EVA, di Giovanni Verga - pagina 8
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E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia.
Ella credette che fosse l'entusiasmo destatomi dal suo trionfo!
«Oh! come son contenta che tu sia stato lì!» mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole.
«Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!»
E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala.
Io dovevo avere l'aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide.
Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini.
Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza.
«Quanto sono felice, mio Dio!» esclamava, senza avvedersi che egoismo c'era nella sua felicità.
Suonarono il campanello.
Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera.
«Aspettami qui» mi disse.
«È inutile, giacché me ne vado.»
«Te ne vai! E perché?»
«Avrete molte visite...
È la vostra festa...»
«È vero!» disse tutta giuliva.
«Vedete che mi rassegno anch'io...»
Ella mi guardò in volto con sorpresa.
«Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!»
«No.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Domani dunque?»
«A domani.»
«Buona sera»
Io non risposi; ella non se ne accorse.
Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore.
Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla.
Quando fui istrada piansi come un bambino.
E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d'amore, appena furono le dieci corsi da lei.
Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d'amore.
Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei.
Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch'era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto.
Vedendomi entrare all'improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo.
Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso.
Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione:
«Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!»
E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto.
«Perché?» io le dissi.
«Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera.
Tu sei più buono di me...
Ci ho pensato tutta la notte...
Sei ancora in collera?»
«Oh, no!»
«Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?»
Io chinai la testa senza rispondere.
«Vedi», soggiunse, «se io avevo ragione di temere quello ch'è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t'amo di più.»
Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco.
«Come sei pallido!» mi disse.
«Non hai dormito stanotte?»
«No.»
«Caro! caro! caro!» esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte.
Indi con improvvisa e ingenua vivacità:
«Vedi, io t'amo per questo! T'amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo.
Mi piaci così, ecco!»
In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch'era anch'esso sul marmo del camino, accanto alla lettera.
«Ti piace quel braccialetto?» mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me.
«Non l'avevo visto.»
«Ah!» esclamò sconcertata.
Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza:
«È un regalo per la mia beneficiata.»
«Oh!»
«È bello, non è vero?»
Io, che avevo la testa a tutt'altro, risposi: «Bellissimo.»
«È di gran valore.»
«Varrà per lo meno duecento lire.»
«Oh!» esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata.
«Ne vale almeno duemila!»
Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme.
«A che pensi?» ella domandò con una certa inquietudine.
«Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire.»
«Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!»
Io sorrisi amaramente.
Si parlò un po di tutto, ora seri, ora innamorati, ora quasi giulivi.
Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente:
«Chi t'ha regalato quel gioiello?»
Ella rispose con la maggior franchezza.
«Il conte Silvani.
Saresti geloso di lui?» soggiunse vedendo che m'ero fatto serio.
«Oh, avrei torto!»
«E avresti torto davvero!» esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò.
«Oh, Eva, perdonami!» esclamai quasi fuori di me, «Io m'avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!...
Ma son geloso! orribilmente geloso!»
Per tutta risposta ella mi dette un bacio.
«Perché non hai rimandato quel braccialetto?» le domandai dolcemente.
Ella mi guardò con tanto d'occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole.
«Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!»
«Sì, rifiutarlo.»
Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principi sinceramente e francamente accettati da tanto tempo.
«Ma non si usa in teatro!» mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza.
«Ah!» sogghignai.
«Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!»
«Ma, mio caro, è un altro genere di dignità.
C'è l'uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio.
Perché ridi?»
«Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene...
senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici.»
«Ma un'artista non è una duchessa, mio caro! te l'ho già detto.»
E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt'altro risentimento che non fosse stato il mio.
Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida - ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m'irritava.
Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un'ora su di me, e la presi in mano.
Ella trasalì, ma non si mosse.
«Entrando ho interrotto la tua lettura»; le dissi, e le porsi la lettera.
Ella la prese vivamente.
«Oh, nulla d'importante.»
«Ebbene, leggila pure.»
«L'avevo già letta», e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino.
Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco.
«Chi ti scrive?» le domandai facendomi rosso in volto.
«Il conte Silvani.»
«Ah!»
«Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!»
«Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!» le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva.
«Oh!» esclamò ella celandosi il viso fra le mani.
«Oh!»
Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia.
Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: «Siete pazzo!»
«Avete ragione!» le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno.
Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l'aria severa.
«Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!» ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch'ella dicesse qualcosa.
«Sì» rispose seccamente.
Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente:
«Perché l'avete bruciata?»
«Perché non vi riguardava.»
Perdei la testa: «È vero;» le dissi, «io non posso farvi dei regali di duemila lire!»
Ella si rizzò come se l'avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai:
«Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!»
C'era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso.
Rimasi com'ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco.
Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all'improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi.
«M'avete fatto molto male!» mi disse.
«M'avete detto quello che nessuno m'ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo...
Ora che volete che io faccia?»
«Scacciatemi.»
«Oh, no! ti amo troppo!»
«Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest'inferno!»
«Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l'ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d'insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t'irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!»
Io la guardai in viso coll'occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo:
«Non vi credo!»
Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore.
Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: «Perché?» balbettava «perché?»
«Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!» gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore.
Mi attendevo un'esplosione di collera.
- Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore.
Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare.
«Non mi credi!» balbettò.
«E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo.»
«Dovresti abbandonare il teatro.»
«Oh!»
«Dovresti romperla con tutto il mondo.»
«Oh!»
«Dovresti venire a vivere con me.»
«Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!» mi rispose con uno scoppio di pianto.
«Ah! è una ragione singolare!»
«Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!...
No! no! no!»
Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via.
Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava.
«L'hai voluto:» mi disse semplicemente, «ecco che t'ho obbedito.»
Credetti di esser felice.
Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me.
Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l'attaccavano al mondo esteriore.
Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità.
Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari.
L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso.
Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi.
Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture.
L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera.
Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla!
Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni.
La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori.
Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche.
Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore.
Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico...
oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità...
E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura...
Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore.
Non mi sono mai sognato di giustificarlo.
Ti faccio osservare un fatto.
Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore.
L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa.
Però fu un altro gran dolore per me.
Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo.
Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose.
Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime.
Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai.
Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato.
Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera.
Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia.
Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure.
Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi.
L'inverno era ritornato, e rigidissimo.
Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa.
Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando.
Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento.
«Perdio!» dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume.
«Non vien certamente la voglia di tornare a casa.»
Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose.
«Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!» ripresi.
Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè.
«Non è freddo» rispose.
«Perdio, s'è freddo, si gela.»
«Non c'è più legna», soggiunse timidamente.
«Non ce n'è più in Firenze?»
Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta.
«Non hai danari?» domandai.
Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione.
«No», rispose Eva dolcemente.
«Come! non hai danari?» replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse.
«Hai fatto delle spese straordinarie?»
«No.»
«Ma non siamo che ai venti del mese.»
«È vero.»
Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio.
«Vuol dire...» esclamai, sentendo che la voce mi tremava, «vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese...
non bastavano!»
«Che importa?» mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza.
«Ma allora...
come hai fatto?...»
«Avevo del danaro.»
«Tu!!!» e mi nascosi il volto fra le mani.
Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più.
«Sì.»
«Tu non avevi nulla quando venisti.»
«Avevo quei pochi gioielli.»
«Li hai venduti?»
«Sì.»
«Ah!»
Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte.
«Non mi ami più?» disse.
«Perché?»
«Perché quello che io ho fatto ti dispiace.»
«No.»
«Ti fa arrossire.»
«Sì.»
«Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me.»
«È tutt'altra cosa; io sono un uomo.»
«È lo stesso quando si ama!»
Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla.
Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide.
Le prime parole che mi vennero in bocca furono:
«Ed ora come si fa?»
«Bisogna aver coraggio!»
«Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!» le dissi aspramente.
«Mio Dio!» rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, «non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco.
Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più.
Adesso non ho più nulla.»
«Io non vi ho chiesto nulla!» le dissi amaramente.
«Oh!»
«E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!»
«Oh!» ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore.
Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita.
«Enrico!» mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, «vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!»
L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso.
Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione.
«Arte pitocca e bugiarda!» esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto «che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!»
Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata.
Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: «Ed ora come si fa?»
Non rispose.
«Se tu tornassi al teatro?» le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria.
«È impossibile;» rispose colla stessa calma rassegnata; «non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari.
Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi.
Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce.
Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo.»
Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze.
«E tu sapevi tutto questo?» le dissi.
«Sì» rispose tranquillamente «e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno.»
«Ti giuro,» esclamai, «che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!»
Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce:
«Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti.»
Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa.
Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo.
Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una.
E neanche questo bastava.
Io ero inquieto, irascibile, dispettoso.
Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella.
Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava.
Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme.
Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta.
Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita!
Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata.
