EVA, di Giovanni Verga - pagina 6
...
.»
«Ma come? a piedi?»
«A piedi, come due scampati.
Voi mi darete il vostro mantello.»
«Andiamo.»
Faceva un freddo di gennaio; le strade erano tutte bianche di neve; ella tremava.
Allorché fummo in piazza d'Azeglio, il mio primo sguardo cadde su quelle finestre del primo piano ancora illuminate.
Ella che si stringeva al mio braccio, lo sentì trasalire, e lo premette leggermente come per attaccarsi a me.
«Non ci ho colpa, vi giuro!» esclamò con voce supplichevole.
«Speravo che a quest'ora fossero partiti!...»
Mi prese per mano, come un bambino, e mi fece salirle scale appresso a lei.
«Zitto!» mi sussurrò all'orecchio.
«Non voglio che vi vedano; spegnete il gas.»
Io girai la chiavetta.
Eravamo al buio, e sentivo il profumo del suo fazzoletto, il soffio del suo respiro.
Essa cercò tastoni il campanello e suonò quasi timidamente.
Venne ad aprire una leggiadra cameriera.
Eva le disse all'orecchio qualche parola, mi spinse in un andito, e scomparve senza far rumore da un altro uscio a vetri.
La cameriera mi fece entrare in una stanza da letto, debolmente illuminata, e scomparve anche lei.
La camera era piccola e imbottita di seta bianca come un elegante scatolino.
In un canto c'era un letto tutto velato di trine, con certe cortine diafane che sembravano i vapori di un sogno d'amore, e lasciavano trasparire certe coperte color di rosa, di cui la seta doveva carezzare l'epidermide, e nascondere nelle sue pieghe scrosci di risa soffocate, di palpiti virginei.
C'era un profumo singolare in quella camera, un profumo di cosa viva, un profumo di donna e di donna amante.
C'erano in tutti gli angoli quei piccoli oggetti che luccicano e che hanno forme e colori leggiadri.
C'erano negli specchi come il riflesso di chiome bionde, come il lampo di occhi lucenti e di sorrisi giovanili; vi si riverberavano ombre leggiere, colori delicati; il moto dell'orologio era silenzioso; il tappeto era spesso, bianco e carezzava i piedi.
Nell'altra stanza si udivano voci di uomini, e di tanto in tanto delle risa allegre.
Si udì anche per qualche istante il suono del pianoforte, e ad intervalli la voce di Eva, fresca, spensierata, giuliva.
Poi si udì un rumore di tazze mosse.
Improvvisamente una luce più viva invase la camera ed entrò Eva.
Ella corse verso di me; mi afferrò improvvisamente il capo, senza dire una sola parola, e mi diede un bacio.
«Ecco il tuo thè!» mi disse.
E quand'io la baciavo, quand'io la soffocavo di carezze deliranti, ella metteva un piccolo grido: un grido pieno d'amore e di voluttà.
«Ahi! mi fate male!»
Si svincolò ridendo dalle mia braccia; mi guardò fisso, con quegli ardori negli occhi, stendendo le mani per tenermi discosto ed esclamò:
«Come sei bello! Come devi amare tu! Vieni!» soggiunse sottovoce, prendendomi per la mano.
«Zitto! vieni qui, accanto a me!»
Lisciava i miei baffi, arruffava i miei capelli e li intrecciava coi suoi, mi prendeva la testa fra la mani per guardarmi a lungo negli occhi, e mormorava:
«Bambino! bambino mio bello!»
Ad un tratto si fece seria; mi affissò con certi occhi attoniti, e mi disse:
«Mi pare di amarti davvero, guarda!»
Saltò dalle mia ginocchia come un uccello, corse all'uscio e girò la chiave.
«Buona notte, signori!» disse, e volgendosi verso di me, con uno scroscio di riso infantile: «Se ci vedessero!»
Si udì uno scoppio di voci e di recriminazioni al di là dell'uscio.
«Ho sonno!» ripeté Eva, «Buona notte!»
«Che imbecilli!» soggiunse poi «si credono in diritto di annoiarmi anche quando sono felice!»
Stette ad ascoltare, e ripigliò dopo alcuni istanti:
«Se ne vanno; finalmente! Verrai domani, non è vero?»
«Sì.»
«Alla stessa ora, mi aspetterai in teatro?»
«Sì.»
«Anzi, fai così: m'aspetterai in fiacre, in piazza Santa Maria Nuova.
Verrò a trovarti io stessa.
Prendi il fiacre numero nove; è la data del giorno in cui mi hai conosciuta.
Ora che farai?»
«Come vuoi ch'io te lo dica se non lo so...
se non ho più la testa, se ho la febbre!...»
Ella aveva i capelli sciolti, e me ne sferzava il viso con certi movimenti felini.
