DEL ROMANZO STORICO, di Alessandro Manzoni - pagina 3
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E infatti il mezzo c'era, sicuro quanto facile; giacché, qual cosa più facile che l'astenersi dall'inventare? Vedete se vi pare che l'autore del romanzo storico possa far uso di questo mezzo, per schivar, quanto è in lui, d'ingannare il lettore.
È certo ugualmente, che anche dallo storico più coscienzioso, più diligente, non s'avrà, a gran pezzo, tutta la verità che si può desiderare, né così netta come si può desiderare.
Ma anche qui non è colpa dell'arte: è difetto della materia.
Perché un'arte sia buona e ragionevole, non si richiede che sia propria ad ottenere interamente e perfettamente il suo fine: non ce ne sono di tali.
Arte buona e ragionevole è quella che, proponendosi un fine sensato, adopra i mezzi più adattati a ottenerlo fin dove si può, i mezzi che sarebbero adattati a ottenerlo interamente, ne' limiti delle facoltà umane, quando ci fosse la materia corrispondente.
De' fatti reali, dello stato dell'umanità in certi tempi, in certi luoghi, è possibile acquistare e trasmettere una cognizione, non perfetta, ma effettiva: ed è ciò che si propone la storia: intendo sempre la storia in buone mani.
Non arriva fin dove vorrebbe; ma non ne sta volontariamente indietro un passo.
Non supera, a gran pezzo, tutte le difficoltà; ma si guarda bene di crearne veruna.
Vi lascia anch'essa qualche volta nel dubbio; ma quando ci si trova essa medesima.
Anzi (perché a chi è nella strada giusta, tutto viene a proposito), anche del dubbio la storia si serve.
Non solo lo confessa apertamente, ma, all'occorrenza, lo promove, lo sostiene, cerca di sostituirlo a delle false persuasioni.
Vi fa dubitare, perché ha voluto che dubitaste; non come il romanzo storico, per avervi eccitato ad assentire, sottraendovi insieme ciò ch'era necessario a determinar l'assentimento.
Nel dubbio provocato dalla storia, lo spirito riposa, non come al termine del suo desiderio, ma come al limite della sua possibilità: ci s'appaga, dirò così, come in un atto relativamente finale, nel solo atto bono che gli sia dato di fare.
Nel dubbio eccitato dal romanzo storico, lo spirito in vece s'inquieta, perché nella materia che gli è presentata vede la possibilità d'un atto ulteriore, del quale gli è nello stesso tempo creato il desiderio, e trafugato il mezzo.
Credo che non ci sarà alcun autore di romanzi storici, o anche d'un solo romanzo storico, a cui non sia capitato qualche volta di sentirsi domandare se il tal personaggio, il tal fatto, la tale circostanza fosse cosa vera, o di sua invenzione.
E credo ugualmente, che avrà detto tra sé: Ah traditore! sotto la forma d'una domanda innocente, tu mi fai una critica velenosa: mi protesti in fondo, che il libro t'ha lasciato, anzi t'ha dato il bisogno di tirar l'autore per il mantello.
So bene che è merito d'un libro il dar la volontà di sapere più di quello che insegna; ma costì è un'altra faccenda.
Le cose che tu desideri di sapere sono cose di cui t'ho parlato; mi chiedi, non d'aggiungere, ma di disfare.
Non sarà fuor di proposito l'osservare che, anche del verosimile la storia si può qualche volta servire, e senza inconveniente, perché lo fa nella buona maniera, cioè esponendolo nella sua forma propria, e distinguendolo così dal reale.
E lo può fare senza che ne sia offesa l'unità del racconto, per la ragione semplicissima che quel verosimile non entra a farne parte.
È proposto, motivato, discusso, non raccontato al pari del positivo, e insieme col positivo, come nel romanzo storico.
E non c'è nemmeno pericolo che ne rimanga offesa l'unità del componimento, poiché qual legame più naturale, qual più naturale continuità, per così dire, di quella che si trova tra la cognizione e l'induzione? Quando la mente riceve la notizia d'un positivo che ecciti vivamente la sua attenzione, ma una notizia tronca e mancante di parti o essenziali, o importanti, è inclinata naturalmente a rivolgersi a cose ideali che abbiano con quel positivo, e una relazione generale di compossibilità, e una relazione speciale o di causa, o d'effetto, o di mezzo, o di modo, o d'importante concomitanza, che ci hanno dovuta avere le cose reali di cui non è rimasta la traccia.
È una parte della miseria dell'uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che può sapere.
La storia, quando ricorre al verosimile, non fa altro che secondare o eccitare una tale tendenza.
