FERMO E LUCIA, di Alessandro Manzoni - pagina 106
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«Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che percote e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu sai, tu, quale sia la giustizia? Va, sciaurato, vattene! Io sperava...
sì, ho sperato che, prima di morire, Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentire che la mia povera Lucia fosse viva, forse di vederla, e di sentirmi promettere ch'ella manderebbe una preghiera là verso quella fossa dov'io sarò.
Va; tu m'hai tolta la mia speranza.
Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo non hai l'ardimento di crederti degno che Dio pensi a consolarti.
Avrà pensato a lei; poiché ella era di quelle anime a cui son riservate le consolazioni eterne.
Va; non ho tempo di più darti retta».
E, così dicendo, gettò da sè la mano di Fermo, e si mosse verso una capanna d'infermi.
«Ah padre!» disse Fermo con voce affranta, «mi vuol ella mandar via a questo modo?»
«Come!» riprese con voce non meno severa il capuccino: «ardiresti tu di pretendere ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, che aspettano ch'io parli loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di rabbia, i tuoi disegni di vendetta? Ti ho ascoltato quando tu potevi aver bisogno di conforto, chiedevi consolazione, e indirizzo; mi son tolto alla carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore; che vuoi da me? Vattene; ho veduti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori, che avrebber voluto potersi umiliare dinanzi all'offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che posso fare?...
se tu non gli perdoni da vero, e...»
Il suono di queste ultime voci era raddolcito, e l'aspetto del vecchio nel proferirle, pure in mezzo alla severità annunziava una tenerezza pronta a scoppiare.
«Ah gli perdono!» disse Fermo piangendo: «così Dio perdoni a me! così possa io tornar qui a dirle che Lucia è viva, che Lucia vivrà».
«Vien qua» disse il padre, pigliandolo per mano; e lo ricondusse nella capannuccia, e lo fece seder come prima presso di sè.
Fermo stava tutto intento e commosso.
«Sai tu», disse il padre, «perché io porto quest'abito?»
Fermo esitava: «Lo sai tu?» riprese il padre.
«Lo so», rispose Fermo.
«Tu sai che questa mano ha ucciso!»
«Sì, ma un prepotente che l'aveva aizzato, uno di quei...»
«Taci», interruppe il frate.
«Credi tu che se vi fosse stata una buona ragione, io non l'avrei trovata in quarant'anni? perché, son quarant'anni ch'io vi penso, e grazie a Dio, per quarant'anni ne ho avuto dolore, e mi sono accusato: e ho pregato Dio che in segno del suo perdono eterno, Egli mi punisse in questa vita, che pigliasse la mia in sacrificio, come io aveva ardito disporre di quella d'un uomo; che mi facesse morire in servizio d'altrui; e spero d'essere esaudito.
Non creder tu ora dunque di poter consolarmi: consolati piuttosto di essere tu in tempo a perdonare: non ispender vane parole; ascolta piuttosto le mie; v'è dentro il pensiero di tutta la mia vita, della men trista parte di essa.
Sai tu perché io ho ucciso? Perché v'era una cosa ch'io amava troppo.
Sì, figliuolo, ciò ch'io chiamava il mio onore, io lo amava ardentemente, sopra ogni cosa, come avrei dovuto amar Dio.
E quando la vita d'un uomo...
gran Dio! la vita d'uno fatto a vostra immagine! si trovò in confronto col mio onore, io gliel'ho sagrificata.
M'hai tu inteso!»
Fermo tutto commosso, rispose sinceramente: «padre sì».
In fatti egli intendeva qualche cosa di molto ragionevole, che bisogna amar Dio sovra ogni cosa, e non ammazzare.
Ma l'intento di quel discorso non passava nel suo intelletto: l'uomo che esprime le idee che sono state per lui soggetto d'una lunga e ripetuta meditazione, è oscuro, senza volerlo, anche per gente più colta che non fosse il nostro giovane montanaro.
Il padre Cristoforo continuò: «Il mio affetto era stolto, e superbo: il tuo è ragionevole e buono; la mia era passione non solo d'uomo furioso, ma di ragazzo stolido; perché che voleva io? che voleva io ad ogni costo? camminar rasente il muro, e non pigliare il mezzo della via; e tu, tu pensi da uomo savio a desiderare per tua compagna una di quelle donne che il cielo destina come un premio ai buoni; quella che tu scegliesti, e che ti scelse.
Ma il tuo affetto diventa ingiusto, diventa stolido com'era il mio, se tu non lo sottometti al volere di Colui che solo può renderlo santo.
E un tale amore, bada bene alle mie parole, un tale amore, quando tutto ti andasse a seconda, quando tu ottenessi ciò che più desideri, un tale amore tosto, o tardi, più tosto che tardi, ti tornerebbe in amaro: come; io non lo so, ma senza dubbio: e parlo dal tetto in giù.
Or pensa che bel conforto avresti di questo amore, se, perduto ciò che te lo fa parer tanto dolce, non te ne rimanesse che un odio, nessuna speranza che d'una vendetta, nessun frutto che un omici...»
«Non lo dica», interruppe Fermo, come atterrito.
«Rendi grazie a Dio», riprese il padre, «che tu non abbi a pentirti che d'un pensiero.
Ma il pentirsi del fatto...
ah! è ben amaro! E il non pentirsi è orrendo, orrendo più che non si possa comprendere in questa vita.
Fermo! giuri tu il perdono?»
«Ah! lo giuro», rispose Fermo in tuono solenne.
«A chi giuri tu di perdonare?»
«A quell'uomo...»
«A chi?»
«Sì, padre, a Don Rodrigo».
«Sì, Fermo, a Don Rodrigo: è un nome che fu posto sul fonte della rigenerazione ad una creatura redenta col Sangue d'un Dio; è un nome che forse è scritto sul libro della vita: perché Dio perdona; guai a te, se non fosse!» Dette queste parole, il vecchio stette pensoso un momento, tenendo tuttavia la mano di Fermo, poi abbandonatala, prese la sua sporta, ne trasse dal fondo un pezzo di pane arido, e scolorato, lo mostrò a Fermo, e disse:
«Vedi tu questo pane? Lo conservo da quarant'anni; l'ho mendicato nella casa di quello sventurato...
l'ho avuto dai suoi come un pegno di pace, e di perdono.
Ah! se avessi potuto prenderlo dalle sue mani! Prendi», - e porse il pane a Fermo - «conservalo ora tu: è il dono ch'io posso lasciarti per mia memoria.
E se, come spero, Iddio ti vuol condurre per quella via alla quale pare che Egli ti avesse chiamato, se tu sarai padre; mostra questo pane ai tuoi figli, conta loro la mia trista storia, di' loro che preghino pel povero capuccino, che morì pentito.
Saranno provocati, saranno offesi; di' loro che perdonino sempre, sempre, tutto, tutto.
Tu rimani a vivere in un secolo doloroso: i giorni che noi veggiamo son cattivi; quei che si preparano saranno peggiori: i figli dei provocatori, dei superbi, dei violenti, lo saranno più dei padri loro.
Gran Dio! questo flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna già maledetta: tanti grappoli abbatte; e quei che rimangono, son più tristi, più agresti, più guasti di prima.
Tu stesso, o Fermo, tu stesso, qui dove l'uomo non dovrebbe aver cuore che per la misericordia, tu odiavi ancora!»
Fermo non disse nulla, ma il suo volto esprimeva il pentimento.
«Or va», disse il padre alzandosi, «Iddio benedica le tue ricerche».
«Vuol dire, padre, ch'io la troverò?» richiese Fermo ansiosamente, come se parlasse ad uomo che ne potesse saper più di lui.
«Cercala con perseveranza», rispose il padre, «cercala con fiducia, e con rassegnazione.
Iddio può fare che tu la trovi, ma non te l'ha promesso.
Ti ha promesso di perdonare tutti i tuoi falli, se tu perdoni a chi t'ha offeso, ti ha promesso di renderti felice per sempre al fine di questa vita, se tu osservi la sua legge.
Non ti basta? Va; e qualunque sia il frutto della tua ricerca, vieni a darmene contezza: noi ringrazieremo Dio insieme».
Così dicendo, egli pose le mani su le spalle di Fermo, e stette un momento colla faccia elevata in atto di preghiera e di benedizione.
Poi staccandosi, disse; «Intanto io pregherò per voi; assistendo a questi vostri fratelli, io pregherò per voi».
