DECAMERON, di Giovanni Boccaccio - pagina 6
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Disse allora ser Ciappelletto:
- Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io uscì del corpo della mamma mia.
- Oh benedetto sia tu da Dio! - disse il frate - come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d'arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola sono costretti.
E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sì, e molte volte; perciò che con ciò fosse cosa che egli, oltre a' digiuni delle quaresime che nell'anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l'acqua bevuta avea, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d'avere cotali insalatuzze d'erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa; e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli.
Al quale il frate disse:
- Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri; e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la conscienzia tua che bisogni.
Ad ogni uomo addiviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la fatica il bere.
- Oh! - disse ser Ciappelletto - padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d'animo; e chiunque altri menti le fa, pecca.
Il frate contentissimo disse:
- E io son contento che così ti cappia nell'animo, e piacemi forte la tua pura e buona conscienzia in ciò.
Ma, dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando più che il convenevole, o tenendo quello che tu tener non dovesti?
Al quale ser Ciappelletto disse:
- Padre mio, io non vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla; anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m'avesse così visitato.
Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie picciole mercatantie, e in quelle ho desiderato di guadagnare, e sempre co' poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo, l'una metà convertendo né miei bisogni, l'altra metà dando loro; e di ciò m'ha sì bene il mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei.
- Bene hai fatto, - disse il frate - ma come ti se' tu spesso adirato?
- Oh! - disse ser Ciappelletto - cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto.
E chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andare dietro alle vanità e vedendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitare le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio.
Disse allora il frate:
- Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre.
Ma, per alcuno caso, avrebbeti l'ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcun'altra ingiuria?
A cui ser Ciappelletto rispose:
- Ohimè, messere, o voi mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o s'io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s'è l'una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Iddio m'avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini, de' quali qualunque ora io n'ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: - Va che Dio ti converta -
Allora disse il frate:
- Or mi dì, figliuol mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contro alcuno o detto mal d'altrui o tolte dell'altrui cose senza piacer di colui di cui sono?
- Mai, messere, sì, - rispose ser Ciappelletto - che io ho detto male d'altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che battere la moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica.
Disse allora il frate:
- Or bene, tu mi di' che se' stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?
- Gnaffe, - disse ser Ciappelletto - messer sì; ma io non so chi egli si fu, se non che uno, avendomi recati danari che egli mi dovea dare di panno che io gli avea venduto, e io messogli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai ch'egli erano quattro piccioli più che essere non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l'amor di Dio.
Disse il frate:
- Cotesta fu piccola cosa; e facesti bene a farne quello che ne facesti.
E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo.
E volendo egli già procedere all'assoluzione, disse ser Ciappelletto:
- Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v'ho detto.
Il frate il domandò quale; ed egli disse:
- Io mi ricordo che io feci al fante mio un sabato dopo nona spazzare la casa, e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea.
- Oh! - disse il frate - figliuol mio, cotesta è leggier cosa.
- Non, - disse ser Ciappelletto - non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore.
Disse allora il frate: - O altro hai tu fatto?
- Messer sì, - rispose ser Ciappelletto - ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio.
Il frate cominciò a sorridere e disse:
- Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo.
Disse allora ser Ciappelletto:
- E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio.
E in brieve de' così fatti ne gli disse molti, e ultimamente cominciò a sospirare, e appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate:
- Figliuol mio, che hai tu?
Rispose ser Ciappelletto:
- Ohimè, messere, ché un peccato m'è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta ch'io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi essere molto certo che Iddio mai non avrà misericordia di me per questo peccato.
Allora il santo frate disse:
- Va via, figliuol, che è ciò che tu dì? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la misericordia di Dio che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente; e per ciò dillo sicuramente.
Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte:
- Ohimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato.
A cui il frate disse:
- Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Iddio per te.
Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire.
Ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, ed egli gittò un gran sospiro e disse:
- Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Iddio per me, e io il vi dirò.
Sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia -; e così detto ricominciò a piagnere forte.
Disse il frate:
- O figliuol mio, or parti questo così grande peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto 'l giorno Iddio, e sì perdona egli volentieri a chi si pente d'averlo bestemmiato; e tu non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione ch'io ti veggio, sì ti perdonerebbe egli.
Disse allora ser Ciappelletto:
- Ohimè, padre mio, che dite - voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sarà perdonato.
Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l'assoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto.
E chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così? E poi, dopo tutto questo, gli disse:
- Ser Ciappelletto, coll'aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a se', piacev'egli che 'l vostro corpo sia sepellito al nostro luogo?
Al quale ser Ciappelletto rispose:
- Messer sì; anzi non vorre' io essere altrove, poscia che voi mi avete promesso di pregare Iddio per me; senza che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine.
E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo, il qual voi la mattina sopra l'altare consecrate; per ciò che (come che io degno non ne sia) io intendo colla vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano.
Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato; e così fu.
Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl'ingannasse, s'eran posti appresso ad un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva divideva da un'altra, e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d'aver fatte, che quasi scoppiavano, e fra se' talora dicevano:
- Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte alla qual si vede vicino, né ancora di Dio dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s'aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l'hanno potuto rimuovere, né far ch'egli così non voglia morire come egli è vivuto?
Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso si curarono.
Ser Ciappelletto poco appresso si comunico', e peggiorando senza modo, ebbe l'ultima unzione; e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì.
Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse onorevolmente sepellito, e man datolo a dire al luogo de' frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l'usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna disposero.
Il santo frate che confessato l'avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea; e sperando per lui Domenedio dover molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere.
Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s'accordarono; e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr'esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co' camici e co' pieviali, con libri in mano e con le croci innanzi, cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uomini e donne.
E nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l'avea, salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de' suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra l'altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto mettere nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo:
- E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra' piedi bestemmiate Iddio e la Madre, e tutta la corte di paradiso.
E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità; e in brieve colle sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v'erano che, poi che fornito fu l'uficio, colla maggior calca del mondo da tutti fu andato a baciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono in dosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere; e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato.
Poi, la vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella, e a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini della cera secondo la promession fatta.
E in tanto crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era, che in alcuna avversità fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.
Così adunque visse e morì ser Cepperello da Prato e santo divenne come avete udito.
Il quale negar non voglio essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli potè in su l'estremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette; ma, per ciò che questo n'è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso.
E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore, ma alla purità della fede riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo.
E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversità e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l'abbiamo, lui in reverenza avendo, né nostri bisogni gli ci raccomandiamo, sicurissimi d'essere uditi.
E qui si tacque.