Smette allora, per un momento, di raccontare, perché il racconto non è, in quel caso, l'istrumento bono, e adopra in vece quello dell'induzione: e in questa maniera, facendo ciò che è richiesto dalla diversa ragione delle cose, viene anche a fare ciò che conviene al suo novo intento.
Infatti, per poter riconoscere quella relazione tra il positivo raccontato e il verosimile proposto, è appunto una condizione necessaria, che questi compariscano distinti.
Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta d'una città, ci aggiunge, in diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati; e col presentar distinte dalle parti che sono, quelle che potrebbero essere, fa che si veda la ragione di pensarle riunite.
La storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo scopo del racconto.
Congetturando, come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua unità.
Dove se ne va, o piuttosto, come si forma quella del romanzo storico, che erra tra due mire opposte?
Ci si permetta di prevenir qui un'altra obiezione, ancor meno fondata, ma pure da temersi, perché, in tutte le occasioni simili a questa, non manca mai.
Si tratta del romanzo storico, ci si potrà dire, e voi lo paragonate alla storia, dimenticando che sono due specie di lavori, che hanno due intenti, in parte simili bensì, ma in parte affatto diversi.
Ci vuol poco a vedere che una tale obiezione non si fonda che su una petizione di principio.
Certo, se il romanzo storico avesse un suo intento, più o meno diverso da quello della storia, ma ugualmente logico, sarebbe una stravaganza l'opporgli l'intento e le leggi della storia.
Ma la questione è appunto se il romanzo storico abbia un suo intento logico, e quindi ottenibile; e se possa, per conseguenza, avere delle sue leggi particolari, ordinate a quell'intento.
L'intento d'un'arte è condizionato alla materia, o a ciascheduna delle materie che adopra, e aver veduto quali siano le condizioni ingenite e necessarie d'una materia, in un'arte qualunque, è averlo veduto per tutte l'arti esistenti e possibili, che vogliano servirsi della materia medesima.
Poiché il romanzo storico prende come parte della sua materia quella che è la propria e natural materia della storia, bisogna bene che, per questa parte, sia messo a paragone con essa.
Non è per cagione del titolo, né della forma, né dell'assunto dell'opera, che della verità storica non si può far altro di bono, se non rappresentarla più distintamente che si può; è per la natura della verità storica.
Anche l'alchimia aveva un suo intento, diverso in parte da quello della chimica: non le mancava altro, che d'ottenerlo, anch'essa supponeva che ci dovessero essere i mezzi adattati a quell'intento: non le mancava altro, che di trovarli.
E nulla è stato più a proposito che l'opporle gli esperimenti e i raziocini della chimica, in quanto lavoravano tutt'e due sui metalli.
E si veda come sarebbe parso strano se quella avesse risposto: Codesto anderà bene per la chimica, ma io mi chiamo l'alchimia.
Non ha il romanzo storico un intento suo proprio e insieme logico: ne contraffà due, come ho accennato.
Certo, in questa proposizione - rappresentare, per mezzo d'un'azione inventata, lo stato dell'umanità, in un'epoca passata e storica, - c'è un'unità verbale e apparente.
Ma la cosa che sarebbe necessaria per costituirne l'unità razionale, voglio dire la corrispondenza d'un tal mezzo con un tal fine, c'è gratuitamente e falsamente supposta.
Il mezzo, e l'unico mezzo che uno abbia di rappresentare uno stato dell'umanità, come tutto ciò che ci può essere di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto quale è arrivato a formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità che ha potuto scoprire nelle diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha trovato in esse, o piuttosto nella attualmente possibile cognizione di esse; è in somma, di ripetere agli altri l'ultime e vittoriose parole che, nel momento più felice dell'osservazione, s'è trovato contento di poter dire a sé medesimo.
Ed è il mezzo di cui si serve la storia: ché, per storia, intendo qui, non la sola narrazione cronologica d'alcune specie di fatti umani, ma qualsiasi esposizione ordinata e sistematica di fatti umani.
È questa, dico, la storia che intendo d'opporre ai romanzo storico; e che s'avrebbe ragione d'opporgli, quand'anche essa non fosse altro che possibile.
Ma, del resto, chi non sa che ci sono molti lavori di questo genere, e alcuni lodati con gran ragione? lavori, lo scopo de' quali è appunto di far conoscere, non tanto il corso politico d'una parte dell'umanità, in un dato tempo, quanto il suo modo d'essere, sotto aspetti diversi e, più o meno, moltiplici.
