EVA, di Giovanni Verga - pagina 2
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«Da due anni» rispose.
«Sei pittore, mi sembra.»
«Sì.» mi disse, con un sorriso che non dimenticherò mai più.
E dopo un istante:
«Anche tu hai la malattia dell'arte!»
«La malattia?»
«Vuoi chiamarla follia?» diss'egli con lo stesso sorriso amaro.
«Non discutiamo sulle parole: è una malattia del cervello o del cuore, non mi picco gran fatto di fisiologia - ma so ch'è un gran malanno...
Vedi, non son più badduzza...
ed ho la febbre.»
Si tolse il guanto e mi porse la mano, che scottava.
«Ma tanto meglio!» riprese con lo stesso tono, ridendo sempre in modo strano.
«Ti ho cercato appunto per questo.
Avevo bisogno di uno come te...
Tu non mi riderai in faccia almeno...
Ed io non voglio che si rida di me!...»
Gli occhi gli brillavano febbrilmente, e parlava concitato assai.
Incominciai a temere che fosse matto sul serio.
Tutt'a un tratto egli mi domandò bruscamente:
«Andrai in Sicilia?»
«Forse.»
«Conosci la mia famiglia?»
«No»
«La conoscerai» soggiunse «son brava gente; non son signori, ma potrai stringer loro la mano francamente...
e parlar di me...
Non dire di cotesta scommessa però, e in caso di disgrazia non dire come sono morto...
La mia povera mamma piangerebbe anche la perdita dell'anima mia...
Dì che son morto di tifo, di miliare, in buona casa - ché in Sicilia l'idea dell'ospedale stringe il cuore - e che sono stato assistito dagli amici fino all'ultimo momento...»
«Ma che discorsi mi fai!»
Egli mi guardò sorpreso, come se avessi rotto il filo logico di premesse ben stabilite, e rispose tranquillamente:
«Ma io potrei anche essere ucciso invece di uccidere.»
E ne parlava con calma sinistra.
«Che?...»
«Tò! non ti rammenti della scommessa?»
Allora il vero scopo di quella follia mi balenò in mente nudo e minaccioso.
«Ti batterai?»
«Oh!!» esclamò con un sorriso indefinibile che era quasi lugubre su quel volto cadaverico.
«Odii quell'uomo?»
«Sì» mormorò coi denti stretti, «e l'ucciderò!»
«Per colei?»
«Sì!»
«L'ami!»
Egli trasalì.
«La odio! La disprezzo! Vorrei morderla, vorrei schiaffeggiarla!...
vorrei pestarmela sotto i piedi!»
Tossì di nuovo e soffocò la tosse col fazzoletto.
Questa volta lo sforzo fu così violento che egli chiuse gli occhi, e sulle sue guance pallidissime passarono certe fiamme di malaugurio.
Allorché riaprì gli occhi mi sembrò di vedere un cadavere.
Egli mi disse con voce intieramente mutata da un istante all'altro:
«Tu lo vedi, se non muoio di spada morrò di qualche altra cosa.
Ma non penso a ciò che per i miei poveri genitori, e per la mia sorellina...
Stringendo la tua mano mi sembra di stringermi al cuore quei poveretti che saranno tanto afflitti...Ecco perché ho voluto parlarti.
Non è vero che in certi momenti, quando siamo molto lontani dalla famiglia, proviamo delle strane tenerezze per le persone che ce la rammentano, o che hanno il più lontano rapporto con essa?»
«Mio caro...
tu esageri...»
«Io esagero?» rispose con lo stesso sorriso.
«Va a chiederlo ai medici di Santa Maria Nuova se esagero...
o vieni alle Cascine fra le sei e le sette...»
«Cotesto duello è dunque inevitabile?»
Egli mi guardò sorpreso.
«A meno che il conte non prenda in santa pace la scommessa.»
«Quale conte?»
«Il conte Silvani, il trovatore.»
«Ma puoi anche uscirne vincitore...»
