DEL ROMANZO STORICO, di Alessandro Manzoni - pagina 13
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Dico inconveniente perché l'effetto di tali parole è di richiamar la mente dal mero verisimile ai reale.
E so bene che ad altri può parere un vantaggio, un'occasione da non perdersi, questo poter far dire al personaggio ciò che l'uomo ha detto veramente.
Ma non vedo come si possa trovar la poesia un'arte efficace e potente, e trovare insieme, che abbia a ricever forza da ciò che produce un effetto opposto al suo.
L'inconveniente poi non sarebbe evitabile nel caso citato, e in qualche altro, cioè quando le parole storiche siano celebri.
Ché l'averle omesse il poeta non impedirebbe allo spettatore di rammentarsene; e il Cesare reale della storia verrebbe, né più né meno, a mettersi, nella mente di lui, a fronte del Cesare verisimile del poeta, come il Sosia di Plauto, a fronte di Mercurio: senonché, ne' casi di cui parliamo, è il mortale che la vince.
Praefulgebant eo ipso quod non visebantur.
E che vuoi dir questo? Che la storia può volersi cacciare, e cacciarsi in effetto anche nel campo più esclusivamente proprio della poesia, quando la poesia s'è fatta storica.
La storia registra molti, ma molti più fatti, che detti; e quindi è motto, molto più facile l'evitarla, facendo parlare le persone storiche, che facendole operare.
Ma questi pochi detti hanno la stessa ragione de' fatti per volere il loro posto, e la stessa forza per prenderlo [N.d.A.].
- Il Sosia...
Mercurio: Sosia, il servo di Anfitrione di fronte a Mercurio che aveva preso l'aspetto di lui Sosia, nella commedia di Plauto, l'Anfitrione.
- Tu quoque ecc.: Anche tu, Bruto.
- Praefulgebant...
visebantur: spiccavano per il fatto stesso che non erano sotto gli occhi.
Tacito.
Annali.
III.
76.
36 Acceptas quidem igitur fubulas (mythous) solvere non licet.
Dico autem, seu Clytemnestram necatam ab Oreste, vel Eriphylen ab Alcmaeone.
Poet., cap.
XI.
Il vocabolo mythos passò anche a significare la forma particolare data all'azione da ciaschedun poeta; e in questo senso l'usa anche Aristotele, anzi la definisce: Est autem actionis quidem imitatio fabula: appello enim fabulam hanc compositionem rerum (Ibid., cap.
IV).
Nel passo citato sopra, però, non può voler dir altro che miti, nel senso proprio e primitivo del vocabolo.
Infatti, come si potrebbe intendere che Aristotele prescrivesse al poeta d'attenersi alle tante e diverse composizioni degli altri poeti? Una tale interpretazione repugna e alla cosa, e agli esempi addotti da Aristotele, che non sono esempi di composizioni ma di semplici temi mitologici, come repugna al seguito del testo, che sarà citato or ora.
[N.d.A.].
[Non è lecito alterare le favole (miti) ricevute dalla tradizione.
Che si tratti, dico, di Clitennestra uccisa da Oreste e di Erifile uccisa da Alcmeone.
- Vi è una favola che è imitazione di un'azione: chiamo infatti favola questo intreccio di avvenimenti].
37 Altra obiezione possibile e da non dissimularsi.
Anche il teatro greco ebbe tragedie storiche, e sul suo principio; per esempio, I Persiani d'Eschilo.
Non starò qui a mettere in dubbio se questo componimento possa esser riguardato come una tragedia: giacché si potrebbe far lo stesso con altri dello stesso autore, il soggetto de' quali è preso da' tempi eroici.
Dirò bensì che la tragedia greca non continuò per quella strada.
Quelle di Sofocle e d'Euripide, e le molte di cui parla Aristotele nella Poetica, sono tutte composte sopra soggetti mitologici.
Se il teatro greco fosse diventato storico, si sarebbe naturalmente trovato a' medesimi passi de' teatri moderni, e Aristotele sarebbe stato impicciato bene a trovargli le regole, se gliene avesse voluto trovare.
Anche il teatro latino ebbe tragedie storiche, e di soggetti romani, e chiamate perciò Praetextae: e l'ebbe, se non così sul principio, cioè da Livio Andronico o da Nevio o da Ennio, certo non molto tardi, poiché tra le tragedie di Pacuvio, delle quali rimangono i titoli e de' frammenti, c'è un Paolo (Emilio), e tra quelle d'Azzio, un Bruto e un Decio.