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Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de' cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
La novella di Panfilo fu in parte risa e tutta commendata dalle donne; la quale diligentemente ascoltata e al suo fine essendo venuta, sedendo appresso di lui Neifile, le comandò la reina che, una dicendone, l'ordine dello incominciato sollazzo seguisse.
La quale, sì come colei che non meno era di cortesi costumi che di bellezza ornata, lietamente rispose che volentieri, e cominciò in questa guisa.
Mostrato n'ha Panfilo nel suo novellare la benignità di Dio non guardare a' nostri errori, quando da cosa che per noi veder non si possa procedano; e io nel mio intendo di dimostrarvi quanto questa medesima benignità, sostenendo pazientemente i difetti di coloro li quali d'essa ne deono dare e colle opere e colle parole vera testimonianza, il contrario operando, di se' argomento d'infallibile verità ne dimostri, acciò che quello che noi crediamo con più fermezza d'animo seguitiamo.
Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran mercatante e buono uomo, il quale fu chiamato Giannotto di Civignì, lealissimo e diritto e di gran traffico d'opera di drapperia; e avea singulare amistà con uno ricchissimo uomo giudeo, chiamato Abraam, il qual similmente mercatante era e diritto e leale uomo assai.
La cui dirittura e la cui lealtà veggendo Giannotto, gl'incominciò forte ad increscere che l'anima d'un così valente e savio e buono uomo per difetto di fede andasse a perdizione.
E per ciò amichevolmente lo cominciò a pregare che egli lasciasse gli errori della fede giudaica e ritornasse alla verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente poteva discernere.
Il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella era nato e in quella intendeva e vivere e morire; né cosa sarebbe che mai da ciò il facesse rimuovere.
Giannotto non stette per questo che egli, passati alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli, così grossamente come il più i mercatanti sanno fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la giudaica.
E come che il giudeo fosse nella giudaica legge un gran maestro, tuttavia, o l'amicizia grande che con Giannotto avea che il movesse, o forse parole le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell'uomo idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto; ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non si lasciava.
Così come egli pertinace dimorava, così Giannotto di sollecitarlo non finava giammai, tanto che il giudeo, da così continua instanzia vinto, disse:
- Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano, e io sono disposto a farlo, sì veramente che io voglio in prima andare a Roma, e quivi vedere colui il quale tu dì che è vicario di Dio in terra, e considerare i suoi modi e i suoi costumi e similmente dei suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali che io possa tra per le tue parole e per quelli comprendere che la vostra fede sia migliore che la mia, come tu ti se' ingegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto t'ho; ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono.
Quando Giannotto intese questo, fu in se' stesso oltremodo dolente, tacitamente dicendo:
- Perduta ho la fatica, la quale ottimamente mi parea avere impiegata, credendomi costui aver convertito; per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita scelerata e lorda de' cherici, non che egli di giudeo si faccia cristiano, ma, se egli fosse cristiano fatto, senza fallo giudeo si ritornerebbe.
-
E ad Abraam rivolto disse:
- Deh, amico mio, perché vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa, come a te sarà d'andare di qui a Roma? senza che, e per mare e per terra, ad un ricco uomo come tu se', ci è tutto pien di pericoli.
Non credi tu trovar qui chi il battesimo ti dea? E, se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti dimostro, dove ha maggiori maestri e più savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai o domanderai dichiarire? Per le quali cose al mio parere questa tua andata è di soperchio.
Pensa che tali sono là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere e puoi, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al pastor principale.
E perciò questa fatica, per mio consiglio, ti serberai in altra volta ad alcuno perdono, al quale io per avventura ti farò compagnia.
A cui il giudeo rispose:
- Io mi credo, Giannotto, che così sia come tu mi favelli, ma, recandoti le molte parole in una, io son del tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m'hai cotanto pregato) disposto ad andarvi, e altramenti mai non ne farò nulla.
Giannotto, vedendo il voler suo, disse:
- E tu va con buona ventura; - e seco avvisò lui mai non doversi far cristiano, come la corte di Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette.
Il giudeo montò a cavallo e, come più tosto potè, se n'andò in corte di Roma, là dove pervenuto dà suoi giudei fu onorevolmente ricevuto.
E quivi dimorando, senza dire ad alcuno per che andato vi fosse, cautamente cominciò a riguardare alle maniere del papa e de' cardinali e degli altri prelati e di tutti i cortigiani; e tra che egli s'accorse, sì come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato, egli trovò dal maggiore infino al minore generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale, ma ancora nella soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, in tanto che la potenzia delle meretrici e de' garzoni in impetrare qualunque gran cosa non v'era di picciol potere.
Oltre a questo, universalmente gulosi, bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a guisa d'animali bruti, appresso alla lussuria, che ad altro, gli conobbe apertamente.
E più avanti guardando, in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l'uman sangue, anzi il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero, o a' sacrifici o a' benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di drappi o di alcun'altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia " procureria " posto nome, e alla gulosità "sustentazioni ", quasi Iddio, lasciamo stare il significato de' vocaboli, ma la 'ntenzione de' pessimi animi non conoscesse, e a guisa degli uomini a' nomi delle cose si debba lasciare ingannare.
Le quali cose, insieme con molte altre le quali da tacer sono, sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai aver veduto, propose di tornare a Parigi, e così fece.
Al quale, come Giannotto seppe che venuto se n'era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano, se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e, poi che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che del santo padre e de' cardinali e degli altri cortigiani gli parea.
Al quale il giudeo prestamente rispose:
- Parmene male, che Iddio dea a quanti sono; e di coti così che, se io ben seppi considerare, quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di vita o d'altro in alcuno che cherico fosse veder mi parve; ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude, invidia e superbia e simili cose e piggiori (se piggiori essere possono in alcuno) mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine.
E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro pastore, e per consequente tutti gli altri, si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella.
E per ciò che io veggio non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, meritamente mi par di scerner io Spirito Santo esser d'essa, sì come di vera e di santa più che alcun'altra, fondamento e sostegno.
Per la qual cosa, dove io rigido e duro stava a' tuoi conforti e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi.
Andiamo adunque alla chiesa: e quivi, secondo il debito costume della vostra santa fede, mi fa battezzare.
Giannotto, il quale aspettava dirittamente contraria conclusione a questa, come lui così udì dire fu il più contento uomo che giammai fosse.
E a Nostra Dama di Parigi con lui insieme andatosene, richiese i cherici di là entro che ad Abraam dovessero dare il battesimo.
Li quali, udendo che esso l'addomandava, prestamente il fecero: e Giannotto il levò del sacro fonte e nominollo Giovanni; e appresso a gran valenti uomini il fece compiutamente ammaestrare nella nostra fede la quale egli prestamente apprese, e fu, poi buono e valente uomo e di santa vita.