«Perbacco!» esclamò con sinistro entusiasmo.
«Lo so!»
«Ma adesso hai la febbre.
Non vorrai aspettare qualche altro giorno?»
«La febbre non mi lascia mai.
Ma che importa!...
Anzi!...
Vedi che il pugno trema!...» e lo guardava con triste soddisfazione.
«Vedrai come ci starà bene la spada!»
«E la tua famiglia?»
«Povera mamma!» diss'egli passandosi il guanto sugli occhi.
«Non vorrai vederla?»
«No!...
No!...» ripeté dopo un breve silenzio in tono tutto diverso e afferrandomi le mani.
«Non ne ho il coraggio.»
Le lagrime gli luccicavano nell'orbita, e sentii che quelle lagrime mi toccavano il cuore.
«Se sapessi come sono fatti gli occhi della madre che ti affissano in volto in certi momenti e ti chiedono certe cose!...
Se sapessi!» mormorò come parlando fra di sé.
Tutt'a un tratto sentii trasalire le sue mani nelle mie.
«Guarda!» esclamò.
«La vedi?...
Lei!...
Non è bella?» mi domandò Enrico seguendola tra la folla con gli occhi ardenti.
«Oh!»
«Se tu la vedessi senza maschera!...»
«L'ho vista.»
«Ah! tu la conosci! Ella ti ha gettato la fiamma del suo sguardo...
anche a te!..
Non è vero che farebbe commettere tutte le pazzie?...»
Essa scomparve verso la porta.
Enrico era rimasto sempre con gli occhi fissi dov'ella non era più, e le scagliò dietro una parola infame come un'imprecazione.
«Ah! Ah!» sogghignò con un riso che voleva essere allegro ed era tristissimo.
«Se tu sapessi che cosa ho fatto per colei!» e si torceva le mani.
«Tu riderai di me, eh?»
«Oh, no! Ti compiango.»
«Non voglio della tua compassione!» mi disse bruscamente.
Poscia, come pentito, e stringendomi la mano:
«Se tu sapessi come mi sento spregevole e vile!...
come mi disprezzo! Dimmi,» soggiunse dopo una breve esitazione, piantandomi in volto due occhi luccicanti come quelli di un pazzo, «voglio domandarne a te che ti occupi di coteste orribile malattie...
Dimmi come possono farsi di tali cose per una donna che si disprezza, che si odia...
Dimmi come pur sputandole in faccia tutto quest'odio e questo disprezzo si possa morire per lei, si possa sacrificarle l'onore, la vita, la famiglia, la giovinezza, l'arte, tutte le cose che sorridono e che si amano, per abbeverarsi del fiele dell'amore di lei...
Dimmi come accada tutto ciò...E dimmi che nei miei panni tu avresti fatto come me, e saresti vile e spregevole del pari!...Oh dimmi questo!...ché mi sembra di impazzire!...Vuoi che io ti narri questa storia...vuoi?...»
«Sì!» gli dissi sentendomi invadere dalla sua commozione.
«Ma bisogna che ti dica quello che ero per farti comprendere quel che sono diventato.
Ero un genio in erba, una speranza dell'arte italiana, coi capelli lunghi e il cappellaccio alla Rubens; abitavo all'ultimo piano di una vecchia casa in Santo Spirito che il vento, d'inverno, sembrava far traballare sulle fondamenta, e desinavo a cinquantacinque lire al mese.
Però in tutte coteste cose ci mettevo, direi, tanta buona fede, che le rendevo quasi rispettabili.
Il mio paese mi pagava una pensione, allo scopo di aumentare il numero dei suoi grandi uomini.
I miei professori ed i miei colleghi mi tenevano in gran conto, - è vero che c'era poco da fidarsi di loro che avevano in corpo le stesse magagne, ma chi ci avrebbe rinunciato? - Il pubblico ed i giornali mi bruciavano sotto il naso tutti gli stimolanti della vanagloria.