Una sera trovai la chiave nella serratura.
La camera era buia.
La chiamai e non rispose.
Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi:
" Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari.
Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più.
Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori.
Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te.
Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale.
Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera.
Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò.
Eccoti 500 lire.
"
Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo.
Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime.
Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata.
Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio.
Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva.
E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva.
Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista.
Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno.
Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza.
L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè.
I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire.
Poi anche questo finì.
E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare.
Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione.
Mi venne in mente di giocare.
Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea.
Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima.
Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti.
Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira.
Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!...
Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee.
Avevo perduto.
Almeno non avevo più nulla!
Scesi le scale con passo fermo.
Avevo la vista chiara e la mente tranquilla.
Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo.
Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada.
Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto.
Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima.
Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze.
Giorgio non era in Firenze.
Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni.
- Dieci o quindici giorni!
Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti.
Mi venne in mente di fumare.
Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno.
"Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!"
E credo anche che scappai a ridere!
Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo, come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse.
Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine.
Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco.
Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame.
Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido «guarda!» e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone.
L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto.
Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo.
Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura.
Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona.
Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro.
Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito.
Più non sentivo il menomo desiderio di lei.
C'era come un abisso fra di noi.
Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere.
- Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà...
quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!...
Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare.
Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi.
Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo.
«Dio mio!» balbettai, «se lo sapesse mia madre!»
Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato.
Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito.
Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire.
Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro.
Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato.
Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro.
Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso.
Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative.
L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi.
Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali.
- Io avevo fame!
Avevo anche preoccupazioni lugubri.
Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea.
Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame.
Avevo ancora dell'orgoglio!
L'aria era frizzante.
Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare.
Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande.
Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame.
Verso sera le mie sofferenze si fecero insopportabili.
Uscii come un pazzo.
Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente.
Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo.
Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati.
Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise.
Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono.
Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: «Ho fame.»
Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire.
Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse:
«Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?»
Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse:
«Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici.»
Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore.
Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro.
Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia.
Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata.
Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì - egli aveva creduto che fosse inesauribile.
- La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime.
- Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano.
- I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere, che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito.
Egli pagò con la vita.
Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi.
Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione.
Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita.
Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere.
Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani.
Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano.
Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega.
Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo.
Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio.
Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione.
Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili.
- Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?...
mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale.
Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo.
Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me.
Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala.
Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè.
Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria.
Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore.
Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale.
Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia.
Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri.
Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati.
- Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità.
- Non era più amore, ma era vanità.
- Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro.
Non l'avevo più vista.
La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina.
Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa.
- Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri.
Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario.
Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi.
Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà.
Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante.
La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto.
Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti.
«Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?» domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali.
L'officioso più lesto e più fortunato rispose:
«Il conte Silvani.»
«È un pezzo che non si vede il conte!»
«È stato in Germania.»
«E ha preso moglie?»
«No.»
«Ah!»
Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia.
Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore.
La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore.
Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra.
Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente.
Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso di me.
Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi.
Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari.
È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti.
Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano.
Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano.
- Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine.
Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante.
«Matto! matto!» mi disse lisciandosi i capelli allo specchio.
«Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?»
«Quale dea?»
«Quella del Pagliano, la superbiosa.
L'ami molto?»
«Punto.»
«Ti credo.
Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre.
L'amerai per vanità.»
«Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità.»
«Come sei diventato!» e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora.
«Dimmi come amano le gran dame» e annodava i nastri del cappellino.
«Come le piccole.»
«Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio.»
«Verrai a trovarmi?»
«No.»
«Verrò io?»
«No.»
«Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!»
Ella mi guardò e scoppiò a ridere.
«Proprio?» mi disse.
«Come dell'aria per respirare!»
«Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!»
«Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?...»
Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse:
«Ero gelosa!»
«Dunque mi ami!»
«No.
Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!» riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi.
«Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli.
Non scherziamo più col fuoco!»
Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse:
«Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!»
«Ah! non lo sapevi?»
«No! Mi pareva di trovarti più ragionevole.»
«Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?»
Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente:
«Perché ho più giudizio di te.»
«Non mi ami più?»
«No.»
«Perché sei venuta dunque? Dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?...»
«Sì...
e se durasse sarebbe una follia...
per te, e per me.»
Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi.
«Senza rancore!» diss'ella stendendomi la mano.
E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse:
«È pure una gran disgrazia che siate fatto così.»
Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi.
Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli.
Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato.
Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani.
Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui.
- Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte.
- Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso.
Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ".
- Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui.
Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi.
E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera.
«Voi!» esclamò.
«Ancora!»
«Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!»
«Siete pazzo!» mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma.
«E voi senza cuore!»
«Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!»
«Ah! e volete vendicarvi!...»
«No, ve lo giuro.
Non sono in collera con voi.
Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia.
Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante.
Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso.»
«Non credete all'amore?» le dissi insolentemente.
«non ci credete più?»
«Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere.
Ma credo a quello degli altri.
Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini.»
«Oh, è un'infamia!»
Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente:
«Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte.»
«Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!»
«Ah!» esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei «mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!»
«Pel nome di Dio!» mormorai ebbro di collera e di gelosia, «che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!»
«Tu sai che ho scommesso!» finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti.
Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio:
«Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile.
Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore...
e son geloso!...»
«Hai visto le sue braccia nude?» mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno.
«Ma la tua famiglia?» gli dissi.
Non rispose.
Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi.
«È il solo dolore che mi rimanga!»
«Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente.»
Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente.
«Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure.
Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?...
i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!»
Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione.
«Fra mezz'ora,» mi disse, «al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno.
Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare.»
Mi toccò appena la mano, ed uscì.
Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato.
Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante.
Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava.
Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi.
Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto.
Dov'era andato?
Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii.
Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione.
Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso.
Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua.
Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno.
Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile.
A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa.
Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce.
Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte.
La mezz'ora suonava.
Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna.
Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere.
Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte.
Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa.
Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise.
«Tò! ancora quell'originale!»
Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà.
«Ti diverti?» gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale.
«Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto.»
«Mi conosci?»
«Diavolo! Chi non ti conosce!»
«Bevi alla mia salute, dunque», gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante.
«In coscienza non posso; ché tu stai molto male!»
«Ah! ah! una delle solite facezie!» sghignazzò il conte rivolto ad Eva.
«Adesso ci dirà i nostri segreti!»
Io guardai Eva e la vidi pallida come cera.
«Oh! oh!» rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; «il segreto di pulcinella!»
Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: «Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento.»
«Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei» e accennò ad Eva.
«Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita.»
Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare.
Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano.
Ci fu un istante di silenzio.
Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma.
«Ah! davvero? E come lo sai?» disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio.
Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente:
«Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante.»
Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora.
Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva.
Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire.
Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui.
Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò:
«Alla salute dei tuoi amori passati dunque!» e vuotò il bicchiere d'un fiato.
Ci fu uno scoppio di applausi.
«Bravo!» disse anche Enrico.
«Sei un uomo di spirito!»
«Grazie!»
«Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa.»
«Davvero?»
«Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male.»
«Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!» rispose il conte che cominciava a farsi serio.
«Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!...»
E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia.
Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo.
«Oh, oh» esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa.
«Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute.»
Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico.
Silvani era partito.
Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po inebetito come quando girava fra la calca del veglione.
I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto.
Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza.
- Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore.
Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre.
Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò.
«Non occorre;» mi disse, «fa caldo.»
«Hai la febbre!»
«Lo so.
Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere...
Passerà.»
E rideva.
Era ancora buio.
Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico.
Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale.
L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati.
L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero.
Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca.
Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio.
Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai.
Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti.
Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo:
«Sarà una bella giornata.»
Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza.
Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa.
Successe un istante di silenzio.
Poi si udì una voce:
«A voi, signori!».
E le due lame scintillarono.
Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo.
Enrico avea la guardia un po spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno.
Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona.
Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare.
Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio.
Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino.
Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente.
A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto.
«Alto!» gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti.
«Non è nulla!» disse Enrico scoprendosi il petto.
«È una scalfittura.»
Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato.
Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta.
Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il 'Dottore dal cappello bianco' - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle.
«Diavolo!» esclamò Enrico.
«Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa.»
Il dottore voleva fasciargli la ferita.
«No,» egli rispose; «il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio.»
Il conte s'inchinò.
Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini.
Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro.
Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio.
Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse.
Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare.
Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso.
Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada.
Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio.
Tutti si precipitarono su di lui.
Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto.
Il 'Dottore dal cappello bianco' s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia.
La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue.
Sembrava davvero una cosa da nulla.
Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: «La carrozza! presto, la carrozza!»
Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti.
Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia.
Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo.
Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante.
Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva:
" Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio.
"
Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera.
Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione.
Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi.
Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra.
Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi.
Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva.
Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare.
Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi.
Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato.
Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo.
Sedetti di faccia a lui.
Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare.
«Grazie!» mi disse tutto commosso.
