EVA, di Giovanni Verga - pagina 13
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Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo.
«Oh, oh» esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa.
«Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute.»
Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico.
Silvani era partito.
Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po inebetito come quando girava fra la calca del veglione.
I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto.
Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza.
- Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore.
Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre.
Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò.
«Non occorre;» mi disse, «fa caldo.»
«Hai la febbre!»
«Lo so.
Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere...
Passerà.»
E rideva.
Era ancora buio.
Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico.
Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale.
L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati.
L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero.
Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca.
Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio.
Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai.
Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti.
Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo:
«Sarà una bella giornata.»
Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza.
Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa.
Successe un istante di silenzio.
Poi si udì una voce:
«A voi, signori!».
E le due lame scintillarono.
Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo.
Enrico avea la guardia un po spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno.
Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona.
Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare.
Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio.
Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino.
Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente.
A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto.
«Alto!» gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti.
«Non è nulla!» disse Enrico scoprendosi il petto.
«È una scalfittura.»
Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato.
Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta.
Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il 'Dottore dal cappello bianco' - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle.
«Diavolo!» esclamò Enrico.
«Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa.»
Il dottore voleva fasciargli la ferita.
«No,» egli rispose; «il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio.»
Il conte s'inchinò.
Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini.
Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro.
Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio.
Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse.
Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare.
Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso.
Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada.
Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio.
Tutti si precipitarono su di lui.
Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto.
Il 'Dottore dal cappello bianco' s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia.
La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue.
Sembrava davvero una cosa da nulla.
Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: «La carrozza! presto, la carrozza!»
Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti.
Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia.
Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo.
Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante.
Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva:
" Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio.
"
Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera.
Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione.
Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi.
Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra.
Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi.
Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva.
Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare.
Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi.
Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato.
Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo.
Sedetti di faccia a lui.
Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare.
«Grazie!» mi disse tutto commosso.
«Tu almeno non mi hai dimenticato!»
Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente.
Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito.
Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo.
Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora.
La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime.
Feci un movimento per alzarmi.
Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi.
Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre.
Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore.
«Mamma!» disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola.
«Ecco il mio amico.
Tu gli vuoi bene, non è vero?»
La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente.
«Dove sono gli altri?» domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato.
«Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto.»
«Il medico!...» mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore.
Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere.
«Ti ho disturbato forse?» mi domandò dopo alcuni istanti.
«Oh, no!»
«Avevo bisogno di vederti...
e di parlarti.»
Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse:
«Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te.
Eppoi» e sorrise dolorosamente «ho diritto alla tua indulgenza...
come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono...»
«Enrico!» esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui.
Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime.
«Mamma!» le disse dopo una qualche esitazione, «non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?»
La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò.
Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca.
Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore.
«Io muoio!...» diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare.
«Lo vedi!...»
Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza.
«Coraggio, povero amico mio!»
«Credi dunque che mi rincresca di morire?...
Io non avrei bisogno di coraggio...
se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!»
I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno.
Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita.
Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso:
«Com'è bello tutto ciò!...
Io solo posso sentirlo in quest'ora...»
Rimanemmo qualche tempo in silenzio.
«L'hai veduta?» mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato.
«No!» risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento.
Egli capì, e sorrise ironicamente.
«Ah! voi altri puritani!...
come siete sciocchi!»
Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte.
Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora.
«Guardala!» mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, «e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!»
Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato.
«Quando sarai al punto in cui sono,» mi disse Enrico, «o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!...» E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne.
«Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così.»
«Che m'importa!» saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato.
«Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!...
Ho tempo di perderci la testa, io?...
e neanche voi altri ce l'avete...
voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte...
tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento...
Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza...
un soffio...
e se ne vanno!...
E l'uomo...
l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!...
Chi lo può dire?...
Nessuno.
E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?»
Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa:
«Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità.
Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? - Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?»
Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere.
La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli.
Era uno spettacolo straziante.
«I pazzi son più felici di voi» e ripeté due o tre volte questa frase.
«Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?...
Voi altri savi...
che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai...
o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!...
il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?»
«E l'arte...» soggiunse dopo poco, «Menzogna anch'essa!...
Menzogna...
o illusione!»
Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente.
Era un lugubre silenzio.
Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa:
«È strano!» mormorò; «mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei...
e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me...
Ora non lo desidero più...
Ho pensato ad Eva...
e alla mia giovinezza...
e le ho vedute lontan lontano...
Sarà perché sono stanco!»
E dopo un silenzio:
«Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani...
fra due giorni...
quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo...
quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie...
io sarò morto...
non vedrò e non sentirò più nulla...
nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno...
Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?...
Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!...
Non è vero?»
Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza:
«La vita!...» mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: «Sì! sì...
c'è qualche cosa di vero nell'arte!...»
Il dolore m'opprimeva.
Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne.
«Tu non muori, tu!» mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità «e forse la vedrai! Prendi» soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato.
«Se mai la rivedrai un giorno...
se si rammenterà di me...
dagliele...
Se no...
fanne quello che vuoi...
bruciale...
Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella...
non devono vederle...»
Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto.
In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano.
«Maledetta!» esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra.
«Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!»
Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile.
In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia.
Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance.
Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura.
«Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!» diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello.
«Ed ecco per lei...» aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo.
La ringraziai, commosso al vivo.
Il desolato genitore venne a stringermi la mano.
Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio.
Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante.
Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli.
Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo.
«Perché mi lasci così spesso?» diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza.
«Accompagnai il dottore, figliuol mio...» rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime.
«Ah!...
il dottore!...» esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle.
Nessuno osò aprir bocca.
Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce.
«Te ne vai diggià?» diss'egli stendendomi la mano.
«Si.»
«Verrai domani?»
«Verrò.»
Credeva ancora al domani!
«Domani!...» esclamò quindi tristamente.
«Chi lo sa?...
Ad ogni modo,» soggiunse stringendomi le mani, «baciamoci...
come due amici che si lasciano per lungo tempo...»
Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore.
Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola.
Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale.
Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva.
Partii addolorato profondamente.
Tutta la notte non potei dormire.
Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia.
Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio.
Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi.
Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo.
«All'alba!» mi rispose levandosi il cappello e segnandosi.
Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi.
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