DECAMERON, di Giovanni Boccaccio - pagina 29
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Bernabò turbato rispose:
- Il quistionar con parole potrebbe distendersi troppo; tu diresti e io direi, e alla fine niente monterebbe.
Ma poi che tu dì che tutte sono così pieghevoli e che 'l tuo ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo della onestà della mia donna, io son disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere; e se tu non puoi, io non voglio che tu perda altro che mille fiorin d'oro.
Ambrogiuolo, già in su la novella riscaldato, rispose:
- Bernabò, io non so quello ch'io mi facessi del tuo sangue se io vincessi; ma se tu hai voglia di vedere pruova di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemilia fiorin d'oro de' tuoi, che meno ti deono esser cari che la testa, contro a mille de' miei; e dove tu niuno termine poni, io mi voglio obbligare d'andare a Genova e infra tre mesi dal dì che io mi partirò di qui aver della tua donna fatta mia volontà, e in segno di ciò recarne meco delle sue cose più care e sì fatti e tanti indizi che tu medesimo confesserai esser vero; sì veramente che tu mi prometterai sopra la tua fede infra questo termine non venire a Genova né scrivere a lei alcuna cosa di questa materia.
Bernabò disse che gli piacea molto; e quantunque gli altri mercatanti, che quivi erano, s'ingegnassero di sturbar questo fatto, conoscendo che gran male ne potea nascere, pure erano de' due mercatanti sì gli animi accesi, che, oltre al voler degli altri, per belle scritte di lor mano s'obbligarono ]'uno all'altro.
E fatta la obbligagione, Bernabò rimase e Ambrogiuolo quanto più tosto potè se ne venne a Genova.
E dimoratovi alcun giorno e con molta cautela informatosi del nome della contrada e de' costumi della donna, quello e più ne 'ntese che da Bernabò udito n'avea; per che gli parve matta impresa aver fatta.
Ma pure, accontatosi con una povera femina che molto nella casa usava e a cui la donna voleva gran bene, non potendola ad altro inducere, con denari la corruppe e a lei in una cassa artificiata a suo modo si fece portare, non solamente nella casa, ma nella camera della gentil donna; e quivi, come se in alcuna parte andar volesse, la buona femina, secondo l'ordine datole da Ambrogiuolo, la raccomandò per alcun dì.
Rimasa adunque la cassa nella camera e venuta la notte, all'ora che Ambrogiuolo avvisò che la donna dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera uscì, nella quale un lume acceso avea.
Per la qual cosa egli il sito della camera, le dipinture e ogni altra cosa notabile che in quella era cominciò a ragguardare e a fermare nella sua memoria.
Quindi, avvicinatosi al letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla, che con lei era, dormivan forte, pianamente scopertola tutta, vide che così era bella ignuda come vestita, ma niuno segnale da potere rapportare le vide, fuori che uno ch'ella n'avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo d'intorno al quale erano alquanti peluzzi biondi come oro; e, ciò veduto, chetamente la ricoperse, come che, così bella vedendola, in disiderio avesse di mettere in avventura la vita sua e coricarlesi allato.
Ma pure, avendo udito lei essere così cruda e alpestra intorno a quelle novelle, non s'arrischiò; e statosi la maggior parte della notte per la camera a suo agio, una borsa e una guarnacca d'un suo forziere trasse e alcuno anello e alcuna cintura, e ogni cosa nella cassa sua messa, egli altressì vi si ritornò, e così la serrò come prima stava; e in questa maniera fece due notti, senza che la donna di niente s'accorgesse.
Vegnente il terzo dì, secondo l'ordine dato, la buona femina tornò per la cassa sua e colà la riportò onde levata l'avea; della quale Ambrogiuolo uscito, e contentata secondo la promessa la femina, quanto più tosto potè con quelle cose si tornò a Parigi avanti il termine preso.
Quivi, chiamati que'mercatanti che presenti erano stati alle parole e al metter de' pegni, presente Bernabò, disse sé aver vinto il pegno tra lor messo, perciò che fornito aveva quello di che vantato s'era; e che ciò fosse vero, primieramente disegnò la forma della camera e le dipinture di quella, e appresso mostrò le cose che di lei aveva seco recate, affermando da lei averle avute.
Confessò Bernabò così esser fatta la camera come diceva e oltre a ciò sé riconoscere quelle cose veramente della sua donna essere state; ma disse lui aver potuto da alcuno de' fanti della casa sapere la qualità della camera e in simil maniera avere avute le cose; per che, se altro non dicea, non gli parea che questo bastasse a dovere aver vinto.
Per che Ambrogiuolo disse:
- Nel vero questo doveva bastare; ma, poi che tu vuogli che io più avanti ancora dica, e io il dirò.
Dicoti che madonna Zinevra tua mogliere ha sotto la sinistra poppa un neo ben grandicello, dintorno al quale son forse sei peluzzi biondi come oro.
Quando Bernabò udì questo, parve che gli fosse dato d'un coltello al cuore, siffatto dolore sentì ; e tutto nel viso cambiato, eziandio se parola non avesse detta, diede assai manifesto segnale ciò esser vero che Ambrogiuolo diceva, e dopo alquanto disse:
- Signori, ciò che Ambrogiuolo dice è vero; e perciò, avendo egli vinto, venga qualor gli piace e sì si paghi -; e così fu il dì seguente Ambrogiuolo interamente pagato.
E Bernabò, da Parigi partitosi, con fellone animo contro alla donna verso Genova se ne venne.
E appressandosi a quella non volle in essa entrare, ma si rimase ben venti miglia lontano ad essa ad una sua possessione; e un suo famigliare, in cui molto si fidava, con due cavalli e con sue lettere mandò a Genova, scrivendo alla donna come tornato era e che con lui a lui venisse; e al famiglio segretamente impose che, come in parte fosse colla donna che migliore gli paresse, senza niuna misericordia la dovesse uccidere e a lui tornarsene.
Giunto adunque il famigliare a Genova e date le lettere e fatta l'ambasciata, fu dalla donna con gran festa ricevuto, la quale la seguente mattina, montata col famigliare a cavallo, verso la sua possessione prese il cammino.
E camminando insieme e di varie cose ragionando, pervennero in uno vallone molto profondo e solitario e chiuso d'alte grotte e d'alberi, il quale parendo al famigliare luogo da dovere sicuramente per sé fare il comandamento del suo signore, tratto fuori il coltello e presa la donna per lo braccio, disse
- Madonna, raccomandate l'anima vostra a Dio, ché a voi, senza passar più avanti, convien morire.
La donna, vedendo il coltello e udendo le parole, tutta spaventata disse:
- Mercè per Dio! anzi che tu mi uccida, dimmi di che io t'ho offeso, che tu uccider mi debbi.
- Madonna, - disse il famigliare - me non avete offeso d'alcuna cosa; ma di che voi offeso abbiate il vostro marito io nol so, se non che egli mi comandò che, senza alcuna misericordia aver di voi, io in questo cammin v'uccidessi; e se io nol facessi, mi minacciò di farmi impiccar per la gola.
Voi sapete bene quant'io gli son tenuto, e come io di cosa che egli m'imponga possa dir di no; sallo Iddio che di voi m'incresce, ma io non posso altro.
A cui la donna piagnendo disse:
- Ahi mercé per Dio! non volere divenire micidiale di chi mai non t'offese, per servire altrui.
Iddio, che tutto conosce, sa che io non feci mai cosa per la quale io dal mio marito debbia così fatto merito ricevere.
Ma lasciamo ora star questo; tu puoi, quando tu vogli, ad una ora piacere a Dio e al tuo signore e a me in questa maniera: che tu prenda questi miei panni, e solamente il tuo farsetto e un cappuccio; e con essi torni al mio e tuo signore, e dichi che tu m'abbi uccisa; e io ti giuro, per quella salute la quale tu donata m'avrai, che io mi dileguerò e andronne in parte che mai né a lui né a te né in queste contrade di me perverrà alcuna novella.
Il famigliare, che mal volentieri l'uccidea, leggiermente divenne pietoso; per che, presi i drappi suoi e datole un suo farsettaccio e un cappuccio, e lasciatile certi denari li quali essa avea, pregandola che di quelle contrade si dileguasse, la lasciò nel vallone e a piè, e andonne al signor suo, al qual disse che il suo comandamento non solamente era fornito, ma che il corpo di lei morto aveva tra parecchi lupi lasciato.
Bernabò dopo alcun tempo se ne tornò a Genova e, saputosi il fatto, forte fu biasimato.
La donna, rimasa sola e sconsolata, come la notte fu venuta, contraffatta il più che potè, n'andò ad una villetta ivi vicina, e quivi da una vecchia procacciato quello che le bisognava, racconciò il farsetto a suo dosso, e fattol corto, e fattosi della sua camicia un paio di pannilini, e i capelli tondutosi e trasformatasi tutta in forma d'un matinaro, verso il mare se ne venne; dove per avventura trovò un gentile uomo catalano, il cui nome era segner En Cararch, il quale d'una sua nave, la quale alquanto di quivi era lontana, in Albegna disceso era a rinfrescarsi ad una fontana.
Col quale entrata in parole, con lui s'acconciò per servidore, e salissene sopra la nave, faccendosi chiamar Sicuran da Finale.
Quivi, di miglior panni rimesso in arnese dal gentile uomo, lo 'ncominciò a servir sì bene e sì acconciamente, che egli gli venne oltre modo a grado.
Avvenne, ivi a non gran tempo, che questo catalano con un suo carico navicò in Alessandria e portò certi falconi pellegrini al soldano, e presentogliele; al quale il soldano avendo alcuna volta dato mangiare, e veduti i costumi di Sicurano, che sempre a servir l'andava, e piaciutigli, al catalano il domandò; e quegli, ancora che grave gli paresse, gliele lasciò.
Sicurano in poco di tempo non meno la grazia e l'amor del soldano acquistò col suo bene adoperare, che quella del catalano avesse fatto.
Per che in processo di tempo avvenne che, dovendosi in un certo tempo dell'anno, a guisa d'una fiera, fare una gran ragunanza di mercatanti e cristiani e saracini in Acri, la quale sotto la signoria del soldano era; acciò che i mercatanti e le mercatantie sicure stessero, era il soldano sempre usato di mandarvi, oltre agli altri suoi uficiali, alcuno de' suoi grandi uomini con gente che alla guardia attendesse.
Nella qual bisogna, sopravvegnendo il tempo, diliberò di mandare Sicurano il quale già ottimamente la lingua sapeva; e così fece.
Venuto adunque Sicurano in Acri signore e capitano della guardia de' mercatanti e della mercatantia, e quivi bene e sollicitamente faccendo ciò che al suo uficio apparteneva, e andando dattorno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi e viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava per rimembrarza della contrada sua.
Ora avvenne, tra l'altre volte, che, essendo egli ad un fondaco di mercatanti viniziani smontato, gli vennero vedute tra altre gioie una borsa e una cintura, le quali egli prestamente riconobbe essere state sue, e maravigliossi; ma, senza altra vista fare, piacevolmente domandò di cui fossero e se vendere si voleano.
Era quivi venuto Ambrogiuolo da Piagenza con molta mercatantia in su una nave di viniziani, il quale, udendo che il capitano della guardia domandava di cui fossero, si trasse avanti e ridendo disse:
- Messere, le cose son mie e non le vendo; ma s'elle vi piacciono, io le vi donerò volentieri.
Sicurano, vedendol ridere, suspicò non costui in alcuno atto l'avesse raffigurato; ma pur, fermo viso faccendo, disse:
- Tu ridi forse, perché vedi me uom d'arme andar domandando di queste cose feminili?
Disse Ambrogiuolo:
- Messere, io non rido di ciò, ma rido del modo ne quale io le guadagnai.
A cui Sicuran disse:
- Deh, se Iddio ti dea buona ventura, se egli non è disdicevole, diccelo come tu le guadagnasti.
- Messere, - disse Ambrogiuolo - queste mi donò con alcuna altra cosa una gentil donna di Genova chiamata madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin, una notte che io giacqui con lei, e pregommi che per suo amore io le tenessi.
Ora risi io, per ciò che egli mi ricordò della sciocchezza di Bernabò, il qual fu di tanta follia che mise cinquemilia fiorin d'oro contro a mille che io la sua donna non recherei a' miei piaceri; il che io feci e vinsi il pegno; ed egli, che più tosto sé della sua bestialità punir dovea che lei d'aver fatto quello che tutte le femine fanno, da Parigi a Genova tornandosene, per quello che io abbia poi sentito, la fece uccidere.
Sicurano, udendo questo, prestamente comprese qual fosse la cagione dell'ira di Bernabò verso lei e manifestamente conobbe costui di tutto il suo male esser cagione; e seco pensò di non lasciargliele portare impunita.
Mostrò adunque Sicurano d'aver molto cara questa novella, e artatamente prese con costui una stretta dimestichezza, tanto che per gli suoi conforti Ambrogiuolo, finita la fiera, con essolui e con ogni sua cosa se n'andò in Alessandria, dove Sicurano gli fece fare un fondaco e misegli in mano de' suoi denari assai; per che egli, util grande veggendosi, vi dimorava volentieri.
Sicurano, sollicito a volere della sua innocenzia far chiaro Bernabò, mai non riposò infino a tanto che con opera d'alcuni grandi mercatanti genovesi che in Alessandria erano, nuove cagioni trovando, non l'ebbe fatto venire; il quale, in assai povero stato essendo, ad alcun suo amico tacitamente fece ricevere, infino che tempo gli paresse a quel fare che di fare intendea.
Avea già Sicurano fatta raccontare ad Ambrogiuolo la novella davanti al soldano, e fattone al soldano prendere piacere; ma poi che vide quivi Bernabò, pensando che alla bisogna non era da dare indugio, preso tempo convenevole, dal soldano impetrò che davanti venir si facesse Ambrogiuolo e Bernabò, e in presenzia di Bernabò, se agevolmente fare
non si potesse, con severità da Ambrogiuolo si traesse il vero come stato fosse quello di che egli della moglie di Bernabò si vantava.
Per la qual cosa, Ambrogiuolo e Bernabò venuti, il soldano in presenzia di molti con rigido viso ad Ambrogiuol comandò che il vero dicesse come a Bernabò vinti avesse cinquemilia fiorin d'oro; e quivi era presente Sicurano, in cui Ambrogiuolo più avea di fidanza, il quale con viso troppo più turbato gli minacciava gravissimi tormenti se nol dicesse.
Per che Ambrogiuolo, da una parte e d'altra spaventato e ancora alquanto costretto, in presenzia di Bernabò e di molti altri, niuna pena più aspettandone che la restituzione di fiorini cinquemilia d'oro e delle cose, chiaramente, come stato era il fatto, narrò ogni cosa.
E avendo Ambrogiuolo detto, Sicurano, quasi esecutore del soldano, in quello rivolto a Bernabò disse: - E tu che facesti per questa bugia alla tua donna? A cui Bernabò rispose:
- Io, vinto dalla ira della perdita de' miei denari e dall'onta della vergogna che mi parea avere ricevuta dalla mia donna, la feci ad un mio famigliare uccidere; e, secondo che egli mi rapportò, ella fu prestamente divorata da molti lupi.
Queste cose così nella presenzia del soldan dette e da lui tutte udite e intese, non sappiendo egli ancora a che Sicurano, che questo ordinato avea e domandato, volesse riuscire, gli disse Sicurano:
- Signor mio assai chiaramente potete conoscere quanto quella buona donna gloriar si possa d'amante e di marito; ché l'amante ad una ora lei priva d'onore, con bugie guastando la fama sua, e diserta il marito di lei; e il marito, più credulo alle altrui falsità che alla verità da lui per lunga esperienza potuta conoscere, la fa uccidere e mangiare a' lupi; e oltre a questo tanto il bene e l'amore che l'amico e 'l marito le porta, che, con lei lungamente dimorati, niuno la conosce.
Ma per ciò che voi ottimamente conosciate quello che ciascun di costoro ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire lo 'ngannatore e perdonare allo 'ngannato, io la farò qui in vostra e in loro presenzia venire.
Il soldano, disposto in questa cosa di volere in tutto compiacere a Sicurano, disse che gli piacea e che facesse la donna venire.
Maravigliossi forte Bernabò, il quale lei per fermo morta credea; e Ambrogiuolo, già del suo male indovino, di peggio avea paura che di pagar denari, né sapea che si sperare o che più temere, perché quivi la donna venisse, ma più con maraviglia la sua venuta aspettava.
Fatta adunque la concessione dal soldano a Sicurano, esso, piagnendo e in ginocchion dinanzi al soldan gittatosi, quasi ad una ora la maschil voce e il più voler maschio parere si partì, e disse:
- Signor mio, io sono la misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando in forma d'uom per lo mondo, da questo traditor d'Ambrogiuol falsamente e reamente vituperata, e da questo crudele e iniquo uomo data ad uccidere ad un suo fante e a mangiare a' lupi.
E stracciando i panni dinanzi e mostrando il petto, sé esser femina e al soldano e a ciascuno altro fece palese; rivolgendosi poi ad Ambrogiuolo, ingiuriosamente domandandolo quando mai, secondo che egli avanti si vantava, con lei giaciuto fosse.
Il quale, già riconoscendola, e per vergogna quasi mutolo divenuto, niente dicea.
Il soldano, il qual sempre per uomo avuta l'avea, questo vedendo e udendo, venne in tanta maraviglia, che più volte quello che egli vedeva e udiva credette più tosto esser sogno che vero.