Orazio loda in genere quella specie di tragedie, come un tentativo d'indipendenza letteraria:
Nil intentatum nostri liquere poetae; / nec minimum meruere decus, vestigia graeca / ausi deserere, et celebrare domestica facta; / vel cui praetextas, vel qui docuere togatas.
(De Arte poet., v.
285 et seq.).
Ma il non dar lui alcun precetto per questa specie di componimenti, e l'accennarla soltanto, è una ragione di credere che non fosse molto coltivata; come il tornar che fa sempre sulla poesia d'argomenti greci, è un indizio, che questa fosse prevalente di molto.
E un altro indizio per i tempi anteriori è il non essercene di Pacuvio che una sola, contro diciassette d'argomenti mitologici greci, e d'Azzio, due, contro più di cinquanta.
Quintiliano, in quella breve rassegna che fa de' principali generi di poesia, e de' principali poeti (lib.
X, cap.
1), non fa neppure menzione delle preteste.
Non ce n'è rimasta alcuna, ed è una disgrazia: letteraria, s'intende.
E non si potrebbe prenderne un'idea dall'Ottavia di Seneca, o d'un Seneca, qualunque fosse: essendo opera di tutt'altri tempi, e di tutt'altro gusto [N.d.A.].
[Nulla lasciarono di intentato i nostri poeti; e meritarono non poca gloria per aver osato abbandonare le orme greche e celebrare vicende patrie, tanto quelli che composero preteste come quelli che composero togate].
Le togatae erano, come le praetextae, drammi di argomento nazionale.
38 Le avessero attribuite a chiunque altro! Ma Aristotele, il quale insegna così apertamente e ripetutamente, che l'universale, il verosimile è la materia propria della poesia, opponendola alla storia, la di cui materia è il particolare, il reale, immaginarsi che potesse prendere per misura e per criterio del verosimile, la realtà materiale dello spettacolo, le circostanze reali dello spettatore! Era come far dire a un maestro di prospettiva, che una veduta, per esser verosimile, non deve rappresentare se non gli oggetti che potrebbero stare realmente nella misura del quadro.
E perché dice (cap.
II) che «la tragedia si sforza di restringersi in un giro del sole, o di variarne poco» (pratica, che s'accordava benissimo con la natura de' soggetti mitologici), credere che intendesse con questo di stabilire formalmente un termine alla durata ideale dell'azione! lui, che, nella Poetica medesima, dove tratta della lunghezza della favola, protesta espressamente, che un tal termine non si può stabilire a priori.
Dopo aver detto che la lunghezza materiale del dramma, non è una cosa che concerna l'arte, e venendo a parlare della durata ideale, dice: «Per ciò che riguarda la natura della cosa, la durata maggiore è la più bella, purché non sia tale da far perdere la chiarezza dell'insieme.
Per dirla in una parola, la durata conveniente sarà quella che si richieda per fare che, con lo svolgersi delle cose, secondo il verosimile o il necessario, si passi dall'infelicità alla felicità, o viceversa.» Terminus autem rei ex ipsius natura, semper quidem qui maior est, dummodo maneat intra eos fines ut una totus perspicuus sit, pulchrior est.
Ut autem simpliciter, re definita, dicamus, in quanta magnitudine, secundum verisimile, vel necessarium, deinceps nascentibus rebus, contingit in res secundas ex adversis, vel ex rebus secundis in adversas mutari, idoneus terminus est magnitudinis (cap.
V).
E siccome non è mai affatto inutile il conoscere l'origine degli errori che hanno avuta molta voga, in qualunque materia, così aggiungo che il vero autore del precetto delle due famose unità, fu, secondo ogni apparenza, il Castelvetro.
Questo critico, nel suo commento, famoso anch'esso, della Poetica d'Aristotele, al primo de' luoghi citati qui, non solo prende per un precetto generale la menzione d'un fatto particolare, ma ci aggiunge di suo ciò ch'era necessario a farne un precetto, cioè una ragion generale.
Ed è quella così anti-poetica, così anti-filosofica, così anti-aristotelica ragione della verosimiglianza relativa allo spettacolo e allo spettatore: ragione che fu poi allegata sempre, come fondamento principale del precetto.
Di più, censura Aristotele del non averla applicata rigorosamente, per non averla ben conosciuta: il che è verissimo E su quella ragione fonda poi anche l'altra unità, quella del luogo, la quale dalla Poetica d'Aristotele non si sarebbe potuta far uscire in nessuna maniera.