«Ebbene,» mi disse, «se hai la febbre vai a casa.»
«No, starò a vederti dormire.»
«Eh?!»
«Starò a guardare le tue finestre dalla via, e ti vedrò dormire.»
Ella sorrise in modo inesprimibile, e mi avventò un bacio come un morso.
«Birbone!»
Scostò colle sue mani i capelli dalla mia fronte; mi guardò con certi lampi abbaglianti negli occhi - mi guardò a lungo così, tenendomi la fronte fra le mani - e poscia, come rispondendo a se stessa:
«Vattene!» mi disse «vattene!» E non mi lasciava, e sporgeva verso le mie le sue labbra sitibonde, e chiudeva gli occhi.
Mi richiamò di nuovo, quand'ero sulla soglia dell'uscio.
«Dammi qualche cosa di tuo» mi disse; «dammi il tuo fazzoletto.»
E poscia un'altra volta:
«Aspetta! Voglio che anche tu pensi a me.»
Si staccò dal seno uno spillo d'oro, e mi punse leggermente sulla mano.
«Bravo!» esclamò dandovi su un bacio.
«Ora vattene.
Addio!»
Attraversai l'andito al buio, e andavo tastando tutte le serrature dell'uscio, senza trovar modo di aprirle.
Al di là dell'altro uscio udivo un fruscio di vesti e di passi, come se Eva andasse e venisse per la camera.
Questa situazione si prolungava e cominciava a farsi imbarazzante.
Non potevo tornare indietro, e non potevo chiamare la cameriera.
Tutt'a un tratto udii uno scoppio di risa fresco, gaio, argentino - uno scoppio di risa che mi chiamava per nome, e comprendeva tutte le mie follie.
Mi trovai, non so come, sull'uscio della sua camera; sollevai la portiera, e vidi quella leggiadra testolina che si affacciava fra le cortine del letto incorniciata dai biondi capelli e dai candidi merletti - saettandomi il delirio del suo sorriso, le ebbrezze dei suoi sguardi, e il fascino del suo silenzio.
Io non saprei dirti quanto durasse cotesto sogno febbrile, e quello ch'io vi provassi.
Avevo in seno tutte le gioie, tutti gli entusiasmi, tutte le frenesie...
e mi soffocavano.
Sembravami che il cuore mi si dilatasse talmente, per tanta piena di affetti, che il mio petto non bastasse a contenerlo.
Provavo nello stesso tempo tal fastidio di me, tal rimorso, come un dolore pungente.
Sentivo che ero tremendamente felice.
Passavo i giorni sognando ad occhi aperti, alla finestra, o presso il camino, o gironzolando per le vie - senza vedere, senza udire, senza pensare - e la notte divoravo avidamente tutte le ebbrezze.
Partivo da lei all'alba, di nascosto, come un ladro che ha rubato il paradiso.
Provavo sgomenti inesplicabili; di tratto in tratto il cuore mi palpitava di gioie improvvise, acri e dolorose; sentivo arcane e infinite ispirazioni artistiche che non avrei neppure tentato di esprimere, e impotenze desolanti.
Ella mi amava veramente.
Quell'amore sarà stato un capriccio, ma in quel momento era sincero.
Le arrecavo paura e diletto.
Delle volte mi guardava timidamente, e all'improvviso mi saltava al collo, ebbra anch'essa d'amore.
Aveva certe strane curiosità di sapere come fosse fatto il mio cuore che l'amava in tal modo.
Mi chiudeva gli occhi con le mani, metteva la sua bocca nella mia per sentire come fosse caldo il mio alito, ed appoggiava l'orecchio sul mio cuore per udire come battesse.
Mi voltava e rivoltava in tutti i sensi, scomponeva i miei capelli, e quando l'affissavo a lungo negli occhi, li chiudeva con un piccolo grido di paura.
«Se avessi saputo di doverti amare così» mi diceva, «non ti avrei più cercato.
Mi fai male!»
Delle volte voleva che le suonassi al pianoforte la musica dei suoi balli, ed ella mi appariva improvvisamente dinanzi nel suo leggiadro costume, e spiegava intorno a me tutte le seduzioni - per me! per me solo! - il sorriso inebbriante, gli sguardi pieni di promesse, i capelli disciolti, il seno palpitante...
E tutte le volte finiva saltandomi sulle ginocchia, e annegandomi in un'onda di velo.
«Come ti amo!» mi diceva.
«Come ti amo!»
Un giorno mi disse, quasi paurosa:
«Come farò a non amarti più?»
E un'altra volta:
«Sai ch'è più di un mese che ti amo così!»
Erano esclamazioni di una commovente ingenuità, ma mi arrecavano aspri dolori.
«Non mi amerai sempre così?» le dissi.
«Oh, sempre!» mormorò con mestizia.