Ma pur, poi che la maraviglia cessò, la verità conoscendo, con somma laude la vita e la constanzia e i costumi e la virtù della Zinevra, infino allora stata Sicuran chiamata, commendò.
E, fattili venire onorevolissimi vestimenti femminili e donne che compagnia le tenessero, secondo la dimanda fatta da lei, a Bernabò perdonò la meritata morte.
Il quale, riconosciutola, a' piedi di lei si gittò piagnendo e domandando perdonanza, la quale ella, quantunque egli maldegno ne fosse, benignamente gli diede, e in piede il fece levare, teneramente sì come suo marito abbracciandolo.
Il soldano appresso comandò che incontanente Ambrogiuolo in alcuno alto luogo della città fosse al sole legato ad un palo e unto di mele, né quindi mai, infino a tanto che per sé medesimo non cadesse, levato fosse; e così fu fatto.
Appresso questo, comandò che ciò che d'Ambrogiuolo stato era fosse alla donna donato; che non era sì poco che oltre a diecimilia dobbre non valesse; ed egli, fatta apprestare una bellissima festa, in quella Bernabò, come marito di madonna Zinevra, e madonna Zinevra sì come valorosissima donna, onorò, e donolle che in gioie e che in vasellamenti d'oro e d'ariento e che in denari, quello che valse meglio d'altre diecemilia dobbre.
E, fatto loro apprestare un legno, poi che finita fu la festa per loro fatta, gli licenziò di potersi tornare a Genova al lor piacere; dove ricchissimi e con grande allegrezza tornarono, e con sommo onore ricevuti furono, e spezialmente madonna Zinevra, la quale da tutti si credeva che morta fosse; e sempre di gran virtù e da molto, mentre visse, fu reputata.
Ambrogiuolo il dì medesimo che legato fu al palo e unto di mele, con sua grandissima angoscia dalle mosche e dalle vespe e da' tafani, de' quali quel paese è copioso molto, fu non solamente ucciso, ma infino all'ossa divorato; le quali bianche rimase e a' nervi appiccate, poi lungo tempo, senza esser mosse, della sua malvagità fecero a chiunque le vide testimonianza.
E così rimase lo 'ngannatore a piè dello 'ngannato.
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Novella Decima
Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e diventa amico di Paganino.
Raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele concede.
Ella non vuol con lui tornare, e, morto messer Ricciardo, moglie di Paganin diviene.
Ciascuno della onesta brigata sommamente commendò per bella la novella dalla loro reina contata, e massimamente Dioneo, al quale solo per la presente giornata restava il novellare.
Il quale, dopo molte commendazioni di quella fatte, disse.
Belle donne, una parte della novella della reina m'ha fatto mutare consiglio di dirne una che all'animo m'era, a doverne un'altra dire; e questa è la bestialità di Bernabò, come che bene ne gli avvenisse, e di tutti gli altri che quello si danno a credere che esso di creder mostrava, cioè che essi andando per lo mondo e con questa e con quella ora una volta ora un'altra sollazzandosi, s'imaginano che le donne a casa rimase si tengano le mani a cintola, quasi noi non conosciamo, che tra esse nasciamo e cresciamo e stiamo, di che elle sien vaghe.
La qual dicendo, ad un'ora vi mosterrò chente sia la sciocchezza di questi cotali, e quanto ancora sia maggiore quella di coloro li quali, sé più che la natura possenti estimando, si credono quello con dimostrazioni favolose potere che essi non possono, e sforzansi d'altrui recare a quello che essi sono, non patendolo la natura di chi è tirato.
Fu dunque in Pisa un giudice, più che di corporal forza dotato d'ingegno, il cui nome fu messer Ricciardo di Chinzica, il qual, forse credendosi con quelle medesime opere sodisfare alla moglie che egli faceva agli studi, essendo molto ricco, con non piccola sollicitudine cercò d'avere bella e giovane donna per moglie; dove e l'uno e l'altro, se così avesse saputo consigliar sé come altrui faceva, doveva fuggire.
E quello gli venne fatto, per ciò che messer Lotto Gualandi per moglie gli diede una sua figliuola, il cui nome era Bartolomea, una delle più belle e delle più vaghe giovani di Pisa, come che poche ve n'abbiano che lucertole verminare non paiano.
La quale il giudice menata con grandissima festa a casa sua, e fatte le nozze belle e magnifiche, pur per la prima notte incappò una volta per consumare il matrimonio a toccarla, e di poco fallò che egli quella una non fece tavola; il quale poi la mattina, sì come colui che era magro e secco e di poco spirito, convenne che con vernaccia e con confetti ristorativi e con altri argomenti nel mondo si ritornasse.
Or questo messer lo giudice, migliore stimatore delle sue forze divenuto che stato non era avanti, incominciò ad insegnare a costei un calendario buono da fanciulli che stanno a leggere, e forse già stato fatto a Ravenna.
Per ciò che, secondo che egli le mostrava, niun dì era che non solamente una festa, ma molte non ne fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava l'uomo e la donna doversi astenere da così fatti congiugnimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro tempora e vigilie d'apostoli e di mille altri santi, e venerdì e sabati, e la domenica del Signore e la quaresima tutta, e certi punti della luna e altre eccezioni molte, avvisandosi forse che così feria far si convenisse con le donne nel letto, come egli faceva talvolta piatendo alle civili.
E questa maniera (non senza grave malinconia della donna, a cui forse una volta ne toccava il mese e appena) lungamente tenne, sempre guardandola bene, non forse alcuno altro le 'nsegnasse conoscere li dì da lavorare, come egli l'aveva insegnate le feste.
Avvenne che, essendo il caldo grande, a messer Ricciardo venne disidero d'andarsi a diportare ad un suo luogo molto bello vicino a Montenero, e quivi per prendere aere, dimorarsi alcun giorno, e con seco menò la sua bella donna.
E quivi standosi, per darle alcuna consolazione, fece un giorno pescare, e sopra due barchette, egli in su una co' pescatori ed ella in su un'altra con altre donne, andarono a vedere; e tirandogli il diletto, parecchi miglia, quasi senza accorgersene, n'andarono infra mare.
E mentre che essi più attenti stavano a riguardare, subito una galeotta di Paganin da Mare, allora molto famoso corsale, sopravenne; e vedute le barche, si dirizzò a loro; le quali non poteron sì tosto fuggire, che Paganin non giugnesse quella ove eran le donne; nella quale veggendo la bella donna, senza altro volerne, quella, veggente messer Ricciardo che già era in terra, sopra la sua galeotta posta, andò via.
La qual cosa veggendo messer lo giudice, il quale era sì geloso che temeva dello aere stesso, se esso fu dolente non è da domandare.
Egli senza pro, e in Pisa e altrove, si dolfe della malvagità de' corsari, senza sapere chi la moglie tolta gli avesse o dove portatola.
A Paganino, veggendola così bella, parve star bene; e, non avendo moglie, si pensò di sempre tenersi costei, e lei, che forte piagnea, cominciò dolcemente a confortare.
E venuta la notte, essendo a lui il calendaro caduto da cintola e ogni festa o feria uscita di mente, la cominciò a confortare co' fatti, parendogli che poco fossero il dì giovate ]e parole; e per sì fatta maniera la racconsolò, che, prima che a Monaco giugnessero, il giudice e le sue leggi le furono uscite di mente, e cominciò a viver più lietamente del mondo con Paganino.
Il quale, a Monaco menatala, oltre alle consolazioni che di dì e di notte le dava, onoratamente come sua moglie la tenea.
Poi a certo tempo pervenuto agli orecchi di messer Ricciardo dove la sua donna fosse, con ardentissimo disidero, avvisandosi niun interamente saper far ciò che a ciò bisognava, esso stesso dispose d'andar per lei, disposto a spendere per lo riscatto di lei ogni quantità di denari; e, messosi in mare, se n'andò a Monaco, e quivi la vide ed ella lui; la quale poi la sera a Paganino il disse e lui della sua intenzione informò.
La seguente mattina messer Ricciardo, veggendo Paganino, con lui s'accontò e fece in poca d'ora una gran dimestichezza e amistà, infignendosi Paganino di conoscerlo e aspettando a che riuscir volesse.
Per che, quando tempo parve a messer Ricciardo, come meglio seppe e il più piacevolmente, la cagione per la quale venuto era gli discoperse, pregandolo che quello che gli piacesse prendesse e la donnagli rendesse.
Al quale Paganino con lieto viso rispose:
- Messere, voi siate il ben venuto, e rispondendo in brieve, vi dico così : egli è vero che io ho una giovane in casa, la qual non so se vostra moglie o d'altrui si sia, per ciò che voi io non conosco, né lei altressì se non in tanto quanto ella è meco alcun tempo dimorata.
Se voi siete suo marito, come voi dite, io, perciò che piacevol gentil uom mi parete, vi menerò da lei, e son certo che ella vi conoscerà bene.
Se essa dice che così sia come voi dite e vogliasene con voi venire, per amor della vostra piacevolezza quello che voi medesimo vorrete per riscatto di lei mi darete; ove così non fosse, voi fareste villania a torre, per ciò che io son giovane uomo e posso così come un altro tenere una femina, e spezialmente lei che è la più piacevole che io vidi mai.
Disse allora messer Ricciardo:
- Per certo ella è mia moglie, e se tu mi meni dove ella sia, tu il vedrai tosto; ella mi si gittarà incontanente al collo; e per ciò non domando che altramenti sia se non come tu medesimo hai divisato.
- Adunque, - disse Paganino - andiamo.
Andatisene adunque nella casa di Paganino e stando in una sua sala, Paganino la fece chiamare, ed ella vestita e acconcia uscì d'una camera e quivi venne dove messer Ricciardo con Paganino era, né altramenti fece motto a messer Ricciardo che fatto s'avrebbe ad un altro forestiere che con Paganino in casa sua venuto fosse.
Il che vedendo il giudice, che aspettava di dovere essere con grandissima festa ricevuto da lei, si maravigliò forte, e seco stesso cominciò a dire: - Forse che la malinconia e il lungo dolore che io ho avuto, poscia che io la perdei m'ha si trasfigurato che ella non mi riconosce - Per che egli disse:
- Donna, caro mi costa il menarti a pescare, per ciò che simil dolore non si sentì mai a quello che io ho poscia portato che io ti perdei, e tu non pare che mi riconoschi, sì salvaticamente motto mi fai.
Non vedi tu che io sono il tuo messer Ricciardo, venuto qui per pagare ciò che volesse questo gentile uomo, in casa cui noi siamo, per riaverti e per menartene; ed egli, la sua mercè, per ciò che io voglio, mi ti rende?
La donna rivolta a lui, un cotal pocolin sorridendo, disse:
- Messere, dite voi a me? Guardate che voi non m'abbiate colta in iscambio, chè, quanto è io, non mi ricordo che io vi vedessi giammai.
Disse messer Ricciardo:
- Guarda ciò.
che tu dì, guatami bene; se tu ti vorrai bene ricordare, tu vedrai bene che io sono il tuo Ricciardo di Chinzica.
La donna disse:
- Messere, voi mi perdonerete, forse non è egli così onesta cosa a me, come voi v'imaginate, il molto guardarvi, ma io v'ho nondimeno tanto guardato, che io conosco che io mai più non vi vidi.
Imaginossi messer Ricciardo che ella questo facesse per tema di Paganino, di non volere in sua presenza confessare di conoscerlo; per che, dopo alquanto, chiese di grazia a Paganino che in camera solo con esso lei le potesse parlare.
Paganin disse che gli piacea, sì veramente che egli non la dovesse contra suo piacere baciare; e alla donna comandò che con lui in camera andasse e udisse ciò che egli volesse dire, e come le piacesse gli rispondesse.
Andatisene adunque in camera la donna e messer Ricciardo soli, come a seder si furon posti, incominciò messer Ricciardo a dire:
- Deh, cuor del corpo mio, anima mia dolce, speranza mia, or non riconosci tu Ricciardo tuo che t'ama più che sé medesimo? Come può questo essere? Son io così trasfigurato? Deh, occhio mio bello, guatami pure un poco.
La donna incominciò a ridere e, senza lasciarlo dir più, disse:
- Ben sapete che io non sono sì smimorata, che io non conosca che voi siete messer Ricciardo di Chinzica mio marito; ma voi, mentre che io fu'con voi, mostraste assai male di conoscer me, per ciò che se voi eravate savio o sete, come volete esser tenuto, dovavate bene aver tanto conoscimento, che voi dovavate vedere che io era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente conoscere quello che alle giovani donne, oltre al vestire e al mangiar, bene che elle per vergogna nol dicano, si richiede; il che come voi il faciavate? voi il vi sapete.
E s'egli v'era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovavate pigliarla; benché a me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un banditore di sagre e di feste, sì ben le sapavate, e le digiune e le vigilie.
E dicovi che se voi aveste tante feste fatte fare a' lavoratori che le vostre possessioni lavorano, quante faciavate fare a colui che il mio piccol campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai ricolto granello di grano.
Sonmi abbattuta a costui che ha voluto Iddio, sì come pietoso ragguardatore della mia giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella qual non si sa che cosa festa sia (dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a' servigi delle donne, cotante celebravate), né mai dentro a quello uscio entrò né sabato né venerdì né vigilia né quattro tempora né quaresima, ch'è così lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e battecisi la lana; e poi che questa notte sonò mattutino, so bene come il fatto andò da una volta in su.
E però con lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane; e le feste e le perdonanze e i digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi colla buona ventura sì ve n'andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste quante vi piace.
Messer Ricciardo, udendo queste parole, sosteneva dolore incomportabile, e disse, poi che lei tacer vide:
- Deh, anima mia dolce, che parole son quelle che tu dì? Or non hai tu riguardo all'onore de' parenti tuoi e al tuo? Vuo'tu innanzi star qui per bagascia di costui e in peccato mortale, che a Pisa mia moglie? Costui, quando tu gli sarai rincresciuta, con gran vitupero di te medesima ti caccerà via; io t'avrò sempre cara, e sempre, ancora che io non volessi, sarai donna della casa mia.
Dei tu per questo appetito disordinato e disonesto lasciar l'onor tuo e me, che t'amo più che la vita mia? Deh, speranza mia cara, non dir più così, voglitene venir con meco; io da quinci innanzi, poscia che io conosco il tuo disidero, mi sforzerò; e però, ben mio dolce, muta consiglio e vientene meco, ché mai ben non sentii poscia che tu tolta mi fosti.
A cui la donna rispose:
- Del mio onore non intendo io che persona, ora che non si può, sia più di me tenera; fossonne stati i parenti miei quando mi diedero a voi! li quali se non furono allora del mio, io non intendo d'essere al presente del loro; e se io ora sto in peccato mortaio, io starò quando che sia in peccato pestello: non ne siate più tenero di me.
E dicovi così, che qui mi pare esser moglie di Paganino, e a Pisa mi pareva esser vostra bagascia, pensando che per punti di luna e per isquadri di geometria si convenivano tra voi e me congiugnere i pianeti, dove qui Paganino tutta la notte mi tiene in braccio e strignemi e mordemi, e come egli mi conci Iddio ve 'l dica per me.
Anche dite voi che vi sforzerete: e di che? di farla in tre pace, e rizzare a mazzata? Io so che voi siete divenuto un prò cavaliere poscia che io non vi vidi.
Andate, e sforzatevi di vivere; ché mi pare anzi che no che voi ci stiate a pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete.
E ancor vi dico più, che quando costui mi lascerà (ché non mi pare a ciò disposto, dove io voglia stare), io non intendo per ciò di mai tornare a voi, di cui, tutto premendovi, non si farebbe uno scodellin di salsa; per ciò che con mio grandissimo danno e interesse vi stetti una volta; per che in altra parte cercherei mia civanza.
Di che da capo vi dico che qui non ha festa né vigilia; laonde io intendo di starmi; e per ciò, come più tosto potete, v'andate con Dio, se non che io griderò che voi mi vogliate sforzare.
Messer Ricciardo, veggendosi a mal partito e pure allora conoscendo la sua follia d'aver moglie giovane tolta essendo spossato, dolente e tristo s'uscì della camera e disse parole assai a Paganino, le quali non montarono un frullo.
E ultimamente, senza alcuna cosa aver fatta, lasciata la donna, a Pisa si ritornò, e in tanta mattezza per dolor cadde che, andando per Pisa, a chiunque il salutava o d'alcuna cosa il domandava, niuna altra cosa rispondeva se non: - Il mal foro non vuol festa; - e dopo non molto tempo si morì.
Il che Paganin sentendo, e conoscendo l'amore che la donna gli portava, per sua legittima moglie la sposò, e senza mai guardar festa o vigilia o fare quaresima, quanto le gambe ne gli poteron portare, lavorarono e buon tempo si diedono.
Per la qual cosa, donne mie care, mi pare che ser Bernabò disputando con Ambrogiuolo cavalcasse la capra in verso il chino.
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Conclusione
Questa novella diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che niun ve n'era a cui non dolessero le mascelle, e di pari consentimento tutte le donne dissono che Dioneo diceva vero e che Bernabò era stato una bestia.
Ma, poi che la novella fu finita e le risa ristate, avendo la reina riguardato che l'ora era omai tarda, e che tutti avean novellato, e la fine della sua signoria era venuta, secondo il cominciato ordine, trattasi la ghirlanda di capo, sopra la testa la pose di Neifile con lieto viso dicendo:
- Omai, cara compagna, di questo piccol popolo il governo sia tuo; - e a seder si ripose.
