DEL ROMANZO STORICO, di Alessandro Manzoni - pagina 2
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E reciprocamente, ne' fatti inventati da lui, metterà naturalmente circostanze ugualmente inventate, e anche circostanze cavate da fatti reali di quel tempo e di quel luogo; perché qual mezzo più naturale per farne azioni che abbiano potuto essere in quel tempo, in quel luogo? Così a' suoi personaggi ideali darà parole e azioni ugualmente ideali, e insieme parole e azioni che trovi essere state dette e fatte da uomini di quel luogo e di quel tempo: ben contento di poter rendere più verosimili le sue idealità coi propri elementi del vero.
E basta questo per farvi vedere che non potrebbe fare tra queste cose la distinzione che voi gli chiedete, o piuttosto non potrebbe tentar di farla, se non spezzando il racconto, non dico ogni tanto, ma ogni momento, più volte in una pagina, non di rado in un solo periodo, per dire: questo è positivo, cavato da memorie degne di fede, questo è di mia invenzione, ma dedotto da fatti positivi, queste parole furono dette realmente dal personaggio a cui le attribuisco, ma furono dette in tutt'altra occasione, in circostanze che non entrano nel mio romanzo, quest'altre che metto in bocca a un personaggio immaginario, furono dette realmente da un uomo reale, ovvero, erano discorsi che correvano per le bocche di molti; e via discorrendo.
Dareste voi a un componimento così fatto il nome di romanzo? O trovereste che meritasse un nome qualunque? O piuttosto si può egli concepire un componimento così fatto?
Forse mi direte che non v'è mai passato per la mente di chieder tanto.
E lo credo; ma qui si tratta di vedere, non solo cosa esprimano direttamente le vostre parole, ma anche cosa importino logicamente.
Siano molti o pochi i casi in cui vorreste che l'autore vi facesse distinguere ciò che c'è di reale nel suo racconto; foss'anche un caso solo; perché lo vorreste? per un vostro capriccio? No, di certo, ma per una bonissima ragione, e l'avete detta voi: perché la realtà, quando non è rappresentata in maniera che si faccia riconoscere per tale, né istruisce, né appaga.
Ed è forse una ragione particolare a que' casi, o a quel caso? Tutt'altro: è, di sua natura, una ragione generale, comune a tutti i casi simili.
Se dunque vengono altri a lamentarsi di provare lo stesso dispiacevole effetto in altre parti del componimento, non vi par egli che le loro lagnanze meritino soddisfazione al pari delle vostre? Dovete dir di sì, poiché sono fondate su quella ragione medesima: l'esigenza della realtà.
Vedete dunque che, imponendo al romanzo storico di farla distinguere o qua o là, gi'imponete in sostanza di farla distinguer per tutto: cosa impossibile, come ho dimostrato, o piuttosto v'ho fatto osservare.
Ecco ora cosa si può dire agli altri:
Il distinguere in un romanzo storico la realtà dall'invenzione, distrugge, secondo voi, l'omogeneità dell'impressione, l'unità del l'assentimento.
Ma, di grazia, come si può distruggere ciò che non è? Non vedete che questa distinzione si trova negli elementi necessari e, dirò così, nella materia prima d'un tal componimento? Quando, per esempio, l'Omero1 del romanzo storico fa entrare nel Wawerley il principe Odoardo, e il suo sbarco in Scozia, in un altro componimento, Maria Stuarda, e la sua fuga dal castello di Lockleven; in un altro, Luigi XI re di Francia, e il suo soggiorno a Plessiz-lez-Tours; in un altro, Riccardo Cor di leone, e la sua spedizione in Terra Santa, e via discorrendo; non fa nulla dal canto suo per avvertirvi che si tratta di persone reali e di fatti reali.
Sono loro che si presentano con questo carattere; sono loro che richiedono assolutamente, e ottengono inevitabilmente quell'assentimento sui generis, esclusivo, incomunicabile, che si dà alle cose apprese come cose di fatto: assentimento che chiamerò storico, per opporlo all'altro, ugualmente sui generis, esclusivo, incomunicabile, che si dà alle cose apprese come meramente verosimili, e che chiamerò assentimento poetico.