«Neanche tu m'amerai sempre così!»
In cotesto delirio, che si prolungava tanto, capirai che il mio tenore di vita era molto cambiato.
Non lavoravo più, non ricevevo più nessuno, non scrivevo più nemmeno alla mia famiglia, tranne delle brevissime lettere, ad uso telegramma, e tutte le volte per chiedere denaro.
Non puoi immaginare come una tal passione sia divorante per uno che si trovi nella mia disgraziata condizione, e come divori specialmente il denaro, ch'è la cosa più preziosa.
Io non spendevo un soldo per Eva, nemmeno per regalarle un mazzolino di viole, ma provavo mille nuovi bisogni: avevo comperato degli abiti nuovi, avevo bisogno di essere elegante, di lavarmi le mani con acqua di Colonia, di essere ben alloggiato, di desinare da Doney, di portar dei guanti - e tutti questi nonnulla sono enormemente dispendiosi per un pensionato del Comune a centocinquanta lire.
Ohimè! Vorrei credere che fossi pazzo, perché fui assai vigliacco, perché fui infame.
Io divenni esigente sino all'impossibile verso la mia povera famiglia - fino a strapparle il necessario per comprarmi delle cravatte.
- Non scrivevo altro che per chiedere denaro, e mentivo anche l'affezione! Oh, mia povera mamma! Oh, padre mio!...
e non arrossivo allorché vedevo giungere quel denaro che costava tanti stenti ai miei genitori! No! Non arrossivo! - E allorché le mie richieste si fecero più frequenti, più insistenti, vidi le lagrime di mia madre, lo sconforto di mio padre per non potermi mandare più nulla - e non provai altro dolore che la paura di rimanere senza quattrini - e non esitai, no! ad abusare dell'inesauribile affetto paterno fingendomi ammalato, e scrivendo di aver bisogno di denaro a ogni costo - e non pensai al dolore immenso, alle ansie morali dei miei genitori che per specularci sopra...
Ah! cos'ero divenuto, mio Dio!...
dove avevo la testa? che se n'era fatto del mio cuore?
Non pensai neanche a morire; non pensai a buttarmi in Arno - avevo bisogno di vivere.
La risposta non si fece attendere.
Ricevetti un vaglia di centoventicinque lire e una lettera che mi avrebbe lacerato il cuore se non l'avessi avuto di pietra.
Mia madre ci aveva aggiunto i suoi scarabocchi e li aveva inzuppati di lagrime; mio padre mi scongiurava di vendere tutto quello che possedevo, se quei denari non mi fossero bastati per fare il viaggio, e di ritornarmene a casa, giacché non poteva mandarmi più nulla.
Riscossi il vaglia e lacerai la lettera.
Ero malato, non è vero? Avevo un'orribile malattia di cervello o di cuore! Ero pazzo! Non ero io!
Alcune volte, quando aspettavo Eva delle ore intere nella sua camera, mentre ella riceveva i suoi numerosi amici, mentre la sentivo ridere e folleggiare nel suo salotto, provavo delle collere sorde ma selvagge contro di lei.
Allora tutte le amarezze che quell'amore mi costava mi sfilavano davanti agli occhi.
Ero geloso, e mi vedevo ridicolo, nascosto dietro il suo uscio a divorare in silenzio la mia gelosia.
- Alcune volte sembravami che tutta quella gran gelosia non si riducesse ad altro che ad una febbrile impazienza di stringermi Eva tra le braccia.
Poi ella compariva, sorridente, inebbriante - la luce si faceva e mi abbagliava.
Ella trovava cento pretesti per venire a stare con me due o tre volte durante quelle visite, e in quei due minuti in cui ella mi saltava sulle ginocchia aveva tali carezze, tali baci, tali parole da farmi impazzire.
Sembrava che gli ostacoli irritassero il suo amore e gli dessero mille nuove attrattive.
Noi ci dicevamo delle cose futili, sciocche, senza significato, sottovoce, tremanti, estatici.
- Poi ella mi lasciava con un bacio e scappava via.
Una volta mi trovò che ridevo.
«Che hai che ridi così?» mi domandò.
«Penso alla bella figura che ci fanno quei tuoi amici di là, mentre tu sei qui con me...»
«Oh, mio Dio!...
ma ne ridi in un certo modo!...»
Un altro giorno le dissi:
«Senti Eva, delle volte mi assale la tentazione di entrare all'improvviso in quel salotto, e schiaffeggiare tutti quei bei signori.»
«Sei matto?...»
«Lo so anch'io.
È una pazzia; ma ci avrei gusto, ecco!»
Una sera ebbi la tentazione di origliare dietro l'uscio e di guardare dal buco della serratura.
Lo feci con un gran battito di cuore - non di vergogna, ma di paura.