Fermo si prostrò ginocchioni, stette un momento con le mani compresse al volto piangendo, e pregando; s'alzò, guardò intorno, uscì dalla capanna, e si diresse alla Chiesa, come gli aveva indicato il capuccino.
Egli era scomparso, e andava cercando intorno dove fosse più bisogno della sua assistenza.
CAPITOLO VIII
All'intorno del picciolo tempio v'era un picciolo spazio sgombro di capanne, e Fermo giungendovi, lo vide occupato da una folla distinta in ragazzi, in donne, e in uomini, tutti composti e in gran silenzio, fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria che veniva dal tempio.
Questo, elevato d'alcuni gradi al disopra del suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne disposte in circolo; nel mezzo v'era un altare che si poteva vedere da tutti i punti del lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi sono murati.
Ritto, su la predella dell'altare stava un capuccino, alto della persona, fra la virilità, e la vecchiezza; teneva con la destra una croce posata al suolo che gli sopravvanzava il capo di tutto il traverso; e con l'altra mano accompagnava di gesti il discorso che andava facendo.
Era questi il Padre Felice sopraintendente del Lazzeretto.
Fermo, giunto sull'orlo di quella adunanza avrebbe voluto avanzarsi a trascorrerla, e cercare ciò che gli stava a cuore; ma senza contare un altro capuccino che, con un aspetto tanto severo anzi burbero, quanto quello dell'oratore era pietoso, stava ritto in mezzo alla brigata per tener l'ordine; quella quiete generale, quell'attento silenzio, e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro ansioso che ogni movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio, e irriverenza.
Stette egli dunque alla estremità della brigata ad aspettare, e udì la perorazione di quel singolare oratore.
«Diamo adunque», diceva egli, «un ultimo sguardo a questo luogo di miserie e di misericordia, pensando quanti vi sono entrati, quanti ne sono stati tratti fuora per la fossa, quanti vi rimangono, quanto pochi al paragone siam noi, che ne usciamo non illesi, ma salvi, ma colla voce da lodarne Iddio.
L'anima nostra ha guadato il torrente; l'anima nostra ha guadate le acque soverchiatrici: benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia, benedetto nella morte, benedetto nella salvezza, benedetto nel discernimento ch'Egli ha fatto di noi in questo sì vasto, sì smisurato eccidio! Ah possa essere questo un discernimento di clemenza! possa la nostra condotta da questo momento esserne un indizio manifesto! Attraversando questo mare di guaj, diamo uno sguardo di pietà, e di conforto, a quegli che si dibattono tuttavia con la tempesta, e dei quali, ah quanto pochi, potranno come noi afferrare un porto terreno.
Ci vedano uscirne, rendendo grazie per noi, ed elevando preghiere per essi! Attraversando la città già sì popolosa, noi scarsa restituzione dell'immenso tributo ch'essa mandò in questo luogo, mostriamo agli scarsi suoi abitatori un popolo scemato sì, ma rigenerato.
Procediamo con la compunzione nel volto, e coi cantici su le labbra.
Quegli che son ritornati nella pienezza dell'antico vigore, porgano un braccio soccorrevole ai fiacchi; gli adulti reggano i teneri, i giovani sostengano con riverenza e con amore i vecchj, ai quali la salute ritornata non apporta che pochi giorni di stento.
E se in questo soggiorno di prova, in questo stesso crogiuolo di purgazione abbiam peccato; se abbiamo abusato anche dei flagelli, se abbiamo sciupati i doni e le ricchezze dello sdegno, come già quelli della benignità; ebbene! non abbiam però potuto esaurire il tesoro del perdono: ricorriamo ad esso di nuovo.
Per me...»
E qui l'oratore fece pausa, straordinariamente commosso; poi tolse una corda che gli stava ai piedi, se la avvinghiò al collo come ad un malfattore, cadde ginocchioni, e proseguì:
«Per me, e per tutti i miei compagni, i quali, sebbene immeritevoli, siamo stati per una ineffabile degnazione trascelti all'alto privilegio di servir Cristo in voi; se, come è pur troppo, non abbiamo degnamente corrisposto ad un tanto favore, se non abbiam degnamente adempiuto un sì grande ministero...
perdonateci! Se la fiacchezza, o la ritrosia della carne ci ha resi men pronti ai vostri bisogni, alle vostre chiamate, perdonateci! se una ingiusta impazienza se una noja colpevole ci ha fatto talvolta nei vostri mali mostrarvi un volto severo, e fastidito, perdonateci! Se la corruttela d'Adamo ci ha fatto trascorrere in qualche azione che vi sia stata cagione di tristezza, e di scandalo, perdonateci! Nessuno porti fuor di qui altra amaritudine che delle sue proprie colpe!»
Così detto, stette egli ginocchioni, come aspettando un segno che l'umile e cordiale suo prego era accetto ed esaudito.
Un singhiozzo, un pianto, un gemito universale si levò da quella turba a rispondere.
Dopo qualche momento il frate s'alzò, prese la croce ad ambe mani, e l'inalberò; scese dalla predella, e quivi depose i sandali; gridò ad alta voce: «andiamo in pace»; poi intonò il Miserere; e scalzo, portando dinanzi a sè quell'alta croce pesante, scese gli scaglioni del tempio dalla parte rivolta alla porta meridionale del lazzeretto che sbocca dinanzi alla mura della città; e s'incamminò verso quella.
Dietro lui s'avviò la torma dei fanciulletti, di quelli cioè che potevano reggersi, e sapevano condursi da sè; poi le donne, alcune delle quali tenevan per mano, o nelle braccia fanciulline, o bambini, e con fioca voce cantavano il salmo intonato dal guidatore; poi gli uomini pur cantando; poi carri di convalescenti, e delle bagaglie di quei che partivano: quelle che in tanta confusione s'eran potuto serbare, e raccogliere.
Ultimo veniva quell'altro capuccino che abbiamo menzionato, con un gran vincastro in mano; e coi cenni di quello, con gli occhi e con la voce, teneva in sesto il convoglio.
Era questi un Padre Michele Pozzobonelli, il coadiutore più autorevole, e come il primo ministro del Padre Felice, in quel regno di desolazione.
Fermo, tosto ch'ebbe veduto questo scender dal tempio, e notato da che parte s'avviava, entrò di nuovo fra le capanne per pigliare i passi innanzi, senza dare né ricever disturbo e sboccar poi di nuovo su la strada per dove la processione doveva passare.
Dalla porta meridionale al tempio v'era infatti come una strada, uno spazio che s'era lasciato sgombro di capanne per dar passaggio ai carri degli infermi che per lo più entravano da quella porta, e da quello spazio poi si distribuivano a dritta e a sinistra, come si poteva.
Fermo riuscì su quella, al mezzo in circa; e vide venire il vecchio crocifero, lo vide passare, vide passare i ragazzi, e poi con un gran battito al cuore, esaminò le donne che pur passavano; e lo potè fare a suo agio, perché elle procedevano a due a due.
Passa, passa; guarda, guarda: qui non v'è, qui né pure; più che la metà è passata; poche ne rimangono; compajono le ultime della fila femminile; ecco gli uomini: Lucia non v'era.
Quanta speranza svanita! Rimanevano però i carri ancora: Fermo gli vedeva venire; e i primi erano carichi di donne.
Stette dunque aspettando, lasciò passare la schiera degli uomini; guardò ad uno ad uno quei carri.
Passavano lentamente, si arrestavano talvolta come accade nelle processioni e nelle marce d'ogni genere; di modo che Fermo potè aver la trista certezza che nessuna di quelle donne era sfuggita alla sua vista; e che Lucia non v'era.
Le braccia gli caddero, quando si vide finire in mano l'unico, o almeno il più forte filo delle sue speranze.
Anche prima di vedere trascorrere quella per lui sì trista rassegna, egli sentiva pur troppo, quanto era più probabile che Lucia fosse nel numero dei tanti portati fuora dal lazzeretto sui carri, che dei pochi risanati: ma pure, come si suole egli metteva il suo desiderio sul guscio della speranza, e faceva traboccare le bilance da quella parte.
Ma ora, egli credeva di dovere esser certo che Lucia non era tra i guariti, né tra i convalescenti: la contingenza più lieta per lui, l'unica sua speranza (quale speranza!) era ormai ch'ella fosse ivi languente, ma viva.
Passato tutto il convoglio, passato il Padre Michele, Fermo si mise senza troppo pensare dove andasse, su quella via rimasta sgombra, e le sue gambe lo portarono dinanzi al tempio.