Trovate forse, che, in questo ramo principalmente, la storia sia rimasta indietro da ciò che un tale intento poteva richiedere, da ciò che i materiali cercati e osservati con un proposito più vasto e più filosofico, potessero dare? che abbia trascurato d'occuparsi di certi fatti, o d'ordini interi di fatti, de' quali non sentiva l'importanza? che non abbia voluto osservare certe relazioni, certe dipendenze reciproche di certi fatti, che pure aveva raccolti, e che ha riferiti, ma come estranei gli uni agli altri, perché, a prima vista, possono parer tali? Gridatela; ma raccomandatevi a lei, perché è la sola che possa riparare le sue omissioni.
E c'è qualcheduno che, vedendo in particolare questa possibilità di far meglio, intorno a uno o a un altro momento del passato storico, si metta a una nova ricerca? Bravo! macte animo! frughi ne' documenti di qualunque genere, che ne rimangano, e che possa trovare; faccia, voglio dire, diventar documenti anche certi scritti, gli autori de' quali erano lontani le mille miglia dall'immaginarsi che mettevano in carta de' documenti per i posteri, scelga, scarti, accozzi, confronti, deduca e induca; e gli si può star mallevadore, che arriverà a formarsi, di quel momento storico, concetti molto più speciali, più decisi, più interi, più sinceri di quelli che se ne avesse fino allora.
Ma che altro vuoi dir tutto questo, se non concetti più obbligati?
Che se, in vece di trattar col lettore come tratta con sé, di presentare agli altri intelletti, intatta e schietta, l'immagine che, in ricompensa delle sue ricerche e delle sue meditazioni, è apparsa al suo; la ripone, per spezzarla di nascosto, e fare, co' rottami di essa e con una materia di tutt'altra natura, qualcosa di più e di meglio; se, per renderla più animata, vuoi farla vivere di due vite diverse; se prende per mezzo ciò che era il fine; allora la ragione delle cose, la quale non sa nulla di questi progetti, ed è avvezza bensì a mantenere, e con gran puntualità, i suoi impegni, ma non quelli degli altri, non solo non permette che da un tale impasto resulti una rappresentazione più compita d'uno stato reale dell'umanità, ma nemmeno quella meno particolarizzata, che poteva resultare dal ritratto sincero delle cose reali.
Ché il positivo non è, riguardo alla mente, se non in quanto è conosciuto; e non si conosce, se non in quanto si può distinguerlo da ciò che non è lui, e quindi l'ingrandirlo con del verosimile, non è altro, in quanto all'effetto di rappresentarlo, che un ridurlo a meno, facendolo in parte sparire.
Ho sentito parlare (cosa vecchia e vera anche questa) d'un uomo più economo che acuto, il quale s'era immaginato di poter raddoppiar l'olio da bruciare, aggiungendoci altrettanta acqua.
Sapeva bene che, a versarcela semplicemente sopra, l'andava a fondo, e l'olio tornava a galla; ma pensò che, se potesse immedesimarli mescolandoli e dibattendoli bene, ne resulterebbe un liquido solo, e si sarebbe ottenuto l'intento.
Dibatti, dibatti, riuscì a farne un non so che di brizzolato, di picchiettato, che scorreva insieme, e empiva la lucerna.
Ma era più roba, non era olio di più; anzi, riguardo all'effetto di far lume, era molto meno.
E l'amico se n'avvide, quando volle accendere lo stoppino.
Ho serbata per l'ultima l'obiezione più tremenda e più inevitabile: il fatto.
Tutte codeste, mi sento dire, saranno belle teorie; ma il fatto le manda a monte.
Mi sapreste indicare, tra l'opere moderne e antiche, molte opere più lette, e con più piacere e ammirazione, de' romanzi storici d'un certo Walter Scott? Voi volete dimostrare, con questo e con quell'argomento, che non devano poter produrre un tal effetto.
Ma se lo producono.
Obiezione, però, tremenda solamente in apparenza; giacché tutta la sua forza è riposta in un equivoco, cioè nel chiamar fatto una cosa che si sta facendo.
Che quei romanzi siano piaciuti, e non senza di gran perché, è un fatto innegabile, ma è un fatto di que' romanzi, non il fatto del romanzo storico: che poi questa specie di componimento continui a piacere, quindi a esser coltivata, è la questione, e non il fatto.
In questa, come in tante altre cose, il fatto d'un tempo non è certamente una malleveria del fatto avvenire; e gli esempi di giudizi d'un'età cassati da un'altra sono troppi e troppo spesso rammentati perché ci sia bisogno d'allegarne.
Che se, rammentandoli così spesso, e con tanto compatimento, non badiamo poi abbastanza al pericolo di darne de' novi, è perché, ne' giudizi attuali, ci par di vedere qualcosa di più maturo, di più autorevole, di definitivo.
E non c'è da maravigliarsene: sono i nostri.