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Novella Terza
Melchisedech giudeo, con una novella di tre anella, cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli.
Poiché, commendata da tutti la novella di Neifile, ella si tacque, come alla reina piacque, Filomena così cominciò a parlare.
La novella da Neifile detta mi ritorna a memoria il dubbioso caso già avvenuto ad un giudeo.
Per ciò che già e di Dio e della verità della nostra fede è assai bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti e agli atti degli uomini non si dovrà disdire; e a narrarvi quella verrò, la quale udita, forse più caute diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero.
Voi dovete, amorose compagne, sapere che, sì come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice stato e mette in grandissima miseria, così il senno di grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande e in sicuro riposo.
E che vero sia che la sciocchezza di buono stato in miseria altrui conduca, per molti essempli si vede, li quali non fia al presente nostra cura di raccontare, avendo riguardo che tutto 'l dì mille essempli n'appaiano manifesti.
Ma che il senno di consolazione sia cagione, come promisi, per una novelletta mosterrò brievemente.
Il Saladino, il valore del qual fu tanto che non solamente di piccolo uomo il fe' di Babillonia soldano, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e, per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona quantità di danari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano aver gli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria, e pensossi costui avere da poterlo servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua volontà non l'avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse, s'avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata.
E fattolsi chiamare e familiarmente ricevutolo, seco il fece sedere e appresso gli disse:
- Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se' savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana.
Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s'avvisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di queste tre più l'una che l'altra lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione.
Per che, come colui al qual pareva d'aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo 'ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse, e disse:
- Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella, e a volervene dire ciò che io ne sento, mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete.
Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra l'altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò che colui de' suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s'intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri essere come maggiore onorato e reverito.
E colui al quale da costui fu lasciato il simigliante ordinò né suoi discendenti e così fece come fatto avea il suo predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in mano a molti successori; e ultimamente pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre parimente gli amava.
E i giovani, li quali la consuetudine dello anello sapevano, sì come vaghi d'essere ciascuno il più onorato tra' suoi ciascuno per se', come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio, che, quando a morte venisse, a lui quello anello lasciasse.
Il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare; e segretamente ad uno buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il vero.
E venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de' figliuoli.
Li quali, dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l'onore occupare, e l'uno negandolo all'altro, in testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello.
E trovatisi gli anelli sì simili l'uno all'altro che qual di costoro fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente, e ancor pende.
Il Saladino conobbe costui ottimamente essere saputo uscire del laccio il quale davanti a' piedi teso gli aveva; e per ciò dispose d'aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse; e così fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente, come fatto avea, non gli avesse risposto.
Il giudeo liberamente d'ogni quantità che il Saladino richiese il servì; e il Saladino poi interamente il soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per suo amico l'ebbe e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne.
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Novella Quarta
Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena.
Già si tacea Filomena, dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già, per l'ordine cominciato, che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare.
Amorose donne, se io ho bene la 'ntenzione di tutte compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi novellando piacere; e per ciò, solamente che contro a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere essere licito (e così ne disse la nostra reina, poco avanti, che fosse) quella novella dire che più crede che possa dilettare; per che, avendo udito per li buoni consigli di Giannotto di Civignì Abraam aver l'anima salvata Melchisedech per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli agguati del Saladino difese, senza riprensione attender da voi, intendo di raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo da gravissima pena liberasse.
Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lontano, uno monistero già di santità e di monaci più copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie Potevano macerare.
Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo dattorno alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse figliuola d'alcuno de' lavoratori della contrada, la quale andava per gli campi certe erbe cogliendo; né prima veduta l'ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale.
Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in parole e tanto andò d'una in altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se n'accorse.
E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con lei scherzava, avvenne che l'abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e per conoscere meglio le voci, chetamente s'accostò all'uscio della cella ad ascoltare e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in ciò altra maniera e, tornatosi alla sua camera, aspettò che il monaco fuori uscisse.
Il monaco, ancora che da grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropiccio di piedi per lo dormentorio, ad un piccolo pertugio pose l'occhio e vide apertissimamente l'abate stare ad ascoltarlo e molto bene comprese l'abate aver potuto conoscere quella giovane essere nella sua cella.
Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu do lente; ma pur, senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse; e occorsegli una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne.
E faccendo sembiante che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le disse:
- Io voglio andare a trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente infino alla mia tornata.
E uscito fuori e serrata la cella colla chiave, dirittamente se n'andò alla camera dello abate, e presentatagli quella, secondo che ciascuno monaco faceva quando fuori andava, con un buon volto disse:
- Messere, io non potei stamane farne venire tutte le legne le quali io avea fatte fare, e perciò con vostra licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire.
L'abate, per potersi più pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di tale accidente, e volentier prese la chiave e similmente li die' licenzia.
E, come il vide andato via, cominciò a pensar qual far volesse più tosto, o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non avesser cagione di mormorare contra di lui quando il monaco punisse, o di voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna.
E, pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d'averla a tutti i monaci fatta vedere, s'avvisò di voler prima veder chi fosse e poi prender partito; e chetamente andatosene alla cella, quel la aprì ed entrò dentro e l'uscio richiuse.
La giovane, vedendo venire l'abate, tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere.
Messer l'abate, postole l'occhio addosso e veggendola bella e fresca, ancora che vecchio fosse, sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti avesse il suo giovane monaco, e fra se' stesso cominciò a dire: - Deh, perché non prendo io del piacere quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è una bella giovane, ed è qui che niuna per sona del mondo il sa; se io la posso recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi faccia.
Chi saprà? ai più; io estimo che egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Domenedio ne man da altrui.
- E così dicendo, e avendo del tutto mutato proposito da quello per che andato v'era, fattosi più presso alla giovane, pianamente la cominciò a confortare e a pregarla che non piagnesse; e, d'una parola in altra procedendo, ad aprirle il suo desiderio pervenne.
La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a' piaceri dello abate; il quale, abbracciatala e baciatala più volte, in sul letticello del monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità e alla tenera età della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non sopra il petto di lei salì, ma lei sopra il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò.
Il monaco, che fatto avea sembiante d'andare al bosco, essendo nel dormentorio occultato, come vide l'abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato, estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veggendol serrar dentro, l'ebbe per certissimo.
E, uscito di là dov'era, chetamente n'andò ad un pertugio, per lo quale ciò che l'abate fece o disse, e udì e vide.
Parendo allo abate essere assai colla giovanetta dimorato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo al quanto, sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo forte e di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse la guadagnata preda; e fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il riprese e comandò che fosse in carcere messo.