Ebbene, chi sarebbe stato più forte di me scagli la prima pietra...
Io battezzai pomposamente la mia vanità; la chiamai amore dell'arte, e presi sul serio i miei capelli lunghi e tutte le altre belle cose.
Ero contento di passeggiare per le vie di Firenze, come se andassi a braccetto con Raffaello o con Michelangelo.
Mi pareva di respirare l'arte a pieni polmoni; e avevo in cuore tutti gli entusiasmi, le antipatie, gli affetti della mia illusione.
Vivevo come in un'atmosfera del Cinquecento che mi rendeva idolatra dei palazzi anneriti dal tempo, delle gronde sporgenti e malinconiche, e delle acque torbide dell'Arno...
In fede mia!» aggiunse con un ghigno amarissimo «non avevo ancora pensato all'ospedale e al camposanto...»
Tacque e si passò a più riprese la mano sulla fronte, come per scacciarne molesti pensieri o la commozione che lo vinceva.
«Follie! si!» mormorò dopo qualche istante quasi parlasse fra di sé.
«Sei certo di non sbagliarti giudicando così dei sentimenti umani?»
«Oh, no...Nessuno potrebbe avere cotesta sicurezza...
poiché non ci sono sentimenti veri.»
«Eh?!»
«Quistione d'ottica, mio caro.
Io chiamo follie quelli che tu chiami nobili affetti,» rispose con cinismo amarissimo «perché...
perché mi hanno ridotto quale mi vedi...
- Quanto guadagni con la tua arte?» soggiunse dopo un breve silenzio, appoggiando l'accento in modo ironico sull'ultima parola.
La domanda era così brusca e brutale che lo guardai sorpreso.
Egli scoppiò a ridere.
«Lo vedi,» mi disse, «ti vergogni a dirlo! Adunque sei un pazzo vanitoso, il peggiore.»
Ero disgustato da quell'affettazione, e gli risposi secco secco:
«Io mi contento di non mischiare del danaro in certe idee.»
«Bella frase!» disse senza scomporsi.
«Un tempo mi sarebbe parsa anche una nobile risposta.
Ma, amico mio, in un'epoca in cui le più vive ambizioni dell'uomo, ed i più seri sforzi della sua attività hanno uno scopo positivo - arricchire - la logica ha il difetto di non prestarsi alle ipocrisie, - confesserai anche tu che le tue idee, nelle quali non vuoi mischiare del danaro, non valgono nulla...Cioè...
no!...
Valgono a gettarti fra i piedi di cotesta gente, laboriosa perché è assetata di donne e di vino.
- E cotesta gente, che si affretta verso la Borsa, riderà di te, ubbriaco in pieno giorno delle sue passioni.
- ché anche tu vivi nella medesima atmosfera, e la bevi avidamente, perché il tuo cervello e i tuoi nervi sono in uno stato di esaltazione morbosa.
- E la folla ti schernirà, finché arriva una pietosa guardia urbana che ti conduce in prigione in nome della moralità, o ti chiude nel manicomio.»
Egli si tacque per esaminare trionfante l'effetto della sua eloquenza da pessimista.
«Che cosa mi rispondi?» domandò sorpreso del mio silenzio.
«Che hai veramente il cuore ammalato.»
«Sarà anche vero.
Già te l'ho detto che è quistione d'ottica, ed io non pretendo all'infallibilità.»
«E ti credo molto sventurato.»
«Sì! Sì!» accennò col capo, e sembrava commosso; indi soggiunse: «È pure una gran sventura quella di perdere certe illusioni...
certe follie...
care follie che riempivano di rosei sogni la mia cameretta al terzo piano!...E poi, che resta quando esse son svanite?...»
«Tu lo vedi!»
«Sì! ci dev'esser qualcosa di vero in coteste illusioni che spalancano il cuore a due battenti verso tutto quello che è nobile e bello!...» esclamò lasciandosi dominare dalla commozione.