Per compatire quelli del tempo passato, siamo la posterità, che non è poco; per fidarci de' nostri, siamo il secolo, che non è meno.
Tra quegli esempi notissimi, ci si permetta però di citarne uno che ha un'analogia importante col nostro argomento.
Qual voga maggiore di quella ch'ebbero i romanzi storico-eroico-erotici (non saprei come chiamarli con un nome solo) di M.elle Scudéri5, e d'alcuni suoi antecessori e successori meno famosi? e non già in un paese o in un secolo rozzo, poiché era la Francia di Luigi XIV.
Basti la testimonianza di Boileau, il quale, nel discorso premesso al dialogo dove canzona que' romanzi, confessa che, «essendo giovine quando facevano più furore, gli aveva letti con grand'ammirazione, come li leggeva ognuno, e gli aveva riguardati come capolavori della lingua francese6«.
Sarebbe certamente una stravaganza, ancora più che un'ingiustizia, il mettere que' lavori del pari co' lavori di Walter Scott.
Ma, con tutta la distanza che passa, non solo tra questo e quegli autori, ma anche tra le due specie di componimenti, c'è tra queste, come ho accennato, un'analogia, anzi un'identità importante: l'essere ugualmente romanzi ne' quali ha parte la storia.
E non si dica che, in que' primi, la storia non c'era messa che per pretesto, e quasi per burla; che nessuno badava alla storia nel leggere quelle strane vicende d'amori furibondi e platonici, e quelle dissertazioni e dispute sull'amore, più strane ancora delle vicende.
Si supponga un poco, che M.elle Scudéri, in quella sua Clelia già tanto letta7, e ancora rammentata ogni tanto, avesse dato il nome di Virginia alla donna oltraggiata da Sesto Tarquinio; avesse fatto di Porsena8 Il un re della Macedonia, o anche della Gallia Cisalpina; avesse fatto che, per fuggire dal campo nemico, l'eroina del titolo si buttasse a noto nell'Eufrate, o anche nel Po; e si pensi come sarebbe parso strano a que' lettori medesimi, per altro così tolleranti.
Non era in essi un'intera e assoluta indifferenza per la veracità della storia ficcata in que' componimenti: era bensì, e solamente, una tolleranza molto maggiore di quella che ora è possibile.
Badavano anche loro alla storia, leggendoli: e come no, poiché ce la volevano? Poiché, dico, s'accettavano dal pubblico, e con tanto gradimento, de' componimenti, ne' quali la storia entrava come una parte essenziale, ai quali la storia somministrava delle condizioni fondamentali, non solo di luogo e di tempo, ma di fatti e di persone; bisogna dire che in que' componimenti si voleva la storia.
E non si poteva volerla senza badarci.
Solo ci si badava meno di quello che ci si badi al presente.
Ora, come è nata una tale differenza? Di punto in bianco, e da un momento all'altro? Non fu così, né poteva essere.
Quella tolleranza andò gradatamente scemando: si volle sempre più storia, e in quel dipiù, una maggior quantità di circostanze storiche.
E intendo qui parlare, non solo relativamente a quell'effimera e capricciosissima specie di componimenti, ma a qualunque specie di componimenti misti di storia e d'invenzione, come intendo parlare, non d'un progresso regolarmente continuo, d'una tendenza unanime, ma d'un progresso effettivo nell'insieme, d'una tendenza prevalente, facendo astrazione da quelle fermate temporanee, e da quegli accidentali passi indietro, che hanno luogo in qualunque corso d'idee e di fatti.
La tolleranza, dico, andò scemando nel pubblico, e, parte in conseguenza di ciò, parte senza di ciò, ma sempre per la medesima cagione, andò scemando l'audacia negli scrittori.
Fu qualche volta il pubblico (e in questo comprendo naturalmente, e come parte importante, i critici dì professione), fu qualche volta il pubblico, che, mostrando o col biasimo o col disprezzo, di non poter più soffrire un tal grado, un tal modo d'alterazione della storia, obbligò gli scrittori a metterne di più, e con un maggior corredo di circostanze reali; furono qualche volta gli scrittori, che, o meditando in astratto sull'arte loro, o sentendo, nell'atto pratico della composizione, più vivamente de' foro antecessori o anche de' loro contemporanei, l'importanza e la connessione del vero storico, trovarono qualche nova maniera di dargli un po' più di posto ne' loro componimenti.
E ognuno di questi progressi speciali, sia nella teoria, sia nella pratica, poté (come accade d'ogni ripiego a un inconveniente che, in quel momento, dia più nell'occhio) esser trovato bastante.
Ma dopo qualche tempo, il desiderio della verità storica, desiderio sempre crescente, per ragioni indipendenti dall'arte, e accresciuto, relativamente all'arte, da quelle modificazioni medesime, fece sentire novi inconvenienti, e cercar novi ripieghi.