Quand'ella venne da me, mi trovò così pallido e corrucciato che mi domandò dolcemente che cosa avessi.
Io le dissi con amaro sorriso:
«Che persone sono quelle, Eva?»
«Oh, della migliore società.»
«Infatti sembrava che si tenessero molto al di sopra di voi.
Vi fumavano in faccia!»
«Hai visto?»
«Sì!» esclamai con un sogghigno dove cercai di mettere tutto il fiele che avevo in cuore.
Ella non mi rimproverò la mia indiscrezione.
«Hai fatto male» mi disse semplicemente facendosi triste.
«Ho avuto torto, lo so.»
«Non dico ciò per me, ma per te.»
«Oh, per me!»
«Non ridere così, Enrico! Ascoltami; se vuoi essere felice contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo.
Tu hai il cuore caldo e la mente esaltata.
Certe curiosità a mio avviso ti farebbero male.»
«Ah! voi lo sapete!»
«Sì,» rispose tranquillamente, guardandomi con tutta franchezza.
«Ma che vuoi farci? Tu sai che cosa sono: mi hai amato appunto per questo.
Ora per essere quella che sono bisogna che io mi rassegni a siffatte visite, anche quando mi annoiano.»
«Soltanto questo?»
«Soltanto questo.»
«Oh! non basterà!»
«Basterà...
perché ti amo!...
Hai torto a lagnarti!»
Mi guardò a lungo negli occhi con tanto amore che avrei giurato fosse sincero; mi prese entrambe le mani, e mi disse con serietà - ella che non era mai seria:
«Ti amo ancora e voglio che tu mi ami.
Mi prometti una cosa?»
«Di'.»
«Giurami che non starai ad origliare dietro quell'uscio.»
«Ah!» mormorai amaramente con un riso ch'era una contrazione dolorosa del cuore.
«Oh, mio Dio!» esclamò torcendosi le mani «Che timore potrei avere di essere spiata se volessi ingannarti?»
«Perché non volete dunque che io ascolti?»
«Perché...
tu l'hai visto...
Perché quelle familiarità insolenti che per me sono soltanto una mortificazione d'amor proprio, per te sarebbero morsi acuti di gelosia...
Per risparmiarti dispiaceri...»
«Che m'importa se questi non mi vengono da voi!»
Ella lesse nei miei sguardi tutta l'amarezza che non c'era nelle mie parole, chinò gli occhi e mi disse solamente:
«Come siete ingiusto!»
C'era tal suono di verità nella sua voce, e così schietta e dignitosa franchezza nelle sue parole, nei suoi occhi, e nel suo gesto, che mi facevano soffrire orribilmente per tutte le sciagurate contraddizioni della vita.
«Sì, lo sento che sono ingiusto!» esclamai.
«Ma soffro orribilmente! sono geloso, Eva! Son geloso di te, di tutti quelli che ti vedono in teatro perché tutti ti desiderano; son geloso di tutti quelli che ti parlano, perché ti parlano per averti...»
«Oh!» esclamò Eva con uno scoppio di risa schiette e gaie «se sapeste come dovrebbero invidiarvi quei signori di cui siete geloso!»
«Non importa; essi vi vogliono...»
«Oh, non tutti! Ci sono quelli che vengono per prendere il mio thè, gli altri per trovare gli amici, altri perché la mia casa è di moda, altri pur di far sapere che ci vengono.»
«Io vorrei che non foste obbligata a ricevere tutte quelle persone, Eva.»
«Sono tutti abbonati, giovanotti chic, di quelli che dispongono dell'esito di uno spettacolo, ed io appartengo al teatro.»
«Io intendo che la donna che mi ama appartenga a me anzitutto!»
«Allora non avresti dovuto innamorarti di una ballerina.»
«Oh, io mi innamorai della donna, perdio!»
Ella sorrise tristamente.
«La donna la vedesti un momento, nel dietro scena...
e scappasti via.»
«Ma io vi amo così, come siete!»
«Lo sai tu come sono? Una donna non è che come vuol essere.
Sai tu che cosa sarei senza la mia gonnellina corta e le mie scarpine di raso? Sarei una modesta operaia colle dita punzecchiate dall'ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio; una ragazza che potrebbe dirsi bellina se non avesse gli stivalini rotti e il cappellino di traverso - che andrebbe al mercato, farebbe la cucina, e se avesse fortuna sposerebbe un cuoco o un cocchiere.
Ecco che cosa sarei, mio caro; invece ecco che cosa sono: faccio fare anticamera a tanti signori che sarebbero gelosi di te - e tu che non mi avresti neanche guardato se m'avessi vista andare attorno colle scarpe rotte, tu hai fatto delle pazzie per me.
Oh! lo so bene ch'è assai meglio non esser costretti a far buon viso a quelli che ci sono uggiosi, e a soffrire delle galanterie insolenti.