Neifile del ricevuto onore un poco arrossò e tal nel viso divenne qual fresca rosa d'aprile o di maggio in su lo schiarir del giorno si mostra, con gli occhi vaghi e scintillanti, non altramenti che mattutina stella, un poco bassi.
Ma poi che l'onesto romor de' circustanti, nel quale il favor loro verso la reina lietamente mostravano, si fu riposato ed ella ebbe ripreso l'animo, alquanto più alta che usata non era sedendo, disse:
- Poiché così è che io vostra reina sono, non dilungandomi dalla maniera tenuta per quelle che davanti a me sono state, il cui reggimento voi ubbidendo commendato avete, il parer mio in poche parole vi farò manifesto, il quale, se dal vostro consiglio sarà commendato, quel seguiremo.
Come voi sapete, domane è venerdì e il seguente dì sabato, giorni, per le vivande le quali s'usano in quegli, al quanto tediosi alle più genti; senza che 'l venerdì, avendo riguardo che in esso Colui che per la nostra vita morì sostenne passione, è degno di reverenza; per che giusta cosa e molto onesta reputerei, che, ad onor d'lddio, più tosto ad orazioni che a novelle vacassimo.
E il sabato appresso usanza è delle donne di lavarsi la testa e di tor via ogni polvere, ogni sì a pieno in quel dì l'ordine da noi preso nel vivere seguitare, similmente stimo sia ben fatto, quel dì del novellare ci posiamo.
Appresso, per ciò che noi qui quattro dì dimorate saremo, se noi vogliam tor via che gente nuova non ci sopravvenga, reputo opportuno di mutarci di qui e andarne altrove, e il dove io ho già pensato e proveduto.
Quivi quando noi saremo domenica appresso dormire adunati, avendo noi oggi avuto assai largo spazio da discorrere ragionando, sì perché più tempo da pensare avrete, e sì perché sarà ancora più bello che un poco si ristringa del novellare la licenzia e che sopra uno de' molti fatti della Fortuna si dica, ì ho pensato che questo sarà, di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse.
Sopra che ciascun pensi di dire alcuna cosa che alla brigata esser possa utile o almeno dilettevole, salvo sempre il privilegio di Dioneo.
Ciascun commendò il parlare e il diviso della reina, e così statuiron che fosse.
La quale appresso questo, fattosi chiamare il suo siniscalco, dove metter dovesse la sera le tavole, e quello appresso che far dovesse in tutto il tempo delta sua signoria pienamente gli divisò, e cosi fatto, in piè dirizzata colla sua brigata, a far quello che più piacesse a ciascuno gli licenziò.
Presero adunque le donne e gli uomini inverso un giardinetto la via, e quivi, poi che alquanto diportati si furono, l'ora della cena venuta, con festa e con piacer cenarono e da quella levati, come alla reina piacque, menando Emilia la carola, la seguente canzone da Pampinea, rispondendo l'altre, fu cantanta:
Qual donna canterà, s'i'non cant'io,
che son contenta d'ogni mio disio?
Vien dunque, Amor, cagion d'ogni mio bene,
d'ogni speranza e d'ogni lieto effetto;
cantiamo insieme un poco,
non de' sospir né delle amare pene
ch'or più dolce mi fanno il tuo diletto,
ma sol del chiaro foco,
nel quale ardendo in festa vivo e 'n gioco,
te adorando, come un mio iddio.
Tu mi ponesti innanzi agli occhi, Amore,
il primo dì ch'io nel tuo foco entrai,
un giovinetto tale,
che di biltà d'ardir, né di valore
non se ne troverebbe un maggior mai,
né pure a lui eguale:
di lui m'accesi tanto, che aguale
lieta ne canto teco, signor mio
E quel che 'n questo m'è sommo piacere,
è ch'io gli piaccio quanto egli a me piace,
Amor, la tua merzede;
perché in questo mondo il mio volere
posseggo, e spero nell'altro aver pace
per quella intera fede
che io gli porto.
Iddio che questo vede,
del regno suo ancor ne sarà pio.
Appresso questa, più altre se ne cantarono e più danze si fecero e sonarono diversi suoni.
Ma, estimando la reina tempo esser di doversi andare a posare, co' torchi avanti ciascuno alla sua camera se n'andò; e li due dì seguenti a quelle cose vacando che prima la reina aveva ragionate, con disiderio aspettarono la domenica.
Finisce la seconda giornata del Decameron
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Terza Giornata
Introduzione alla terza giornata
Novella prima
Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.
Novella seconda
Un pallafrenier giace con la moglie d'Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s'accorge; truovalo e tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.
Novella terza
Sotto spezie di confessione e di purissima conscienza una donna innamorata d'un giovane induce un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che 'l piacer di lei avesse intero effetto.
Novella quarta
Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.
Novella quinta
Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla alla sua donna ed, ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua risposta poi l'effetto segue.
Novella sesta
Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata.
Novella settima
Tedaldo, turbato con una sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo; parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il ma ito di lei da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co' fratelli il pacefica; e poi saviamente colla sua donna si gode.
Novella ottava
Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e dall'abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella moglie di lui generato.
Novella nona
Giletta di Nerbona guerisce il re di Francia d'una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui ed ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la tenne.
Novella decima
Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.
Conclusione della terza giornata
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Introduzione
Incomincia la terza giornata nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse.
L'aurora già di vermiglia cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia, quando la domenica la reina levata e fatta tutta la sua compagnia levare, e avendo già il siniscalco gran pezzo davanti mandato al luogo dove andar doveano assai delle cose opportune e chi quivi preparasse quello che bisognava, veggendo già la reina in cammino, prestamente fatta ogn'altra cosa caricare, quasi quindi il campo levato, colla salmeria n'andò e colla famiglia rimasa appresso delle donne e de' signori.
La reina adunque con lento passo, accompagnata e seguita dalle sue donne e dai tre giovani, alla guida del canto di forse venti usignuoli e altri uccelli, per una vietta non troppo usata, ma piena di verdi erbette e di fiori, li quali per lo sopravvegnente sole tutti s'incominciavano ad aprire, prese il cammino verso l'occidente, e cianciando e motteggiando e ridendo colla sua brigata, senza essere andata oltre a dumilia passi, assai avanti che mezza terza fosse ad un bellissimo e ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un poggetto era posto, gli ebbe condotti.
Nel quale entrati e per tutto andati, e avendo le gran sale, le pulite e ornate camere compiutamente ripiene di ciò che a camera s'appartiene, sommamente il commendarono e magnifico reputarono il signor di quello.
Poi, a basso discesi, e veduta l'ampissima e lieta corte di quello, le volte piene d'ottimi vini e la freddissima acqua e in gran copia che quivi surgea, più ancora il lodarono.
Quindi, quasi di riposo vaghi, sopra una loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei fiori che concedeva il tempo e di frondi, postisi a sedere, venne il discreto siniscalco, e loro con preziosissimi confetti e ottimi vini ricevette e riconfortò.
Appresso la qual cosa, fattosi aprire un giardino che di costa era al palagio, in quello, che tutto era dattorno murato, se n'entrarono; e parendo loro nella prima entrata di maravigliosa bellezza tutto insieme, più attentamente le parti di quello cominciarono a riguardare.
Esso avea dintorno da sé e per lo mezzo in assai parti vie ampissime; tutte diritte come strale e coperte di pergolati di viti, le quali facevan gran vista di dovere quello anno assai uve fare; e tutte allora fiorite sì grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato insieme con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, pareva loro essere tra tutta la spezieria che mai nacque in oriente; le latora delle quali vie tutte di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse; per le quali cose, non che la mattina, ma qualora il sole era più alto, sotto odorifera e dilettevole ombra, senza esser tocco da quello, vi si poteva per tutto andare.
Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano in quel luogo, lungo sarebbe a raccontare; ma niuna n'è laudevole, la quale il nostro aere patisca, di che quivi non sia abondevolmente.
Nel mezzo del quale (quello che è non men commendabile che altra cosa che vi fosse, ma molto più), era un prato di minutissima erba e verde tanto che quasi nera parea, dipinto tutto forse di mille varietà di fiori, chiuso dintorno di verdissimi e vivi aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti e i nuovi e i fiori ancora, non solamente piacevole ombra agli occhi, ma ancora all'odorato facevan piacere.
Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli.
Iv'entro, non so se da natural vena o da artificiosa, per una figura la quale sopra una colonna che nel mezzo di quella diritta era, gittava tanta acqua e sì alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol suono nella fonte chiarissima ricadea, che di meno avria macinato un mulino.
La qual poi (quella dico che soprabbondava al pieno della fonte) per occulta via del pratello usciva e, per canaletti assai belli e artificiosamente fatti, fuori di quello divenuta palese, tutto lo 'ntorniava; e quindi per canaletti simili quasi per ogni parte del giardin discorrea, raccogliendosi ultimamente in una parte dalla quale del bel giardino avea l'uscita, e quindi verso il pian discendendo chiarissima, avanti che a quel divenisse, con grandissima forza e con non piccola utilità del signore, due mulina volgea.
Il veder questo giardino, il suo bello ordine, le piante la e la fontana co' ruscelletti procedenti da quella, tanto piacque a ciascuna donna e a' tre giovani che tutti cominciarono ad affermare che, se Paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere.
Andando adunque contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami d'albori ghirlande bellissime, tuttavia udendo forse venti maniere di canti d'uccelli quasi a pruova l'un dell'altro cantare, s'accorsero d'una dilettevol bellezza, della quale, dall'altre soprappresi, non s'erano ancora accorti; ché essi videro il giardin pieno forse di cento varietà di belli animali, e l'uno all'altro mostrandolo, d'una parte uscir conigli, d'altra parte correr lepri, e dove giacer cavriuoli, e in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo, e, oltre a questi, altre più maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi dimestichi, andarsi a sollazzo; le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie maggior piacere aggiunsero.
Ma poi che assai, or questa cosa or quella veggendo, andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter le tavole, e quivi prima sei canzonette cantate e alquanti balli fatti, come alla reina piacque, andarono a mangiare, e con grandissimo e bello e riposato ordine serviti, e di buone e dilicate vivande, divenuti più lieti su si levarono, e a' suoni e a' canti e a' balli da capo si dierono, infino che alla reina, per lo caldo sopravvegnente, parve ora che, a cui piacesse, s'andasse a dormire.
De' quali chi vi andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle, ma, quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a tavole, mentre gli altri dormiron, si diede.
Ma, poi che, passata la nona, ciascuno levato si fu, e il viso colla fresca acqua rinfrescato s'ebbero, nel prato, sì come alla reina piacque, vicini alla fontana venutine, e in quello secondo il modo usato postisi a sedere, ad aspettar cominciarono di dover novellare sopra la materia dalla reina proposta.
De' quali il primo a cui la reina tal carico impose fu Filostrato, il quale cominciò in questa guisa.
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Novella Prima
Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.
Bellissime donne, assai sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e in dosso messale la nera cocolla, che ella più non sia femina né più senta de' feminili appetiti se non come se di pietra l'avesse fatta divenire il farla monaca; e se forse alcuna cosa contra questa lor credenza n'odono, così si turbano come se contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso, non pensando né volendo aver rispetto a sé medesimi, li quali la piena licenzia di poter far quel che vogliono non può saziare, né ancora alle gran forze dell'ozio e della solitudine.
E similmente sono ancora di quegli assai che credono troppo bene che la zappa e la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto a' lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d'intelletto e d'avvedimento grossissimi.
Ma quanto tutti coloro che così credono sieno ingannati, mi piace, poi che la reina comandato me l'ha, non uscendo della proposta fatta da lei, di farvene più chiare con una piccola novelletta.
In queste nostre contrade fu, ed è ancora, un monistero di donne assai famoso di santità (il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua), nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto donne con una badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d'un loro bellissimo giardino ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua col castaldo delle donne, a Lamporecchio, là ond'egli era, se ne tornò.
Quivi, tra gli altri che lietamente il raccolsono, fu un giovane lavoratore forte e robusto e, secondo uom di villa, con bella persona e con viso assai piacevole, il cui nome era Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse.
Il buono uomo, che Nuto avea nome, gliele disse.
Il quale Masetto domandò, di che egli il monistero servisse.
A cui Nuto rispose:
- Io lavorava un loro giardino bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti; ma le donne mi davano sì poco salaro, che io non ne potevo appena pure pagare i calzari.
E, oltre a questo, elle son tutte giovani e parmi ch'elle abbiano il diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quand'io lavorava alcuna volta l'orto, l'una diceva: - Pon qui questo; - e l'altra: - Pon qui quello; - e l'altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: - Questo non sta bene; - e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e uscivami dell'orto; sì che, tra per l'una cosa e per l'altra, io non vi volli star più e sonmene venuto.
Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che, se io n'avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi; ma tanto il faccia Dio san delle reni, quanto io o ne procaccerò o ne gli manderò niuno.
A Masetto, udendo egli le parole di Nuto, venne nell'animo un disidero sì grande d'esser con queste monache, che tutto se ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir fatto di quello che egli disiderava.
E avvisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse:
- Deh come ben facesti a venirtene! Che è un uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio a star con diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse.
Ma poi, partito il lor ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere potere esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi esser ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente.
Per che, molte cose divisate seco, imaginò: - Il luogo è assai lontano di qui e niuno mi vi conosce; se io so far vista d'esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto.
- E in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire ad alcuno dove s'andasse, in guisa d'un povero uomo se n'andò al monistero; dove pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte; al quale faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per l'amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne.
Il castaldo gli diè da mangiar volentieri, e appresso questo gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non avea potuto spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d'ora ebbe tutti spezzati.
Il castaldo, che bisogno avea d'andare al bosco, il menò seco, e quivi gli fece tagliate delle legne; poscia, messogli l'asino innanzi, con suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse.
Costui il fece molto bene, per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo più giorni vel tenne.
De quali avvenne che uno dì la badessa il vide, e domandò il castaldo chi egli fosse.
Il quale le disse:
- Madonna, questi è un povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci venne per limosina, sì che io gli ho fatto bene, e hogli fatte fare assai cose che bisogno c'erano.
Se egli sapesse lavorar l'orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n'avremmo buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed egli è forte e potrebbene l'uom fare ciò che volesse; e, oltre a questo, non vi bisognerebbe d'aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre giovani.
A cui la badessa disse:
- In fè di Dio tu di'il vero.
Sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo; dagli qualche paio di scarpette qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare.
Il castaldo disse di farlo.
Masetto non era guari lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e seco lieto diceva: - Se voi mi mettete costà entro, io vi lavorrò sì l'orto che mai non vi fu così lavorato.
-
Ora, avendo il castaldo veduto che egli ottimamente sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli voleva star quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva ciò che egli volesse, avendolo ricevuto, gl'impose che egli l'orto lavorasse e mostrogli quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e lui lasciò.
Il quale lavorando l'un dì appresso l'altro, le monache incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa de' mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non credendo da lui essere intese; e la badessa, che forse estimava che egli così senza coda come senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava.
Or pure avvenne che costui un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovinette monache, che per lo giardino andavano, s'appressarono là dove egli era, e lui che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare.
Per che l'una, che alquanto era più baldanzosa, disse all'altra:
- Se io credessi che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il quale forse anche a te potrebbe giovare.
L'altra rispose:
- Di'sicuramente, ché per certo io nol dirò mai a persona.
Allora la baldanzosa incominciò:
- Io non so se tu t'hai posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa entrare, se non il castaldo ch'è vecchio e questo mutolo; e io ho più volte a più donne, che a noi son venute, udito dire che tutte l'altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l'uomo.
Per che io m'ho più volte messo in animo, poiché con altrui non posso, di volere con questo mutolo provare se così è.
Ed egli è il miglior del mondo da ciò costui; ché, perché egli pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire.
Tu vedi ch'egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno; volentieri udirei quello che a te ne pare.
- Ohimè, - disse l'altra - che è quello che tu di'? Non sai tu che noi abbiam promesso la virginità nostra a Dio?
- O, - disse colei - quante cose gli si promettono tutto 'l dì, che non se ne gli attiene niuna! se noi gliele abbiam promessa, truovisi un'altra o dell'altre che gliele attengano.
A cui la compagna disse:
- O se noi ingravidassimo, come andrebbe il fatto?
Quella allora disse:
- Tu cominci ad aver pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si vorrà pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì che mai non si saprà, pur che noi medesime nol diciamo.
Costei, udendo ciò, avendo già maggior voglia che l'altra di provare che bestia fosse l'uomo, disse:
- Or bene, come faremo?
A cui colei rispose:
- Tu vedi ch'egli è in su la nona; io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi; guatiam per l'orto se persona ci è, e s'egli non ci è persona, che abbiam noi a fare se non a pigliarlo per mano e menarlo in questo capannetto, là dove egli fugge l'acqua; e quivi l'una si stea dentro con lui e l'altra faccia la guardia? Egli è sì sciocco, che egli s'acconcerà comunque noi vorremo.
Masetto udiva tutto questo ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l'esser preso dall'una di loro.
Queste, guardato ben per tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si levò in piè.
Per che costei con atti lusinghevoli presolo per la mano, ed egli faccendo cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fe ce che ella volle.