Quivi gli vennero alla mente le parole del buon frate Cristoforo: - Se non ve la scorgi, fa cuore tuttavia...
Cercala con rassegnazione.
- Si prostrò su gli scaglioni del tempio, fece a Dio una preghiera, o per dir meglio, un viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni, di domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non si fanno agli uomini, perché non hanno abbastanza penetrazione per intenderli, né sofferenza per ascoltarli; non sono abbastanza grandi per sentirne compassione senza disprezzo.
Si levò di là più rincorato e si avviò.
Dal tempio alla porta che divide il lato settentrionale a cui tendeva Fermo, scorreva, come dalla parte opposta, un viale sgombro di capanne; e si sarebbe potuto chiamare la via dei morti, perché ivi facevano capo e giravano i carri, che portavano alla fossa di San Gregorio le centinaja che perivano ogni giorno nel lazzeretto.
Fermo scelse quella via come la meno impedita, e la più breve; e studiando il passo alla meglio, tra l'incontro continuo dei carri e l'inciampo frequente di altri tristissimi ingombri, pervenne a pochi passi dalla porta.
Ma quivi un occorrimento di carri vuoti che entravano, di colmi che uscivano faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo anziché affrontarlo, o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare tra le capanne per riuscire di quindi al fabbricato.
Le capanne in quel luogo eran tutte abitate da donne; ed egli procedeva lentamente d'una in altra, guardando.
Or mentre passando, come per un vicolo, tra due di queste, l'una delle quali aveva l'apertura sul suo passaggio, e l'altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella prima, sentì venire dall'altra, per lo fesso delle assacce ond'era connessa, sentì venire una voce...
una voce, giusto cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio, articolava parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che certamente non gli erano mai state proferite: «Non dubitate: son qui tutta per voi: non vi abbandonerò mai».
Se Fermo non mise uno strido, non fu perché lo rattenesse il riguardo di fare scandalo, il timore di farsi troppo scorgere e d'essere preso o cacciato; fu perché gli mancò la voce.
Le ginocchia gli tremarono sotto, la vista gli s'appannò un momento; ma come accade per lo più quando dopo una gran sorpresa rimane qualche cosa d'importante da farsi o da sapere, l'animo gli ritornò tosto, e più concitato di prima.
In tre balzi girò la capanna, fu su la porta, vide una donna inclinata sur un letto, che andava assestando.
«Lucia!» chiamò Fermo con gran forza e sottovoce ad un tempo: «Lucia!»
Trabalzò ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare, si volse precipitosamente, vide che non era sogno, e gridò: «Oh Signore benedetto!» Fermo rimase su la porta tacito e ansante, e Lucia pure dopo quel grido stette immota in silenzio più tempo che non bisogni a raccontare in compendio le sue vicende dal punto in cui l'abbiamo lasciata.
Ella era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un certo tempo sotto la vigilanza severa di Donna Prassede.
Ma allo spiegarsi della peste questa signora, messe da un canto tutte le altre cure, dimenticate tutte le brighe, non solo le sue proprie, ma anche quelle di cui prima andava tanto volentieri in cerca, non ebbe più che un pensiero, di guardarsi dal pericolo comune.
Pensò ella che, per fare del bene, la prima condizione è di essere in vita, e per allora, volle assicurar questa.
Quanto al prossimo, non pensò più a regolarlo, ma soltanto a tenerselo lontano, tanto che non gli comunicasse la pestilenza.
Don Ferrante invece, persuaso che tutte le precauzioni immaginabili non avrebbero potuto fare che la congiunzione di Saturno con Giove non fosse avvenuta, né stornare le conseguenze di un avvenimento di quella sorte, non cangiò nulla al suo tenore solito di vita: e contrasse la pestilenza, che in un giorno lo spicciò.
Donna Prassede s'era ritirata con la signora Ghita, nella stanza più remota della casa; Prospero che alla morte di Don Ferrante era certo di dovere andare a spasso, pensava a farsi un po' di fardello, il resto della famiglia seguiva il suo esempio; e il povero astrologo sarebbe morto abbandonato, se Lucia non avesse avuta la carità di prestargli qualche servigio.
Il giorno stesso in cui Don Ferrante morì, Lucia fu presa da un gran sopore, rimase come insensata, e cadde senza forze: donna Prassede ordinò tosto che ella fosse portata nella via, ad aspettare un carro o una bussola che la portasse al lazzeretto.
Così fu fatto, e così avvenne.
Lucia deposta in quella capannuccia, stette alcuni giorni fuori di sè, senza prender cibo, né rimedii, lottando il vigore della natura con la violenza del male; e non riprese l'uso delle sue facoltà se non quando il male fu superato.
Ma quale risvegliamento! in quel tumulto di morte, in quello scompiglio di guai, senza vedere un volto conosciuto, senza udire una voce famigliare! Pure, in quel tempo, come in tutte le grandi calamità la vista o il racconto, e l'aspettazione continua dei mali rendeva preparati a tutto anche gli animi i meno agguerriti; questa preparazione, la gran ragione della necessità, la cascaggine stessa che il male aveva lasciata addosso a Lucia, la fecero avvezzare ben tosto alla sua situazione; la fiducia in Dio gliela raddolcì.
La capannuccia non capiva che due letti, o covili che fossero: in pochi giorni Lucia cangiò più volte di compagnia.
Finalmente, quando ella cominciava a potersi reggere, vi fu portata una donna che era moglie, anzi vedova d'un ricco mercante di stoffe, madre, anzi orba di due figli: la peste le aveva tutto portato via.
Questa rimasta sola in casa, e sentendosi pure colpita dal morbo, aveva chiamato un commissario della sanità che conosceva per sua buona sorte, e che per una sorte ancor più rara era un galantuomo; e gli aveva raccomandata sè e la sua casa.
Egli la fece chiudere e sigillare, promise di vegliarla, e fece portare la donna al lazzeretto, con tutta quella cura particolare che si poteva in quelle circostanze.
Lucia assistette la sua compagna, che superò pure la malattia; e come è facile ad intendersi, tra quella che prestava sì pietosi servigj, e quella che gli riceveva, ambedue deserte, buone ambedue, s'era formata una strettissima amicizia.
La vedova, prima di venire al lazzeretto aveva nascosta nella sua casa una buona somma di danari, e vi aveva lasciate molte mercanzie protette dal sigillo publico, e ancor più dalla indifferenza dei monatti per le robe che non fossero di pronto uso o di facile smercio.
Trovandosi quindi sola e doviziosa, ella aveva proposto a Lucia di tenerla con sè, come una sua figlia, e Lucia ringraziando Dio che le aveva preparato un asilo, e la buona donna che glielo offeriva, lo aveva accettato, ma solo per qualche tempo, tanto che potesse aver notizie di sua madre, e pensare a prendere una risoluzione stabile.
Ciò ch'ella aveva promesso alla sua compagna era di non abbandonarla finch'ella non potesse uscire dal lazzeretto; e per ciò, Lucia, non s'era unita ai convalescenti che erano partiti quel giorno alla guida del Padre Felice.
Ma la buona vedova avvezza a quella dolce compagnia, e atterrita dal solo pensiero di restarne priva, nella desolazione, esprimeva di tempo in tempo quel suo terrore, e si faceva rinnovare da Lucia la promessa in cui trovava la quiete dell'animo suo.
E per dissipare appunto una di queste dubitanze Lucia aveva dette le soavi parole che colpirono l'orecchio di Fermo, e che abbiamo riferite.
Fermo era dimorato su la porta; e di là il suo secondo sguardo s'era rivolto su la persona alla quale quelle parole erano state dirette; e fu molto contento quando vide a che sesso ella apparteneva.
«Ah! siete viva; e v'ho trovata!» diss'egli quando potè ricuperar la parola; ed entrò nella capanna.
«Voi!» sclamò Lucia.
«Son venuto qui per cercarvi, e v'ho trovata!» rispose Fermo.
«E la peste?»
«L'ho avuta».
«Ah!» fece Lucia con un gran respiro, che significava assai più che un: - me ne rallegro infinitamente -.
«Ma come...
qui?»
«Son venuto a cercarvi in Milano, appena ho potuto; m'hanno detto che eravate qui; ci son venuto».
«Oh Signore!» disse Lucia, stringendo le mani giunte, alzando gli occhi al cielo, e con una voce che i singhiozzi stavano per interrompere.
Poi, come entrata di repente in un altro pensiero, chiese ansiosamente: «Sapete qualche cosa di mia madre?»