Ma che vuoi farci? Non son nata duchessa!»
Venne a sedermi sulle ginocchia; mi cinse il collo delle sue braccia, e mi baciò a più riprese.
«Andiamo, via! non piangere, bambino mio! amor mio! non piangere! mi fai male! Io ti amo davvero, sai! Non ho nulla da sperare da te, anzi potresti nuocermi, vedi che son sincera! Mi credi dunque che ti amo?»
«Se tu non mi amassi così io farei una cosa semplicissima, mi ucciderei.»
«Ah! no!» esclamò essa con quel riso da bambina, tenendosi appesa al mio collo colle mani intrecciate, e dondolandosi sulle mie ginocchia.
«Non voglio che tu ti uccida perché sei il mio amore, il mio amore bello! il mio amore bello!» e nella voce aveva la dolce cantilena con cui si cullano i bambini.
Alcune sere quelle visite si prolungavano molto innanzi nella notte.
Era un giuoco di scherma fra quei signori a chi dovesse rimaner padrone del campo.
Una volta Eva entrò improvvisamente e come se fuggisse.
Era rossa in viso, e avea le narici dilatate.
Chiuse l'uscio a chiave, si gettò su di me con passione, e nascose il mio viso sul suo seno, baciandomi sui capelli, come per impedirmi di uscire, o per nascondermi qualche cosa.
«Che hai?» le chiesi svincolandomi dalle sue braccia, vedendola così turbata e colle lagrime agli occhi.
«Nulla!» rispose.
Io impallidii, e non osai domandarle altro.
Il giorno dopo ella mi vide così cambiato che mi domandò anche lei.
«Che hai?» E stavolta fui io che risposi: «Nulla!»
Ella si fece pensierosa e parlò d'altro.
Passammo quella notte come le altre, soffocando le ciarle infantili sotto i guanciali e scambiandoci i sorrisi nelle dolci ombre dei cortinaggi; però sentivamo che fra noi due c'era qualche cosa che ci faceva morire il bacio sulle labbra ed il riso in cuore.
Ella mi guardava con quei suoi grand'occhi spalancati, col gomito sul guanciale, il mento sulla mano, il braccio trasparente attraverso la nebbia dei merletti, e i capelli che gettavano onde dorate sui candidi lini.
- Aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza; mi gettava al collo le braccia nude, e mi nascondeva in petto la sua bionda testolina.
- Poi mi stava di nuovo a guardare fisso senza dir parola, colla testa affondata nella tela batista, ed il braccio disteso, mentre le sue piccole dita giocherellavano colla trina della coperta.
Una volta, mentre si parlava d'altro, esclamò: «Come son pazza ad amarti così!»
E più tardi, dopo uno scoppio di risa tanto allegre e matte che mi facevano un senso di pena:
«Come farò quando non mi amerai più?»
Poi, senza badare a quel che rispondessi, mi parlò della sua sarta, delle sue vesti, dei suoi cavalli, dei suoi fiori, del teatro, di musica, di balli, mi parlò della mia arte, di me, del mio paese - giammai ella non mi aveva parlato della mia famiglia; era una circostanza che incominciava a sorprendermi.
Era delicatezza? era istinto di gelosia?
Allorché partivo, sull'alba, ella mi richiamò, mi attirò sui guanciali, allacciandosi tenacemente al mio collo, e mi domandò collo stesso tono della prima volta, come se fra la prima domanda e la seconda non ci fossero passate tutte quelle ore e quelle follie.
«Che hai?»
«Nulla.»
«Oh, non partire così!» esclamò colle lagrime nella voce.
«Perché me lo domandi? Non mi ami? Non ti amo? Non siamo felici?»
Ella appoggiava la testa sul cuscino, rivolta dalla mia parte, e mi fissava senza parlare, coi suoi grandi occhi pieni di lagrime.
«Credimi,» soggiunsi, «la nostra curiosità è funesta.
Io l'ho capito, e non ti ho domandato altro, quando l'altra sera mi hai risposto: nulla.»
Mi prese le mani e le baciò - le sentii umide di lagrime.
«Non mi ami più!» disse.
«Dio lo volesse!» esclamai con un'esplosione di tutte quelle angosce che mi rodevano da due giorni.
Ella si rizzò a sedere di botto, splendida di bellezza, sotto la fine batista, come una statua greca, e mi si buttò al collo, coprendomi di lagrime e di baci.
«Si, tu mi ami! tu mi ami!» singhiozzò «ed io pure ti amo come una pazza!»
Poscia, tenendosi allacciata a me come l'edera, nascondendo il suo capo nel mio seno, e parlandomi sottovoce, come vergognosa per quello che doveva dirmi:
«Non credi che ti amo?»
«Sì!»
«Temi che io possa ingannarti per un altro?»