La quale, sì come leale compagna, avuto quel che volea, diede all'altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere.
Per che avanti che quindi si dipartissono, da una volta in su ciascuna provar volle come il mutolo sapea cavalcare; e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa, e più, come udito aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s'andavano a trastullare.
Avvenne un giorno che una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto avvedutasi, a due altre il mostrò.
E prima tennero ragionamento insieme di doverle accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e con loro accordatesi, partefici divennero del podere di Masetto.
Alle quali l'altre tre per diversi accidenti divenner compagne in vari tempi.
Ultimamente la badessa, che ancora di queste cose non s'accorgea, andando un dì tutta sola per lo giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto (il qual di poca fatica il dì, per lo troppo cavalcar della notte, aveva assai) tutto disteso al l'ombra d'un mandorlo dormirsi, e avendogli il vento i panni dinanzi levati indietro, tutto stava scoperto.
La qual cosa riguardando la donna, e sola vedendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le sue monacelle; e, destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l'ortolano non venia a lavorar l'orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual essa prima all'altre solea biasimare.
Ultimamente della sua camera alla stanza di lui rimandatolne, e molto spesso rivolendolo, e oltre a ciò più che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a tante, s'avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran danno resultare.
E perciò una notte colla badessa essendo, rotto lo scilinguagnolo, cominciò a dire:
- Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che dieci uomini possono male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove, al che per cosa del mondo io non potrei durare; anzi son io, per quello che infino a qui ho fatto, a tal venuto che io non posso far né poco né molto; e perciò o voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo.
La donna udendo costui parlare, il quale ella teneva mutolo, tutta stordì, e disse:
- Che è questo? Io credeva che tu fossi mutolo.
- Madonna, - disse Masetto - io era ben così, ma non per natura, anzi per una infermità che la favella mi tolse, e solamente da prima questa notte la mi sento essere restituita, di che io lodo Iddio quant'io posso.
La donna sel credette, e domandollo che volesse dir ciò che egli a nove aveva a servire.
Masetto le disse il fatto.
Il che la badessa udendo, s'accorse che monaca non avea che molto più savia non fosse di lei; per che, come discreta, senza lasciar Masetto partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti, acciò che da Masetto non fosse il monistero vituperato.
Ed essendo di que'dì morto il lor castaldo, di pari consenatimento, apertosi tra tutte ciò che per addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che le genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e per gli meriti del santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo, la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero; e per sì fatta maniera le sue fatiche partirono, che egli le poté comportare.
Nelle quali, come che esso assai monachin generasse, pur sì discretamente procedette la cosa che niente se ne sentì se non dopo la morte della badessa, essendo già Masetto presso che vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa; la qual cosa saputa, di leggier gli fece venir fatto.
Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver fatica di nutricar figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito s'era se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra 'l cappello.
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Novella Seconda
Un pallafrenier giace con la moglie d'Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s'accorge; truovalo e tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.
Essendo la fine venuta della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne arrossate e alcun'altra se ne avevan riso, piacque alla reina che Pampinea novellando seguisse.
La quale, con ridente viso incominciando, disse.
Sono alcuni sì poco discreti nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire quello che per lor non fa di sapere, che alcuna volta per questo riprendendo i disavveduti difetti in altrui, si credono la loro vergogna scemare, dove essi l'accrescono in infinito; e che ciò sia vero, nel suo contrario mostrandovi l'astuzia d'un forse di minor valore tenuto che Masetto, nel senno d'un valoroso re, vaghe donne, intendo che per me vi sia dimostrato.
Agilulf re de' longobardi, sì come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia città di Lombardia fermò il solio del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d'Autari re stato similmente de' longobardi, la quale fu bellissima donna, savia e onesta molto, ma male avventurata in amadore.
Ed essendo alquanto per la virtù e per lo senno di questo re Agilulf le cose de' longobardi prospere e in quiete, avvenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione di vilissima condizione, ma per altro da troppo più che da così vil mestiere, e della persona bello e grande così come il re fosse, senza misura della reina s'innamorò.
E per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non conoscesse questo suo amore esser fuor d'ogni convenienza, sì come savio, a niuna persona il palesava, né eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo.
E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri; e, come colui che tutto ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogn'altro de' suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere.
Per che interveniva che la reina, dovendo cavalcare, più volentieri il palla freno da costui guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui in grandissima grazia sel reputava; e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva.
Ma, come noi veggiamo assai sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore tanto l'amor maggior farsi, così in questo povero pallafreniere avvenia, in tanto che gravissimo gli era il poter comportare il gran disio così nascoso come facea, non essendo da alcuna speranza atato; e più volte seco, da questo amor non potendo disciogliersi, diliberò di morire.
E pensando seco del modo, prese per partito di voler questa
morte per cosa per la quale apparisse lui morire per lo amore che alla reina aveva portato e portava; e questa cosa propose di voler che tal fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver del suo disidero.
Né si fece a voler dir parole alla reina o a voler per lettere far sentire il suo amore, ché sapeva che in vano o direbbe o scriverrebbe; ma a voler provare se per ingegno colla reina giacer potesse.
Né altro ingegno né via c'era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera entrare.
Per che, acciò che vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a lei andava, andasse, più volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra la camera del re e quella della reina, si nascose; e in tra l'altre una notte vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran mantello e aver dall'una mano un torchietto acceso e dall'altra una bacchetta, e andare alla camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o due l'uscio della camera con quella bacchetta, e incontanente essergli aperto e toltogli di mano il torchietto.
La qual cosa venuta, e similmente vedutolo ritornare, pensò di così dover fare egli altressì; e trovato modo d'avere un mantello simile a quello che al re veduto avea e un torchietto e una mazzuola, e prima in una stufa lavatosi bene, acciò che non forse l'odore del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello inganno, con queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose.
E sentendo che già per tutto si dormia, e tempo parendogli o di dovere al suo disiderio dare effetto o di far via con alta cagione alla bramata morte, fatto colla pietra e collo acciaio che seco portato avea un poco di fuoco, il suo torchietto accese, e chiuso e avviluppato nel mantello se n'andò all'uscio della camera e due volte il percosse colla bacchetta.
La camera da una cameriera tutta sonnochiosa fu aperta, e il lume preso e occultato; laonde egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il mantello, se n'entrò nel letto nel quale la reina dormiva.
Egli disiderosamente in braccio recatalasi, mostrandosi turbato (per ciò che costume del re esser sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire), senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina cognobbe.
E come che grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa stanza gli fosse cagione di volgere l'avuto diletto in tristizia, si levò, e ripreso il suo mantello e il lume, senza alcuna cosa dire se n'andò , e come più tosto potè si tornò al letto suo.
Nel quale appena ancora esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di che ella si maravigliò forte; ed essendo egli nel letto entrato e lietamente salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse:
- O signor mio, questa che novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me; e oltre l'usato modo di me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate.
Il re, udendo queste parole, subitamente presunse la reina da similitudine di costumi e di persona essere stata ingannata; ma, come savio, subitamente pensò, poi vide la reina accorta non se n'era né alcuno altro, di non volernela fare accorgere.
Il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: - Io non ci fu'io, chi fu colui che ci fu? come andò? chi ci venne? - Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datole materia di disiderare altra volta quello che già sentito avea; e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s'arebbe vitupero recato.
Risposele adunque il re, più nella mente che nel viso o che nelle parole turbato:
- Donna, non vi sembro io uomo da poterci altra volta essere stato e ancora appresso questa tornarci?
A cui la donna rispose:
- Signor mio, sì; ma tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute.
Allora il re disse:
- Ed egli mi piace di seguire il vostro consiglio; e questa volta senza darvi più impaccio me ne vo'tornare.
E avendo l'animo già pieno d'ira e di mal talento, per quello che vedeva gli era stato fatto, ripreso il suo mantello, s'uscì della camera e pensò di voler chetamente trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere, e qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire.
Preso adunque un picciolissimo lume in una lanternetta, se n'andò in una lunghissima casa che nel suo palagio era sopra le stalle de' cavalli, nella quale quasi tutta la sua famiglia in diversi letti dormiva; ed estimando che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse ancora il polso e 'l battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente, cominciato dall'uno de' capi della casa, a tutti cominciò ad andare toccando il petto per sapere se gli battesse.
Come che ciascuno altro dormisse forte, colui che colla reina stato era non dormiva ancora; per la qual cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte cominciò a temere tanto che sopra il battimento della fatica avuta la paura n'aggiunse un maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di ciò s'avvedesse, senza indugio il facesse morire.
E come che varie cose gli andasser per lo pensiero di doversi fare, pur vedendo il re senza alcuna arme, diliberò di far vista di dormire e d'attender quello che il re far dovesse.
Avendone adunque il re molti cerchi né alcuno trovandone il quale giudicasse essere stato desso, pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse: - Questi è desso.
- Ma, sì come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un paio di forficette, le quali portate avea, gli tondè alquanto dal l'una delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi, acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì, e tornossi alla camera sua.
Costui, che tutto ciò sentito avea, sì come colui che malizioso era, chiaramente s'avvisò per che così segnato era stato; là onde egli senza alcuno aspettar si levò, e trovato un paio di forficette, delle quali per avventura v'erano alcun paio per la stalla per lo servigio de' cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa ne giacevano, a tutti in simil maniera sopra l'orecchie tagliò i capelli; e ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire.
Il re levato la mattina, comandò che avanti che le porti del palagio s'aprissono tutta la sua famiglia gli venisse davanti; e così fu fatto.
Li quali tutti, senza alcuna cosa in capo davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere il tonduto da lui; e veggendo la maggior parte di loro co' capelli ad un medesimo modo tagliati, si maravigliò, e disse seco stesso: - Costui, il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d'essere d'alto senno.
- Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel ch'egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola d'ammonirlo e dimostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; e a tutti rivolto disse:
- Chi 'l fece nol faccia mai più, e andatevi con Dio.
Un altro gli averebbe voluti far collare, martoriare, esaminare, e domandare; e ciò facendo, avrebbe scoperto quello che ciascun dee andar cercando di ricoprire; ed essendosi scoperto, ancora che intera vendetta n'avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n'avrebbe la sua vergogna, e contaminata l'onestà della donna sua.
Coloro che quella parola udirono si maravigliarono e lungamente fra sé esaminarono che avesse il re voluto per quella dire; ma niuno ve ne fu che la 'ntendesse se non colui solo a cui toccava.
Il quale, sì come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né più la sua vita in sì fatto atto commise alla fortuna.
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Novella Terza
Sotto spezie di confessione e di purissima conscienza una donna innamorata d'un giovane induce un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che 'l piacer di lei avesse intero effetto.
Taceva già Pampinea, e l'ardire e la cautela del pallafreniere era dà più di loro stata lodata, e similmente il senno del re, quando la reina, a Filomena voltatasi, le 'mpose il seguitare; per la qual cosa Filomena vezzosamente così incominciò a parlare.
Io intendo di raccontarvi una beffe che fu da dovero fatta da una bella donna ad uno solenne religioso, tanto più ad ogni secolar da piacere, quanto essi, il più stoltissimi e uomini di nuove maniere e costumi, si credono più che gli altri in ogni cosa valere e sapere, dove essi di gran lunga sono da molto meno, sì come quegli che per viltà d'animo non avendo argomento, come gli altri uomini, di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar come il porco.
La quale, o piacevoli donne, io racconterò non solamente per seguire l'ordine imposto, ma ancora per farvi accorte che eziandio i religiosi, à quali noi, oltre modo credule, troppa fede prestiamo, possono essere e sono alcuna volta, non che dagli uomini, ma da alcuna di noi cautamente beffati.
Nella nostra città, più d'inganni piena che d'amore o di fede, non sono ancora molti anni passati, fu una gentil donna di bellezze ornata e di costumi, d'altezza d'animo e di sottili avvedimenti quanto alcun'altra dalla natura dotata, il cui nome, né ancora alcuno altro che alla presente novella appartenga, come che io gli sappia, non intendo di palesare, per ciò che ancora vivono di quegli che per questo si caricherebber di sdegno, dove di ciò sarebbe con risa da trapassare.
Costei adunque, d'alto legnaggio veggendosi nata e maritata ad uno artefice lanaiuolo, per ciò che ricchissimo era, non potendo lo sdegno dell'animo porre in terra, per lo quale estimava niuno uomo di bassa condizione, quantunque ricchissimo fosse, esser di gentil donna degno; e veggendo lui ancora con tutte le sue ricchezze da niuna altra cosa essere più avanti che da saper divisare un mescolato o fare ordire una tela o con una filatrice disputare del filato, propose di non volere de' suoi abbracciamenti in alcuna maniera se non in quanto negare non gli potesse; ma di volere a soddisfazione di sé medesima trovare alcuno, il quale più di ciò che il lanaiuolo le paresse che fosse degno, e innamorossi d'uno assai valoroso uomo e di mezza età, tanto che qual dì nol vedeva, non poteva la seguente notte senza noia passare.
Ma il valente uomo, di ciò non accorgendosi, niente ne curava; ed ella, che molto cauta era, né per ambasciata di femina né per lettera ardiva di fargliele sentire, temendo de' pericoli possibili ad avvenire.
Ed essendosi accorta che costui usava molto con un religioso, il quale, quantunque fosse tondo e grosso uomo, nondimeno, per ciò che di santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo frate fama, estimò costui dovere essere ottimo mezzano tra lei e il suo amante; e avendo seco pensato che modo tener dovesse, se n'andò a convenevole ora alla chiesa dove egli dimorava, e fattosel chiamare, disse, quando gli piacesse, da lui si volea confessare.
Il frate, vedendola, ed estimandola gentil donna, l'ascoltò volentieri; ed essa dopo la confessione disse:
- Padre mio, a me convien ricorrere a voi per aiuto e per consiglio di ciò che voi udirete.
Io so, come colei che detto ve l'ho, che voi conoscete i miei parenti e 'l mio marito, dal quale io sono più che la vita sua amata, né alcuna cosa disidero che da lui, sì come da ricchissimo uomo e che 'l può ben fare, io non l'abbia incontanente, per le quali cose io più che me stessa l'amo; e, lasciamo stare che io facessi, ma se io pur pensassi cosa niuna che contro al suo onore e piacer fosse, niuna rea femina fu mai del fuoco degna come sarei io.
Ora uno, del quale nel vero io non so il nome, ma per sona dabbene mi pare, e, se io non ne sono ingannata, usa molto con voi, bello e grande della persona, vestito di panni bruni assai onesti, forse non avvisandosi che io così fatta intenzione abbia come io ho, pare che m'abbia posto l'assedio, né posso farmi né ad uscio né a finestra, né uscir di casa, che egli incontanente non mi si pari innanzi; e maravigliom'io come egli non è ora qui; di che io mi dolgo forte, per ciò che questi così fatti modi fanno sovente senza colpa alle oneste donne acquistar biasimo.
Hommi posto in cuore di fargliele alcuna volta dire à miei fratelli; ma poscia m'ho pensato che gli uomini fanno alcuna volta l'ambasciate per modo che le risposte seguitan cattive, di che nascon parole e dalle parole si perviene à fatti; per che, acciò che male e scandalo non ne nascesse, me ne son taciuta, e diliberami di dirlo più tosto a voi che ad altrui, sì perché pare che suo amico siate, sì ancora perché a voi sta bene di così fatte cose, non che gli amici, ma gli strani ripigliare.
Per che io vi priego per solo Iddio che voi di ciò il dobbiate riprendere e pregare che più questi modi non tenga.
Egli ci sono dell'altre donne assai le quali per avventura son disposte a queste cose, e piacerà loro d'esser guatate e vagheggiate da lui, là dove a me è gravissima noia, sì come a colei che in niuno atto ho l'animo disposto a tal materia.
E detto questo, quasi lagrimar volesse, bassò la testa.
Il santo frate comprese incontanente che di colui dicesse di cui veramente diceva, e commendata molto la donna di questa sua disposizion buona, fermamente credendo quello esser vero che ella diceva, le promise d'operar sì e per tal modo che più da quel cotale non le sarebbe dato noia; e conoscendola ricca molto, le lodò l'opera della carità e della limosina, il suo bisogno raccontandole.
A cui la donna disse:
- Io ve ne priego per Dio; e s'egli questo negasse, sicuramente gli dite che io sia stata quella che questo v'abbia detto e siamevene doluta.
E quinci, fatta la confessione e presa la penitenza, ricordandosi de' conforti datile dal frate dell'opera della limosina, empiutagli nascosamente la man di denari, il pregò che messe dicesse per l'anima dei morti suoi; e dai piè di lui levatasi, a casa se ne tornò.
Al santo frate non dopo molto, sì come usato era, venne il valente uomo, col quale poi che d'una cosa e d'altra ebbero insieme alquanto ragionato, tiratol da parte, per assai cortese modo il riprese dello intendere e del guardare che egli credeva che esso facesse a quella donna, sì come ella gli aveva dato ad intendere.
Il valente uomo si maravigliò, sì come colui che mai guatata non l'avea e radissime volte era usato di passare davanti a casa sua, e cominciò a volersi scusare; ma il frate non lo lasciò dire, ma disse egli:
- Or non far vista di maravigliarti, né perder parole in negarlo, per ciò che tu non puoi; io non ho queste cose sapute dà vicini; ella medesima, forte di te dolendosi, me l'ha dette.