Anzi, il male era già fatto prima che que' personaggi comparissero in scena.
Prendendo in mano un romanzo storico, il lettore sa benissimo che ci troverà facta atque infecta2 e cose avvenute e cose inventate, cioè due oggetti diversi dei due diversi, anzi opposti assentimenti.
E voi accusate l'autore di far nascere una tale discordia, e gli prescrivete di mantenere nel corso dell'opera un'unità ch'era già stata portata via dal titolo!
Forse mi direte, anche voi, ch'io esagero le vostre pretensioni, che l'esserci in una cosa degi'inconvenienti inevitabili non è una ragione di aggiungercene degli altri; che, se quell'omogeneità d'assentimento desiderata dall'arte non si può ottenere così interamente, è però un danno gratuito il diminuirla, che, con quell'avvertire espressamente, o col far intendere che la tale o tal altra cosa è positivamente vera, l'autore fa nascere degli assentimenti storici, opposti all'intento dell'arte, dove forse non nascerebbero.
Può darsi; ma cosa potrebbe nascere in vece? Due cose sole, cioè o l'una o l'altra di due cose, opposte né più né meno all'intento dell'arte: l'inganno, o il dubbio.
Può darsi, dico, che il lettore, se non fosse stato avvertito che la cosa raccontata era realmente avvenuta, l'avrebbe presa, e se la sarebbe goduta per una bella invenzione poetica.
Ma è forse a questo, che l'arte aspira? Bello sforzo, in verità, bella operazione dell'arte quella che consistesse, non nell'ideare cose verosimili, ma nel lasciar ignorare che le cose presentate da essa sono reali! E bell'effetto dell'arte, quello che dovesse dipendere da un'ignoranza accidentale! giacché, se nell'atto che quel lettore si sta godendo la supposta invenzione poetica, viene uno e gli dice: sappiate che è un fatto positivo, cavato dal tal documento, ecco il pover'uomo trasportato di peso dagli spazi della poesia nel campo della storia.
L'arte è arte in quanto produce, non un effetto qualunque, ma un effetto definitivo.
E, intesa in questo senso, è non solo sensata, ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello; giacché il verosimile (materia dell'arte) manifestato e appreso come verosimile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale3, ma un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente: è un oggetto che può bensì esserle trafugato dalla dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno.
Nulla può fare che una bella figura umana, ideata da uno scultore, cessi d'essere un bel verosimile: e quando la statua materiale, in cui era attuata, venga a perire, perirà bensì con essa la cognizione accidentale di quel verosimile, non, certamente, la sua incorruttibile entità.
Ma se uno, vedendo, da lontano e al barlume, un uomo ritto e fermo su un edifizio, in mezzo a delle statue, lo prendesse per una statua anche lui, vi pare che sarebbe un effetto d'arte?
L'altra cosa che potrebbe nascere è che il lettore, non avvertito dall'autore, che una o un'altra cosa, la quale eccita particolarmente la sua attenzione, è cosa di fatto, ma avvertito dalla natura o, per dir meglio, dall'assunto del componimento, che può benissimo esser cosa di fatto, rimanga in dubbio, esiti; e certo senza sua colpa, come contro sua voglia.
Assentire, assentir rapidamente, facilmente, pienamente, è il desiderio d'ogni lettore, meno chi legga per criticare.
E si assente con piacere, tanto al puro verosimile, quanto al vero positivo: ma, l'avete detto voi, con assentimenti diversi, anzi opposti: e, aggiungo io, con una condizione uguale in tutt'e due i casi; cioè che la mente riconosca nell'oggetto che contempla, o l'una o l'altra essenza, per poter prestare o l'uno o l'altro assentimento.
Dissimulando la realtà della cosa raccontata, l'autore sarebbe riuscito, secondo il vostro desiderio, a impedire un assentimento storico, ma levando insieme al lettore il mezzo di prestarne uno qualunque.
Effetto contrario anch'esso, quanto si possa dire, all'intento dell'arte; poiché, qual cosa più contraria all'unità, all'omogeneità dell'assentimento, che la mancanza dell'assentimento?