Il monaco prontissimamente rispose:
- Messere, io non sono ancora tanto all'ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni particularità di quello apparata; e voi ancora non m'avavate mostrato che i monaci si debban far dalle femine priemere, come dà digiuni e dalle vigilie; ma ora che mostrato me l'avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare.
L'abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo, ma veduto ciò che esso aveva fatto.
Perché, dalla sua colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, aveva meritato.
E perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente misero la giovinetta di fuori, e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare.
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Novella Quinta
La marchesana di Monferrato, con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette, reprime il folle amore del re di Francia.
La novella da Dioneo raccontata, prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con onesto rossore né loro visi apparito ne diedon segno; e poi quella, l'una l'altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando ascoltarono.
Ma venuta di questa la fine, poiché lui con alquante dolci parole ebber morso, volendo mostrare che simili novelle non fosser tra donne da raccontare, la reina verso la Fiammetta, che appresso di lui sopra l'erba sedeva, rivolta, che essa l'ordine seguitasse le comandò.
La quale vezzosamente e con lieto viso a lei riguardando incominciò.
Sì perché mi piace noi essere entrati a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte, e sì ancora perché quanto negli uomini è gran senno il cercar d'amar sempre donna di più alto legnaggio ch'egli non è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dello amore di maggiore uomo ch'ella non è, m'è caduto nell'animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella novella che a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna se' da questo guardasse e altrui ne rimovesse.
Era il marchese di Monferrato, uomo d'alto valore, gonfaloniere della Chiesa, oltre mar passato in un general passaggio da' cristiani fatto con armata mano.
E del suo valore ragionandosi nella corte del re Filippo il Bornio, il quale a quel medesimo passaggio andar di Francia s'apparecchiava, fu per un cavalier detto non essere sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna; però che, quanto tra' cavalieri era d'ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra tutte l'altre donne del mondo era bellissima e valorosa.
Le quali parole per sì fatta maniera nell'animo del re di Francia entrarono, che, senza mai averla veduta, di subito ferventemente la cominciò ad amare e propose di non volere, al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova; acciò che quivi, per terra andando, onesta cagione avesse di dovere andare la marchesana a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto di mettere ad effetto il suo disio.
E secondo il pensier fatto mandò ad esecuzione; per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di gentili uomini entrò in cammino; e avvicinandosi alle terre del marchese, un dì davanti mandò a dire alla donna che la seguente mattina l'attendesse a desinare.
La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che questa l'era somma grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto.
E appresso entrò in pensiero che questo volesse dire, che un così fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a visitare; né la 'ngannò in questo l'avviso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traesse.
Nondimeno, come valorosa donna dispostasi ad onorarlo, fattisi chiamare di que' buoni uomini che rimasi v'erano, ad ogni cosa opportuna con loro consiglio fece ordine dare, ma il convito e le vivande ella sola volle ordinare.
E fatte senza indugio quante galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a' suoi cuochi per lo convito reale.
Venne adunque il re il giorno detto, e con gran festa e onore dalla donna fu ricevuto.
Il quale, oltre a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto nel suo disio più accendendosi, quanto da più trovava esser la donna che la sua passata stima di lei.
E dopo alcun riposo preso in camere ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un così fatto re ricevere, s'appartiene, venuta l'ora del desinare, il re e la marchesana ad una tavola sedettero, e gli altri secondo la lor qualità ad altre mense furono onorati.
Quivi essendo il re successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, e oltre a ciò con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere avea.
Ma pure, venendo l'un messo appresso l'altro, cominciò il re alquanto a maravigliarsi, conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, non per tanto di niuna cosa essere altro che di galline.
E come che il re conoscesse il luogo, là dove era, dovere esser tale che copiosamente di diverse salvaggine avervi dovesse, e l'avere davanti significata la sua venuta alla donna spazio l'avesse dato di poter far cacciare; non pertanto, quantunque molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagione di doverla mettere in parole, se non delle sue galline, e con lieto viso rivoltosi verso lei disse:
- Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno
La marchesana, che ottimamente la dimanda intese, parendole che secondo il suo disidero Domenedio l'avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re domandante, baldanzosamente verso lui rivolta, rispose:
- Monsignor no, ma le femine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall'altre variino, tutte perciò son fatte qui come altrove.
Il re, udite queste parole, raccolse bene la cagione del convito delle galline e la virtù nascosa nelle parole; e accorsesi che invano con così fatta donna parole si gitterebbono, e che forza non v'avea luogo; per che così come disavvedutamente acceso s'era di lei, così saviamente era da spegnere per onor di lui il mal concetto fuoco.
E senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori d'ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò che col presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziatala dell'onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n'andò.
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Novella Sesta
Confonde un valente uomo con un bel detto la malvagia ipocresia de' religiosi.
Emilia, la quale appresso la Fiammetta sedea, essendo già stato da tutte commendato il valore e il leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia, come alla sua reina piacque, baldanzosamente a dire cominciò.
Né io altresì tacerò un morso dato da un valente uomo secolare ad uno avaro religioso con un motto non meno da ridere che da commendare.
Fu adunque, o care giovani, non è ancora gran tempo, nella nostra città un frate minore inquisitore della eretica pravità, il quale, come che molto s'ingegnasse di parere santo e tenero amatore della cristiana fede, sì come tutti fanno, era non men buono investigatore di chi piena aveva la borsa, che di chi di scemo nella fede sentisse.
Per la quale sollecitudine per avventura gli venne trovato un buono uomo, assai più ricco di denari che di senno, al quale, non già per difetto di fede, ma semplicemente parlando, forse da vino o da soperchia letizia riscaldato, era venuto detto un dì ad una sua brigata se' avere un vino sì buono che ne berrebbe Cristo.
Il che essendo allo inquisitore rapportato, ed egli sentendo che gli suoi poderi eran grandi e ben tirata la borsa, cum gladiis et fustibus impetuosissimamente corse a formargli un processo gravissimo addosso, avvisando non di ciò alleviamento di miscredenza nello inquisito, ma empimento di fiorini nella sua mano ne dovesse procedere, come fece.
E fattolo richiedere, lui domandò se vero fosse ciò che contro di lui era stato detto.
Il buono uomo rispose del sì, e dissegli il modo.
A che lo 'nquisitore santissimo e divoto di san Giovanni Boccadoro disse:
- Dunque hai tu fatto Cristo bevitore e vago de' vini solenni, come se egli fosse Cinciglione o alcuno altro di voi bevitori ebriachi e tavernieri? E ora, umilmente parlando, vuogli mostrare questa cosa molto essere leggiera.
Ella non è come ella ti pare; tu n'hai meritato il fuoco, quando noi vogliamo, come noi dobbiamo, verso te operare.