E quantunque a te queste ciance omai non ti stean bene, ti dico io di lei cotanto, che, se mai io ne trovai alcuna di queste sciocchezze schifa, ella è dessa; e per ciò, per onor di te e per consolazione di lei, ti priego te ne rimanghi e lascila stare in pace.
Il valente uomo, più accorto che 'l santo frate, senza troppo indugio la sagacità della donna comprese, e mostrando alquanto di vergognarsi, disse di più non intramettersene per innanzi; e dal frate partitosi, dalla casa n'andò della donna, la quale sempre attenta stava ad una picciola finestretta per doverlo vedere, se vi passasse.
E vedendol venire, tanto lieta e tanto graziosa gli si mostrò, che egli assai bene potè comprendere sé avere il vero compreso dalle parole del frate; e da quel dì innanzi assai cautamente, con suo piacere e con grandissimo diletto e consolazion della donna, faccendo sembianti che altra faccenda ne fosse cagione, continuò di passar per quella contrada.
Ma la donna, dopo alquanto già accortasi che ella a costui così piacea come egli a lei, disiderosa di volerlo più accendere e certificare dello amore che ella gli portava, preso luogo e tempo, al santo frate se ne tornò, e postaglisi nella chiesa a sedere à piedi, a piagnere incominciò.
Il frate, questo vedendo, la domandò pietosamente che novella ella avesse.
La donna rispose:
- Padre mio, le novelle che io ho non sono altre che di quel maledetto da Dio vostro amico, di cui io mi vi ramaricai l'altr'ieri, per ciò che io credo che egli sia nato per mio grandissimo stimolo e per farmi far cosa, che io non sarò mai lieta né mai ardirò poi di più pormivi a' piedi.
- Come! - disse il frate - non s'è egli rimaso di darti più noia?
- Certo no, - disse la donna - anzi, poi che io mi vene dolfi, quasi come per un dispetto, avendo forse avuto per male che io mi ve ne sia doluta, per ogni volta che passar vi solea, credo che poscia vi sia passato sette.
E or volesse Iddio che il passarvi e il guatarmi gli fosse bastato, ma egli è stato sì ardito e sì sfacciato, che pure ieri mi mandò una femina in casa con sue novelle e con sue frasche, e quasi come se io non avessi delle borse e delle cintole, mi mandò una borsa e una cintola; il che io ho avuto e ho sì forte per male, che io credo, se io non avessi guardato al peccato, e poscia per vostro amore, io avrei fatto il diavolo, ma pure mi son rattemperata, né ho voluto fare né dire cosa alcuna che io non vel faccia prima assapere.
E oltre a questo, avendo io già renduta indietro la borsa e la cintola alla feminetta che recata l'avea, che gliele riportasse, e brutto commiato datole, temendo che ella per sé non la tenesse e a lui; dicesse che io l'avessi ricevuta, sì com'io intendo che elle fanno alcuna volta, la richiamai indietro e piena di stizza gliele tolsi di mano e holla recata a voi, acciò che voi gliele rendiate e gli diciate che io non ho bisogno di sue cose per ciò che, la mercé di Dio e del marito mio io ho tante borse e tante cintole che io ve l'affogherei entro.
E appresso questo, sì come a padre mi vi scuso che, se egli di questo non si rimane, io il dirò al marito mio e a' fratei miei, e avvegnane che può; ché io ho molto più caro che egli riceva villania, se ricevere ne la dee, che io abbia biasimo per lui: frate, bene sta.
E detto questo, tuttavia piagnendo forte, si trasse di sotto alla guarnacca una bellissima e ricca borsa con una leggiadra e cara cinturetta, e gittolle in grembo al frate; il quale, pienamente credendo ciò che la donna diceva, turbato oltre misura le prese, e disse:
- Figliuola, se tu di queste cose ti crucci, io non me ne maraviglio né te ne so ripigliare; ma lodo molto che tu in questo seguiti il mio consiglio.
Io il ripresi l'altr'ieri, ed egli m'ha male attenuto quello che egli mi promise: per che, tra per quello e per questo che nuovamente fatto ha, io gli credo per sì fatta maniera riscaldare gli orecchi; che egli più briga non ti darà; e tu colla benedizion d'Iddio non ti lasciassi vincer tanto all'ira, che tu ad alcuno dei tuoi il dicessi, ché gli ne potrebbe troppo di mal seguire.
Né dubitar che mai di questo biasimo ti segua, ché io sarò sempre e dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini fermissimo testimonio della tua onestà.
La donna fece sembiante di riconfortarsi alquanto, e lasciate queste parole, come colei che l'avarizia sua e degli altri conoscea, disse:
- Messere, a queste notti mi sono appariti più miei parenti, e parmi che egli sieno in grandissime pene, e non domandino altro che limosine, e spezialmente la mamma mia, la quale mi pare sì afflitta e cattivella, che è una pietà a vedere.
Credo che ella porti grandissime pene di vedermi in questa tribulazione di questo nemico d'Iddio, e per ciò vorrei che voi mi diceste per l'anime loro le quaranta messe di san Grigorio e delle vostre orazioni, acciò che Iddio gli tragga di quel fuoco pennace; - e così detto, gli pose in mano un fiorino.
Il santo frate lietamente il prese, e con buone parole e con molti essempli confermò la divozion di costei e, datale la sua benedizione, la lasciò andare.
E partita la donna, non accorgendosi ch'egli era uccellato, mandò per l'amico suo; il qual venuto, e vedendol turbato, in contanente s'avvisò che egli avrebbe novelle dalla donna, e aspettò che dir volesse il frate.
Il quale, ripetendogli le parole altre volte dettegli e di nuovo ingiuriosamente e crucciato parlandogli, il riprese molto di ciò che detto gli avea la donna che egli doveva aver fatto.
Il valente uomo, che ancor non vedea a che il frate riuscir volesse, assai tiepidamente negava sé aver mandata la borsa e la cintura, acciò che al frate non togliesse fede di ciò, se forse data gliele avesse la donna.
Ma il frate, acceso forte, disse:
- Come il puo'tu negare, malvagio uomo? Eccole, ché ella medesima piagnendo me l'ha recate; vedi se tu le conosci! Il valente uomo, mostrando di vergognarsi forte, disse:
- Mai sì che io le conosco, e confessovi che io feci male, e giurovi che, poi che io così la veggio disposta, che mai di questo voi non sentirete più parola.
Ora le parole fur molte; alla fine il frate montone diede la borsa e la cintura allo amico suo, e dopo molto averlo ammaestrato e pregato che più a queste cose non attendesse, ed egli avendogliele promesso, il licenziò.
Il valente uomo, lietissimo e della certezza che aver gli parea dello amor della donna e del bel dono, come dal frate partito fu, in parte n'andò dove cautamente fece alla sua donna vedere che egli avea e l'una e l'altra cosa; di che la donna fu molto contenta, e più ancora per ciò che le parea che 'l suo avviso andasse di bene in meglio.
E niuna altra cosa aspettando se non che il marito andasse in alcuna parte per dare all'opera compimento, avvenne che per alcuna cagione non molto dopo a questo convenne al marito andare infino a Genova.
E come egli fu la mattina montato a cavallo e andato via, così la donna n'andò al santo frate e dopo molte querimonie piagnendo gli disse:
- Padre mio, or vi dico io bene che io non posso più sofferire; ma per ciò che l'altr'ieri io vi promisi di niuna cosa farne che io prima nol vi dicessi, son venuta ad iscusarmivi, e acciò che voi crediate che io abbia ragione e di piagnere e di ramaricarmi, io vi voglio dire ciò che 'l vostro amico, anzi dia volo del ninferno, mi fece stamane poco innanzi mattutino.
Io non so qual mala ventura gli facesse assapere che il marito mio andasse iermattina a Genova, se non che stamane, all'ora che io v'ho detta, egli entrò in un mio giardino e venne sene su per uno albero alla finestra della camera mia, la quale è sopra il giardino, e già aveva la finestra aperta e voleva nella camera entrare, quando io destatami subito mi levai, e aveva cominciato a gridare e per Dio e per voi, dicendomi chi egli era; laonde io, udendolo, per amor di voi tacqui, e ignuda come io nacqui corsi e serragli la finestra nel viso, ed egli nella sua mal'ora credo che se ne andasse, perciò che poi più nol sentii.
Ora, se questa è bella cosa ed è da sofferire, vedetel voi; io per me non intendo di più comportargliene, anzi ne gli ho io bene per amor di voi sofferte troppe.
Il frate, udendo questo, fu il più turbato uomo del mondo, e non sapeva che dirsi, se non che più volte la domandò se ella aveva ben conosciuto che egli non fosse stato altri.
A cui la donna rispose:
- Lodato sia Iddio, se io non conosco ancor lui da un altro! Io vi dico ch'e'fu egli, e perche'egli il negasse, non gliel credete.
- Figliuola, qui non ha altro da dire, se non che questo è stato troppo grande ardire e troppo mal fatta cosa, e tu facesti quello che far dovevi di mandarnelo come facesti.
Ma io ti voglio pregare, poscia che Iddio ti guardò di vergogna, che, come due volte seguito hai il mio consiglio, così ancora questa volta facci, cioè che senza dolertene ad alcuno tuo parente lasci fare a me, a vedere se io posso raffrenare questo diavolo scatenato, che io credeva che fosse un santo; e se io posso tanto fare che io il tolga da questa bestialità, bene sta; e se io non potrò, infino ad ora con la mia benedizione ti do la parola che tu ne facci quello che l'animo ti giudica che ben sia fatto.
- Ora ecco, - disse la donna - per questa volta io non vi voglio turbare né disubidire; ma sì adoperate che egli si guardi di più noiarmi, ché io vi prometto di non tornar più per questa cagione a voi; - e senza più dire, quasi turbata, dal frate si partì.
Né era appena ancor fuor della chiesa la donna, che il valente uomo sopravenne e fu chiamato dal frate, al quale, da parte tiratol, esso disse la maggior villania che mai ad uomo fosse detta, disleale e spergiuro e traditor chiamandolo.
Costui, che già due altre volte conosciuto avea che montavano i mordimenti di questo frate, stando attento, e con risposte perplesse ingegnandosi di farlo parlare, primieramente disse:
- Perché questo cruccio, messere? Ho io crocifisso Cristo?
A cui il frate rispose:
- Vedi svergognato! Odi ciò ch'e'dice! Egli parla né più né meno come se uno anno o due fosser passati e per la lunghezza del tempo avesse le sue tristizie e disonestà dimenticate.
Etti egli da stamane a mattutino in qua uscito di mente l'avere altrui ingiuriato? Ove fostù stamane poco avanti al giorno?
Rispose il valente uomo:
- Non so io ove io mi fui; molto tosto ve n'è giunto il messo.
- Egli è il vero, - disse il frate - che il messo me n'è giunto; io m'avviso che tu ti credesti, per ciò che il marito non c'era, che la gentil donna ti dovesse incontanente ricevere in braccio.
Hi meccere: ecco onesto uomo! è divenuto andator di notte, apritor di giardini e salitor d'alberi.
Credi tu per improntitudine vincere la santità di questa donna, che le vai alle finestre su per gli alberi la notte? Niuna cosa è al mondo che a lei dispiaccia, come fai tu; e tu pur ti vai riprovando.
In verità, lasciamo stare che ella te l'abbia in molte cose mostrato, ma tu ti se'molto bene ammendato per li miei gastigamenti.
Ma così ti vo' dire: ella ha infino a qui, non per amore che ella ti porti ma ad instanzia de' prieghi miei, taciuto di ciò che fatto hai; ma essa non tacerà più ; conceduta l'ho la licenzia che, se tu più in cosa alcuna le spiaci, ch'ella faccia il parer suo.
Che farai tu, se ella il dice à fratelli?
Il valente uomo, avendo assai compreso di quello che gli bisognava, come meglio seppe e potè con molte ampie promesse racchetò il frate; e da lui partitosi, come il mattutino della seguente notte fu, così egli nel giardino entrato e su per lo albero salito e trovata la finestra aperta, se n'entrò nella camera, e come più tosto potè nelle braccia della sua bella donna si mise.
La quale, con grandissimo disidero avendolo aspettato, lietamente il ricevette, dicendo:
- Gran mercé a messer lo frate, che così bene t'insegnò la via da venirci.
E appresso, prendendo l'un dell'altro piacere, ragionando e ridendo molto della simplicità del frate bestia, biasimando i lucignoli e'pettini e gli scardassi, insieme con gran diletto si sollazzarono.
E dato ordine à lor fatti, sì fecero, che senza aver più a tornare a messer lo frate, molte altre notti con pari letizia insieme si ritrovarono; alle quali io priego Iddio per la sua santa misericordia che tosto conduca me e tutte l'anime cristiane che voglia ne hanno.
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Novella Quarta
Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.
Poi che Filomena, finita la sua novella, si tacque, avendo Dioneo con dolci parole molto lo 'ngegno della donna commendato e ancora la preghiera da Filomena ultimamente fatta, la reina ridendo guardò verso Panfilo, e disse:
- Ora appresso, Panfilo, continua con alcuna piacevol cosetta il nostro diletto.
Panfilo prestamente rispose che volontieri, e cominciò.
Madonna, assai persone sono che, mentre che essi si sforzano d'andarne in paradiso, senza avvedersene vi mandano altrui; il che ad una nostra vicina, non ha ancor lungo tempo, sì come voi potrete udire, intervenne.
Secondo che io udii già dire, vicino di san Brancazio stette un buon uomo e ricco, il quale fu chiamato Puccio di Rinieri, che poi, essendo tutto dato allo spirito, si fece bizzoco di quegli di san Francesco, e fu chiamato frate Puccio, e seguendo questa sua vita spirituale, per ciò che altra famiglia non avea che una sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte attender gli bisognava, usava molto la chiesa.
E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori.
La moglie, che monna Isabetta avea nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana, per la santità del marito e forse per la vecchiezza, faceva molto spesso troppo più lunghe diete che voluto non avrebbe; e, quand'ella si sarebbe voluta dormire o forse scherzar con lui, ed egli le raccontava la vita di Cristo e le prediche di frate Nastagio o il lamento della Maddalena o così fatte cose.
Tornò in questi tempi da Parigi un monaco chiamato don Felice, conventuale di san Brancazio, il quale assai giovane e bello della persona era e d'aguto ingegno e di profonda scienza, col qual frate Puccio prese una stretta dimestichezza.
E per ciò che costui ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a ciò, avendo la sua condizion conosciuta, gli si mostrava santissimo, se lo incominciò frate Puccio a menare talvolta a casa e a dargli desinare e cena, secondo che fatto gli venia; e la donna altressì per amor di fra Puccio era sua dimestica divenuta e volentier gli faceva onore.
Continuando adunque il monaco a casa di fra Puccio e veggendo la moglie così fresca e ritondetta, s'avvisò qual dovesse essere quella cosa della quale ella patisse maggior difetto; e pensossi, se egli potesse, per tor fatica a fra Puccio, di volerla supplire.
E, postole l'occhio addosso e una volta e altra bene astutamente, tanto fece che egli l'accese nella mente quello medesimo disidero che aveva egli; di che accortosi il monaco, come prima destro gli venne, con lei ragionò il suo piacere.
Ma, quantunque bene la trovasse disposta a dover dare all'opera compimento, non si poteva trovar modo, per ciò che costei in niun luogo del mondo si voleva fidare ad esser col monaco se non in casa sua; e in casa sua non si potea, perché fra Puccio non andava mai fuor della terra; di che il monaco avea gran malinconia.
E dopo molto gli venne pensato un modo da dover potere essere colla donna in casa sua senza sospetto, non ostante che fra Puccio in casa fosse.
Ed essendosi un dì andato a star con lui frate Puccio, gli disse così:
- Io ho già assai volte compreso, fra Puccio, che tutto il tuo disidero è di divenir santo, alla qual cosa mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce n'è una che è molto corta, la quale il papa e gli altri suoi maggior prelati, che la sanno e usano, non vogliono che ella si mostri; per ciò che l'ordine chericato, che il più di limosine vive, incontanente sarebbe disfatto, sì come quello al quale più i secolari né con limosine né con altro attenderebbono.
Ma, per ciò che tu se'mio amico e ha' mi onorato molto, dove io credessi che tu a niuna persona del mondo l'appalesassi, e volessila seguire, io la t'insegnerei.
Frate Puccio, divenuto disideroso di questa cosa, prima cominciò 'a pregare con grandissima instanzia che gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non quanto gli piacesse, ad alcuno nol direbbe, affermando che, se tal fosse che esso seguir la potesse, di mettervisi.
- Poi che tu così mi prometti, - disse il monaco - e io la ti mosterrò.
Tu dei sapere che i santi dottori tengono che a chi vuol divenir beato si convien fare la penitenzia che tu udirai; ma intendi sanamente: io non dico, che dopo la penitenzia tu non sii peccatore come tu ti se'; ma avverrà questo, che i peccati che tu hai infino all'ora della penitenzia fatti, tutti si purgheranno e sarannoti per quella perdonati; e quegli che tu farai poi non saranno scritti a tua dannazione, anzi se n'andranno con l'acqua benedetta, come ora fanno i veniali.
Conviensi adunque l'uomo principalmente con gran diligenzia confessare de' suoi peccati quando viene a cominciar la penitenzia; e appresso questo li convien cominciare un digiuno e una astinenzia grandissima, la qual convien che duri quaranta dì, ne'quali, non che da altra femina, ma da toccare la propria tua moglie ti conviene astenere.