E poscia come pentitosi, rifacendosi scuro in volto: «Ma è poi vero che sia nobile e bello ciò che mi è parso anche ridicolo un giorno?...»
«Un giorno di febbre o di sconforto!..»
«Potresti assicurarmi quali sieno i giorni di sereno, per giudicare con esattezza dei sentimenti, tu che hai amato e odiato la stessa cosa, che ne hai pianto e riso nel medesimo giorno?» domandò con quel sorriso che voleva sembrar cinico ed era una contrazione dolorosa del suo cuore.
E lasciando più libero varco alla sua amarezza mormorò: «Non c'è altro di vero che la modificazione dei nostri nervi o la temperatura del nostro sangue».
«La tua scienza è desolante! È la scienza del nulla!»
«È vero!»
«Non hai ma pensato alla tua famiglia?»
Egli trasalì e si fece pallido; accennò due o tre volte a voler parlare, e le labbra gli tremavano.
«Io l'ho abbandonata per correre dietro a quelle larve!» mormorò con voce soffocata.
«E allora ho dovuto chiedermi quale di cotesti due affetti fosse il vero, se il più forte o il più puro...È stato un gran dolore!...Ma il dolore è una debolezza, non è una verità...e dei due affetti sai quale ha vinto...nel mio cuore entusiasta e vergine?...
ha vinto il più turpe; ha vinto il sensuale nella mia anima che viveva in un mondo ideale...Ora dimmi tu le tue frasi sonore; io ti getterò fra i piedi i fatti eloquenti.»
Io non avevo mai amato, o almeno cotesto sentimento che era sparso in tutto il mio essere non si era incarnato in una figura di donna.
Ero superbo della mia arte, superbo di me che la sentivo degnamente, e ciò mi rendeva quasi geloso di me medesimo.
I miei sogni erotici non erano mai scesi più giù di una duchessa, cui prestavo gratuitamente tutti i miei entusiasmi, e piedi che non si erano mai posati sul lastrico delle vie, e mani che nessuno aveva mai visto senza guanti, all'infuori di me.
E aspettando la duchessa che non veniva, io facevo all'amore coi miei quadri, sognavo i capelli biondi della cameriera che spolverava le tende della finestra di faccia alla mia - i soli capelli - o le linee graziose degli omeri della modista che vedevo tutti i giorni dietro la vetrina in via Rondinelli.
Nella comprensione dell'arte c'è una squisita sensualità; la bellezza plastica che compenetravasi nel bello ideale aveva per me certi affascinamenti, ancora verginali ma potentissimi.
La mia vita scorreva serenamente in un mondo che m'ero creato colla mia fantasia.
Non avevo mai rivolto un solo sguardo di desiderio su quei piaceri di una grande città che mi passavano sotto gli occhi, sebbene ad una certa distanza, e come in una nube; oppure se ne avevo provata la curiosità, con un amaro sentimento di privazione, m'ero rifugiato nella mia arte come nelle braccia di un'amante.
Il mio più grande divertimento era quello di andare a teatro la domenica.
Avrei preferito, è vero, quegli spettacoli che parlano più vivamente all'immaginazione, come l'opera in musica ed il ballo; ma erano spettacoli che costavano cari, e in ciascun mese ci son quattro o cinque domeniche - troppo lusso per un bilancio di centocinquanta lire.
Ora se ti dirò che senza fare un buco nel mio bilancio io non avrei fatto uno strappo nel mio cuore, che se una domenica non fossi andato alla Posta per riscuotere un vaglia non avrei visto forse il cartellone della Pergola; e se non avessi finito il giorno innanzi un lavoro di cui ero soddisfattissimo, e il sole di quella domenica non mi fosse perciò sembrato in festa come il mio cuore, io avrei visto il cartellone senza pensare a fare un buco nel mio bilancio, tu mi darai del fatalista...
Farai come tutti gli altri, ti sbarazzerai con una parola di un esame increscioso.