Ognuna di quelle successive contentature fu un fatto; nessuna, il fatto: ognuna di quelle modificazioni fu un passo; nessuna fu, né poteva esser l'arrivo.
Poiché (siamo sempre lì) quale può essere il punto d'arrivo nella strada della verità storica, se non l'intera (relativamente, s'intende) e pura verità storica? Nelle cose formate di parti consentanee, ogni miglioramento d'una parte qualunque serve a render più solido il tutto; in quelle composte d'elementi contrari e incompatibili, il miglioramento conduce alla distruzione.
E con questo siamo venuti a dichiarare espressamente (cosa, del resto, implicita in tutto il detto fin qui) che, opponendo al romanzo storico la contradizione innata del suo assunto, e per conseguenza, la sua incapacità di ricevere una forma appagante e stabile, non abbiamo punto inteso d'opporgli un vizio suo particolare, e d'andar dietro a quelli che l'hanno chiamato e lo chiamano un genere falso, un genere spurio.
Questa sentenza inchiude una supposizione, al parer nostro, affatto erronea, cioè che la maniera di congegnar bene insieme la storia e l'invenzione, fosse trovata e praticata, e che il romanzo storico sia venuto a guastare.
Non è un genere falso, ma bensì una specie d'un genere falso, quale è quello che comprende tutti i componimenti misti di storia e d'invenzione, qualunque sia la loro forma.
E aggiungiamo che, come è la più recente di queste specie, così ci pare la più raffinata, il ritrovato più ingegnoso per vincere la difficoltà, se fosse vincibile.
Ognuno riconoscerà senza dubbio che, per poter portare un giudizio compito sul romanzo storico, era necessario d'entrare in una tale questione.
Ma siamo, certo, ben lontani dall'immaginarci che l'opinione da noi espressa su questo punto ci si passi così facilmente.
Cercheremo dunque di giustificarla, paragonando l'assunto del romanzo storico con quello dell'epopea e della tragedia, e accennando le variazioni avvenute nella teoria e nella pratica di queste due principali e più illustri forme del genere, per ciò che riguarda la loro relazione con la storia.
Variazioni che poterono bensì esser segnate (chi non lo sa? o chi potrebbe dimenticarsene?) da splendidi e perenni monumenti d'ingegno, perché l'ingegno imprime una forma durevole anche alle cose che non avrebbero per sé la ragion di durare; ma variazioni mosse da una cagione ben potente, poiché la bellezza sempre sentita, e l'autorità sempre viva di que' monumenti non bastarono, in nessun tempo, a troncarne il corso.
Fabbricati, non solo da mani maestre, ma in parte con istrumenti che hanno persa la loro attitudine, par che dicano a chi più e meglio li guarda: ammirami, e fa altrimenti.
PARTE SECONDA
L'assunto dell'epopea, secondo il concetto generalmente ricevuto d'un tal componimento, è di rappresentare un grande e illustre avvenimento, inventandone in gran parte le cagioni, i mezzi, gli ostacoli, i modi, le circostanze; per produrre così un diletto d'una specie più viva, e un'ammirazione d'un grado più elevato di quello che possa mai fare la semplice e sincera narrazione storica dell'avvenimento medesimo.
Non esito a dire, che se una cosa simile venisse proposta ora com'ora, per la prima volta, e a priori, senza che ce ne fosse alcun esempio di fatto, e solamente come una cosa da potersi fare, la proposta parrebbe strana ai dotti e agl'indotti ugualmente.
Chi non avesse, d'un grande e illustre avvenimento qualunque, una notizia circostanziata, e lo conoscesse solamente per quella formola, più o meno astratta, che è, per dir così, il nome proprio degli avvenimenti, non saprebbe intendere come uno potesse invitarlo a occuparsi di quel l'avvenimento, se non appunto per fargliene conoscere le cagioni, i mezzi, gli ostacoli, i modi, le circostanze, e per dar così a quella poverissima e capacissima formola ciò che le manca nella sua mente.
Chi poi n'avesse una cognizione più estesa, più circostanziata, troverebbe forse ancora più singolare, per dir poco, il disegno di rappresentarglielo separato da una parte qualunque, non che da una gran parte di quelle condizioni così naturalmente legate, compenetrate con esso, e unito in vece con delle condizioni immaginarie.
Disposto a ricevere tutto ciò che potesse o estendere di più, o rettificare il suo concetto, sarebbe ugualmente pronto a opporre a ogni cosa che venisse per alterarlo, quell'incredulus odi, con cui la mente ributta, non solo la specie particolare di falso a cui applicò Orazio tali parole9, ma il falso d'ogni genere e d'ogni grado, che si presenti a richiedere un posto già occupato da un vero.