«L'ho veduta jeri; è sana, vi saluta, e potete credere...
era tutta in pensiero per voi, e sospira di vedervi».
Lucia rispose con un altro respiro di consolazione.
Fermo continuò: «sospira di vedervi, e crede...
tiene per sicuro...
Ma voi,...
voi, mi parete stupita...
ch'io sia venuto a cercarvi.
Io...
son sempre lo stesso...
non vi ricordate...? che è avvenuto, Lucia?»
«Tante cose!» rispose ella sospirando.
«Ecco!» disse Fermo: «sa il cielo che cosa v'avranno detto di me!»
«Che importa», rispose Lucia, «quel che dica la gente?»
«Dunque...»
«Dunque...
io credeva...
che dopo tanto tempo...
dopo tanti guai...
non avreste più pensato a me».
«L'avete creduto? e me lo dite? quando son qui...»
«L'ho creduto», disse Lucia troncando in fretta le parole appassionate di Fermo, «l'ho creduto, perché sarebbe stato meglio...
è meglio».
Lucia aveva sempre tenuti gli occhi bassi; ma proferendo non senza fatica queste parole, chinò anche la testa, e la tenne appoggiata sul petto, come per riposarsi d'un grande sforzo.
«È meglio!» disse Fermo, stordito e contristato di quel mistero, e guardando fiso nel volto di Lucia per trovarvi la spiegazione di quelle tronche ed oscure parole.
«È meglio! che cosa v'ho fatto io? è colpa mia se...
Non sono io quello a cui avete promesso? Che vi mancava perché foste mia? un momento...
e...
ma gli ho perdonato, non siete voi più quella...? Dopo tanto sperare! dopo tanto pensare a voi! dopo...
Parlate chiaro: dite che non mi volete più; dite il perché; non mi fate...»
«Fermo», disse con voce più riposata e solenne, Lucia che mentre egli parlava, aveva cercato di raccogliere tutte le sue forze.
«Fermo! ascoltatemi tranquillamente: pensate dove siamo: vedete questa buona creatura che ha bisogno di quiete: ascoltatemi.
Io non sarò mai di nessuno...
e non posso più esser vostra».
«No non l'avete detta voi questa parola»; rispose Fermo, «no che non l'ascolto: che ho fatto io? perché? chi ve l'ha detto? chi è entrato fra voi e me? chi c'è entrato? voglio saperlo».
«Zitto zitto, non andate avanti, per amor del Cielo», disse Lucia.
«Quando lo saprete, se siete ancora quello di prima, se temete Dio come una volta, non direte così».
«Parlate per amor del cielo!»
«Sapete voi in che casi, in che spaventi io mi son trovata, in che pericoli?»
«Lo so, lo so, e...
gli ho perdonato».
«Ora sappiate quello che nessuno, né pure mia madre, ha udito finora dalla mia bocca.
In una notte...
Vergine santissima! qual notte!...
lontana da ogni soccorso...
senza speranza di liberazione...
sola...
io sola, in mezzo...
all'inferno, ho guardato in su, ho domandato l'ajuto di quel Solo che può fare i miracoli...
ho domandato un miracolo, e ho dovuto fare una promessa...
mi son votata alla Madonna, che se per sua intercessione, io usciva salva da quel pericolo, non...
sarei mai stata sposa d'un uomo».
«Ahi! che avete fatto!» sclamò dolorosamente Fermo: «che avete fatto!»
«Ho ottenuto il miracolo», riprese Lucia: «la Madonna mi ha salvata».
«Bastava pregarla, e vi avrebbe salvata.
Che avete fatto! Che avete fatto! Non dovevate fate un tal voto».
«L'ho fatto: che giova parlarne più? Che giova pentirsi? Pentirsi? No no, Dio liberi! Egli pure è sempre a tempo a pentirsi d'avermi salvata.
Può lasciarmi cadere ancora in un pericolo, e allora, chi pregherò io? che promessa potrei fare?»
«Lucia!» disse Fermo, «e se non fosse il voto...? dite; sareste la stessa per me?»
«Uomo senza cuore!» rispose Lucia, contenendo le lagrime, «quando mi avreste fatte dire delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbe forse peccati, sareste voi contento? Partite, scordatevi di me: non eravamo destinati; ci rivedremo lassù».
Dopo queste parole, le lagrime soverchiarono, e fra i singhiozzi ella continuò: «dite a mia madre ch'io son guarita, che ho trovata questa buona amica che pensa a me; ditele che spero ch'ella sarà preservata da questi guai, che Dio provvederà a tutto, e che ci rivedremo.
Partite, per amor del cielo; e non vi ricordate di me, che quando pregate il Signore».
«Lucia!» disse Fermo con tuono riposato e solenne egli pure; «noi siamo due poveri figliuoli senza studio: quel brav'uomo, quel gran religioso, quel nostro padre, il padre Cristoforo...»
«Ebbene?»
«È qui, nel lazzeretto, ad assistere gli appestati».
«È qui!» disse Lucia: «ah! non mi fa maraviglia: oh se potessi vederlo, sentir la sua voce! È egli sano?»
«È in piedi», disse Fermo, «ma il suo volto...
Dio voglia che sieno gli anni, e le fatiche!»
«Voi l'avete veduto!» disse Lucia.
«L'ho veduto, e gli ho parlato», rispose Fermo: «egli mi ha fatto animo, a cercarvi, mi ha fatto promettere che tornerei a rendergli conto delle mie ricerche.
Corro da lui: egli ci ha sempre ajutati; e spero che ci ajuterà anche in questa occasione».
«Che dite voi? che volete ch'egli faccia? preghiamo Dio che ci ajuti...
che vi ajuti a sopportare.
Ditegli che io ho sempre pregato per lui; che se può venga a trovarmi, a consolarmi, e voi...
voi...» - Non tornate più qui per amor del cielo, - voleva ella dire, ma non lo disse.
Dopo fatto quel voto, Lucia aveva sempre creduto di essersi legata irrevocabilmente, e non aveva supposto mai che alcuna autorità potesse annullare un patto col cielo; aveva rispinto come colpevole il pensiero stesso, e non aveva mai confidato a persona il suo doloroso segreto.
Ma quando Fermo parlò d'una speranza nel padre Cristoforo, quella stessa speranza confusa entrò nel cuore di Lucia; le balenò nella mente un: - chi sa? -, intravide come non impossibile che il Padre Cristoforo potrebbe trovar qualche mezzo...
e in quel dubbio ella stimò inutile di dire risolutamente a Fermo: «non tornate».
Egli partì, senza far altre parole, come un uomo che pensa di tornar ben tosto, e s'avviò alla capanna del buon frate.
La vedova compagna di Lucia era rimasta con gli occhi sbarrati a guardare quel personaggio sconosciuto e ad udire quel dialogo nuovo per lei; giacché Lucia, la quale, come si è potuto vedere in altre parti di questa storia, era molto discreta, non le aveva mai parlato né della sua promessa di matrimonio, né per conseguenza delle vicende conseguenti.
Ma ora non potè scusarsi di fargliene il racconto; e a dir vero, la disposizione d'animo di Lucia in quel momento s'accordava assai bene con le voglie curiose e benevole ad un tempo della vedova.
Quelle memorie compresse e rispinte per tanto tempo, s'erano ora presentate tutte in tanta folla e con tanto impeto all'animo di Lucia, che il parlarne diveniva per lei quasi uno sfogo necessario.
Dopo aver dunque risposto alla meglio ai rimproveri che la vedova le fece di un tanto segreto tenuto con lei, cominciò il racconto che fu spesso interrotto dai suoi singhiozzi, e dalle esclamazioni e dalle inchieste della ascoltatrice.
Fermo intanto era giunto alla capannuccia del Padre Cristoforo, e avendolo veduto lì fuori presso, che pregando, chiudeva gli occhi ad un morente, si era ritirato nella capannuccia senza dar voce né far segno che turbasse quel pio e doloroso uficio.
Quando il poveretto fu spacciato, Fermo si mostrò, e il Padre Cristoforo andò a lui, che tosto gli raccontò la lietissima scoperta ch'egli aveva fatta di Lucia viva e sana, e quell'altra scoperta che era venuta, come a tradimento, a guastargli una tanta consolazione.
Benché egli in questa parte del racconto volesse aver l'aria di chi propone un dubbio superiore ai suoi lumi aspettando il giudizio d'un sapiente, pure non lasciò scappare nessuna occasione di qualificare d'imprudenza e di pazzia quel voto che veniva per lui così male a proposito.