E con queste e con altre parole assai, col viso dell'arme, quasi costui fosse stato epicuro negante la etternità delle anime, gli parlava.
E in brieve tanto lo spaurì che il buono uomo per certi mezzani gli fece con una buona quantità della grascia di san Giovanni Boccadoro ugner le mani (la quale molto giova alle infermità delle pestilenziose avarizie de' cherici, e spezialmente de' frati minori, che denari non osan toccare) acciò ch'egli dovesse verso lui misericordiosamente operare.
La quale unzione, sì come molto virtuosa, avvegna che Galieno non ne parli in alcuna parte delle sue medicine, sì e tanto adoperò, che il fuoco minacciatogli di grazia si permutò in una croce; e, quasi al passaggio d'oltremare andar dovesse, per far più bella bandiera, gialla gliele pose in sul nero.
E oltre a questo, già ricevuti i denari, più giorni appresso di se' il sostenne, per penitenzia dandogli che egli ogni mattina dovesse udire una messa in Santa Croce e all'ora del mangiare avanti a lui presentarsi, e poi il rimanente del giorno quello che più gli piacesse potesse fare.
Il che costui diligentemente faccendo, avvenne una mattina tra l'altre che egli udì alla messa uno evangelio, nel quale queste parole si cantavano: - Voi riceverete per ogn'un cento, e possederete la vita etterna; - le quali esso nella memoria fermamente ritenne, e, secondo il comandamento fattogli, ad ora di mangiare davanti allo inquisitore venendo, il trovò desinare.
Il quale lo 'nquisitore domandò se egli avesse la messa udita quella mattina.
Al quale esso prestamente rispose:
- Messer sì.
A cui lo 'nquisitore disse:
- Udisti tu in quella cosa niuna della quale tu dubiti o vogline domandare?
- Certo - rispose il buono uomo - di niuna cosa che io udissi dubito, anzi tutte per fermo le credo vere.
Udìne io bene alcuna che m'ha fatto e fa avere di voi e degli altri vostri frati grandissima compassione, pensando al malvagio stato che voi di là nell'altra vita dovrete avere.
Disse allora lo 'nquisitore:
- E qual fu quella parola, che t'ha mosso ad aver questa compassion di noi?
Il buono uomo rispose:
- Messere, ella fu quella parola dello evangelio, la qual dice: - Voi riceverete per ogn'un cento -
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Lo inquisitore disse:
- Questo è vero; ma perché t'ha per ciò questa parola commosso?
- Messere, - rispose il buono uomo - io vel dirò: poi che io usai qui, ho io ogni dì veduto dar qui di fuori a molta povera gente, quando una e quando due grandissime caldaie di broda, la quale a' frati di questo convento e a voi si toglie sì come soperchia, davanti; per che, se per ogn'una cento vene fieno rendute di là, voi n'avrete tanta che voi dentro tutti vi dovrete affogare.
Come che gli altri, che alla tavola dello inquisitore erano, tutti ridessono, lo 'nquisitore sentendo trafiggere la lor brodaiuola ipocresia, tutto si turbò; e se non fosse che biasimo portava di quello che fatto avea, un altro processo gli avrebbe addosso fatto, per ciò che con ridevol motto lui e gli altri poltroni aveva morsi; e per bizzarria gli comandò che quello che più gli piacesse facesse, senza più davanti venirgli.
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Novella Settima
Bergamino, con una novella di Primasso e dello abate di Clignì, onestamente morde una avarizia nuova venuta in messer Can della Scala.
Mosse la piacevolezza d'Emilia e la sua novella la reina e ciascun altro a ridere e a commendare il nuovo avviso del crociato.
Ma, poi che le risa rimase furono e racquetato ciascuno, Filostrato, al qual toccava il novellare, in cotal guisa cominciò a parlare.
Bella cosa è, valorose donne, il ferire un segno che mai non si muti, ma quella è quasi maravigliosa, quando alcuna cosa non usata apparisce di subito, se subitamente da uno arciere è ferita.
La viziosa e lorda vita de' cherici, in molte cose quasi di cattività fermo segno, senza troppa difficultà dà di se' da parlare, da mordere e da riprendere a ciascuno che ciò disidera di fare; e per ciò, come che ben facesse il valente uomo che lo inquisitore della ipocrita carità de' frati, che quello danno a' poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar via, trafisse, assai estimo più da lodare colui del quale, tirandomi a ciò la precedente novella, parlar debbo; il quale messer Cane della Scala, magnifico signore, d'una subita e disusata avarizia in lui apparita morse con una leggiadra novella, in altrui figurando quello che di sé e di lui intendeva di dire; la quale è questa.
Sì come chiarissima fama quasi per tutto il mondo suona, messer Cane della Scala, al quale in assai cose fu favorevole la fortuna, fu uno de' più notabili e de' più magnifici signori che dallo imperadore Federigo secondo in quasi sapesse in Italia.
Il quale, avendo disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, e a quella molte genti e di varie parti fossero venute, e massimamente uomini di corte d'ogni maniera, subito (qual che la cagion si fosse) da ciò si ritrasse, e in parte provedette coloro che venuti v'erano e licenziolli.
Solo uno, chiamato Bergamino, oltre al credere di chi non lo udì presto parlatore e ornato, senza essere d'alcuna cosa proveduto o licenzia datagli, si rimase, sperando che non senza sua futura utilità ciò dovesse essere stato fatto.
Ma nel pensiero di messer Cane era caduto ogni cosa che gli si donasse vie peggio esser perduta che se nel fuoco fosse stata gittata; né di ciò gli dicea o facea dire alcuna cosa.
Bergamino dopo alquanti dì, non veggendosi né chiamare né richiedere a cosa che a suo mestier partenesse e oltre a ciò consumarsi nello albergo co' suoi cavalli e co' suoi fanti, incominciò a prender malinconia; ma pure aspettava, non parendogli ben far di partirsi.
E avendo seco portate tre belle e ricche robe, che donate gli erano state da altri signori, per comparire orrevole alla festa, volendo il suo oste esser pagato, primieramente gli diede l'una, e appresso, soprastando ancora molto più, convenne, se più volle col suo oste tornare, gli desse la seconda; e cominciò sopra la terza a mangiare, disposto di tanto stare a vedere quanto quella durasse e poi partirsi.
Ora, mentre che egli sopra la terza roba mangiava, avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer Cane, davanti da lui assai nella vista malinconoso.
Il qual messer Can veggendo, più per istraziarlo che per diletto pigliare d'alcun suo detto, disse:
- Bergamino, che hai tu? tu stai così malinconoso! dinne alcuna cosa.