Ed è appunto per prevenire e l'inganno di cui ho parlato sopra, e questa esitazione, è per non fare al lettore una miserabile marachella, o per servire a un suo probabile desiderio, per non lasciar senza risposta una sua tacita interrogazione, che un autore può essere, in questo o in quel caso, tentato fortemente, e come strascinato a distinguere espressamente la realtà: è perché sente quanto manchi alla cosa rappresentata, mancandole la manifestazione d'una qualità di questa sorte.
Non dico che faccia bene; non nego che faccia una cosa direttamente, manifestamente contraria all'unità del componimento: dico che il lasciar lui di farla non servirebbe ad ottenere questa unità.
Fa come il povero maestro Iacopo4 del Molière, che si presenta, ora con la giacchetta di cuoco, ora col camiciotto di cocchiere, perché l'Avaro, suo padrone, vuol che faccia tutt'e due i mestieri, e lui ha accettata una tal condizione.
Ricapitolando ora tutti questi pro e contro, ci pare di poter concludere: che hanno ragione e gli uni nel volere che la realtà storica sia sempre rappresentata come tale, e gli altri, nel volere che un racconto produca assentimenti omogenei, ma che hanno torto e gli uni e gli altri nel volere e questo e quell'effetto dal romanzo storico, mentre il primo è incompatibile con la sua forma, che è la narrativa, il secondo co' suoi materiali, che sono eterogenei.
Chiedono cose giuste, cose indispensabili; ma le chiedono a chi non le può dare.
Ma se fosse così, ci si dirà ora, sarebbe in ultimo il romanzo storico che avrebbe torto per ogni verso.
Questa è appunto la nostra tesi.
Volevamo dimostrare, e crediamo d'aver dimostrato, che è un componimento, nel quale riesce impossibile ciò che è necessario; nel quale non si possono conciliare due condizioni essenziali, e non si può nemmeno adempirne una, essendo inevitabile in esso e una confusione repugnante alla materia, e una distinzione repugnante alla forma un componimento, nel quale deve entrare e la storia e la favola, senza che si possa nè stabilire, nè indicare in qual proporzione, in quali relazioni ci devano entrare; un componimento insomma, che non c'è il verso giusto di farlo, perché il suo assunto è intrinsecamente contradittorio.
Gli chiedon troppo; ma troppo in ragion di che? Della sua possibilità? Verissimo; ma ciò appunto dimostra il vizio radicale del suo assunto, perché, in ragione delle cose, chiedere al vero di fatto, che sia riconoscibile, e chiedere a un racconto, che produca assentimenti omogenei, è chiedere quello che ci vuole per l'appunto.
Sono due cose incompatibili, ma dove? Nel romanzo storico? Verissimo ancora: ma peggio per il romanzo storico, perché, in sé, sono due cose fatte apposta per andare insieme.
E se ci fosse bisogno d'addurre le prove d'una tal verità, le troveremmo subito in uno de' due generi di lavoro, che il romanzo storico contraffà e confonde, voglio dire la storia.
Questa infatti si propone appunto di raccontare de' fatti reali, e di produrre per questo mezzo un assentimento omogeneo, quello che si dà al vero positivo.
Ma, potrà qui forse opporre qualcheduno, s'ottiene egli codesto dalla storia? Produce essa una serie d'assentimenti risoluti e ragionevoli? O non lascia spesso ingannati quelli che sono facili a credere, e dubbiosi quelli che sono inclinati a riflettere? E indipendentemente dalla volontà d'ingannare, quali sono le storie composte da uomini, dove si possa esser certi di non trovare altro che la verità netta e distinta?
Certo, risponderemo, non mancano nella storia fandonie, anzi bugie.
Ma è colpa dello storico, e non condizione del componimento.
Quando d'uno storico si dice che fa la frangia alle cose, che vi fa un pasticcio di fatti e d'invenzioni, che non si sa cosa credergli, s'intende fargli carico d'una cosa che aveva il mezzo di schivare.