Andai dunque alla Pergola di buon'ora per trovare un posto in platea; e lì, nella semi-oscurità, col mio paletò piegato sulla spalliera, l'ombrello fra le gambe, il cappello sull'ombrello, l'occhio intento, stavo a godermi il mio biglietto d'ingresso esaminando tutto, le dorature dei palchi, il leggio del suggeritore, i lumi della ribalta, e soprattutto l'ora che segnava l'orologio.
I palchetti si andavano popolando di belle signore, - almeno avevano indosso tanti fiori, e gemme, e nastri, e bianco, e rosso, che nella mezza luce sembravano tutte belle.
Degli uomini poi ce n'erano così ben vestiti e così ben rasi, e colle testine così ben pettinate, ricciutelle e lucide, che quelle belle donne dovevano al certo guardarli con tanto d'occhi spalancati, come io guardavo loro, e istintivamente mi nascondevo le mani nude sotto il cappotto.
Squillò un campanello; un'onda di luce invase quella splendida sala, e incominciò la rappresentazione.
Io ascoltavo, guardavo, tutto commosso e rimpicciolito nel mio cantuccio; il mio entusiasmo non si manifestava altrimenti che come una gran soddisfazione di aver ben impiegato le mie tre lire.
Avevo comprato per tre sole lire un tesoro di emozioni.
Costruivo un paradiso di matte aspirazioni, di sogni e ne cercavo il riflesso negli occhi scintillanti di quelle belle dame.
- E quando le vedevo parlare e ridere sbadatamente, agitando il ventaglio o aggiustando il fisciù, provavo una molesta sensazione, e mi scuotevo bruscamente, come se m'avessero svegliato di soprassalto da un sogno delizioso.
Vedi, mio caro, quante belle cose ci sono in tre lire per uno spettatore novizio?
Alcuni istanti prima del ballo corse per la folla un mormorio di aspettazione.
Io sentivo come allargarmisi il cuore, e aggiustavo macchinalmente il mio cappello sull'ombrello.
Improvvisamente apparve una scena incantata, riboccante di suoni, di luce, di veli e di larve seducenti che turbinavano nelle ridde più voluttuose - come una fantasmagoria di sorrisi affascinanti, di forme leggiadre, di occhi lucenti e di capelli sciolti.
Poi, quando quella musica fu più delirante, quando tutti gli occhi erano più intenti, e tutti gli occhialetti si affissavano bramosi sulla scena, corse un nuovo susurrio: «Eva! Eva!» e in mezzo a un nembo di fiori, di luce elettrica, e di applausi, apparve una donna splendente di bellezza e di nudità, corruscante febbrili desideri dal sorriso impudico, dagli occhi arditi, dai veli che gettavano ombre irritanti sulle forme seminude, dai procaci pudori, dagli omeri sparsi di biondi capelli, dai brillanti falsi, dalle pagliuzze dorate, dai fiori artificiali.
Diffondeva un profumo di acri voluttà e di bramosie penose.
Guardavo stupefatto, colla testa in fiamme e vertiginosa.
Provavo mostruosi desideri, e invidie, e scoramenti, e alterezze per la mia arte che sentivo abbassarsi sino ai miei desideri, e pel mio ingegno che mi pareva si elevasse sino a guardarla a faccia a faccia, l'arte; e in fondo a tutto questo, un amaro rammarico di trovarmi in quel meschino posto di platea e senza guanti.
Poi tutta quella visione scomparve in un lampo di luce e in un'onda di musica.
Tutto tornò buio.
Rimasi ancora sognando, con quei suoni negli orecchi e quelle larve davanti agli occhi.
Mi alzai quando gli altri si alzavano; uscii barcollando, urtando nel vestibolo tante belle signore, e calpestando tante code, rischiando venti volte di gettarmi sotto i piedi dei cavalli in istrada.