Bergamino allora, senza punto pensare, quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de' fatti suoi disse questa novella:
- Signor mio, voi dovete sapere che Primasso fu un gran valente uomo in gramatica e fu oltre ad ogn'altro grande e presto versificatore, le quali cose il renderono tanto ragguardevole e sì famoso che, ancora che per vista in ogni parte conosciuto non fosse, per nome e per fama quasi niuno era che non sapesse chi fosse Primasso.
Ora avvenne che, trovandosi egli una volta a Parigi in povero stato, sì come egli il più del tempo dimorava, per la virtù che poco era gradita da coloro che possono assai, udì ragionare d'uno abate di Clignì, il quale si crede che sia il più ricco prelato di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio, dal papa in fuori; e di lui udì dire maravigliose e magnifiche cose in tener sempre corte e non esser mai ad alcuno, che andasse là dove egli fosse, negato né mangiare né bere solo che quando l'abate mangiasse il domandasse.
La qual cosa Primasso udendo, sì come uomo che si dilettava di vedere i valenti uomini e signori, diliberò di volere andare a vedere la magnificenza di questo abate e domandò quanto egli allora dimorasse presso a Parigi.
A che gli fu risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo; al quale Primasso pensò di potervi essere, movendosi la mattina a buona ora, ad ora di mangiare.
Fattasi adunque la via insegnare, non trovando alcun che v'andasse, temette non per isciagura gli venisse smarrita, e così potere andare in parte dove così tosto non troveria da mangiare; per che, se ciò avvenisse, acciò che di mangiare non patisse disagio, seco pensò di portare tre pani, avvisando che dell'acqua (come che ella gli piacesse poco) troverebbe in ogni parte.
E quegli messisi in seno, prese il suo cammino, e vennegli sì ben fatto che avanti ora di mangiare pervenne là dove l'abate era.
Ed entrato dentro andò riguardando per tutto, e veduta la gran moltitudine delle tavole messe e il grande apparecchio della cucina e l'altre cose per lo desinare apprestate, fra se' medesimo disse: - Veramente è questi così magnifico come uom dice.
- E stando alquanto intorno a queste cose attento, il siniscalco dello abate (per ciò che ora era di mangiare) comandò che l'acqua si desse alle mani; e, data l'acqua, mise ogni uomo a tavola.
E per avventura avvenne che Primasso fu messo a sedere appunto dirimpetto all'uscio della camera donde l'abate dovea uscire per venire nella sala a mangiare.
Era in quella corte questa usanza, che in su le tavole né vino né pane né altre cose da mangiare o da bere si ponea giammai, se prima l'abate non veniva a sedere alla tavola Avendo adunque il siniscalco le tavole messe, fece dire all'abate che, qualora gli piacesse, il mangiare era presto.
L'abate fece aprir la camera per venire nella sala, e venendo si guardò innanzi, e per ventura il primo uomo che agli occhi gli corse fu Primasso, il quale assai male era in arnese e cui egli per veduta non conoscea; e come veduto l'ebbe, incontanente gli corse nello animo un pensier cattivo e mai più non statovi, e disse seco: «Vedi a cui io do mangiare il mio!» E tornandosi addietro, comandò che la camera fosse serrata e domandò coloro che appresso lui erano, se alcuno conoscesse quel ribaldo che a rimpetto all'uscio della sua camera sedeva alle tavole.
Ciascuno rispose del no.
Primasso, il quale avea talento di mangiare, come colui che camminato avea e uso non era di digiunare, avendo alquanto aspettato e veggendo che lo abate non veniva, si trasse di seno l'un de' tre pani li quali portati avea, e cominciò a mangiare.
L'abate, poi che alquanto fu stato, comandò ad uno de' suoi famigliari che riguardasse se partito si fosse questo Primasso.
Il famigliare rispose:
- Messer no, anzi mangia pane, il quale mostra che egli seco recasse.
Disse allora l'abate:
- Or mangi del suo, se egli n'ha, ché del nostro non mangerà egli oggi.
Avrebbe voluto l'abate che Primasso da se' stesso si fosse partito, per ciò che accomiatarlo non gli pareva far bene.
Primasso, avendo l'un pane mangiato, e l'abate non vegnendo, cominciò a mangiare il secondo; il che similmente all'abate fu detto, che fatto avea guardare se partito si fosse.
Ultimamente, non venendo l'abate, Primasso, mangiato il secondo, cominciò a mangiare il terzo; il che ancora fu allo abate detto, il quale seco stesso cominciò a pensare e a dire: «Deh questa che novità è oggi che nell'anima m'è venuta? che avarizia? chente sdegno? e per cui? Io ho dato mangiare il mio, già è molt'anni, a chiunque mangiare n'ha voluto, senza guardare se gentile uomo è o villano, povero o ricco.
O mercatante o barattiere stato sia, e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho veduto straziare, né mai nello animo m'entrò questo pensiero che per costui mi c'è oggi entrato.
Fermamente avarizia non mi dee avere assalito per uomo di picciolo affare, qualche gran fatto dee essere costui che ribaldo mi pare, poscia che così mi s'è rintuzzato l'animo d'onorarlo».
E, così detto, volle sapere chi fosse, e trovato ch'era Primasso, quivi venuto a vedere della sua magnificenzia quello che n'aveva udito, il quale avendo l'abate per fama molto tempo davante per valente uom conosciuto, si vergognò; e, vago di fare l'ammenda, in molte maniere s'ingegnò d'onorarlo.
E appresso mangiare, secondo che alla sufficienza di Primasso si conveniva, il fe' nobilmente vestire e, donatigli denari e un pallafreno, nel suo arbitrio rimise l'andare e lo stare.
Di che Primasso contento, rendutegli quelle grazie le quali potè maggiori, a Parigi, donde a piè partito s'era, ritornò a cavallo.
Messer Cane, il quale intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò che dir volea Bergamino, e sorridendo gli disse:
- Bergamino, assai acconciamente hai mostrati i danni tuoi, la tua virtù e la mia avarizia e quel che da me disideri; e veramente mai più che ora per te da avarizia assalito non fui; ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo hai divisato.
E fatto pagare l'oste di Bergamino, e lui nobilissimamente d'una sua roba vestito, datigli denari e un pallafreno, nel suo piacere per quella volta rimise l'andare e lo stare.
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Novella Ottava
Guglielmo Borsiere con leggiadre parole trafigge l'avarizia di messer Erminio de' Grimaldi.
Sedeva appresso Filostrato Lauretta, la quale, poscia che udito ebbe lodare la 'ndustria di Bergamino e sentendo a lei convenir dire alcuna cosa, senza alcun comandamento aspettare, piacevolmente così cominciò a parlare.