E oltre a questo si conviene avere nella tua propria casa alcun luogo donde tu possi la notte vedere il cielo, e in su l'ora della compieta andare in questo luogo, e quivi avere una tavola molto larga ordinata in guisa che, stando tu in pie', vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi in terra distender le braccia a guisa di crucifisso; e se tu quelle volessi appoggiare ad alcun cavigliuolo, puoil fare; e in questa maniera guardando il cielo, star senza muoverti punto insino a matutino.
E, se tu fossi litterato, ti converrebbe in questo mezzo dire certe orazioni che io ti darei; ma, perché non se', ti converrà dire trecento paternostri con trecento avemarie a reverenzia della Trinità, e riguardando il cielo, sempre aver nella memoria Iddio essere stato creatore del cielo e della terra, e la passion di Cristo, stando in quella maniera che stette egli in su la croce.
Poi, come matutino suona, te ne puoi, se tu vuogli, andare e così vestito gittarti sopra 'l letto tuo e dormire: e la mattina appresso si vuole andare alla chiesa, e quivi udire almeno tre messe e dir cinquanta paternostri con altrettante avemarie; e appresso questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far n'hai alcuno, e poi desinare, ed essere appresso al vespro nella chiesa e quivi dire certe orazioni che io ti darò scritte, senza le quali non si può fare; e poi in su la compieta ritornare al modo detto.
E faccendo questo, sì come io feci già, spero che anzi che la fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa cosa della beatitudine etterna, se con divozione fatta l'avrai.
Frate Puccio disse allora:
- Questa non è troppo grave cosa, né troppo lunga, e deesi assai ben poter fare; e per ciò io voglio al nome di Dio cominciar domenica.
E da lui partitosene e andatosene a casa, ordinatamente, con sua licenzia perciò, alla moglie disse ogni cosa.
La donna intese troppo bene per lo star fermo infino a matutino senza muoversi ciò che il monaco voleva dire; per che, parendole assai buon modo, disse che di questo e d'ogn'altro bene, che egli per l'anima sua faceva, ella era contenta, e che, acciò che Iddio gli facesse la sua penitenzia profittevole, ella voleva con esso lui digiunare, ma fare altro no.
Rimasi adunque in concordia, venuta la domenica, frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e messer lo monaco, convenutosi colla donna, ad ora che veduto non poteva essere, le più delle sere con lei se ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben da mangiare e ben da bere, poi con lei si giaceva infino all'ora del matutino, al quale levandosi se n'andava, e frate Puccio tornava al letto.
Era il luogo, il quale frate Puccio aveva alla sua penitenzia eletto, allato alla camera nella quale giaceva la donna, né da altro era da quella diviso che da un sottilissimo muro; per che, ruzzando messer lo monaco troppo colla donna alla scapestrata ed ella con lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento di palco della casa; di che, avendo già detti cento de' suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò la donna senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva.
La donna, che motteggevole era molto, forse cavalcando allora senza sella la bestia di san Benedetto o vero di san Giovanni Gualberto, rispose:
- Gnaffe, marito mio, io mi dimeno quanto io posso.
Disse allora frate Puccio:
- Come ti dimeni? Che vuol dir questo dimenare?
La donna ridendo, che e di buona aria e valente donna era, e forse avendo cagion di ridere, rispose:
- Come non sapete voi quello che questo vuol dire? Ora io ve l'ho udito dire mille volte: chi la sera non cena, tutta notte si dimena.
Credettesi frate Puccio che il digiunare, il quale ella a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non poter dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che egli di buona fede disse
- Donna, io t'ho ben detto, non digiunare; ma, poiché pur l'hai voluto fare, non pensare a ciò, pensa di riposarti; tu dai tali volte per lo letto, che tu fai dimenar ciò che ci e'.
Disse allora la donna:
- Non ve ne caglia no; io so ben ciò ch'i' mi fo; fate pur ben voi, ché io farò bene io, se io potrò.
Stettesi adunque cheto frate Puccio e rimise mano à suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco da questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa ordinare un letto, in quello, quanto durava il tempo della penitenzia di frate Puccio, con grandissima festa si stavano, e ad una ora il monaco se n'andava e la donna al suo letto tornava, e poco stante dalla penitenzia a quello se ne venia frate Puccio.
Continuando adunque in così fatta maniera il frate la penitenzia e la donna col monaco il suo diletto, più volte motteggiando disse con lui:
- Tu fai fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale noi abbiam guadagnato il paradiso.
E parendo molto bene stare alla donna, sì s'avvezzò à cibi del monaco che, essendo dal marito lungamente stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui, e con discrezione lungamente ne prese il suo piacere.
Di che, acciò che l'ultime parole non sieno discordanti alle prime, avvenne che, dove frate Puccio, faccendo penitenzia sé credette mettere in paradiso, egli vi mise il monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e la moglie, che con lui in gran necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come misericordioso, gran divizia le fece.
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Novella Quinta
Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla alla sua donna ed, ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua risposta poi l'effetto segue.
Aveva Panfilo, non senza risa delle donne, finita la novella di frate Puccio, quando donnescamente la reina ad Elissa impose che seguisse.
La quale, anzi acerbetta che no, non per malizia ma per antico costume, così cominciò a parlare.
Credonsi molti, molto sappiendo, che altri non sappi nulla, li quali spesse volte, mentre altrui si credono uccellare, dopo il fatto sé da altrui essere stati uccellati conoscono; per la qual cosa io reputo gran follia quella di chi si mette senza bisogno a tentar le forze dello altrui ingegno.
Ma perché forse ogn'uomo della mia oppinione non sarebbe, quello che ad un cavalier pistolese n'addivenisse, l'ordine dato del ragionar seguitando, mi piace di raccontarvi.
Fu in Pistoia nella famiglia dei Vergellesi un cavalier nominato messer Francesco, uomo molto ricco e savio e avveduto per altro, ma avarissimo senza modo; il quale, dovendo andar podestà di Melano, d'ogni cosa opportuna a dovere onorevolmente andare fornito s'era, se non d'un pallafreno solamente che bello fosse per lui; né trovandone alcuno che gli piacesse, ne stava in pensiero.
Era allora un giovane in Pistoia, il cui nome era Ricciardo, di piccola nazione ma ricco molto, il quale sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era chiamato il Zima, e avea lungo tempo amata e vagheggiata infelicemente la donna di messer Francesco, la quale era bellissima e onesta molto.
Ora aveva costui un de' più belli pallafreni di Toscana e avevalo molto caro per la sua bellezza; ed essendo ad ogn'uom publico lui vagheggiare la moglie di messer Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello addimandasse, che egli l'avrebbe per l'amore il quale il Zima alla sua donna portava.
Messer Francesco, da avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo pallafreno, acciò che il Zima gliele profferesse in dono.
Il Zima, udendo ciò, gli piacque, e rispose al cavaliere:
- Messere, se voi mi donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita avere il mio pallafreno, ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi piacesse, con questa condizione che io, prima che voi il prendiate, possa con la grazia vostra e in vostra presenzia parlare alquante parole alla donna vostra, tanto da ogn'uom separato che io da altrui che da lei udito non sia.
Il cavaliere, da avarizia tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piacea, e quantunque egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella camera alla donna, e quando detto l'ebbe come agevolmente poteva il pallafreno guadagnare, le impose che ad udire il Zima venisse; ma ben si guardasse che a niuna cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto.
La donna biasimò molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di farlo; e appresso al marito andò nella sala ad udire ciò che il Zima volesse dire.
Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati, da una parte della sala assai lontano da ogn'uomo colla donna si pose a sedere, e così cominciò a dire:
- Valorosa donna, egli mi pare esser certo che voi siete sì savia, che assai bene, già è gran tempo, avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m'abbia condotto la vostra bellezza, la qual senza alcun fallo trapassa quella di ciascun'altra che veder mi paresse giammai; lascio stare de' costumi laudevoli e delle virtù singolari che in voi sono, le quali avrebbon forza di pigliare ciascuno alto animo di qualunque uomo.
E per ciò non bisogna che io vi dimostri con parole quello essere stato il maggiore e il più fervente che mai uomo ad alcuna donna portasse; e così senza fallo sarà mentre la mia misera vita sosterrà questi membri, e ancor più ; che', se di là come di qua s'ama, in perpetuo v'amerò.
E per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete, qual che ella si sia o cara o vile, che tanto vostra possiate tenere e così in ogni atto farne conto come di me, da quanto che io mi sia, e il simigliante delle mie cose.
E acciò che voi di questo prendiate certissimo argomento, vi dico che io mi reputerei maggior grazia che voi cosa che io far potessi che vi piacesse mi comandaste, che io non terrei che, comandando io, tutto il mondo prestissimo m'ubbidisse.
Adunque, se così son vostro come udite che sono, non immeritamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza, dalla qual sola ogni mia pace, ogni mio bene e la mia salute venir mi puote, e non altronde; e sì come umilissimo servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell 'anima mia, che nello amoroso fuoco sperando in voi si nutrica, che la vostra benignità sia tanta e sì ammollita la vostra passata durezza verso di me dimostrata, che vostro sono, che io, dalla vostra pietà riconfortato, possa dire che, come per la vostra bellezza innamorato sono, così per quella aver la vita, la quale, se à miei prieghi l'altiero vostro animo non s'inchina, senza alcun fallo verrà meno, e morrommi, e potrete esser detta di me micidiale.
E lasciamo stare che la mia morte non vi fosse onore, nondimeno credo che, rimordendovene alcuna volta la conscienza, ve ne dorrebbe d'averlo fatto, e talvolta, meglio disposta, con voi medesima direste: «Deh quanto mal feci a non aver misericordia del Zima mio!»; e questo pentere non avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione.
Per che, acciò che ciò non avvenga, ora che sovvenir mi potete, di ciò v'incresca, e anzi che io muoia a misericordia di me vi movete, per ciò che in voi sola il farmi il più lieto e il più dolente uomo che viva dimora.
Spero tanta essere la vostra cortesia che non sofferrete che io per tanto e tale amore morte riceva per guiderdone, ma con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spiriti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro cospetto.
E quinci tacendo, alquante lacrime dietro a profondissimi sospiri mandate per gli occhi fuori, cominciò ad attender quello che la gentil donna gli rispondesse.
La donna, la quale il lungo vagheggiare, l'armeggiare, le mattinate, e l'altre cose simili a queste per amor di lei fatte dal Zima, muovere non avean potuto, mossero le affettuose parole dette dal ferventissimo amante, e cominciò a sentire ciò che prima mai non avea sentito, cioè che amor si fosse.
E quantunque, per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non potè per ciò alcun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispondendo al Zima, avrebbe fatto manifesto.
Il Zima, avendo alquanto atteso e veggendo che niuna risposta seguiva, si maravigliò, e poscia s'incominciò ad accorgere dell'arte usata dal cavaliere; ma pur lei riguardando nel viso e veggendo alcun lampeggiare d'occhi di lei verso di lui alcuna volta, e oltre a ciò raccogliendo i sospiri li quali essa non con tutta la forza loro del petto lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e da quella aiutato prese nuovo consiglio, e cominciò in forma della donna, udendolo ella, a rispondere a sé medesimo in cotal guisa:
- Zima mio, senza dubbio gran tempo ha che io m'accorsi il tuo amore verso me esser grandissimo e perfetto, e ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e sonne contenta, sì come io debbo.
Tutta fiata, se dura e crudele paruta ti sono, non voglio che tu creda che io nello animo stata sia quello che nel viso mi sono dimostrata: anzi t'ho sempre amato e avuto caro innanzi ad ogni altro uomo, ma così m'è convenuto fare e per paura d'altrui e per servare la fama della mia onestà.
Ma ora ne viene quel tempo nel quale io ti potrò chiaramente mostrare se io t'amo e renderti guiderdone dello amore il qual portato m'hai e mi porti; e per ciò confortati e sta a buona speranza, per ciò che messer Francesco è per andare in fra pochi dì a Melano per podestà, sì come tu sai, che per mio amore donato gli hai il bel pallafreno; il quale come andato sarà, senz'alcun fallo ti prometto sopra la mia fè e per lo buono amore il quale io ti porto, che in fra pochi dì tu ti troverai meco e al nostro amore daremo piacevole e intero compimento.
E acciò che io non t'abbia altra volta a far parlar di questa materia, infino ad ora quel giorno il qual tu vedrai due sciugatoi tesi alla finestra della camera mia, la quale è sopra il nostro giardino, quella sera di notte, guardando ben che veduto non sii, fa che per l'uscio del giardino a me te ne venghi; tu mi troverai ivi che t'aspetterò, e insieme avrem tutta la notte festa e piacere l'un dell'altro sì come disideriamo.
Come il Zima in persona della donna ebbe così parlato, egli incominciò per sé a parlare e così rispose:
- Carissima donna, egli è per soverchia letizia della vostra buona risposta sì ogni mia virtù occupata, che appena posso a rendervi debite grazie formar la risposta; e se io pur potessi, come io disidero, favellare, niun termine è sì lungo che mi bastasse a pienamente potervi ringraziare come io vorrei e come a me di far si conviene; e per ciò nella vostra discreta considerazion si rimanga a conoscer quello che io disiderando fornir con parole non posso.
Soltanto vi dico che, come imposto m'avete, così penserò di far senza fallo; e allora forse più rassicurato di tanto dono quanto conceduto m'avete, m'ingegnerò a mio potere di rendervi grazie quali per me si potranno maggiori.
Or qui non resta a dire al presente altro; e però, carissima mia donna, Dio vi dea quella allegrezza e quel bene che voi disiderate il maggiore, e a Dio v'accomando.
Per tutto questo non disse la donna una sola parola; laonde il Zima si levò suso e verso il cavaliere cominciò a tornare, il qual veggendolo levato, gli si fece incontro e ridendo disse:
- Che ti pare? Hott'io bene la promessa servata?
- Messer no, - rispose il Zima - ché voi mi prometteste di farmi parlare colla donna vostra e voi m'avete fatto parlar con una statua di marmo.
Questa parola piacque molto al cavaliere, il quale, come che buona oppinione avesse della donna, ancora ne la prese migliore, e disse:
- Omai è ben mio il pallafreno che fu tuo.
A cui il Zima rispose:
- Messer sì; ma se io avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto chente tratto n'ho, senza do mandarlavi ve l'avrei donato; e or volesse Iddio che io fatto l'avessi, per ciò che voi avete comperato il pallafreno, e io non l'ho venduto.
Il cavaliere di questo si rise, ed essendo fornito di pallafreno, ivi a pochi dì entrò in cammino e verso Melano se n'andò in podesteria.
La donna, rimasa libera nella sua casa, ripensando alle parole del Zima e all'amore il qual le portava e al pallafreno per amor di lei donato, e veggendol da casa sua molto spesso passare, disse seco medesima: «Che fo io? Perché perdo io la mia giovanezza? Questi se n'è andato a Melano e non tornerà di questi sei mesi; e quando me gli ristorerà egli giammai? quando io sarò vecchia? e oltre a questo, quando troverò io mai un così fatto amante come è il Zima? Io son sola, né ho d'alcuna persona paura; io non so perché io non mi prendo questo buon tempo mentre che io posso; io non avrò sempre spazio come io ho al presente; questa cosa non saprà mai persona, e se egli pur si dovesse risapere, si è egli meglio fare e pentere, che starsi e pentersi.» E così seco medesima consigliata, un dì pose due asciugatoi alla finestra del giardino, come il Zima aveva detto; li quali il Zima vedendo, lietissimo, come la notte fu venuta, segretamente e solo se n'andò all'uscio del giardino della donna, e quello trovò aperto, e quindi n'andò ad un altro uscio che nella casa entrava, dove trovò la gentil donna che l'aspettava.
La qual veggendol venire, levataglisi incontro, con grandissima festa il ricevette; ed egli, abbracciandola e baciandola centomilia volte, su per le scale la seguitò; e senza alcuno indugio coricatisi, gli ultimi termini conobber d'amore.
Né questa volta, come che la prima fosse, fu però l'ultima, per ciò che, mentre il cavalier fu a Melano, e ancor dopo la sua tornata, vi tornò con grandissimo piacere di ciascuna delle parti il Zima molte dell'altre volte.
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Novella Sesta
Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata.
Niente restava più avanti a dire ad Elissa, quando, commendata la sagacità del Zima, la reina impose alla Fiammetta che procedesse con una.
La qual tutta ridente rispose:
- Madonna, volentieri; - e cominciò.
Alquanto è da uscire della nostra città, la quale, come d'ogn'altra cosa è copiosa, così è d'essempli ad ogni materia, e, come Elissa ha fatto, alquanto delle cose che per l'altro mondo avvenute son, raccontare; e per ciò, a Napoli trapassando, dirò come una di queste santesi, che così d'amore schife si mostrano, fosse dallo ingegno d'un suo amante prima a sentir d'amore il frutto condotta che i fiori avesse conosciuti; il che ad una ora a voi presterà cautela nelle cose che possono avvenire, e daravvi diletto delle avvenute.
In Napoli, città antichissima e forse così dilettevole, o più, come ne sia alcuna altra in Italia, fu già un giovane per nobiltà di sangue chiaro e splendido per molte ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo.