«Oh, no!»
E chinando maggiormente la testa, e abbassando di più la voce, e abbracciandomi più strettamente:
«Perché quella domanda adunque?»
«Perché ti amo! Perché son geloso...
in un altro modo.»
«Come?»
«Oh!...
non lo so!...
non te lo dirò mai!»
Tuttavia sembrò aver compreso, poiché allentò le braccia, non disse molto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso.
«Ascolta!» mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre era per partire.
«Piuttosto che cessare di amarmi...
quando lo vorrai...
domandami quello che vuoi...
Ti giuro che lo farò!»
«Non voglio che tu venga a teatro» mi avea detto altre volte.
«Perché?»
«Perché...
perché...
È una fanciullaggine, lo so...
ma se ti sapessi là...
in mezzo a quella folla...
ciò mi farebbe pena.»
Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa.
Ella mi guardò sorpresa.
«Perché?»
«Voglio vederti.»
«Non mi vedi adesso?»
«No! vederti là...
a quel modo!...»
«Mi vestirò qui per te.»
«Oh, è tutt'altro!...»
Ella sorrise e mi disse: «Orgoglioso!»
«Orgoglioso?»
«Si, vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano mi appartiene!»
«È vero...
sì!»
«Ebbene,» soggiunse semplicemente, «dillo pure giacché è la verità.»
La sua cameriera l'attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi:
«Però mi prometterai di non essere geloso!»
Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo?
Non l'avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt'altra! Io comprendo come si possano fare quelle cose che si dicono pazzie - e sono brani di cuore strappato da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio - per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni, inchiodandoci ad una poltrona d'orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoci ad affissarle avidamente.
- Cotesta voluttà che s'inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie - e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie...
Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passa il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!...
Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle.
Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio - spiegami tu questo contrasto.
E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia.
Ella credette che fosse l'entusiasmo destatomi dal suo trionfo!
«Oh! come son contenta che tu sia stato lì!» mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole.
«Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!»
E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala.
Io dovevo avere l'aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide.
Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini.
Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza.
«Quanto sono felice, mio Dio!» esclamava, senza avvedersi che egoismo c'era nella sua felicità.
Suonarono il campanello.
Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera.
«Aspettami qui» mi disse.
«È inutile, giacché me ne vado.»
«Te ne vai! E perché?»
«Avrete molte visite...
È la vostra festa...»
«È vero!» disse tutta giuliva.
«Vedete che mi rassegno anch'io...»
Ella mi guardò in volto con sorpresa.
«Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!»
«No.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Domani dunque?»
«A domani.»
«Buona sera»
Io non risposi; ella non se ne accorse.
Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore.
Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla.
Quando fui istrada piansi come un bambino.
E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d'amore, appena furono le dieci corsi da lei.
Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d'amore.
Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei.
Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch'era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto.
Vedendomi entrare all'improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo.
Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso.
Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione:
«Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!»
E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto.
«Perché?» io le dissi.
«Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera.
Tu sei più buono di me...
Ci ho pensato tutta la notte...
Sei ancora in collera?»
«Oh, no!»
«Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?»
Io chinai la testa senza rispondere.
«Vedi», soggiunse, «se io avevo ragione di temere quello ch'è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t'amo di più.»
Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco.
«Come sei pallido!» mi disse.
«Non hai dormito stanotte?»
«No.»
«Caro! caro! caro!» esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte.
Indi con improvvisa e ingenua vivacità:
«Vedi, io t'amo per questo! T'amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo.
Mi piaci così, ecco!»
In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch'era anch'esso sul marmo del camino, accanto alla lettera.
«Ti piace quel braccialetto?» mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me.
«Non l'avevo visto.»
«Ah!» esclamò sconcertata.
Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza:
«È un regalo per la mia beneficiata.»
«Oh!»
«È bello, non è vero?»
Io, che avevo la testa a tutt'altro, risposi: «Bellissimo.»
«È di gran valore.»
«Varrà per lo meno duecento lire.»
«Oh!» esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata.
«Ne vale almeno duemila!»
Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme.
«A che pensi?» ella domandò con una certa inquietudine.
«Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire.»
«Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!»
Io sorrisi amaramente.
Si parlò un po di tutto, ora seri, ora innamorati, ora quasi giulivi.
Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente:
«Chi t'ha regalato quel gioiello?»
Ella rispose con la maggior franchezza.
«Il conte Silvani.
Saresti geloso di lui?» soggiunse vedendo che m'ero fatto serio.
«Oh, avrei torto!»
«E avresti torto davvero!» esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò.
«Oh, Eva, perdonami!» esclamai quasi fuori di me, «Io m'avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!...
Ma son geloso! orribilmente geloso!»
Per tutta risposta ella mi dette un bacio.
«Perché non hai rimandato quel braccialetto?» le domandai dolcemente.