La precedente novella, care compagne, m'induce a voler dire come un valente uomo di corte similemente e non senza frutto pugnesse d'un ricchissimo mercatante la cupidigia; la quale, perché l'effetto della passata somigli, non vi dovrà perciò essere men cara, pensando che bene n'addivenisse alla fine.
Fu adunque in Genova, buon tempo è passato, un gentile uomo chiamato messere Ermino de' Grimaldi, il quale (per quello che da tutti era creduto) di grandissime possessioni e di denari di gran lunga trapassava la ricchezza d'ogni altro ricchissimo cittadino che allora si sapesse in Italia.
E sì come egli di ricchezza ogni altro avanzava che italico fosse, così d'avarizia e di miseria ogni altro misero e avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura; per ciò che, non solamente in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose opportune alla sua propria persona, contra il general costume de' genovesi che usi sono di nobilmente vestire, sosteneva egli, per non spendere, difetti grandissimi, e similmente nel mangiare e nel bere.
Per la qual cosa, e meritamente, gli era de' Grimaldi caduto il soprannome e solamente messer Ermino Avarizia era da tutti chiamato.
Avvenne che in questi tempi che costui, non spendendo, il suo multiplicava, arrivò a Genova un valente uomo di corte e costumato e ben parlante, il quale fu chiamato Guiglielmo Borsiere, non miga simile a quelli li quali sono oggi, li quali, non senza gran vergogna de' corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali al presente vogliono essere gentili uomini e signor chiamati e reputati, sono più tosto da dire asini nella bruttura di tutta la cattività de' vilissimi uomini allevati, che nelle corti.
E là dove a que' tempi soleva essere il lor mestiere e consumarsi la lor fatica in trattar paci, dove guerre o sdegni tra gentili uomini fosser nati, o trattar matrimoni, parentadi e amistà, e con belli motti e leggiadri ricreare gli animi degli affaticati e sollazzar le corti, e con agre riprensioni, sì come padri, mordere i difetti de' cattivi, e questo con premi assai leggieri; oggidì in rapportar male dall'uno all'altro, in seminare zizzania, in dire cattività e tristizie, e, che è peggio, in farle nella presenza degli uomini, in rimproverare i mali, le vergogne e le tristezze vere e non vere l'uno all'altro, e con false lusinghe gli animi gentili alle cose vili e scelerate ritrarre, s'ingegnano il lor tempo di consumare; e colui è più caro avuto, e più da' miseri e scostumati signori onorato e con premi grandissimi essaltato, che più abominevoli parole dice o fa atti: gran vergogna e biasimevole del mondo presente, e argomento assai evidente che le virtù,di qua giù dipartitesi, hanno nella feccia de' vizi i miseri viventi abbandonati.
Ma, tornando a ciò che io cominciato avea, da che giusto sdegno un poco m'ha trasviata più che io non credetti dico che il già detto Guiglielmo da tutti i gentili uomini di Genova fu onorato e volentieri veduto.
Il quale, essendo dimorato alquanti giorni nella città e avendo udite molte cose della miseria e della avarizia di messer Ermino, il volle vedere.
Messer Ermino aveva già sentito come questo Guiglielmo Borsiere era valente uomo, e pure avendo in se', quantunque avaro fosse, alcuna favilluzza di gentilezza, con parole assai amichevoli e con lieto viso il ricevette, e con lui entrò in molti e vari ragionamenti, e ragionando il menò seco, insieme con altri genovesi che con lui erano, in una sua casa nuova, la quale fatta avea fare assai bella; e, dopo avergliele tutta mostrata, disse:
- Deh, messer Guiglielmo, voi che avete e vedute e udite molte cose, saprestemi voi insegnare cosa alcuna che mai più non fosse stata veduta, la quale io potessi far dipignere nella sala di questa mia casa?
A cui Guiglielmo, udendo il suo mal conveniente parlare, rispose:
- Messere, cosa che non fosse mai stata veduta non vi crederrei io sapere insegnare, se ciò non fosser già starnuti o cose a quegli somiglianti; ma, se vi piace, io ve ne insegnerò bene una che voi non credo che vedeste giammai.
Messere Ermino disse:
- Deh, io ve ne priego, ditemi quale è dessa; - non aspettando lui quello dover rispondere che rispose.
A cui Guiglielmo allora prestamente disse:
- Fateci dipignere la Cortesia.
Come messere Ermino udì questa parola, così subitamente il prese una vergogna tale, che ella ebbe forza di fargli mutare animo quasi tutto in contrario a quello che infino a quella ora aveva avuto, e disse:
- Messer Guiglielmo, io la ci farò dipignere in maniera che mai né voi né altri con ragione mi potrà più dire che io non l'abbia veduta e conosciuta.
E da questo dì innanzi (di tanta virtù fu la parola da Guiglielmo detta) fu il più liberale e il più grazioso gentile uomo e quello che più e cittadini e forestieri onorò che altro che in Genova fosse a' tempi suoi.
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Novella Nona
Il re di Cipri, da una donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene.
Ad Elissa restava l'ultimo comandamento della reina; la quale, senza aspettarlo, tutta festevole cominciò.
Giovani donne, spesse volte già addivenne che quello che varie riprensioni e molte pene date ad alcuno non hanno potuto in lui adoperare, una parola molte volte per accidente, non che ex proposito, detta l'ha operato.
Il che assai bene appare nella novella raccontata dalla Lauretta, e io ancora con un'altra assai brieve ve lo intendo dimostrare; perché, con ciò sia cosa che le buone sempre possan giovare, con attento animo son da ricogliere, chi che d'esse sia il dicitore.
Dico adunque che né tempi del primo re di Cipri, dopo il conquisto fatto della Terra Santa da Gottifrè di Buglione, avvenne che una gentil donna di Guascogna in pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in Cipri arrivata, da alcuni scelerati uomini villanamente fu oltraggiata.
Di che ella senza alcuna consolazion dolendosi, pensò d'andarsene a richiamare al re; ma detto le fu per alcuno che la fatica si perderebbe, perciò che egli era di sì rimessa vita e da sì poco bene, che, non che egli l'altrui onte con giustizia vendicasse, anzi infinite con vituperevole viltà a lui fattene sosteneva; in tanto che chiunque avea cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna sfogava.
La qual cosa udendo la donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazione della sua noia propose di voler mordere la miseria del detto re; e andatasene piagnendo davanti a lui, disse:
- Signor mio, io non vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m'è stata fatta, ma in sodisfacimento di quella ti priego che tu m'insegni come tu sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te apparando, io possa pazientemente la mia comportare; la quale, sallo Iddio, se io far lo potessi, volentieri la ti donerei, poi così buon portatore ne se'.
