vicini si offerivano esenzioni, privilegii, ed altri incoraggiamenti ai lavoratori che volessero trasportarvisi.
Questa differenza fece uscire una folla di operaj, e rivivere in quegli stati molte manifatture che perirono nel milanese dove avevano fiorito.
Differente per conseguenza era anche l'aspetto dei due paesi.
In Bergamo (non vogliam dire che fosse il paradiso terrestre) dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i tristi segni, e i tristi effetti di quella: la spopolazione, le terre incolte, l'ardire cresciuto nei ribaldi, le abitudini dell'ozio, e del vagabondare: ma in quella petulanza stessa v'era una certa aria di allegria nata se non dalla abbondanza, almeno dalla sufficienza dei mezzi e dei capitali: quegli poi che avevano voglia di far bene trovavano in quei capitali una facilità grande e pronta.
Ma nel Milanese una cagione viva e incessante di miseria sopravviveva alle miserie della peste; un sistema che onorava l'orgoglio ozioso, che favoriva la soverchieria perturbatrice, che alimentava tutti gli studj del raggiro, e delle ciarle, un sistema oppressivo e impotente, insensato e immutabile, un sistema di rapine e di ostacoli, impediva l'industria, la pace, e l'allegria.
Scelta dunque un'altra patria, i nostri eroi, erano però impacciati del come convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove erano nati: ma la fortuna - non osiamo dire la provvidenza - la fortuna che voleva favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar lietamente una storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo.
I beni di Don Rodrigo erano passati per fedecommesso ad un parente lontano; il quale era un uomo di ben diverso conio; un galantuomo, un amico del cardinal Federigo.
Prima di andare a prender possesso di quella eredità, trovandosi egli col cardinale gliene parlò.
«Avrete forse una occasione di far del bene e di riparare il male che ha fatto Don Rodrigo», gli disse il cardinale, e gli raccontò in succinto la persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri sposi, e il danno di ogni genere che ne avevan patito.
«Se son vivi tuttora», soggiunse, «non vi prego di far loro del bene, che con voi non fa bisogno; ma di darmi notizia di loro, e di dire a quella buona giovane ch'io mi ricordo sempre di lei, e mi raccomando alle sue orazioni».
Il galantuomo, appena giunto al castellotto, si fece indicare il villaggio degli sposi, e si presentò al curato.
Don Abbondio al vedere il nuovo padrone di quella altre volte caverna di ladroni, umano, cortese, affabile, rispettoso verso i preti, voglioso di far del bene, non si può dire quanto ne fosse edificato.
E quando quel signore lo richiese di Fermo e di Lucia, e gli manifestò le sue intenzioni benevole, Don Abbondio, non solo si prestò volentieri, a secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto felice.
«Signor mio», diss'egli «questa buona gente è risoluta di lasciar questo paese; e il miglior servizio ch'ella possa render loro è di comperare quei pochi fondi che tengono qui.
A lei potrà convenire di aggiungerli ai suoi possessi; e quella gente si troverà fuori d'un grande impiccio».
Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio se non sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi, e insieme a conoscere quella brava gente.
«È un onore immortale», disse Don Abbondio facendo una gran riverenza; e andò in trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la proposta, che fu molto gradita.
Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio, a cui il signore disse all'orecchio, che lo stabilisse molto alto.
Don Abbondio così fece; ma il signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i ringraziamenti dei venditori, gli invitò a pranzo nel suo castello pel giorno dopo quello delle nozze.
Quel giorno benedetto venne finalmente: gli sposi promessi, furono marito e moglie; il banchetto fu molto lieto.
Il giorno seguente ognuno può immaginarsi quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don Abbondio, entrando non solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed onorevole nel castello, che era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa, mancava il Padre Cristoforo: ma egli era andato a star meglio.
Non possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il padrone non vi sedè; allegando che il pranzare a quell'ora non si confaceva al suo stomaco.
Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel brav'uomo non aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli, che si sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in una malattia.
Tanto anche a chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro non comandi la vittoria.
Il terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse di rivedersi, che si fanno anche quando s'ignora se e quando si potranno adempire, si staccò dalla sua Lucia, e tornò a Milano: e gli sposi con la buona Agnese che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un po' di crepacuore ai loro monti, e s'avviarono a Bergamo.
Avrebbero certamente divertito dalla loro strada, per far una visita al Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste contratta nell'assistere ai primi appestati.
La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con la buona condotta.
Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio».
Ella visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare bella giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo.
Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: «d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra».
Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse.
A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi.
Quando tu non volessi dire», aggiunse ella soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te».
Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì ordinariamente de' guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende utili per una vita migliore.
Questa conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.
17 settembre 1823
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