Quella notte non potei dormire; mi sentivo come se avessi tutti i nervi agitati; avevo bisogno di sfogarmi in qualche modo delle mie impressioni, e giacché mi parve che il pennello non avrebbe potuto esprimerle tutte, mi misi a scrivere...
un vero delirio, un sogno da febbricitante, però senza pretese, e senza altro scopo che quello di accenderne il fuoco quando avrei avuto freddo.
Ahimè! la stagione era mite; il caldo del cuore durava ancora troppo per lasciar sentire il freddo alle membra, - ecco perché quello scritto che non raggiunse il suo scopo di comunicare la fiamma alle fascine del caminetto arse il mio cuore e consunse la mia vita.
Un mio amico, appendicista molto conosciuto, veniva spesso a trovarmi - eravamo giovani, artisti, entusiasti, matti del pari - Si fumava spesso la pipa insieme e digerivamo la gloria di là da venire.
Il mio cuore, o piuttosto la mia immaginazione, aveva bisogno di espandersi.
Gli parlai delle impressioni ricevute con tanto calore che egli volle leggere il mio scritto e lo trovò bello.
«Dammelo,» mi disse «voglio farti amare da quella donna.»
«Eh?!» risposi come sbalordito da quell'enormità.
«Che ci trovi d'impossibile? La donna è così vana! E la ballerina ha tanto bisogno di simili entusiasmi che le facciano la reclame e si comunichino agli altri!»
«Oh! amarmi! Lei...
amar me!...
Sei matto!»
«Chi lo sa! E poi mi renderai un servigio; mi risparmierai buona parte dell'appendice teatrale che dovrei scrivere.
Il tuo articolo è proprio bello; me ne farò onore.»
E lo portò via infatti, e la sera dopo trovai in camera il giornale ed una letterina del mio amico.
" Non te l'avevo detto? " mi scriveva, " il tuo articolo ha fatto furore.
Eva desidera conoscerti.
Stasera trovati in teatro, ti presenterò.
"
Provai come una fitta al cuore.
Presentarmi a lei!...
io!...
così fatto!...
a quella bellezza circondata da tante seduzioni, da tanti splendori, che non aveva nulla di terreno!...
proprio io!...E in me successe una lotta di mille pensieri diversi, e l'intima soddisfazione ch'ella avesse letto il mio articolo, avesse scorto una parte del mio cuore, e ne fosse lieta...
e la ripugnanza di svelare al pubblico e a lei stessa il segreto delle mie impressioni, e il timore che esse fossero giudicate ridicole...
Se ella mi trovasse ridicolo?...
Non ebbi neanche un istante il coraggio di pensare ad accettare quell'invito.
Eppure ero felice, tutto solo nella mia cameretta, fantasticando cogli occhi fissi sulla fiamma del caminetto.
A un tratto fu suonato il campanello con violenza.
Io mi scossi bruscamente.
Udii nell'andito la voce di Giorgio.
«E così,» mi disse entrando, «che cosa fai? Non hai ricevuto il mio biglietto?»
«Si, ma...»
«O dunque?»
«Ma non verrò...
Non posso venire...»
«Eh! che diavolo! Ora che ho promesso di presentarti! Che figura mi fai fare?»
«Ma capisci...»
«Capisco che sei di una timidità ridicola.»
Così la paura di un ridicolo scacciò l'altra, e mi lasciai condurre.
Alle porte del teatro sentii rinascere più vive che mai le ultime esitazioni, e le misi fuori risolutamente.
Egli le respinse senza ammettere replica e mi prese pel braccio.
Infilammo alcuni corridoi poco illuminati, e ci trovammo quasi improvvisamente in mezzo ad un caos di ordegni, di assi, di tele dipinte, di scale; tutto polveroso, unto, sudicio, dove stavano a chiacchierare alcuni macchinisti in maniche di camicia, e un pompiere faceva la corte ad una figurante lercia, seduta a cavalcioni su di una seggiola zoppa.
- Era il rovescio di quel paradiso di tele dipinte e di fiori di carta.
Di fuori risuonavano applausi fragorosi che soverchiavano la musica da ballo.