Così faceva sentire che per la parte sua il giudizio era bell'e fatto; e intanto guardava attentamente al volto del Padre Cristoforo per iscoprire un pensiero, dal quale avrebbe potuto dipendere la sua sorte.
Ma non potendo leggervi nulla, terminò con una aperta domanda: «Che ne dice, padre?» Il Padre stava pensoso: combattuto fra il desiderio di rivedere Lucia, e la speranza di consolarla forse, e il timore di rendersi colpevole, abbandonando per qualche tempo i suoi infermi.
Dopo essere così rimasto alquanto, pronunziò ad alta voce la conclusione del dibattimento che era stato tra i suoi pensieri.
«Ho un dovere con quella creatura», diss'egli.
«Dio l'aveva in altri tempi indirizzata a me, ed ora non me l'ha fatta venir così presso perché io ricusi di esserle utile.
Andiamo».
Lasciò per la seconda volta i suoi ammalati alla cura del Padre Vittore, e si mosse con Fermo.
Questi andava innanzi tacito facendo la guida per quel triste labirinto, e dirigendosi al viale per cui era passato la prima volta, e il Frate pur tacito gli teneva dietro.
Gli oggetti che ad ogni mutar di passo si succedevano alla vista, tenevano occupato l'animo di quella compunzione che non trova parole; e in quel momento su quel mesto spettacolo pareva che scendesse e pesasse una mestizia più cupa e più grave dell'ordinario.
Una nuvola comparsa all'occidente aveva a poco a poco coperto tutto il cielo: e alla oscurità crescente, avresti detto che il giorno era finito, se il sole lontano ancor forse due ore dal tramonto non avesse mostrato come dietro ad un velo spesso ed immobile, il suo disco grande e biancastro, donde partivano, non vivi raggi e diretti, ma un barlume scialbo e circonfuso che mandava una caldura morta e gravosa.
L'aria non dava un soffio: non si vedeva muovere una tenda delle trabacche, né piegar la cima d'un pioppo nelle campagne d'intorno.
Solo si vedeva la rondine, sdrucciolando rapidamente dall'alto, rasentare con l'ali tese, per un picciol tratto la superficie ingombra e confusa di quel terreno; e tosto risalire, volteggiare per l'aria in cerchii veloci, e piombar di nuovo.
Un'afa faticosa prostrava gli animi con una oppressione straordinaria: la lotta del morire era più affannosa; i gemiti dei languenti erano soppressi dall'ambascia; il movimento delle opere era stanco, rallentato, come sospeso: quella dubbia luce dava al colore della morte e della infermità un non so che di più livido; un non so che di più squallido all'abbattimento ond'erano atteggiate le figure dei sani: e su quel luogo di desolazione non era forse ancor passata un'ora amara al par di questa.
Eppure quegli che sopravvissero rammentarono quell'ora con gioja per tutta la vita; era la preparazione d'una burasca, che scoppiò la notte, e menò poi per due giorni una pioggia continua, dopo la quale il contagio cessò quasi ad un tratto.
Sotto il fascio di quella comune gravezza, procedevano il giovane e il vecchio, con la fronte bassa il primo e con l'animo diviso fra lo studio della via, fra l'orrore delle cose che vedeva, e l'ansietà del suo destino futuro; e l'altro levando di tratto in tratto al cielo la faccia smunta come per cercare un più libero respiro, e per secondare con quell'atto una speranza interna.
«È qui», disse Fermo con voce tremante accennando la capanna; e v'entrarono che Lucia col volto lagrimoso stava proseguendo il suo racconto.
Al riveder Fermo ella trasalì, e al vedere il Padre Cristoforo balzò dal saccone di paglia ov'era seduta, e gli si gettò incontro su la porta.
«Oh Padre!...
Signore Iddio! come sta ella?» soggiunse poi tosto vedendogli i segni della morte in volto.
«Come Dio vuole, mia buona figlia», rispose il Frate: «e presto spero starò bene affatto».
«Come?...» disse Lucia.
«Come Dio vorrà», riprese egli tosto.
«Parliamo ora di voi, per cui son venuto».
«Oh Padre! quanto tempo! quante cose!» disse Lucia.
«Quante cose!» ripetè il Frate: «e certo se fossimo là ai vostri monti, seduti in su la porta della casetta di quella buona Agnese, mi lascerei andar volentieri a farne lunghi discorsi.
Ma qui il tempo è misurato».
E tosto trattala in disparte in un angolo della capanna, continuò:
«Fermo mi ha detto che avete fatto voto di non maritarvi».
«È vero», rispose Lucia, arrossando.
«Avete voi pensato allora», proseguì il vecchio, «che voi avevate un impegno solenne di matrimonio, e che offerivate alla Vergine una libertà della quale avevate già disposto? E che riprendevate una parola già data, senza sapere se quegli che l'aveva ricevuta avrebbe consentito a restituirvela?»
«Ho fatto male?» chiese Lucia, con sorpresa, e con un rimorso che non era tutto doloroso.
«Avete voi confidato a nessuno questo vostro nuovo impegno?» interrogò di nuovo il Frate: «avete chiesto consiglio?»
«Non ho ardito», rispose Lucia.
«Ed ora», proseguì egli, «che vi dice il vostro cuore di quel voto?»
«Che vuol ella che me ne dica?» rispose Lucia arrossando più che mai e chiudendo quasi del tutto gli occhi ch'erano già chini a terra.
«Se non lo aveste fatto, lo fareste?»
«Se...
non fossi in quel pericolo...
in un grande pericolo...
e poi, se non è permesso...
non lo farei».
«Se non lo aveste fatto, sareste tuttavia risoluta di sposare quell'uomo a cui avevate promesso?»
«Io credeva...
che fosse male il pensarvi...
ma poi ch'Ella me ne domanda...
ah Padre sì!»
Fermo intanto adocchiava ansiosamente verso quell'angolo, e la vedova anch'essa stava in una tacita aspettazione.
Il Frate si fece presso a loro, accennando a Lucia, che lo seguì con gli occhi bassi.
Allora egli con voce spiegata le rivolse questa nuova interrogazione:
«Credete voi che la santa madre Chiesa ha ricevuta da Dio l'autorità di sciogliere e di legare?»
«Lo credo», rispose Lucia.
«Credete voi dunque che ella possa in suo nome ricevere, confermare, o rimettere i voti che gli son fatti, interpretando la sua volontà in questo come nel perdono dei peccati, e usando una potestà che tiene da Lui?»
«Lo credo», rispose ancora Lucia.
«Domandate voi alla Chiesa di essere sciolta dal voto di verginità che avete fatto, o inteso di fare alla Madre santissima di Dio?»
«Lo domando», rispose Lucia con una prontezza, alla quale Fermo non ebbe nulla a desiderare, e che potrà parere forse troppa a chi non essendo stato presente a quell'atto, non rifletta che la solennità della richiesta, l'aria autorevole di chi l'aveva fatta, non lasciavan luogo a titubamenti leziosi, e che ivi la verecondia doveva essere tutta nella sincerità.
«Ed io», disse allora il buon Frate, con tuono ancor più solenne, «prego umilmente la Vergine regina di tutti i santi, che abbia sempre per aggradito il sentimento del vostro divoto e travagliato sacrificio, e lo offra al suo e nostro Signore; e con l'autorità che la Chiesa mi ha affidata, vi sciolgo dal voto, annullando ciò che vi potè essere d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione, se ne avete contratta».
Non parleremo dell'effetto, che queste parole produssero nell'animo dei due giovani: la buona vedova era tutta commossa.
Il Frate continuò rivolto a Lucia: «Siate moglie pudica, moglie affettuosa moglie contenta di quella contentezza che conduce all'eterna.
Questo Iddio ha voluto e vuole da voi».
Quindi levò le mani verso i due giovani come per parlare ad ambedue.
Essi caddero ginocchioni ai suoi piedi, ed egli tutto assorto, e quasi senza avvedersi di quell'atto, stese le mani su le loro teste, e stette un momento pensoso.
Erano nel fondo della capanna, come chiusi tra quello e il letto della vedova che teneva gli occhi fissi su di loro: i giovani inginocchiati con la fronte bassa, e il Frate ritto dinanzi a loro con le spalle rivolte alla porta.
«Figliuoli», disse egli, «che ho amati, e che amerò sempre, ricordatevi che se la Chiesa vi assolve da un sagrificio, non lo fa per procurarvi le consolazioni di questa vita che deve esser tutta un sacrificio; ma per mettervi su la via della santificazione.