Il quale, non ostante che una bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s'innamorò d'una, la quale, secondo l'oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezza tutte l'altre donne napoletane, e fu chiamata Catella, moglie d'un giovane similmente gentile uomo, chiamato Filippel Sighinolfo, il quale ella, onestissima, più che altra cosa amava e aveva caro.
Amando adunque Ricciardo Minutolo questa Catella e tutte quelle cose operando per le quali la grazia e l'amor d'una donna si dee potere acquistare, e per tutto ciò a niuna cosa potendo del suo disidero pervenire, quasi si disperava; e da amore o non sappiendo o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né gli giovava di vivere.
E in cotal disposizion dimorando, avvenne che da donne che sue parenti erano fu un dì assai confortato che di tale amore si dovesse rimanere, per ciò che in van si faticava, con ciò fosse cosa che Catella niuno altro bene avesse che Filippello, del quale ella in tanta gelosia viveva, che ogni uccel che per l'aere volava credeva gliele togliesse.
Ricciardo, udito della gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a' suoi piaceri e cominciò a mostrarsi dello amor di Catella disperato, e per ciò in un'altra gentil donna averlo posto; e per amor di lei cominciò a mostrar d'armeggiare e di giostrare e di far tutte quelle cose le quali per Catella solea fare.
Nè guari di tempo ciò fece che quasi a tutti i napoletani, e a Catella altressì, era nell'animo che non più Catella, ma questa seconda donna sommamente amasse; e tanto in questo perseverò, che sì per fermo da tutti si teneva che, non ch'altri, ma Catella lasciò una salvatichezza che con lui aveva dell'amor che portar le solea, e dimesticamente.
come vicino, andando e vegnendo il salutava come faceva gli altri.
Ora avvenne che, essendo il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l'usanza dei napoletani, andassero a diportarsi a' liti del mare e a desinarvi e a cenarvi, Ricciardo, sappiendo Catella con sua brigata esservi andata, similmente con sua compagnia v'andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto, faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse molto vago di rimanervi.
Quivi le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare del suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte, più loro di ragionare dava materia.
A lungo andare essendo l'una donna andata in qua e l'altra in là, come si fa in que'luoghi, essendo Catella con poche rimasa quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto d'un certo amore di Filippello suo marito, per lo quale ella entrò in subita gelosia, e dentro cominciò ad arder tutta di disidero di saper ciò che Ricciardo volesse dire.
E poi che alquanto tenuta si fu, non potendo più tenersi, pregò Ricciardo che, per amor di quella donna la quale egli più amava, gli dovesse piacere di farla chiara di ciò che detto aveva di Filippello.
Il quale le disse:
- Voi m'avete scongiurato per persona, che io non oso negar cosa che voi mi domandiate; e per ciò io son presto a dirlovi, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne farete mai né con lui né con altrui, se non quando per effetto vederete esser vero quello che io vi conterò; ché, quando vogliate, v'insegnerò come vedere il potrete.
Alla donna piacque questo che egli addomandava, e più il credette esser vero, e giurogli di mai non dirlo.
Tirati adunque da una parte, che da altrui uditi non fossero, Ricciardo cominciò così a dire:
- Madonna, se io v'amassi come io già amai, io non avrei ardire di dirvi cosa che io credessi che noiar vi dovesse; ma, per ciò che quello amore è passato, me ne curerò meno d'aprirvi il vero d'ogni cosa.
Io non so se Filippello si prese giammai onta dello amore il quale io vi portai, o se avuto ha credenza che io mai da voi amato fossi; ma, corne che questo sia stato o no, nella mia persona niuna cosa ne mostrò mai.
Ma ora, forse aspettando tempo quando ha creduto che io abbia men di sospetto, mostra di volere fare a :me quello che io dubito che egli non tema ch'io facessi a lui, cioè di volere al suo piacere avere la donna mia; e per quello che io truovo egli l'ha da non troppo tempo in qua segretissimamente con più ambasciate sollicitata, le quali io ho tutte da lei risapute; ed ella ha fatte le risposte secondo che io l'ho imposto.
Ma pure stamane, anzi che io qui venissi, io trovai con la donna mia in casa una femina a stretto consiglio, la quale io credetti incontanente che fosse ciò che ella era, per che io chiamai la donna mia e la dimandai quello che colei di mandasse.
Ella mi disse: - Egli è lo stimol di Filippello, il qual tu, con fargli risposte e dargli speranza, m'hai fatto recare addosso, e dice che del tutto vuol sapere quello che io intendo di fare, e che egli, quando io volessi, farebbe che io potrei essere segretamente ad un bagno in questa terra; e di questo mi prega e grava; e se non fosse che tu m'ha'fatto, non so perchè, tener questi mercati, io me l'avrei per maniera levato di dosso che egli mai non avrebbe guatato là dove io fossi stata.
- Allora mi parve che questi procedesse troppo innanzi e che più non fosse da sofferire, e di dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceve la vostra intera fede, per la quale io fui già presso alla morte.
E acciò che voi non credeste queste esser parole e favole, ma il poteste, quando voglia ve ne venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia, a colei che l'aspettava, questa risposta, che ella era presta d'esser domani in su la nona, quando la gente dorme, a questo bagno; di che la femina contentissima si partì da lei.
Ora non credo io che voi crediate che io la vi mandassi; ma, se io fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverrebbe me in luogo di colei cui trovarvi si crede; e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il farei avvedere con cui stato fosse, e quel lo onore che a lui se ne convenisse ne gli farei; e questo faccendo, credo sì fatta vergogna gli fia, che ad una ora la 'ngiuria che a voi e a me far vuole vendicata sarebbe.
Catella, udendo questo, senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a' suoi inganni, secondo il costume de' gelosi, subitamente diede fede alle parole, e certe cose state davanti cominciò adattare a questo fatto; e di subita ira accesa, rispose che questo farà ella certamente, non era egli sì gran fatica a fare; e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sì fatta vergogna, che sempre che egli alcuna donna vedesse gli si girerebbe per lo capo.
Ricciardo, contento di questo e parendogli che 'l suo consiglio fosse stato buono e procedesse, con molte altre parole la vi confermò su e fece la fede maggiore, pregandola non dimeno che dir non dovesse giammai d'averlo udito da lui, il che ella sopra la sua fè gli promise.
La mattina seguente Ricciardo se n'andò ad una buona femina, che quel bagno che egli aveva a Catella detto teneva, e le disse ciò che egli intendeva di fare, e pregolla che in ciò fosse favorevole quanto potesse.
La buona femina, che molto gli era tenuta, disse di farlo volentieri e con lui ordinò quello che a fare o a dire avesse.
Aveva costei, nella casa ove 'l bagno era, una camera oscura molto, sì come quella nella quale niuna finestra che lume rendesse rispondea.
Questa, secondo l'ammaestramento di Ricciardo, acconciò la buona femina e fecevi entro un letto, secondo che potè il migliore, nel quale Ricciardo, come desinato ebbe, si mise e cominciò ad aspettare Catella.
La donna, udite le parole di Ricciardo e a quelle data più fede che non le bisognava, piena di sdegno tornò la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d'altro pensiero similmente tornò, né le fece forse quella dimestichezza che era usato di fare.
Il che ella vedendo, entrò in troppo maggior sospetto che ella non era, seco medesima dicendo: - Veramente costui ha l'animo a quella donna con la qual domane si crede aver piacere e diletto, ma ferma mente questo non avverrà; - e sopra cotal pensiero, e imaginando come dir gli dovesse quando con lui stata fosse, quasi tutta la notte dimorò.
Ma che più? Venuta la nona, Catella prese sua compagnia e senza mutare altramente consiglio se n'andò a quel bagno il quale Ricciardo le aveva insegnato; e quivi trovata la buona femina, la dimandò se Filippello stato vi fosse quel dì.
A cui la buona femina ammaestrata da Ricciardo disse:
- Sete voi quella donna che gli dovete venire a parlare?
Catella rispose:
- Sì sono.
- Adunque, - disse la buona femina - andatevene da lui.
Catella, che cercando andava quello che ella non avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare dove Ricciardo era, col capo coperto in quella entrò e dentro serrossi.
Ricciardo, vedendola venire, lieto si levò in piè e, in braccio ricevutala, disse pianamente:
- Ben vegna l'anima mia.
Catella, per mostrarsi ben d'essere altra che ella non era, abbracciò e baciò lui e fecegli la festa grande senza dire alcuna parola, temendo, se parlasse, non fosse da lui conosciuta.
La camera era oscurissima, di che ciascuna delle parti era contenta; né per lungamente dimorarvi riprendevan gli occhi più di potere.
Ricciardo la condusse in su il letto, e quivi, senza favellare in guisa che iscorger si potesse la voce, per grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell'una parte che dell'altra stettero.
Ma poi che a Catella parve tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così di fervente ira accesa cominciò a parlare:
- Ahi quanto è misera la fortuna delle donne e come è male impiegato l'amor di molte ne'mariti! Io, misera me!, già sono otto anni, t'ho più che la mia vita amato, e tu, come io sentito ho, tutto ardi e consumiti nello amore d'una donna strana, reo e malvagio uom che tu se'.
Or con cui ti credi tu essere stato? Tu se'stato con colei la quale otto anni t'è giaciuta a lato, tu se'stato con colei la qual con false lusinghe tu hai, già è assai, ingannata mostrandole amore ed essendo altrove innamorato.
Io son Catella, non son la moglie di Ricciardo, traditor disleale che tu se'; ascolta se tu riconosci la voce mia, io son ben dessa; e parmi mille anni che noi siamo al lume, che io ti possa svergognare come m se'degno, sozzo cane vituperato che tu se'.
Ohimè, misera me! a cui ho io cotanti anni portato cotanto amore? A questo can disleale, che, credendosi in braccio avere una donna strana, m'ha più di carezze e d'amorevolezze fatte in questo poco di tempo che qui stata son con lui, che in tutto l'altro rimanente che stata son sua.
Tu se'bene oggi, can rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare così debole e vinto e senza possa.
Ma, lodato sia Iddio, che il tuo campo, non l'altrui, hai lavorato, come tu ti credevi.
Non maraviglia che stanotte tu non mi ti appressasti: tu aspettavi di scaricar le some altrove, e volevi giugnere molto fresco cavaliere alla battaglia; ma, lodato sia Iddio e il mio avvedimento, l'acqua è pur corsa all'in giù, come ella doveva.
Ché non rispondi, reo uomo? Ché non di'qualche cosa? Se'tu divenuto mutolo udendomi? In fè di Dio io non so a che io mi tengo, che io non ti ficco le mani negli occhi e traggogliti.
Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento; per Dio! tanto sa altri quanto altri, non t'è venuto fatto; io t'ho avuti miglior bracchi alla coda che tu non credevi.
Ricciardo in sé medesimo godeva di queste parole, e senza rispondere alcuna cosa l'abbracciava e baciava e più che mai le faceva le carezze grandi.
Per che ella, seguendo il suo parlar, diceva:
- Sì, tu mi credi ora con tue carezze infinte lusingare, can fastidioso che tu se', e rappacificare e racconsolare; tu se'errato; io non sarò mai di questa cosa consolata, infino a tanto che io non te ne vitupero in presenzia di quanti parenti e amici e vicini noi abbiamo.
Or non sono io, malvagio uomo, così bella come sia la moglie di Ricciardo Minutolo? Non son io così gentil donna? Ché non rispondi, sozzo cane? Che ha colei più di me? Fatti in costà, non mi toccare, che tu hai troppo fatto d'arme per oggi.
Io so bene che oggi mai, poscia che tu conosci chi io sono, che tu ciò che tu fa cessi faresti a forza; ma, se Dio mi dea la grazia sua, io te ne farò ancor patir voglia; e non so a che io mi tengo che io non mando per Ricciardo, il qual più che sé m'ha amata e mai non potè vantarsi che io il guatassi pure una volta; e non so che male si fosse a farlo.
Tu hai creduto avere la moglie qui, ed è come se avuta l'avessi, in quanto per te non è rimaso; dunque, se io avessi lui, non mi potresti con ragione biasimare.
Ora le parole furono assai e il rammarichio della donna grande; pure alla fine Ricciardo, pensando che, se andar ne la lasciasse con questa credenza, molto di male ne potrebbe seguire, diliberò di palesarsi e di trarla dello inganno nel quale era; e recatasela in braccio e presala bene sì che partire non si poteva, disse:
- Anima mia dolce, non vi turbate; quello che io semplicemente amando aver non potei, Amor con inganno m'ha insegnato avere, e sono il vostro Ricciardo.
Il che Catella udendo e conoscendolo alla voce, subita mente si volle gittare del letto, ma non potè; ond'ella volle gridare; ma Ricciardo le chiuse con l'una delle mani la bocca, e disse:
- Madonna, egli non può oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se voi gridaste tutto il tempo della vita vostra; e se voi griderete o in alcuna maniera fa rete che questo si senta mai per alcuna persona, due cose ne avverranno.
L'una fia (di che non poco vi dee calere) che il vostro onore e la vostra buona fama fia guasta, per ciò che, come che voi diciate che io qui ad inganno v'abbia fatta venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta venire per denari e per doni che io v'abbia promessi, li quali per ciò che così compiutamente dati non v'ho come sperava te, vi siete turbata e queste parole e questo romor ne fate; e voi sapete che la gente è più acconcia a credere il male che il bene; e per ciò non fia men tosto creduto a me che a voi.
Appresso questo, ne seguirà tra vostro marito e me mortal nimistà, e potrebbe sì andare la cosa che io ucciderei altressì tosto lui, come egli me; di che mai voi non dovreste esser poi né lieta né contenta.
E per ciò, cuor del corpo mio, non vogliate ad una ora vituperar voi e mettere in pericolo e in briga il vostro marito e me.
Voi non siete la prima, né sarete l'ultima, la quale è ingannata, né io non v'ho ingannata per torvi il vostro, ma per soverchio amore che io vi porto e son disposto sempre a portarvi, e ad essere vostro umilissimo servidore.
E come che sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io posso e vaglio vostre state sieno e al vostro servigio, io intendo che da quinci innanzi sien più che mai.
Ora, voi siete savia nell'altre cose, e così son certo che sarete in questa.
Catella, mentre che Ricciardo diceva queste parole, piagneva forte, e come che molto turbata fosse e molto si rammaricasse, nondimeno diede tanto luogo la ragione alle vere parole di Ricciardo, che ella cognobbe esser possibile ad avvenire ciò che Ricciardo diceva, e per ciò disse:
- Ricciardo, io non so come Domeneddio mi si concederà che io possa comportare la 'ngiuria e lo 'nganno che fatto m'hai.
Non voglio gridar qui, dove la mia simplicità e soperchia gelosia mi condusse; ma di questo vivi sicuro che io non sarò mai lieta se in un modo o in uno altro io non mi veggio vendica di ciò che fatto m'hai; e per ciò lasciami, non mi tener più; tu hai avuto ciò che disiderato hai, e ha'mi straziata quanto t'è piaciuto; tempo è di lasciarmi; lasciami, io te ne priego.
Ricciardo, che conosceva l'animo suo ancora troppo turbato, s'avea posto in cuore di non lasciarla mai se la sua pace non riavesse; per che, cominciando con dolcissime parole a raumiliarla, tanto disse e tanto pregò e tanto scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò; e di pari volontà di ciascuno gran pezza appresso in grandissimo diletto dimorarono insieme.
E conoscendo allora la donna quanto più saporiti fossero i baci dello amante che quegli del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente da quel giorno innanzi l'amò, e savissimamente operando molte volte goderono del loro amore.
Iddio faccia noi goder del nostro.
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Novella Settima
Tedaldo, turbato con una sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo; parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il ma ito di lei da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co' fratelli il pacefica; e poi saviamente colla sua donna si gode.
Già si taceva Fiammetta lodata da tutti, quando la reina, per non perder tempo, prestamente ad Emilia commise il ragionare; la qual cominciò.
A me piace nella nostra città ritornare, donde alle due passate piacque di dipartirsi, e come uno nostro cittadino la sua donna perduta racquistasse mostrarvi.
Fu adunque in Firenze un nobile giovane, il cui nome fu Tedaldo degli Elisei, il quale d'una donna, monna Ermellina chiamata e moglie d'uno Aldobrandino Palermini, innamorato oltre misura per gli suoi laudevoli costumi, meritò di godere del suo disiderio.
Al qual piacere la Fortuna, nimica de' felici, s'oppose; per ciò che, qual che la cagion si fosse, la donna, avendo di sé a Tedaldo compiaciuto un tempo, del tutto si tolse dal volergli più compiacere, né a non volere non solamente alcuna sua ambasciata ascoltare ma vedere in alcuna maniera; di che egli entrò in fiera malinconia e ispiacevole; ma sì era questo suo amor celato, che della sua malinconia niuno credeva ciò essere la cagione.
E poiché egli in diverse maniere si fu molto ingegnato di racquistare l'amore che senza sua colpa gli pareva aver perduto, e ogni fatica trovando vana, a doversi dileguar del mondo, per non far lieta colei che del suo male era cagione di vederlo consumare, si dispose.
E, presi quegli denari che aver potè, segretamente, senza far motto ad amico o a parente, fuor che ad un suo compagno il quale ogni cosa sapea, andò via e pervenne ad Ancona, Filippo di Sanlodeccio faccendosi chiamare; e quivi con un ricco mercatante accontatosi, con lui si mise per servidore e in su una sua nave con lui insieme n'andò in Cipri.