Il re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ingiuria fatta a questa donna, la quale agramente vendicò, rigidissimo persecutore divenne di ciascuno che contro all'onore della sua corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi.
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Novella Decima
Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d'esser di lei innamorato voleva far vergognare.
Restava, tacendo già Elissa, l'ultima fatica del novellare alla reina, la quale, donnescamente cominciando a parlare, disse.
Valorose giovani, come né lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de' verdi prati, così de' laudevoli costumi e de' ragionamenti piacevoli sono i leggiadri motti.
Li quali, per ciò che brievi sono, molto meglio alle donne stanno che agli uomini, in quanto più alle donne che agli uomini il molto parlare e lungo, quando senza esso si possa fare, si disdisce, come che oggi poche o niuna donna rimasa ci sia, la quale o ne 'ntenda alcuno leggiadro o a quello, se pur lo 'ntendesse, sappia rispondere: general vergogna e di noi e di tutte quelle che vivono.
Per ciò che quella virtù che già fu nell'anime delle passate hanno le moderne rivolta in ornamenti del corpo; e colei la quale si vede indosso li panni più screziati e più vergati e con più fregi, si crede dovere essere da molto più tenuta e più che l'altre onorata, non pensando che, se fosse chi addosso o in dosso gliele ponesse, uno asino ne porterebbe troppo più che alcuna di loro; né per ciò più da onorar sarebbe che uno asino.
Io mi vergogno di dirlo, per ciò che contro all'altre non posso dire che io contro a me non dica: queste così fregiate, così dipinte, così screziate, o come statue di marmo mutole e insensibili stanno, o sì rispondono, se sono addomandate, che molto sarebbe meglio l'avere taciuto; e fannosi a credere che da purità d'animo proceda il non saper tra le donne e co' valenti uomini favellare, e alla loro milensaggine hanno posto nome onestà, quasi niuna donna onesta sia se non colei che colla fante o colla lavandaia o colla sua fornaia favella: il che se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per altro modo loro avrebbe limitato il cinguettare.
E il vero che, così come nell'altre cose, è in questa da riguardare e il tempo e il luogo e con cui si favella; per ciò che talvolta avviene che, credendo alcuna donna o uomo con alcuna paroletta leggiadra fare altrui arrossare, non avendo bene le sue forze con quelle di quel cotale misurate, quello rossore che in altrui ha creduto gittare sopra se' l'ha sentito tornare.
Per che, acciò che voi vi sappiate guardare, e oltre a questo acciò che per voi non si possa quello proverbio intendere che comunemente si dice per tutto, cioè che le femine in ogni cosa sempre pigliano il peggio, questa ultima novella di quelle d'oggi, la quale a me tocca di dover dire, voglio venerenda ammaestrate; acciò che come per nobiltà d'animo dall'altre divise siete, così ancora per eccellenzia di costumi separate dall'altre vi dimostriate.
Egli non sono ancora molti anni passati, che in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama quasi a tutto 'l mondo, e forse ancora vive, il cui nome fu maestro Alberto.
Il quale, essendo già vecchio di presso a settanta anni, tanta fu la nobiltà del suo spirito che, essendo già del corpo quasi ogni natural caldo partito, in se' non schifò di ricevere l'amorose fiamme; perché avendo veduta ad una festa una bellissima donna vedova, chiamata, secondo che alcuni dicono, madonna Malgherida de' Ghisolieri, e piaciutagli sommamente, non altrimenti che un giovinetto, quelle nel maturo petto ricevette, in tanto che a lui non pareva quella notte ben riposare che il dì precedente veduto non avesse il vago e dilicato viso della bella donna.
E per questo incominciò a continuare, quando a piè e quando a cavallo, secondo che più in destro gli venia, la via davanti alla casa di questa donna.
Per la qual cosa ed ella e molte altre donne s'accorsero della cagione del suo passare, e più volte insieme ne motteggiarono di vedere uno uomo, così antico d'anni e di senno, innamorato, quasi credessero questa passione piacevolissima d'amore solamente nelle sciocche anime de' giovani e non in altra parte capere e dimorare.
Per che, continuando il passare del maestro Alberto, avvenne un giorno di festa che, essendo questa donna con molte altre donne a sedere davanti alla sua porta e avendo di lontano veduto il maestro Alberto verso loro venire, con lei insieme tutte si proposero di riceverlo e di fargli onore, e appresso di motteggiarlo di questo suo innamoramento; e così fecero.
Per ciò che, levatesi tutte e lui invitato, in una fresca corte il menarono, dove di finissimi vini e confetti fecer venire; e al fine con assai belle e leggiadre parole come questo potesse essere, che egli di questa bella donna fosse innamorato, il domandarono, sentendo esso lei da molti belli, gentili e leggiadri giovani essere amata.
Il maestro, sentendosi assai cortesemente pugnere, fece lieto viso e rispose:
- Madonna, che io ami, questo non dee esser maraviglia ad alcuno savio, e spezialmente voi, però che voi il valete.
E come che agli antichi uomini sieno naturalmente tolte le forze le quali agli amorosi esercizi si richieggiono, non è per ciò lor tolta la buona volontà né lo intendere quello che sia da essere amato, ma tanto più dalla natura conosciuto, quanto essi hanno più di conoscimento che i giovani.
La speranza la quale mi muove che io vecchio ami voi amata da molti giovani, è questa: io sono stato più volte già là dove io ho veduto merendarsi le donne e mangiare lupini e porri; e come che nel porro niuna cosa sia buona, pur men reo e più piacevole alla bocca è il capo di quello, il quale voi generalmente, da torto appetito tirate, il capo vi tenete in mano, e manicate le frondi, le quali non solamente non sono da cosa alcuna, ma son di malvagio sapore.
E che so io, madonna, se nello eleggere degli amanti voi vi faceste il simigliante? E se voi il faceste, io sarei colui che eletto sarei da voi, e gli altri cacciati via.
La gentil donna insieme coll'altre alquanto vergognandosi disse:
- Maestro, assai bene e cortesemente gastigate n'avete della nostra presuntuosa impresa; tuttavia il vostro amor m'è caro, sì come di savio e valente uomo esser dee; e per ciò, salva la mia onestà, come a vostra cosa ogni vostro piacere m'imponete sicuramente.
Il maestro, levatosi co' suoi compagni, ringraziò la donna, e ridendo e con festa da lei preso commiato, si partì.
Così la donna, non guardando cui motteggiasse, credendo vincere, fu vinta: di che voi, se savie sarete, ottimamente vi guarderete.
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Conclusione
Già era il sole inchinato al vespro, e in gran parte il caldo diminuito, quando le novelle delle giovani donne e de' tre giovani si trovarono esser finite.
Per la qual cosa la loro reina piacevolmente disse:
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