«Tu almeno non mi hai dimenticato!»
Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente.
Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito.
Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo.
Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora.
La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime.
Feci un movimento per alzarmi.
Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi.
Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre.
Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore.
«Mamma!» disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola.
«Ecco il mio amico.
Tu gli vuoi bene, non è vero?»
La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente.
«Dove sono gli altri?» domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato.
«Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto.»
«Il medico!...» mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore.
Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere.
«Ti ho disturbato forse?» mi domandò dopo alcuni istanti.
«Oh, no!»
«Avevo bisogno di vederti...
e di parlarti.»
Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse:
«Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te.
Eppoi» e sorrise dolorosamente «ho diritto alla tua indulgenza...
come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono...»
«Enrico!» esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui.
Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime.
«Mamma!» le disse dopo una qualche esitazione, «non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?»
La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò.
Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca.
Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore.
«Io muoio!...» diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare.
«Lo vedi!...»
Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza.
«Coraggio, povero amico mio!»
«Credi dunque che mi rincresca di morire?...
Io non avrei bisogno di coraggio...
se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!»
I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno.
Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita.
Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso:
«Com'è bello tutto ciò!...
Io solo posso sentirlo in quest'ora...»
Rimanemmo qualche tempo in silenzio.
«L'hai veduta?» mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato.
«No!» risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento.
Egli capì, e sorrise ironicamente.
«Ah! voi altri puritani!...
come siete sciocchi!»
Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte.
Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora.
«Guardala!» mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, «e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!»
Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato.
«Quando sarai al punto in cui sono,» mi disse Enrico, «o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!...» E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne.
«Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così.»
«Che m'importa!» saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato.
«Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!...
Ho tempo di perderci la testa, io?...
e neanche voi altri ce l'avete...
voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte...
tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento...
Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza...
un soffio...
e se ne vanno!...
E l'uomo...
l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!...
Chi lo può dire?...
Nessuno.
E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?»
Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa:
«Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità.
Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? - Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?»
Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere.
La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli.
Era uno spettacolo straziante.
«I pazzi son più felici di voi» e ripeté due o tre volte questa frase.
«Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?...
Voi altri savi...
che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai...
o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!...
il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?»
«E l'arte...» soggiunse dopo poco, «Menzogna anch'essa!...
Menzogna...
o illusione!»
Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente.
Era un lugubre silenzio.
Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa:
«È strano!» mormorò; «mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei...
e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me...
Ora non lo desidero più...
Ho pensato ad Eva...
e alla mia giovinezza...
e le ho vedute lontan lontano...
Sarà perché sono stanco!»
E dopo un silenzio:
«Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani...
fra due giorni...
quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo...
quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie...
io sarò morto...
non vedrò e non sentirò più nulla...
nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno...
Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?...
Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!...
Non è vero?»
Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza:
«La vita!...» mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: «Sì! sì...
c'è qualche cosa di vero nell'arte!...»
Il dolore m'opprimeva.
Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne.
«Tu non muori, tu!» mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità «e forse la vedrai! Prendi» soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato.
«Se mai la rivedrai un giorno...
se si rammenterà di me...
dagliele...
Se no...
fanne quello che vuoi...
bruciale...
Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella...
non devono vederle...»
Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto.
In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano.
«Maledetta!» esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra.
«Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!»
Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile.
In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia.
Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance.
Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura.
«Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!» diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello.
«Ed ecco per lei...» aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo.
La ringraziai, commosso al vivo.
Il desolato genitore venne a stringermi la mano.
Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio.
Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante.
Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli.
Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo.
«Perché mi lasci così spesso?» diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza.
«Accompagnai il dottore, figliuol mio...» rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime.
«Ah!...
il dottore!...» esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle.
Nessuno osò aprir bocca.
Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce.
«Te ne vai diggià?» diss'egli stendendomi la mano.
«Si.»
«Verrai domani?»
«Verrò.»
Credeva ancora al domani!
«Domani!...» esclamò quindi tristamente.
«Chi lo sa?...
Ad ogni modo,» soggiunse stringendomi le mani, «baciamoci...
come due amici che si lasciano per lungo tempo...»
Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore.
Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola.
Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale.
Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva.
Partii addolorato profondamente.
Tutta la notte non potei dormire.
Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia.
Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio.
Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi.
Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo.
«All'alba!» mi rispose levandosi il cappello e segnandosi.
Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi.
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