Si veda infatti come gli scrittori di storia, gente che conosce i suoi interessi, e che, al pari di qualunque poeta epico, desidera di produrre e diletto e ammirazione, cerchino, e i moderni particolarmente, di secondare questa disposizione de' lettori.
Si veda come si diano premura d'avvertirli che le condizioni reali dell'avvenimento, - grande o piccolo (e tanto più, se grande), o della serie d'avvenimenti che sono per descrivere, erano o poco o male conosciute; che la c'è voluta tutta a nettare quella materia da ciò che ci aveva appiccicato la mala fede degli uni, e l'immaginazione degli altri, che, sulle cagioni e principali e secondarie, sui modi, sulle circostanze, si troveranno ne' loro lavori delle notizie tanto nove e inaspettate, quanto genuine, che in somma le loro ricerche e le loro osservazioni gli hanno messi in caso di sostituire un concetto più ordinato, più intero, più sincero di quello o di quegli avvenimenti, al concetto più o meno alterato e confuso, che se ne poteva aver prima.
E a lettori e scrittori che hanno tra di loro un'intesa di questa sorte, e prodotta da tali motivi, si verrebbe a proporre l'alterazione de' concetti de' grandi avvenimenti, come scopo e soggetto d'una nova specie di lavori! Proposta che, a svolgerla appena appena, verrebbe a dire, a un di presso, così:
Tra gli avvenimenti passati di cui rimane la memoria, ce ne sono alcuni che si chiamano grandi e riguardo alle cagioni e riguardo agli effetti; cioè, da una parte, per un concorso straordinario di voleri e d'azioni umane, che cooperarono, anche col loro contrasto, a farli riuscire quali li conosciamo; dall'altra, per una straordinaria mutazione che ne seguì nello stato d'una o di più società.
Ognuno di questi avvenimenti ebbe, oltre le sue cagioni principali, una quantità di cagioni secondarie, e anche nate ne' diversi momenti del suo progresso; ognuno ebbe i suoi ostacoli e i suoi aiuti, i suoi ritardi e le sue spinte, i suoi accidenti e i suoi modi speciali e, per dir così, individuali.
E, certo, fa un'opera sensata e utile lo storico, a raccoglier tutte quelle notizie, a depurarle, a serbare a ciascheduna cosa, e a ciaschedun uomo il suo proprio modo, il suo proprio grado d'efficienza sul tutto, a studiare e a mantenere l'ordine reale de' fatti, dimanieraché il lettore, ammirando la grandezza e la novità del resultato, lo trovi insieme naturalissimo, anzi relativamente necessario.
Ma c'è qualcos'altro da fare, e, in un certo senso, qualcosa di meglio: rappresentare quegli avvenimenti quali avrebbero dovuto essere, per riuscir più dilettevoli e più maravigliosi.
E questa, o poeta, è la tua parte.
A te dunque a fare una nova scelta tra le parti dell'avvenimento, lasciando fuori quelle che non servono al tuo intento speciale e più elevato, e trasformando come ti torna meglio quelle che ti torna meglio di conservare; a te a trovare delle difficoltà che, secondo te, avrebbero dovuto ritardare o sviare il corso dell'avvenimento, e naturalmente a trovare anche gli sforzi coi quali si sarebbero dovute superare; a te a immaginare accidenti, disegni, passioni e, per far più presto, uomini che avrebbero dovuto averci una parte più o meno importante; a te a disegnar la strada che le cose avrebbero dovuta prendere per arrivare dove sono arrivate.
Ho detto che, se un progetto di questa sorte venisse in questi tempi proposto a priori, parrebbe strano: non temerei di dir troppo aggiungendo che non verrebbe neppure in mente a nessuno.
Anzi, se vogliamo guardare un po' più in là, o piuttosto rammentarci di cose note, si troverà che ciò non accadde in nessun tempo.
L'epopea letteraria (della quale l'epopea storica non fu nemmeno la prima forma) non venne al mondo, per dir così, a caso pensato; non fu la realizzazione d'un concetto astratto e anteriore; fu l'imitazione d'un fatto molto, ma molto, diverso.
L'epopea primitiva e, dirò così, spontanea non fu altro che storia: dico storia nell'opinione degli uomini ai quali era raccontata o cantata; che è ciò che importa e che basta alla questione presente.
Di quella allora creduta storia rimasero due monumenti perpetuamente singolari, l'Iliade e l'Odissea.