Trascrivo qui le sue parole, nella loro nativa rozzezza, chiedendone scusa al lettore.
L'epopea, narrando con parole sole, può raccontare un'azione avvenuta in molti anni, e in diversi luoghi, senza sconvenevolezza niuna, presentando le parole all'intelletto nostro le distanze di luogo e di tempo: la qual cosa non può fare la tragedia la quale conviene avere per soggetto un'azione avvenuta in piccolo spazio di luogo e in piccolo spazio di tempo, cioè in quel luogo e in quel tempo, dove e quando i rappresentatori dimorano occupati in operazione, e non altrove, né in altro tempo.
Ma così come il luogo stretto è il palco, così il tempo stretto è quello che i veditori possono a suo agio dimorare sedendo in teatro: il quale io non vedo che possa passare il giro del sole, siccome dice Aristotele, cioè ore dodici.
Con ciò sia cosa che, per le necessità del corpo, come è mangiare, bere, deporre i superflui pesi del ventre e della vescica, dormire, e per altre necessità, non possa il popolo continuare oltre il predetto termine così fatta dimora in teatro.
Né è possibile a dargli ad intendere che siano passati più dì e notti, quando essi sensibilmente sanno che non sono passate se non poche ore, non Potendo l'inganno in loro aver luogo, il quale è tuttavia riconosciuto dal senso.
(Poetica d'Aristotele, volgarizzata e sposta per L.
Castelvetro.
Basilea.
1576; p.
109).
Nel commento al secondo luogo poi, rigetta la ragione assegnata da Aristotele alla durata speciale e relativa delle diverse favole; e richiama il suo autore a quella sua gran ragione della verosimiglianza relativa allo spettacolo e allo spettatore.
Trascrivo anche qui: Vedeva Aristotele, che le favole della tragedia comunemente avevano fine alla fine della mutazione, e che le cose avvenute e contenute nella favola non si stendevano oltre il termine d'un giro del sole sopra l'emisfero, cioè oltre a dodici ore; e non riconoscendo la vera cagione di così fatto termine d'azioni raccolte in una favola, s'è immaginato che ciò sia per la capacità e per la contenenza della memoria degli uditori, quasi fossero per dimenticarsi le prime parti della favola, se contenesse un'azione di molti dì, quando udissero e vedessero l'ultime parti...
Così breve termine non è stato posto alla favola della tragedia, dentro del qual s'opera, per cagione della debolezza della ricordanza, ma per quella cagione, che già abbiamo assegnata, della rappresentazione, e dell'agio de' veditori, occupando tanto spazio di tempo la rappresentazione, quanto occuperebbe una verace operazione, e non potendo il popolo stare in teatro senza disagio intollerabile più di dodici ore.
(Ibid., pp.
170, 17 1).
E la taccia che si dava al Castelvetro era d'esser troppo sottile! Forte, però, lo fu davvero, poiché l'argomento messo in campo da lui, e invalso nel mondo letterario, poté far perder di vista, in questo particolare, a più generazioni, non solo di critici, ma di poeti, tra i quali de' gran poeti, che la poesia è poesia, che è un'arte, e che, per conseguenza, i mezzi che le si presentano per servire alla sua operazione, o non sono adattati, e deve rifiutarli; o sono adattati, e vuoi dire che si può fare astrazione da ciò che hanno d'eterogeneo all'intento dell'arte.
Ammettere che una tragedia (azione verosimile) possa esser rappresentata, è ammettere che la realtà, come realtà, delle cose che servono alla rappresentazione possa e deva non contar punto più di quello che la qualità reale di verde metallico si conti nel verde d'un albero dipinto.
Dire che la tragedia diventa falsa, se la rappresentazione non s'accorda con le circostanze reali dello spettatore.
è dire che un quadro rappresentante una nevicata diventa falso per chi lo guarda nel mese di luglio.
Non si tratta, né in pittura, né in poesia, di dare ad intendere (stolta parola in un tale argomento); ma di rappresentare de' verosimili, cioè delle verità ideali.
In quanto poi all'essere que' due precetti fedelmente osservati nelle tragedie greche, il Corneille, ne' Discorsi citati sopra, addusse alcune prove in contrario, e molte più ne addusse poi il Metastasio nelle sue Osservazioni sopra tutte quelle tragedie; ma con tutto ciò, l'essere nelle tragedie greche osservati que' due precetti, fu ancora per molto tempo, il fatto [N.d.A.].
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