Amatevi, come compagni di viaggio, col pensiero di avere a lasciarvi, con la speranza di ritrovarvi ancora e per sempre.
Rendete grazie al cielo che vi ha condotti a questo stato non con le allegrezze turbolente e passeggiere, ma coi travagli, e fra le miserie per disporvi ad una gioja raccolta temperata, e continua.
E nei vostri discorsi qualche volta, e sempre nelle vostre preghiere, ricordatevi...»
Queste parole che rinchiudevano come un presentimento, e un tristo addio, rinnovarono nell'animo di Lucia l'impressione dolorosa che le aveva prodotta l'aspetto di chi le proferiva.
Levò ella gli occhi quasi involontariamente, tutta commossa, a riguardarlo di nuovo; ma insieme con l'oggetto che cercava il suo sguardo un altro inaspettato le se ne offerse su la porta della capanna, alla vista del quale ella mandò uno strido repentino.
Tutti gli occhi si rivolsero a quella parte donde le era venuta quella subita commozione.
CAPITOLO IX
Ritto sul mezzo dell'uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi nei quali si dipingeva ad un punto l'attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire.
Ma in quello sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri due.
Quell'infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sè, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre Cristoforo; senza esser veduto da loro.
Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta l'antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle immagini odiose che le erano come sfumate dinanzi.
In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un tale delirio s'era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da lontano a quei due.
Ma quando essi uscendo dalla via s'internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto.
Entratovi anch'egli da un altro punto poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna, tanto che s'era trovato a quella in cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure.
Quivi ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo una impressione che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia.
Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva che le biscie stessero all'incanto; quando Lucia s'accorse di lui.
Dopo la sorpresa il primo sentimento di quella poveretta fu una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione.
Entrambi si mossero verso quell'infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella verso la chiesa.
Il frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve corsa, egli s'abbattè presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera.
Un romore si levò all'intorno, un grido di «piglia, piglia»; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s'inalberava, e scappava vie più verso il tempio.
I due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti compresi alla capanna, dove Lucia stava ancora tutta tremante.
«Giudizii di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per quell'infelice».
Dopo un momento di silenzio, il pensiero che venne a tutti fu di concertare insieme quello che era da farsi: e i concerti furon questi: che Fermo partirebbe tosto, giacché ivi non v'era ospitalità da offerirgli, cercherebbe un ricovero per la notte in qualche albergo, e all'indomani si rimetterebbe in via pel suo paese, porterebbe ad Agnese le nuove della sua Lucia, andrebbe poi a Bergamo a disporre la casa dove intendeva di stabilirsi con la moglie e con la suocera; e tornerebbe poi ad aspettare Lucia nel suo paese, dove dovevano celebrarsi le nozze: ne avvertirebbe intanto Don Abbondio, il quale era da sperarsi che invece di frapporre nuove difficoltà, sarebbe vergognoso di quelle che aveva frapposte altra volta.
Quanto a Lucia, ella protestò prima d'ogni cosa che non si staccherebbe dalla sua buona compagna, finché questa non fosse affatto guarita, e ristabilita nella sua casa.
Il Padre la lodò, Fermo non v'ebbe nulla a ridire, e la vedova tutta commossa, promise che accompagnerebbe essa Lucia a casa, e la consegnerebbe a sua madre.
«E voglio farle il corredo», aggiunse all'orecchio del Padre a cui aveva fatto cenno di avvicinarsi.
«Dio vi benedica», le rispose il buon vecchio.
«E tu», disse poi a Fermo, «che stai qui tardando? il tempo, come vedi, si fa più nero, e la notte si avvicina: affrettati di cercare un ricovero».
Convien dire ancora ad onore di Fermo, che in quel momento non gli doleva tanto lo staccarsi da Lucia appena trovata, è vero, ma ch'egli contava di riveder presto, quanto dal Padre Cristoforo, che restava lì a morire.
«Ci rivedremo, padre?» disse il buon giovane.
«Se Dio vorrà, e quando Egli vorrà» rispose il frate, vincendo una commozione che andava crescendo.
«Va, va che non c'è tempo da perdere».
Fermo, disse con voce accorata; riverisco, al Padre che lo benedisse, e gli strinse la mano: disse addio a Lucia e alla vedova, sopprimendo un: - a rivederci presto -, che gli veniva su le labbra; poi spiccatosi in fretta, partì.
«Vi raccomando l'una all'altra, buone creature», disse, il frate; e fece atto pure di andarsene: ma nel dare a Lucia uno sguardo di commiato, vide nell'aspetto di lei mista alla commozione una grande inquetudine; s'avvisò tosto di ciò che poteva esserne la cagione, e disse: «Di che state inquieta?»
«Quell'uomo...!» disse Lucia.
«Poveretto!» rispose il frate, «non è più in caso di far paura a nessuno: non lo vedrete più, siatene certa.
Pure», soggiunse, dopo d'aver pensato un momento, «per ogni altro evento, sarà meglio ch'io vi raccomandi a qualcheduno dei nostri».
Così detto, uscì, girò un poco in ronda, finché trovò un capuccino, e condottolo alla capanna, gli mostrò le due donne, e gli disse: «sono due derelitte; vi prego di averne una cura particolare.
Vi lascio con Dio», disse poi alle donne, e uscì dalla capanna.
Lucia lagrimando lo seguiva, ed egli le imponeva che tornasse, e così si trovarono entrambi sulla grande strada, dove videro una folla di monatti, che accorreva in tumulto, gridando «aspetta, aspetta», ad altri monatti che guidavano un carro verso la porta.
Il carro si fermò quasi davanti ai nostri due amici: quei monatti sopraggiunsero tosto ansanti; e due che portavano un morto lo gittarono sul carro, dicendo un d'essi: «mettetelo bene in fondo costui, che non torni a cavallo, a farci tribolare».
«Che diavolo è stato», disse più d'uno di quei carrettieri.
«Il diavolo», rispose il monatto, «l'aveva in corpo costui: è andato su e giù finch'ebbe fiato: se durava ancora, faceva crepare il cavallo: ma è crepato egli, e allora per amore o per forza ha dovuto scendere».
Il Padre Cristoforo, rivolto allora a Lucia le disse: «ricordatevi di pregare per questa povera anima voi, e vostro marito, per tutta la vita, e di far pregare i vostri figliuoli, se Dio ve ne concede.
Tornate alla vostra compagna.
Iddio sia sempre con voi».
Dette queste parole, prese in fretta il viale, per andarsene alla sua stazione; Lucia, compunta di quella separazione, e atterrita dallo spettacolo, tornò a capo basso e col petto ansante alla sua capanna; e Don Rodrigo su la cima d'un tristo mucchio, fra lo strepito e le bestemmie, usciva dal lazzeretto per andarsene alla fossa.
Usciamone una volta anche noi; e teniam dietro a Fermo, il quale alloggiò la notte come potè, il giorno seguente benché la pioggia venisse a secchie si rimise in cammino, e si condusse fin presso al suo paese, dove giunse il terzo dì, molle, affaticato, sciupato, ma pure più lieto che non fosse stato da un gran pezzo.
Il rivedersi di lui e d'Agnese, la gioja di questa alle novelle che gli eran date, sono di quelle cose che i narratori passano in silenzio, nel supposto ragionevole, che il lettore se le può immaginare.
Con Don Abbondio le cose non furono così chiare.
Prima di tutto egli si fece pregare alquanto prima di aprire la porta a Fermo; anzi non vi si ridusse che allorquando la voce di questo gli parve un po' alterata, e le parole tinte un po' di minaccia.
Apertogli, lo accolse con quella cera che un uomo imbrattato di debiti mostra ad un creditore che vorrebbe sapere mille miglia lontano, ma che pure non vorrebbe irritare al segno che quegli gli desse un libello.
«Siete qui voi!» disse Don Abbondio.
«Son qui», rispose Fermo, «grazie a Dio, e sono ad avvertirla che presto sarà qui anche Lucia Mondella, con la quale ella avrebbe dovuto sposarmi, è un anno e dieci mesi, e con la quale ora ella mi sposerà.
Meglio tardi che mai».
«Oh santo Dio benedetto!» sclamò Don Abbondio.
«Signor curato», ripigliò Fermo: «quel signore che diede tanto fastidio a noi poveretti ed anche a lei, non ne darà più a nessuno».
«Che vuol dire?» chiese Don Abbondio.