E infatti il mezzo c'era, sicuro quanto facile; giacché, qual cosa più facile che l'astenersi dall'inventare? Vedete se vi pare che l'autore del romanzo storico possa far uso di questo mezzo, per schivar, quanto è in lui, d'ingannare il lettore.
È certo ugualmente, che anche dallo storico più coscienzioso, più diligente, non s'avrà, a gran pezzo, tutta la verità che si può desiderare, né così netta come si può desiderare.
Ma anche qui non è colpa dell'arte: è difetto della materia.
Perché un'arte sia buona e ragionevole, non si richiede che sia propria ad ottenere interamente e perfettamente il suo fine: non ce ne sono di tali.
Arte buona e ragionevole è quella che, proponendosi un fine sensato, adopra i mezzi più adattati a ottenerlo fin dove si può, i mezzi che sarebbero adattati a ottenerlo interamente, ne' limiti delle facoltà umane, quando ci fosse la materia corrispondente.
De' fatti reali, dello stato dell'umanità in certi tempi, in certi luoghi, è possibile acquistare e trasmettere una cognizione, non perfetta, ma effettiva: ed è ciò che si propone la storia: intendo sempre la storia in buone mani.
Non arriva fin dove vorrebbe; ma non ne sta volontariamente indietro un passo.
Non supera, a gran pezzo, tutte le difficoltà; ma si guarda bene di crearne veruna.
Vi lascia anch'essa qualche volta nel dubbio; ma quando ci si trova essa medesima.
Anzi (perché a chi è nella strada giusta, tutto viene a proposito), anche del dubbio la storia si serve.
Non solo lo confessa apertamente, ma, all'occorrenza, lo promove, lo sostiene, cerca di sostituirlo a delle false persuasioni.
Vi fa dubitare, perché ha voluto che dubitaste; non come il romanzo storico, per avervi eccitato ad assentire, sottraendovi insieme ciò ch'era necessario a determinar l'assentimento.
Nel dubbio provocato dalla storia, lo spirito riposa, non come al termine del suo desiderio, ma come al limite della sua possibilità: ci s'appaga, dirò così, come in un atto relativamente finale, nel solo atto bono che gli sia dato di fare.
Nel dubbio eccitato dal romanzo storico, lo spirito in vece s'inquieta, perché nella materia che gli è presentata vede la possibilità d'un atto ulteriore, del quale gli è nello stesso tempo creato il desiderio, e trafugato il mezzo.
Credo che non ci sarà alcun autore di romanzi storici, o anche d'un solo romanzo storico, a cui non sia capitato qualche volta di sentirsi domandare se il tal personaggio, il tal fatto, la tale circostanza fosse cosa vera, o di sua invenzione.
E credo ugualmente, che avrà detto tra sé: Ah traditore! sotto la forma d'una domanda innocente, tu mi fai una critica velenosa: mi protesti in fondo, che il libro t'ha lasciato, anzi t'ha dato il bisogno di tirar l'autore per il mantello.
So bene che è merito d'un libro il dar la volontà di sapere più di quello che insegna; ma costì è un'altra faccenda.
Le cose che tu desideri di sapere sono cose di cui t'ho parlato; mi chiedi, non d'aggiungere, ma di disfare.
Non sarà fuor di proposito l'osservare che, anche del verosimile la storia si può qualche volta servire, e senza inconveniente, perché lo fa nella buona maniera, cioè esponendolo nella sua forma propria, e distinguendolo così dal reale.
E lo può fare senza che ne sia offesa l'unità del racconto, per la ragione semplicissima che quel verosimile non entra a farne parte.
È proposto, motivato, discusso, non raccontato al pari del positivo, e insieme col positivo, come nel romanzo storico.
E non c'è nemmeno pericolo che ne rimanga offesa l'unità del componimento, poiché qual legame più naturale, qual più naturale continuità, per così dire, di quella che si trova tra la cognizione e l'induzione? Quando la mente riceve la notizia d'un positivo che ecciti vivamente la sua attenzione, ma una notizia tronca e mancante di parti o essenziali, o importanti, è inclinata naturalmente a rivolgersi a cose ideali che abbiano con quel positivo, e una relazione generale di compossibilità, e una relazione speciale o di causa, o d'effetto, o di mezzo, o di modo, o d'importante concomitanza, che ci hanno dovuta avere le cose reali di cui non è rimasta la traccia.