E quando non poterono più essere accettati per vera e genuina storia: ma nello stesso tempo, riuscivano sommamente dilettevoli, per altre ragioni, e potevano quindi esser considerati anche da un lato puramente estetico; nacque facilmente il pensiero di comporne altri sulla stessa idea, e (perché anche l'imitazione non va per salti) sopra soggetti presi ugualmente dalle tradizioni dell'età favolose.
E questa fu la prima forma dell'epopea letteraria; la quale differiva dalla prima in quanto al non avere né l'effetto, né I ' intento d'ottener fede alle cose raccontate; e ne serbava però quella condizione importante del raccontar cose, alle quali non c'erano cose positive e verificabili da opporre.
Non era più la storia, ma non c'era una storia, con la quale avesse a litigare.
Il verosimile, cessando di parer vero, poteva manifestare e esercitar liberamente la sua propria e magnifica virtù, poiché non veniva a incontrarsi in un medesimo campo col vero, il quale, o volere o non volere, ha anch'esso una sua ragione e una sua virtù propria e che opera indipendentemente da ogni convenzione in contrario.
Di questa forma c'è rimasto il monumento, senza dubbio il più splendido, l'Eneide.
Che poi i poemi omerici fossero da principio accettati come storia, s'argomenterebbe abbastanza, quando non ce ne fossero altri indizi, dal sapere che allora non ce n'era altra, e dal riflettere che i popoli non stanno senza storia.
De' fatti umani, e principalissimamente di quelli de' loro antenati, vogliono essi conoscere il vero, e ne vogliono conoscer molto, ben lontani dall'immaginarsi che, in una tal materia, si possa cavare un piacere d'altro genere dalla contemplazione del mero verosimile.
Quindi quell'ingrossarsi, e quel trasformarsi delle tradizioni, alle quali l'invenzione sostituiva di mano in mano, e con la bona misura, i particolari che non potevano più esser somministrati dalle rimembranze: invenzione, facile, spontanea e, in parte, direi quasi involontaria ne' suoi autori, e che, certo, non era presentata a delle menti desiderose di trovarla in fallo.
Del rimanente, che tale fosse e l'autorità e l'origine di que' poemi, nessuno ne dubita, e non è certamente d'uomini tra i meno osservatori o tra i meno eruditi quella congettura, che siano, non già lavori d'un uomo solo, messi, per dir così, in brani da quelli che li cantavano, più o meno fedelmente, al popolo, e rimessi poi insieme; ma una raccolta, una cucitura del lavoro successivo di molti, intorno ai medesimi temi; e che il loro vero autore sia stato l'Omero sperduto dentro la folla de' greci popoli, come dice il Vico10, con quella sua originalità, non di rado ancor più dotta che ardita.
A ogni modo, quelle storie parlavano alla credulità, non al bon gusto, che non era ancora nato.
E si pensi un poco come sarebbero stati accolti i rapsodi se avessero detto, e potuto dire: bona gente, i fatti che siamo per cantarvi, avremmo potuto raccontarveli, per quello che se ne sa, come sono avvenuti, ma per divertirvi meglio, crediamo bene di presentarveli in una forma diversa, arbitraria, levando e aggiungendo, secondo l'arte.
Un esempio più specificato di questo amore rigoroso della verità in gente ascoltatrice avidissima di favole, si può vedere ne' romanzi del medio evo, cantati anch'essi da quella specie di novi rapsodi, chiamati trovatori, giullari, menestrelli: romanzi da' quali provenne la nova epopea, che ne prese il nome di romanzesca.
Ecco a questo proposito alcune parole dell'erudito La Curne S.te Palaye11:
«Pare che da principio la storia sola fosse l'oggetto di que' poemi, se così si possono chiamare de' racconti composti in metro e in rima, per aiuto della memoria...
«È certo che le cronache di san Dionigi erano in gran credito ne' secoli XIII e XIV, e che gli storici non trovava no un mezzo migliore per acquistar fede presso i lettori, che di farsi belli dell'autorità di quelle12.»
Tra i passi di que' poeti storici, allegati dal dotto accademico, ne citerò uno d'un Filippo Mouskes13, che scriveva nel principio del secolo XIII.
Costui, dopo essersi accusato di non aver altre volte usata la dovuta cautela nella scelta de' suoi autori, aggiunge:
...
Quant un me conseilla
Que trop obscurement savoie
Les faiz que je ramentevoie,
Et que s'a Saint Denis allasse,
Le voir (il vero) des Gestes y trouvasse,
Non pas menconges ne frivoles;
Bientost après cestes paroles
M'en vins là, et tant esploitai,
Que veu ce que je convoitai,
Lors alai faus apercevant
Quanque j' avoie fait devant;
Si l'ardit (bruciai) con ni deust croire,
Et me pris à la vraie histoire,
Jouste la quele je mesis (messi in carta?)14.