Tutt'a un tratto, dalle quinte, entrò correndo un leggiadro folletto, tutto involto in una nube di veli, e rialzando la gonnellina appoggiò il piede su di uno sgabello per allacciare meglio uno degli scarpini.
«È lei,» mi disse Giorgio; «vieni.»
Essa levò il capo, ancora tutta rossa e anelante.
Ci vide e ci sorrise.
- ahimè! un sorriso stanco, distratto, reso sgarbato dalla respirazione accelerata.
I capelli le cadevano sul petto senz'arte; alcune stille di sudore rigavano il suo belletto; le sue candide braccia, vedute così da vicino, avevano certe macchie rossastre, e nello stringere i legaccioli vi si rivelavano i muscoli che ne alteravano la delicata morbidezza; le scapule si ravvicinavano sgarbatamente, fin la suola del suo scarpino era insudiciata dalla polvere del palcoscenico.
Ti parlo da pittore; ma anche da pittore ne avevo ricevuto la prima impressione.
Era la silfide dietro la scena, nel suo momento di prosa, in cui non ha bisogno di essere bella, e non si cura di esserlo.
Ora è impossibile esprimerti l'effetto che tutto ciò doveva fare sulla squisita e mobilissima sensibilità mia.
La farfalla tornava bruco, ed io ne risentivo un dispetto ed una amarezza indicibili.
«Ah, il signore!...» diss'ella sorridendo fra un nodo l'altro.
«Le sono molto riconoscente del suo articolo.»
E siccome io non rispondevo, il mio amico stimò conveniente dire qualcosa per conto mio.
Ella si rizzò, tutta rossa, ancora anelante, ed aggiustando i suoi capelli e le pieghe del suo gonnellino, mi affissava coi suoi grand'occhi - erano tutt'altri occhi che quelli lampeggianti ebbrezze e seduzioni mentite che avevano sconvolto la mia ragione; ma ci era un'aria d'insistente e quasi ingenua curiosità ch'era stranissima.
«Rientro in iscena,» disse vivamente e stendendoci le due mani nello stesso tempo.
«Mi rincresce non potermi fermare più a lungo.
Ma spero che il signore vorrà farmi il piacere di venirmi a trovare...»
Ci sorrise e con la vivacità piena di grazia spinse all'indietro colle due mani quel fiocco di velo che formava il suo gonnellino; riprese come una maschera il suo sorriso e disparve.
Rimanevo tristamente là dov'erano svanite le mie illusioni.
«Che te ne sembra?» domandò Giorgio.
«In fede mia...
non valeva proprio la pena di venir qui a sciupare i bei frutti delle mie tre lire!»
«Che bel matto! Avresti voluto essere accolto con una piroetta? E credi forse che la prima ballerina della Pergola non debba far altro che sorrisi convenzionali e gesti aggraziati? Puoi essere ben contento, giacché ti ha invitato ad andarla a trovare...»
«Oh, grazie!»
«Saresti capace di non andarci!»
«Tanto capace che non ci andrò.»
«Eh, via! cotesto si chiama viver nelle nuvole!...»
«Lasciami pure le mie nuvole così belle, perché tutto il resto è così brutto!»
«Amen!» rispose Giorgio in tono derisorio.
«Non te le invidierò, di certo!»
«Anzi,» avevo detto a Giorgio un altro giorno, «voglio tornare a vederla, cotesta sirena che abbaglia la ragione collo scintillare delle sue pagliuzze dorate, e che irrita i sensi colle sue vesti vaporose, che mette la febbre nel sangue, e fa scrivere appendici ridicole.
Voglio ridere di me anch'io, giacché ne hanno riso gli altri, e lei per la prima.»
«Si direbbe che nella tua ironia c'è molta amarezza!»
«No! c'è del dispetto!...
C'è il dispetto di aver visto il mio cuore ginocchioni davanti a cotesta dea che si allaccia le scarpe come l'ultima donn
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