È una parte della miseria dell'uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che può sapere.
La storia, quando ricorre al verosimile, non fa altro che secondare o eccitare una tale tendenza.
Smette allora, per un momento, di raccontare, perché il racconto non è, in quel caso, l'istrumento bono, e adopra in vece quello dell'induzione: e in questa maniera, facendo ciò che è richiesto dalla diversa ragione delle cose, viene anche a fare ciò che conviene al suo novo intento.
Infatti, per poter riconoscere quella relazione tra il positivo raccontato e il verosimile proposto, è appunto una condizione necessaria, che questi compariscano distinti.
Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta d'una città, ci aggiunge, in diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati; e col presentar distinte dalle parti che sono, quelle che potrebbero essere, fa che si veda la ragione di pensarle riunite.
La storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo scopo del racconto.
Congetturando, come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua unità.
Dove se ne va, o piuttosto, come si forma quella del romanzo storico, che erra tra due mire opposte?
Ci si permetta di prevenir qui un'altra obiezione, ancor meno fondata, ma pure da temersi, perché, in tutte le occasioni simili a questa, non manca mai.
Si tratta del romanzo storico, ci si potrà dire, e voi lo paragonate alla storia, dimenticando che sono due specie di lavori, che hanno due intenti, in parte simili bensì, ma in parte affatto diversi.
Ci vuol poco a vedere che una tale obiezione non si fonda che su una petizione di principio.
Certo, se il romanzo storico avesse un suo intento, più o meno diverso da quello della storia, ma ugualmente logico, sarebbe una stravaganza l'opporgli l'intento e le leggi della storia.
Ma la questione è appunto se il romanzo storico abbia un suo intento logico, e quindi ottenibile; e se possa, per conseguenza, avere delle sue leggi particolari, ordinate a quell'intento.
L'intento d'un'arte è condizionato alla materia, o a ciascheduna delle materie che adopra, e aver veduto quali siano le condizioni ingenite e necessarie d'una materia, in un'arte qualunque, è averlo veduto per tutte l'arti esistenti e possibili, che vogliano servirsi della materia medesima.
Poiché il romanzo storico prende come parte della sua materia quella che è la propria e natural materia della storia, bisogna bene che, per questa parte, sia messo a paragone con essa.
Non è per cagione del titolo, né della forma, né dell'assunto dell'opera, che della verità storica non si può far altro di bono, se non rappresentarla più distintamente che si può; è per la natura della verità storica.
Anche l'alchimia aveva un suo intento, diverso in parte da quello della chimica: non le mancava altro, che d'ottenerlo, anch'essa supponeva che ci dovessero essere i mezzi adattati a quell'intento: non le mancava altro, che di trovarli.
E nulla è stato più a proposito che l'opporle gli esperimenti e i raziocini della chimica, in quanto lavoravano tutt'e due sui metalli.
E si veda come sarebbe parso strano se quella avesse risposto: Codesto anderà bene per la chimica, ma io mi chiamo l'alchimia.
Non ha il romanzo storico un intento suo proprio e insieme logico: ne contraffà due, come ho accennato.
Certo, in questa proposizione - rappresentare, per mezzo d'un'azione inventata, lo stato dell'umanità, in un'epoca passata e storica, - c'è un'unità verbale e apparente.
Ma la cosa che sarebbe necessaria per costituirne l'unità razionale, voglio dire la corrispondenza d'un tal mezzo con un tal fine, c'è gratuitamente e falsamente supposta.
Il mezzo, e l'unico mezzo che uno abbia di rappresentare uno stato dell'umanità, come tutto ciò che ci può essere di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto quale è arrivato a formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità che ha potuto scoprire nelle diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha trovato in esse, o piuttosto nella attualmente possibile cognizione di esse; è in somma, di ripetere agli altri l'ultime e vittoriose parole che, nel momento più felice dell'osservazione, s'è trovato contento di poter dire a sé medesimo.