E cosa trovavano poi in quelle famose cronache, dato che andassero davvero a consultarle? Trovavano:
«Come cils Kalles (Carlomagno) la conquist toute (la Spagna) entièrement en son tens, et la fist obaïr à ses commandemens;
«Come Fernagus un Jaianz du lignage Goulie estoit venu à la cité de Nadres des contrées de Surie: si l'avoit envoié l'amiraus de Babilone contre Kallemaine pour deffendre la terre d'Espaigne;
«Comment (e questo era uno de' fatti più ricantati) Rollans occist le Roi Marsile, et puis comment il fendit le perron (il masso), quant il cuida despiecer s'espée; et puis comment il sonna derechief l'olifant (il corno), que Kalles oï de VIII miles loing15.»
All'osservazione del dotto La Curne, non sarà superfluo l'aggiungerne una simile, ma fondata sopra ricerche molto più vaste, dell'illustre e pianto mio amico Fauriel.
«Ogni autore d'un romanzo epico del ciclo carlovingico, non tralascia mai di darsi per uno storico davvero.
Principia sempre col protestare che non dirà cosa che non sia certa e autentica; cita sempre mallevadori, autorità, alle quali rimette coloro di cui ambisce il suffragio.
Queste autorità sono ordinariamente certe cronache preziose, conservate nel tale o nel tal altro monastero, delle quali ha avuto la fortuna di potersi servire col mezzo di qualche dotto monaco...
«I termini con cui qualificano le loro novelle sono anch'essi suggeriti da quella pretensione d'averle cavate da documenti venerabili.
Le chiamano chansons de vieille histoire, de haute histoire, de bonne geste, de grande baronie, e non è per vantar sé stessi, che usano simili espressioni: la vanità letteraria non ha in loro forza veruna in paragone del desiderio d'esser creduti, di passare per semplici traduttori, per semplici ripetitori di leggende o di storie consacrate16.»
Quelle proteste equivalgono all'invocazione omerica della dea figlia della memoria; e fanno vedere come, anche in un tempo di storia scritta, fosse il desiderio di credere, quello che attirava ai racconti epici la parte più indotta della popolazione, cioè la parte che somigliava di più alla popolazione intera de' tempi d'Omero, o degli Omeri, che si voglia dire.
Ma per continuare questi brevi cenni sull'antichità classica (giacché, per fortuna, l'argomento non c'impone di parlare de' fatti analoghi di altre antichità: fatti notabilissimi, ma che non ebbero parte nella genesi dell'epopea di cui trattiamo) è certo che anche in Roma l'epopea comparve in apparenza e con autorità di storia.
Che il racconto della fondazione di Roma fosse in gran parte una fattura poetica, era cosa già riconosciuta al tempo di T.
Livio17; l'osservazione de' moderni estese questo giudizio, dove con argomenti molto forti, dove con più o meno probabili, ad epoche più avanzate.
Ma la più antica forma nella quale que' racconti siano pervenuti fino a noi, è la forma propria della storia, e pare verosimile che abbiano cessato presto d'essere in arbitrio di poeti ciclici, se ci furono mai.
Era quello un serioso poema, come dice il Vico del Diritto romano antico18; e non pare che il patriziato romano, custode, conservatore e consacratore d'ogni cosa, avrebbe lasciata in balia de' divertitori e maestri della plebe una storia nella quale erano piantati i fondamenti d'istituzioni fatte per mantenere il suo dominio sulla plebe.
Il soggetto di quell'epopea non era un'accidentale e temporaria federazione di principi, per la distruzione d'una Città, e per ritornar vincitori ne' loro rispettivi stati (poveri stati!) a far baruffe tra di loro, dopo averne fatte di strane, anche nel tempo e nel forte dell'impresa.
Era la fondazione e il progresso della città (e che città!) di que' patrizi medesimi.
Importava poco, anche ai Greci, che Minerva avesse detta una cosa più che un'altra a Pandaro, per indurlo a ferir Menelao o Iride ad Achille, per mandarlo a salvar da' Troiani il corpo di Patroclo; ma non sarebbe stata una cosa indifferente che la fantasia di poeti popolari avesse potuto sbizzarrire sulle conferenze di Numa con Egeria19; dalle quali era uscita l'istituzione de' sacerdozi e la norma de' riti e, non che altro, la scienza, rimasta poi arcana per tanto tempo, de' giorni fasti e nefasti20.
La novella dell'augure Azzio Navio, che opponendosi a Tarquinio Prisco il quale voleva istituire delle nove tribù senza la prova dell'augurio, conferma la sua scienza con un prodigio, bastava a
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