«Vuol dire», rispose Fermo, «che Don Rodrigo a quest'ora debb'esser all'altro mondo».
«Chi lo dice? chi lo dice?»
«Lo dico io», rispose Fermo, «che l'ho veduto al Lazzeretto, col male addosso, acconciato pel dì delle feste, che faceva pietà».
«Eh figliuolo! si guarisce, si guarisce dalla peste.
Siam guariti anche noi».
«Le dico, che a quest'ora sarà morto sicuro».
- Se fosse la vacca d'un pover'uomo, - disse Don Abbondio fra sè e sè.
«Basta», soggiunse Fermo con quel tuono risoluto che spiaceva tanto al suo ascoltatore; «basta, quel che è stato, è stato, ma finalmente quel che si doveva fare prima s'ha a fare ora, e si farà».
«Ma un parere, un parere d'amico», disse con una amabile modestia Don Abbondio, «non ha da potervelo dare un vecchio, che vi vuol bene?»
«Che parere?»
«Con quella cattura che avete su le spalle, compatitemi, non vi conviene star qui: maritatevi altrove; e Dio vi benedica».
«Le torno a dire che nessuno pensa né alla cattura, né a me: ho girato il mondo, e so anch'io che impicci porta, e che tempo domanda il maritarsi lontano da casa sua: qui abbiamo le nostre case, qui si può concluder tutto in un momento, senza impicci; basta che ella voglia; e le dico io ch'ella vorrà».
«Ma figliuolo, ma figliuolo...»
«La riverisco», rispose il figliuolo, e lasciando Don Abbondio in quei pensieri che il lettore conosce, gli volse le spalle; e se ne andò a Bergamo a disporre le sue faccende, e la casa per la sposa.
Questa frattanto, guarita la vedova, era uscita con essa dal lazzeretto, il quale di giorno in giorno si andava spopolando.
Perché come abbiamo accennato, dopo quella dirotta, il contagio mollò, come suol dirsi, repentinamente; e così venne a cessare la trista trasmigrazione della cittadinanza al lazzeretto; quei che v'erano, in poco tempo morirono, o risanarono.
La vedova trovò la sua casa intatta, v'entrò con Lucia: ivi stettero insieme a fare un po' di quarantena; deposero ed arsero i panni della malattia; il fondaco somministrò la materia dei nuovi vestimenti: e la vedova attenendo quello che aveva promesso al padre Cristoforo volle ad ogni costo provvedere Lucia d'un bel fornimento d'abiti, con tutto il lusso contadinesco; e vi lavorarono insieme per tutto quel tempo che stettero rinchiuse.
Il giorno stesso dell'arrivo in casa, la vedova per servire alle giuste premure della sua ospite mandò ai capuccini a chieder conto del Padre Cristoforo.
Come il lettore l'avrà indovinato, il nostro buono e caro amico, era morto al lazzeretto.
Lasceremo pure che il lettore s'immagini il dolore di Lucia; e senza più perderci in lungaggini, diremo che un bel giorno ella giunse alla sua casetta, in compagnia della vedova, in una delle più belle carrozze che usassero i mercanti d'allora.
In quel frattempo, il contagio era cessato quasi da pertutto, e tutte le precauzioni erano dismesse.
Agnese non istette dunque alla lontana dalla figlia, come aveva fatto con Fermo, ma le gettò le braccia al collo, e fece tosto una grande amicizia con la vedova.
Fermo che era tornato e che stava quivi aspettando l'arrivo desiderato, si trovava in casa d'Agnese in quel momento.
Le accoglienze, il tripudio di tutti non è da dirsi, e i discorsi, i racconti non sono da ripetersi: son cose che il lettore in parte sa, in parte può immaginarsi.
Il giorno seguente, andarono tutti e quattro da Don Abbondio, il quale al tocco della porta accorse alla finestra, e veduta quella brigata, scese gemendo, e grattandosi in capo, ad aprire.
Le accoglienze furon fredde, e imbarazzate: e a dir vero faceva proprio rabbia a vedere quella faccia svogliata e soffusa per dir così d'un mal umore e d'una stizza repressa, in mezzo a tanti aspetti allegri.
Ma Fermo che conosceva il male del pover uomo, gli amministrò tosto la medicina con queste parole: «Quel signore è poi morto davvero».
Don Abbondio non si abbandonò alla gioja da spensierato, ma volle sapere con che fondamento si affermasse una tale...
notizia.
«L'ho veduto io pur troppo», disse Lucia, raccapricciando ancora al ricordarsene.
Don Abbondio volle sentire il racconto, si fece ripetere molte circostanze, e quando fu ben certo che Don Rodrigo era veramente passato all'altra vita, mise un gran respiro, i suoi occhi s'animarono, tutti i lineamenti del suo volto si spiegarono come un fiore che sbuccia al raggio di primavera.
«È morto!» sclamò egli: «Oh provvidenza! provvidenza! Ecco se Domeneddio arriva certa gente.
È morto senza successione, per un giusto giudizio, e anche per un gran benefizio della provvidenza; perché se colui avesse lasciato gente della sua razza, bisognerebbe dire: è morto un buon cavaliere: peccato! un degno gentiluomo.
Così, si può finalmente dire il suo cuore.
Ah! Non c'è più quel burbero, quel soperchiatore, quello spaventacchio.
Questa pestilenza è stata un flagello, figliuoli, un flagello; ma è stata anche una scopa: ha spazzato via certa gente, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: birboni, freschi, verdi, vigorosi, che sperare di far loro le esequie, sarebbe stata una prosunzione peccaminosa; si sarebbe detto che il prete destinato ad asperger loro la cassa stava ancora facendo i latinucci; e in un batter d'occhio sono iti: requiescant.
Ah!...
Ma, che facciamo noi qui», soggiunse poi, come ravvedendosi, «qui in piedi, in questo andito? venite figliuoli, venite nella mia saletta; venga signora mia, ben venuta in queste parti; andiamo a sedere, e a discorrere tranquillamente dei fatti nostri.
Perché», continuò egli camminando, «quello che s'ha da fare voglio che lo facciamo presto; che è troppo giusto.
Non mi piace, vedete, far penare la gente.
E principalmente voi, figliuoli cari»,: e qui eran giunti nella sala, e fatti sedere da Don Abbondio, che proseguì: «principalmente voi, ai quali ho sempre voluto bene.
Ma che volete? Alle volte bisogna far bella cera a quegli che si vorrebbero veder lontani le mille miglia, e cera brusca a quelli che si amano: si pare amici dei birboni, e nemici dei galantuomini; ma, santo cielo! bisogna vestirsi dei panni d'un povero galantuomo.
Basta; è finita; veniamo a noi.
Figliuoli, non bisogna perder tempo; oggi, che giorno è?...
Venerdì: posdomani rinnoveremo le pubblicazioni; perché quelle altre già fatte, dopo tanto tempo, non valgono più nulla; e poi voglio avere io la consolazione di maritarvi; e subito subito, voglio darne parte a Sua Eminenza».
«Chi è Sua Eminenza?» domandò Agnese.
«Il nostro arcivescovo», rispose Don Abbondio, «quel degno prelato: non sapete che il nostro santo padre Urbano ottavo, che Dio conservi, fino dal mese di Giugno, ha ordinato che ai cardinali si dia il titolo di Eminenza?»
«Ed io», replicò Agnese, «che gli ho parlato, come parlo a Vossignoria, ho inteso che tutti gli dicevano: Monsignore illustrissimo».
«E se gli aveste a parlare ora», replicò Don Abbondio, «dovreste dirgli: Eminenza, sotto pena di passare per malcreata, o per ignorante.
Così ha voluto il papa: è ben vero che alcuni principi sono in collera, e non vorrebbero questa novità: ma, tra loro magnati se la strighino: io povero pretazzuolo non ho di questi affanni.
Torniamo al fatto nostro.
Voglio che stiamo allegri: abbiamo avuto tanto tempo di malinconia.
Farete un po' di banchetto: eh?»
«Da poveri figliuoli», rispose Fermo.
«Ed io verrò a stare allegro con voi; verrò, vedete», disse Don Abbondio.
«Oh signor curato», rispose Fermo, «intendevamo bene di pregarla...»