Ed è il mezzo di cui si serve la storia: ché, per storia, intendo qui, non la sola narrazione cronologica d'alcune specie di fatti umani, ma qualsiasi esposizione ordinata e sistematica di fatti umani.
È questa, dico, la storia che intendo d'opporre ai romanzo storico; e che s'avrebbe ragione d'opporgli, quand'anche essa non fosse altro che possibile.
Ma, del resto, chi non sa che ci sono molti lavori di questo genere, e alcuni lodati con gran ragione? lavori, lo scopo de' quali è appunto di far conoscere, non tanto il corso politico d'una parte dell'umanità, in un dato tempo, quanto il suo modo d'essere, sotto aspetti diversi e, più o meno, moltiplici.
Trovate forse, che, in questo ramo principalmente, la storia sia rimasta indietro da ciò che un tale intento poteva richiedere, da ciò che i materiali cercati e osservati con un proposito più vasto e più filosofico, potessero dare? che abbia trascurato d'occuparsi di certi fatti, o d'ordini interi di fatti, de' quali non sentiva l'importanza? che non abbia voluto osservare certe relazioni, certe dipendenze reciproche di certi fatti, che pure aveva raccolti, e che ha riferiti, ma come estranei gli uni agli altri, perché, a prima vista, possono parer tali? Gridatela; ma raccomandatevi a lei, perché è la sola che possa riparare le sue omissioni.
E c'è qualcheduno che, vedendo in particolare questa possibilità di far meglio, intorno a uno o a un altro momento del passato storico, si metta a una nova ricerca? Bravo! macte animo! frughi ne' documenti di qualunque genere, che ne rimangano, e che possa trovare; faccia, voglio dire, diventar documenti anche certi scritti, gli autori de' quali erano lontani le mille miglia dall'immaginarsi che mettevano in carta de' documenti per i posteri, scelga, scarti, accozzi, confronti, deduca e induca; e gli si può star mallevadore, che arriverà a formarsi, di quel momento storico, concetti molto più speciali, più decisi, più interi, più sinceri di quelli che se ne avesse fino allora.
Ma che altro vuoi dir tutto questo, se non concetti più obbligati?
Che se, in vece di trattar col lettore come tratta con sé, di presentare agli altri intelletti, intatta e schietta, l'immagine che, in ricompensa delle sue ricerche e delle sue meditazioni, è apparsa al suo; la ripone, per spezzarla di nascosto, e fare, co' rottami di essa e con una materia di tutt'altra natura, qualcosa di più e di meglio; se, per renderla più animata, vuoi farla vivere di due vite diverse; se prende per mezzo ciò che era il fine; allora la ragione delle cose, la quale non sa nulla di questi progetti, ed è avvezza bensì a mantenere, e con gran puntualità, i suoi impegni, ma non quelli degli altri, non solo non permette che da un tale impasto resulti una rappresentazione più compita d'uno stato reale dell'umanità, ma nemmeno quella meno particolarizzata, che poteva resultare dal ritratto sincero delle cose reali.
Ché il positivo non è, riguardo alla mente, se non in quanto è conosciuto; e non si conosce, se non in quanto si può distinguerlo da ciò che non è lui, e quindi l'ingrandirlo con del verosimile, non è altro, in quanto all'effetto di rappresentarlo, che un ridurlo a meno, facendolo in parte sparire.
Ho sentito parlare (cosa vecchia e vera anche questa) d'un uomo più economo che acuto, il quale s'era immaginato di poter raddoppiar l'olio da bruciare, aggiungendoci altrettanta acqua.
Sapeva bene che, a versarcela semplicemente sopra, l'andava a fondo, e l'olio tornava a galla; ma pensò che, se potesse immedesimarli mescolandoli e dibattendoli bene, ne resulterebbe un liquido solo, e si sarebbe ottenuto l'intento.
Dibatti, dibatti, riuscì a farne un non so che di brizzolato, di picchiettato, che scorreva insieme, e empiv
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