Ella mi guardò con tanto d'occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole.
«Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!»
«Sì, rifiutarlo.»
Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principi sinceramente e francamente accettati da tanto tempo.
«Ma non si usa in teatro!» mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza.
«Ah!» sogghignai.
«Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!»
«Ma, mio caro, è un altro genere di dignità.
C'è l'uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio.
Perché ridi?»
«Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene...
senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici.»
«Ma un'artista non è una duchessa, mio caro! te l'ho già detto.»
E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt'altro risentimento che non fosse stato il mio.
Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida - ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m'irritava.
Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un'ora su di me, e la presi in mano.
Ella trasalì, ma non si mosse.
«Entrando ho interrotto la tua lettura»; le dissi, e le porsi la lettera.
Ella la prese vivamente.
«Oh, nulla d'importante.»
«Ebbene, leggila pure.»
«L'avevo già letta», e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino.
Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco.
«Chi ti scrive?» le domandai facendomi rosso in volto.
«Il conte Silvani.»
«Ah!»
«Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!»
«Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!» le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva.
«Oh!» esclamò ella celandosi il viso fra le mani.
«Oh!»
Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia.
Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: «Siete pazzo!»
«Avete ragione!» le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno.
Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l'aria severa.
«Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!» ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch'ella dicesse qualcosa.
«Sì» rispose seccamente.
Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente:
«Perché l'avete bruciata?»
«Perché non vi riguardava.»
Perdei la testa: «È vero;» le dissi, «io non posso farvi dei regali di duemila lire!»
Ella si rizzò come se l'avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai:
«Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!»
C'era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso.
Rimasi com'ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco.
Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all'improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi.
«M'avete fatto molto male!» mi disse.
«M'avete detto quello che nessuno m'ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo...
Ora che volete che io faccia?»
«Scacciatemi.»
«Oh, no! ti amo troppo!»
«Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest'inferno!»
«Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l'ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d'insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t'irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!»
Io la guardai in viso coll'occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo:
«Non vi credo!»
Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore.
Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: «Perché?» balbettava «perché?»
«Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!» gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore.
Mi attendevo un'esplosione di collera.
- Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore.
Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare.
«Non mi credi!» balbettò.
«E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo.»
«Dovresti abbandonare il teatro.»
«Oh!»
«Dovresti romperla con tutto il mondo.»
«Oh!»
«Dovresti venire a vivere con me.»
«Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!» mi rispose con uno scoppio di pianto.
«Ah! è una ragione singolare!»
«Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!...
No! no! no!»
Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via.
Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava.
«L'hai voluto:» mi disse semplicemente, «ecco che t'ho obbedito.»
Credetti di esser felice.
Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me.
Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l'attaccavano al mondo esteriore.
Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità.
Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari.
L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso.
Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi.
Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture.
L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera.
Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla!
Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni.
La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori.
Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche.
Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore.
Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico...
oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità...
E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura...
Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore.
Non mi sono mai sognato di giustificarlo.
Ti faccio osservare un fatto.
Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore.
L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa.
Però fu un altro gran dolore per me.
Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo.
Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose.
Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime.
Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai.
Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato.
Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera.
Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia.
Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure.
Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi.
L'inverno era ritornato, e rigidissimo.
Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa.
Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando.
Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento.
«Perdio!» dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume.
«Non vien certamente la voglia di tornare a casa.»
Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose.
«Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!» ripresi.
Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè.
«Non è freddo» rispose.
«Perdio, s'è freddo, si gela.»
«Non c'è più legna», soggiunse timidamente.
«Non ce n'è più in Firenze?»
Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta.
«Non hai danari?» domandai.
Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione.
«No», rispose Eva dolcemente.
«Come! non hai danari?» replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse.
«Hai fatto delle spese straordinarie?»
«No.»
«Ma non siamo che ai venti del mese.»
«È vero.»
Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio.
«Vuol dire...» esclamai, sentendo che la voce mi tremava, «vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese...
non bastavano!»
«Che importa?» mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza.
«Ma allora...
come hai fatto?...»
«Avevo del danaro.»
«Tu!!!» e mi nascosi il volto fra le mani.
Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più.
«Sì.»
«Tu non avevi nulla quando venisti.»
«Avevo quei pochi gioielli.»
«Li hai venduti?»
«Sì.»
«Ah!»
Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte.
«Non mi ami più?» disse.
«Perché?»
«Perché quello che io ho fatto ti dispiace.»
«No.»
«Ti fa arrossire.»
«Sì.»
«Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me.»
«È tutt'altra cosa; io sono un uomo.»
«È lo stesso quando si ama!»
Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla.
Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide.
Le prime parole che mi vennero in bocca furono:
«Ed ora come si fa?»
«Bisogna aver coraggio!»
«Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!» le dissi aspramente.