«Ed io vi ho prevenuti», riprese Don Abbondio, «per farvi vedere che vi sono amico; che vi voglio bene, quantunque m'abbiate dato anche voi qualche travaglio: non parlo di te che sei un malandrinaccio», disse rivolto a Fermo, sorridendo, «ma anche voi con quell'aria di quietina»: e qui rivolto a Lucia, e alzata la mano con l'indice teso, e stretto il rimanente del pugno la moveva verso di essa in atto di amichevole rimbrotto; e continuò: «bricconcella, anche voi mi avete voluto fare un tiro: quella sera: quella sorpresa: quel clandestino: basta non ne parliamo più; quel ch'è stato è stato: non è colpa vostra; è un mio destino, che tutti più o meno debbano darmi qualche fastidio: tutto è finito: pensiamo a stare allegri».
Lucia sorrise; Agnese stava per aprir la bocca ad argomentare contra Don Abbondio, e provargli che il torto era suo; ma Fermo le fece cenno di tacere; e rispose egli in vece con un complimento al curato; e con qualche altro complimento, il congresso finì con universale soddisfazione.
Il tempo che scorse tra le pubblicazioni e le nozze, fu impiegato dagli sposi ai preparativi pel traslocamento a Bergamo, e pel trasporto colà del loro modico avere, e Agnese, la quale come il lettore se n'è avveduto, pareva sempre voler dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna, viveva per gli altri, e faceva a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si arrabbattò per la causa comune: la vedova anch'essa non lasciava di dare una mano.
Forse taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari altrui, a prima giunta, che non vegga colui di chi sono gli affari, dopo avervi molto pensato, domanderà per qual motivo quella famiglia volesse abbandonare il luogo natale, la sua casuccia, il suo picciol fondo, ora che era tolto di mezzo colui che gl'impediva di posarvisi tranquillamente.
Per tre ragioni principalmente.
La prima: quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per quella sua impresa di Milano, e la cattura fosse un titolo inoperoso; pure un sospetto, una reminiscenza, un mal uficio, poteva far risorgere l'antica querela, e rimetterlo in Dio sa quale impiccio.
La seconda, è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si contano quasi per nulla, ma che nel caso concreto sono più potenti a determinare che molte altre.
Ciò che Fermo aveva sofferto, e temuto nel suo paese, gliel'aveva reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le angherie d'un soverchiatore, i pericoli della prigione, e di peggio, poi il furore del popolo, che lo cercava a morte.
Memorie di questo genere disgustano l'uomo dai luoghi che le richiamino, e se quei luoghi sono la patria, ne lo disgustano tanto più, appunto perché gli guardava prima con fiducia, e con affezione.
Anche il bambolo riposa volentieri sul seno della nutrice, rifugge a quello da tutti i terrori, cerca con avidità la poppa che lo ha nutricato fin allora, e s'accheta quando l'ha presa: ma se la nutrice, per divezzarlo, intinge la poppa d'assenzio, il bambino torce con dolore e con pianto il labbro da quella nuova amaritudine, e desidera un cibo diverso.
Finalmente, i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste circostanze gli avevano costretti a dismettere per molto tempo la loro professione; ma né l'uno né l'altro aveva amore all'ozio; e il loro disegno era di ripigliare tosto il lavoro per vivere tranquillamente e onestamente, e per nutrire ed allevare i figliuoli che speravano, come tutti gli sposi fanno.
Ora l'industria della seta, come tutte le altre era già decaduta spaventosamente nel milanese, prima di quelle recenti sciagure; e queste le avevan poi dato l'ultimo crollo.
Non è questo il luogo di descrivere quello stato di cose, e di toccarne le cagioni.
Già molte nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità appajono anche troppo in questa lunga storia: chi volesse conoscere le più immediate legga, se non le ha lette, le belle memorie storiche del conte P.
Verri sulla economia pubblica dello Stato di Milano; e se vuol conoscere più a fondo, frughi nei documenti originali, da cui quel valentuomo ha cavate le sue memorie.
Basti a noi il dire che l'uomo il quale aveva abilità e voglia di lavorare, stentava nel Milanese, e che nel Bergamasco, come in altri stati vicini si offerivano esenzioni, privilegii, ed altri incoraggiamenti ai lavoratori che volessero trasportarvisi.
Questa differenza fece uscire una folla di operaj, e rivivere in quegli stati molte manifatture che perirono nel milanese dove avevano fiorito.
Differente per conseguenza era anche l'aspetto dei due paesi.
In Bergamo (non vogliam dire che fosse il paradiso terrestre) dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i tristi segni, e i tristi effetti di quella: la spopolazione, le terre incolte, l'ardire cresciuto nei ribaldi, le abitudini dell'ozio, e del vagabondare: ma in quella petulanza stessa v'era una certa aria di allegria nata se non dalla abbondanza, almeno dalla sufficienza dei mezzi e dei capitali: quegli poi che avevano voglia di far bene trovavano in quei capitali una facilità grande e pronta.
Ma nel Milanese una cagione viva e incessante di miseria sopravviveva alle miserie della peste; un sistema che onorava l'orgoglio ozioso, che favoriva la soverchieria perturbatrice, che alimentava tutti gli studj del raggiro, e delle ciarle, un sistema oppressivo e impotente, insensato e immutabile, un sistema di rapine e di ostacoli, impediva l'industria, la pace, e l'allegria.
Scelta dunque un'altra patria, i nostri eroi, erano però impacciati del come convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove erano nati: ma la fortuna - non osiamo dire la provvidenza - la fortuna che voleva favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar lietamente una storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo.
I beni di Don Rodrigo erano passati per fedecommesso ad un parente lontano; il quale era un uomo di ben diverso conio; un galantuomo, un amico del cardinal Federigo.
Prima di andare a prender possesso di quella eredità, trovandosi egli col cardinale gliene parlò.
«Avrete forse una occasione di far del bene e di riparare il male che ha fatto Don Rodrigo», gli disse il cardinale, e gli raccontò in succinto la persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri sposi, e il danno di ogni genere che ne avevan patito.
«Se son vivi tuttora», soggiunse, «non vi prego di far loro del bene, che con voi non fa bisogno; ma di darmi notizia di loro, e di dire a quella buona giovane ch'io mi ricordo sempre di lei, e mi raccomando alle sue orazioni».
Il galantuomo, appena giunto al castellotto, si fece indicare il villaggio degli sposi, e si presentò al curato.
Don Abbondio al vedere il nuovo padrone di quella altre volte caverna di ladroni, umano, cortese, affabile, rispettoso verso i preti, voglioso di far del bene, non si può dire quanto ne fosse edificato.
E quando quel signore lo richiese di Fermo e di Lucia, e gli manifestò le sue intenzioni benevole, Don Abbondio, non solo si prestò volentieri, a secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto felice.
«Signor mio», diss'egli «questa buona gente è risoluta di lasciar questo paese; e il miglior servizio ch'ella possa render loro è di comperare quei pochi fondi che tengono qui.
A lei potrà convenire di aggiungerli ai suoi possessi; e quella gente si troverà fuori d'un grande impiccio».
Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio se non sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi, e insieme a conoscere quella brava gente.
«È un onore immortale», disse Don Abbondio facendo una gran riverenza; e andò in trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la proposta, che fu molto gradita.
Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio, a cui il signore disse all'orecchio, che lo stabilisse molto alto.
Don Abbondio così fece; ma il signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i ringraziamenti dei venditori, gli invitò a pranzo nel suo castello pel giorno dopo quello delle nozze.
Quel giorno benedetto venne finalmente: gli sposi promessi, furono marito e moglie; il banchetto fu molto lieto.
Il giorno seguente ognuno può immaginarsi quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don Abbondio, entrando non solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed onorevole nel castello, che era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa, mancava il Padre Cristoforo: ma egli era andato a star meglio.
Non possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il padrone non vi sedè; allegando che il pranzare a quell'ora non si confaceva al suo stomaco.
Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel brav'uomo non aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli, che si sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in una malattia.
Tanto anche a chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro non comandi la vittoria.
Il terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse di rivedersi, che si fanno anche quando s'ignora se e quando si potranno adempire, si staccò dalla sua Lucia, e tornò a Milano: e gli sposi con la buona Agnese che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un po' di crepacuore ai loro monti, e s'avviarono a Bergamo.
Avrebbero certamente divertito dalla loro strada, per far una visita al Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste contratta nell'assistere ai primi appestati.
La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con la buona condotta.
Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio».
Ella visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare bella giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo.
Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: «d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra».
Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse.
A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi.
Quando tu non volessi dire», aggiunse ella soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te».
Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì ordinariamente de' guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende utili per una vita migliore.
Questa conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.
17 settembre 1823
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