«Mio Dio!» rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, «non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco.
Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più.
Adesso non ho più nulla.»
«Io non vi ho chiesto nulla!» le dissi amaramente.
«Oh!»
«E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!»
«Oh!» ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore.
Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita.
«Enrico!» mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, «vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!»
L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso.
Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione.
«Arte pitocca e bugiarda!» esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto «che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!»
Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata.
Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: «Ed ora come si fa?»
Non rispose.
«Se tu tornassi al teatro?» le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria.
«È impossibile;» rispose colla stessa calma rassegnata; «non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari.
Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi.
Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce.
Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo.»
Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze.
«E tu sapevi tutto questo?» le dissi.
«Sì» rispose tranquillamente «e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno.»
«Ti giuro,» esclamai, «che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!»
Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce:
«Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti.»
Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa.
Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo.
Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una.
E neanche questo bastava.
Io ero inquieto, irascibile, dispettoso.
Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella.
Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava.
Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme.
Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta.
Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita!
Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata.
Una sera trovai la chiave nella serratura.
La camera era buia.
La chiamai e non rispose.
Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi:
" Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari.
Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più.
Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori.
Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te.
Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale.
Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera.
Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò.
Eccoti 500 lire.
"
Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo.
Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime.
Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata.
Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio.
Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva.
E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva.
Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista.
Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno.
Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza.
L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè.
I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire.
Poi anche questo finì.
E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare.
Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione.
Mi venne in mente di giocare.
Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea.
Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima.
Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti.
Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira.
Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!...
Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee.
Avevo perduto.
Almeno non avevo più nulla!
Scesi le scale con passo fermo.
Avevo la vista chiara e la mente tranquilla.
Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo.
Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada.
Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto.
Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima.
Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze.
Giorgio non era in Firenze.
Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni.
- Dieci o quindici giorni!
Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti.
Mi venne in mente di fumare.
Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno.
"Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!"
E credo anche che scappai a ridere!
Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo, come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse.
Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine.
Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco.
Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame.
Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido «guarda!» e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone.
L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto.
Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo.
Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura.
Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona.
Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro.
Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito.
Più non sentivo il menomo desiderio di lei.
C'era come un abisso fra di noi.
Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere.
- Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà...
quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!...
Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare.
Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi.
Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo.
«Dio mio!» balbettai, «se lo sapesse mia madre!»
Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato.
Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito.
Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire.
Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro.
Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato.
Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro.
Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso.
Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative.
L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi.
Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali.
- Io avevo fame!
Avevo anche preoccupazioni lugubri.
Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea.
Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame.
Avevo ancora dell'orgoglio!
L'aria era frizzante.
Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare.
Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande.
Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame.
Verso sera le mie sofferenze si fecero insopportabili.
Uscii come un pazzo.
Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente.
Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo.
Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati.
Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise.
Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono.
Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: «Ho fame.»
Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire.
Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse:
«Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?»
Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse:
«Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici.»
Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore.
Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro.
Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia.
Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata.
Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì - egli aveva creduto che fosse inesauribile.
- La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime.
- Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano.
- I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere, che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito.
Egli pagò con la vita.
Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi.
Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione.
Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita.
Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere.
Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani.
Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano.
Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega.
Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo.
Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio.
Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione.
Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili.
- Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?...
mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale.
Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo.
Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me.
Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala.
Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè.
Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria.
Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore.
Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale.
Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia.
Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri.
Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati.
- Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità.
- Non era più amore, ma era vanità.
- Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro.
Non l'avevo più vista.
La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina.
Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa.
- Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri.
Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario.
Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi.
Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà.
Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante.
La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto.
Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti.
«Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?» domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali.
L'officioso più lesto e più fortunato rispose:
«Il conte Silvani.»
«È un pezzo che non si vede il conte!»
«È stato in Germania.»
«E ha preso moglie?»
«No.»
«Ah!»
Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia.
Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore.
La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore.
Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra.
Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente.
Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso di me.
Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi.
Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari.
È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti.
Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano.
Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano.
- Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine.
Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante.
«Matto! matto!» mi disse lisciandosi i capelli allo specchio.
«Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?»
«Quale dea?»
«Quella del Pagliano, la superbiosa.
L'ami molto?»
«Punto.»
«Ti credo.
Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre.
L'amerai per vanità.»
«Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità.»
«Come sei diventato!» e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora.
«Dimmi come amano le gran dame» e annodava i nastri del cappellino.
«Come le piccole.»
«Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio.»
«Verrai a trovarmi?»
«No.»
«Verrò io?»
«No.»
«Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!»
Ella mi guardò e scoppiò a ridere.
«Proprio?» mi disse.
«Come dell'aria per respirare!»
«Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!»
«Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?...»
Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse:
«Ero gelosa!»
«Dunque mi ami!»
«No.
Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!» riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi.
«Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli.
Non scherziamo più col fuoco!»
Ella seguitava ad
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