I costumi del quale e le maniere piacquero sì al mercatante, che non solamente buon salario gli assegnò, ma il fece in parte suo compagno, oltre a ciò gran parte de' suoi fatti mettendogli tra le mani; li quali esso fece sì bene e con tanta sollicitudine, che esso in pochi anni divenne buono e ricco mercatante e famoso.
Nelle quali faccende, ancora che spesso della sua crudel donna si ricordasse, e fieramente fosse da amor trafitto e molto disiderasse di rivederla, fu di tanta constanzia che sette anni vinse quella battaglia.
Ma avvenne che, udendo egli un dì in Cipri cantare una canzone già da lui stata fatta, nella quale l'amore che alla sua donna portava ed ella a lui e il piacer che di lei aveva si raccontava, avvisando questo non dover potere essere, che ella dimenticato l'avesse, in tanto disidero di rivederla s'accese, che, più non potendo sofferir si dispose a tornar in Firenze.
E, messa ogni sua cosa in ordine, se ne venne con un suo fante solamente ad Ancona, dove essendo ogni sua roba giunta, quella ne mandò a Firenze ad alcuno amico dell'ancontano suo compagno, ed egli celatamente, in forma di peregrino che dal Sepolcro venisse, col fante suo se ne venne appresso; e in Firenze giunti, se n'andò ad uno alberghetto di due fratelli che vicino era alla casa della sua donna.
Né prima andò in altra parte che davanti alla casa di lei, per vederla se potesse.
Ma egli vide le finestre e le porti e ogni cosa serrata; di che egli dubitò forte che morta non fosse o di quindi mutatasi.
Per che, forte pensoso, verso la casa de' fratelli se n'andò, davanti la quale vide quattro suoi fratelli tutti di nero vestiti, di che egli si maravigliò molto; e conoscendosi in tanto trasfigurato e d'abito e di persona da quello che esser soleva quando si partì, che di leggieri non potrebbe essere stato riconosciuto, sicuramente s'accostò ad un calzolaio e domandollo perché di nero fossero vestiti costoro.
Al quale il calzolaio rispose:
- Coloro sono di nero vestiti, per ciò che e'non sono ancora quindici dì che un lor fratello, che di gran tempo non c'era stato, che avea nome Tedaldo fu ucciso; e parmi intendere che egli abbiano provato alla corte che uno che ha nome Aldobrandino Palermini, il quale è preso, l'uccidesse, per ciò che egli voleva bene alla moglie ed eraci tornato sconosciuto per esser con lei.
Maravigliossi forte Tedaldo che alcuno in tanto il simigliasse, che fosse creduto lui; e della sciagura d'Aldobrandino gli dolfe.
E avendo sentito che la donna era viva e sana, essendo già notte, pieno di vari pensieri se ne tornò all'albergo, e poi che cenato ebbe insieme col fante suo, quasi nel più alto della casa fu messo a dormire.
E quivi, sì per li molti pensieri che lo stimolavano e sì per la malvagità del letto e forse per la cena ch'era stata magra, essendo già la metà della notte andata, non s'era ancor potuto Tedaldo addormentare; per che, essendo desto, gli parve in su la mezza notte sentire d'in su il tetto della casa scender nella casa persone, e appresso per le fessure dell'uscio della camera vide là su venire un lume.
Per che, chetamente alla fessura accostatosi, cominciò a guardare che ciò volesse dire, e vide una giovane assai bella tener questo lume, e verso lei venir tre uomini che del tetto quivi eran discesi; e dopo alcuna festa insieme fattasi, disse l'un di loro alla giovane:
- Noi possiamo, lodato sia Iddio, oggimai star sicuri, per ciò che noi sappiamo fermamente che la morte di Tedaldo Elisei è stata provata da' fratelli addosso ad Aldobrandin Palermini, ed egli l'ha confessata e già è scritta la sentenzia; ma ben si vuol nondimeno tacere, per ciò che, se mai si risapesse che noi fossimo stati, noi saremmo a quel medesimo pericolo che è Aldobrandino.
E questo detto con la donna, che forte di ciò si mostrò lieta, se ne sciesono e andarsi a dormire.
Tedaldo, udito questo, cominciò a riguardare quanti e quali fossero gli errori che potevano cadere nelle menti degli uomini, prima pensando a' fratelli che uno strano avevano pianto e sepellito in luogo di lui, e appresso lo innocente per falsa suspizione accusato, e con testimoni non veri averlo condotto a dover morire, e oltre a ciò la cieca severità delle leggi e de' rettori, li quali assai volte, quasi solliciti investigatori del vero, incrudelendo fanno il falso provare, e sé ministri dicono della giustizia e di Dio, dove sono della iniquità e del diavolo esecutori.
Appresso questo alla salute d'Aldobrandino il pensier volse, e seco ciò che a fare avesse compose.
E come levato fu la mattina, lasciato il suo fante, quando tempo gli parve, solo se n'andò verso la casa della sua donna; e per ventura trovata la porta aperta, entrò dentro e vide la sua donna sedere in terra in una saletta terrena che ivi era, ed era tutta piena di lagrime e d'amaritudine, e quasi per compassione ne lagrimò, e avvicinatolesi disse:
- Madonna, non vi tribolate: la vostra pace è vicina.
La donna, udendo costui, levò alto il viso e piagnendo disse:
- Buono uomo, tu mi pari un peregrin forestiere; che sai tu di pace o di mia afflizione?
Rispose allora il peregrino:
- Madonna, io son di Costantinopoli e giungo testé qui mandato da Dio a convertire le vostre lagrime in riso e di liberare da morte il vostro marito.
- Come, - disse la donna - se tu di Costantinopoli se'e giugni pur testé qui, sai tu chi mio marito o io ci siamo?
Il peregrino, da capo fattosi, tutta la istoria della angoscia d'Aldobrandino raccontò e a lei disse chi ella era, quanto tempo stata maritata e altre cose assai, le quali egli molto ben sapeva de' fatti suoi; di che la donna si maravigliò forte, e avendolo per uno profeta, gli s'inginocchiò a' piedi, per Dio pregandolo che, se per la salute d'Aldobrandino era venuto, che egli s'avacciasse, per ciò che il tempo era brieve.
Il peregrino, mostrandosi molto santo uomo, disse:
- Madonna, levate su e non piagnete, e attendete bene a quello che io vi dirò, e guardatevi bene di mai ad alcun non dirlo.
Per quello che Iddio mi riveli, la tribulazione la qual voi avete v'è per un peccato, il qual voi commetteste già, avvenuta, il quale Domeneddio ha voluto in parte purgare con questa noia, e vuole del tutto che per voi s'ammendi; se non, sì ricadereste in troppo maggiore affanno.
Disse allora la donna:
- Messere, io ho peccati assai, né so qual Domeneddio più un che un altro si voglia che io m'ammendi; e per ciò, se voi il sapete, ditelmi, e io ne farò ciò che io potrò per ammendarlo.
- Madonna, - disse allora il peregrino - io so bene quale egli è, né ve ne domanderò per saperlo meglio, ma per ciò che voi medesima dicendolo n'abbiate più rimordimento.
Ma vegnamo al fatto.
Ditemi, ricordavi egli che voi mai aveste alcuno amante?
La donna, udendo questo, gittò un gran sospiro e maravigliossi forte, non credendo che mai alcuna persona saputo l'avesse, quantunque di que'dì, che ucciso era stato colui che per Tedaldo fu sepellito, se ne bucinasse per certe parolette non ben saviamente usate dal compagno di Tedaldo che ciò sapea, e rispose:
- Io veggio che Iddio vi dimostra tutti i segreti degli uomini, e per ciò io son disposta a non celarvi i miei.
Egli il è vero che nella mia giovanezza io amai sommamente lo sventurato giovane la cui morte è apposta al mio marito; la qual morte io ho tanto pianta, quanto dolent'è a me; per ciò che, quantunque io rigida e salvatica verso lui mi mostrassi anzi la sua partita, né la sua partita, né la sua lunga dimora, né ancora la sventurata morte me l'hanno potuto trarre del cuore.
A cui il peregrin disse:
- Lo sventurato giovane che fu morto non amaste voi mai, ma Tedaldo Elisei sì.
Ma ditemi: qual fu la cagione per la quale voi con lui vi turbaste? Offesevi egli giammai?
A cui la donna rispose:
- Certo no, che egli non mi offese mai; ma la cagione del cruccio furono le parole d'un maladetto frate, dal quale io una volta mi confessai; per ciò che, quando io gli dissi l'amore il quale io a costui portava e la dimestichezza che io aveva seco, mi fece un romore in capo che ancor mi spaventa, dicendomi che, se io non me ne rimanessi, io n'andrei in bocca del diavolo nel profondo del ninferno e sarei messa nel fuoco pennace.
Di che sì fatta paura m'entrò, che io del tutto mi disposi a non voler più la dimestichezza di lui; e per non averne cagione, né sua lettera né sua ambasciata più volli ricevere; come che io credo, se più fosse perseverato, come (per quello che io presuma) egli se n'andò disperato, veggendolo io consumare come si fa la neve al sole, il mio duro proponimento si sarebbe piegato, per ciò che niun disidero al mondo maggiore avea.
Disse allora il peregrino:
- Madonna, questo è sol quel peccato che ora vi tribola.
Io so fermamente che Tedaldo non vi fece forza alcuna; quando voi di lui v'innamoraste, di vostra propria volontà il faceste, piacendovi egli; e, come voi medesima voleste, a voi venne e usò la vostra dimestichezza, nella quale e con parole e con fatti tanta di piacevolezza gli mostraste che, se egli prima v'amava, in ben mille doppi faceste l'amor raddoppiare.
E se così fu (che so che fu), qual cagion vi dovea poter muovere a torglivi così rigidamente? Queste cose si volean pensare innanzi tratto, e se credevate dovervene, come di mal far, pentere, non farle.
Così, come egli divenne vostro, così diveniste voi sua.
Che egli non fosse vostro potavate voi fare ad ogni vostro piacere, sì come del vostro, ma il voler tor voi a lui, che sua eravate, questa era ruberia e sconvenevole cosa, dove sua volontà stata non fosse.
Or voi dovete sapere che io son frate, e per ciò li loro costumi io conosco tutti; e se io ne parlo alquanto largo ad utilità di voi, non mi si disdice come farebbe ad un altro, ed egli mi piace di parlarne, acciò che per innanzi meglio li conosciate che per addietro non pare che abbiate fatto.
Furon già i frati santissimi e valenti uomini, ma quegli che oggi frati si chiamano e così vogliono esser tenuti, niuna altra cosa hanno di frate se non la cappa, né quella altressì è di frate, per ciò che, dove dagl'inventori de' frati furono ordinate strette e misere e di grossi panni e dimostratrici dello animo, il quale le temporali cose disprezzate avea quando il corpo in così vile abito avviluppava, essi oggi le fanno larghe e doppie e lucide e di finissimi panni, e quelle in forma hanno recate leggiadria e pontificale, in tanto che paoneggiar con esse nelle chiese e nelle piazze, come con le loro robe i secolari fanno, non si vergognano; e quale col giacchio il pescatore d'occupare nel fiume molti pesci ad un tratto, così costoro colle fimbrie ampissime avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte altre sciocche femine e uomini d'avvilupparvi sotto s'ingegnano, ed è lor maggior sollicitudine che d'altro esercizio.
E per ciò, acciò ch'io più vero parli, non le cappe de' frati hanno costoro, ma solamente i colori delle cappe.
E dove gli antichi la salute disideravan degli uomini, quegli d'oggi disiderano le femine e le ricchezze; e tutto il loro studio hanno posto e pongono in ispaventare con romori e con dipinture le menti delli sciocchi e in mostrare che con limosine i peccati si purghino e colle messe, acciò che a loro, che per viltà, non per divozione, sono rifuggiti a farsi frati, e per non durar fatica, porti questi il pane, colui mandi il vino, quello altro faccia la pietanza per l'anima de' lor passati.
E certo egli è il vero che le elimosine e le orazion purgano i peccati; ma se coloro che le fanno vedessero a cui le fanno o il conoscessero, più tosto o a sé il guarderieno o dinanzi ad altrettanti porci il gitterieno.
E per ciò che essi conoscono, quanti meno sono i possessori d'una gran ricchezza, tanto più stanno ad agio, ogn'uno con romori e con ispaventamenti s'ingegna di rimuovere altrui da quello a che esso di rimaner solo disidera.
Essi sgridano contra gli uomini la lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le femine; essi dannan l'usura e i malvagi guadagni, acciò che, fatti restitutori di quegli, si possano fare le cappe più larghe, procacciare i vescovadi e l'altre prelature maggiori, di ciò che mostrato hanno dover menare a perdizione chi l'avesse.
E quando di queste cose e di molte altre che sconce fanno ripresi sono, l'avere risposto: - Fate quello che noi diciamo e non quello che noi facciamo, - estimano che sia degno scaricamento d'ogni grave peso, quasi più alle pecore sia possibile l'esser costanti e di ferro che a' pastori.
E quanti sien quegli a' quali essi fanno cotal risposta, che non la intendono per lo modo che essi la dicono, gran parte di loro il sanno.
Vogliono gli odierni frati che voi facciate quello che dicono, cioè che voi empiate loro le borse di denari, fidiate loro i vostri segreti, serviate castità, siate pazienti, perdoniate le 'ngiurie, guardiatevi del maldire, cose tutte buone, tutte oneste, tutte sante; ma questo perché? Perché essi possano fare quello che, se i secolari faranno, essi fare non potranno.
Chi non sa che senza denari la poltroneria non può durare? Se tu ne'tuoi diletti spenderai i denari, il frate non potrà poltroneggiare nell'ordine; se tu andrai alle femine dattorno, i frati non avranno lor luogo; se tu non sarai paziente o perdonator d'ingiurie, il frate non ardirà di venirti a casa a contaminare la tua famiglia.
Perché vo io dietro ad ogni cosa? Essi s'accusano quante volte nel cospetto degl'intendenti fanno quella scusa.
Perché non si stanno eglino innanzi a casa, se astinenti e santi non si credono potere essere? O se pure a questo dar si vogliono, perché non seguitano quella altra santa parola dello Evangelio: - In cominciò Cristo a fare e ad insegnare? - Facciano in prima essi, poi ammaestrin gli altri.
Io n'ho de' miei dì mille veduti vagheggiatori, amatori, visitatori, non solamente delle donne secolari, ma de' monisteri; e pur di quegli che maggior romor fanno in su i pergami.
A quegli adunque così fatti andrem dietro? Chi 'l fa, fa quel ch'e'vuole, ma Iddio sa se egli fa saviamente.
Ma, posto pur che in questo sia da concedere ciò che il frate che vi sgridò vi disse, cioè che gravissima colpa sia rompere la matrimonial fede, non è molto maggiore il rubare uno uomo? Non è molto maggiore l'ucciderlo o il mandarlo in essilio tapinando per lo mondo? Questo concederà ciascuno.
L'usare la dimestichezza d'uno uomo una donna è peccato naturale; il rubarlo o l'ucciderlo o il discacciarlo da malvagità di mente procede.
Che voi rubaste Tedaldo già di sopra v'è dimostrato, togliendoli voi, che sua di vostra spontanea volontà eravate divenuta.
Appresso dico che, in quanto in voi fu, voi l'uccideste, per ciò che per voi non rimase, mostrandovi ogn'ora più crudele, che egli non s'uccidesse colle sue mani; e la legge vuole che colui che è cagione del male che si fa sia in quella medesima colpa che colui che 'l fa.
E che voi del suo essilio e dello essere andato tapin per lo mondo sette anni non siate cagione, questo non si può negare.
Sì che molto maggiore peccato avete commesso in qualunque s'è l'una di queste tre cose dette, che nella sua dimestichezza non commettavate.
Ma veggiamo: forse che Tedaldo meritò queste cose? Certo non fece: voi medesima già confessato l'avete; senza che io so che egli più che sé v'ama.
Niuna cosa fu mai tanto onorata, tanto esaltata, tanto magnificata quanto eravate voi sopra ogn'altra donna da lui, se in parte si trovava dove onestamente e senza generar sospetto di voi potea favellare.
Ogni suo bene, ogni suo onore, ogni sua libertà, tutta nelle vostre mani era da lui rimessa.
Non era egli nobile giovane? Non era egli tra gli altri suoi cittadin bello? Non era egli valoroso in quelle cose che a' giovani s'appartengono? Non amato? Non avuto caro? Non volentier veduto da ogn'uomo? Né di questo direte di no.
Adunque come, per detto d'un fraticello pazzo bestiale e invidioso, poteste voi alcun proponimento crudele pigliare contro a lui? Io non so che errore s'è quello delle donne, le quali gli uomini schifano e prezzangli poco; dove esse, pensando a quello che elle sono e quanta e qual sia la nobiltà da Dio oltre ad ogn'altro animale data all'uomo, si dovrebbon gloriare quando da alcuno amate sono, e colui aver sommamente caro e con ogni sollicitudine ingegnarsi di compiacergli, acciò che da amarla non si rimovesse giammai.
Il che come voi faceste, mossa dalle parole d'un frate, il qual per certo doveva esser alcun brodaiuolo manicator di torte, voi il vi sapete; e forse disiderava egli di porre sé in quello luogo, onde egli s'ingegnava di cacciar altrui.
Questo peccato adunque è quello, che la divina giustizia, la quale con giusta bilancia tutte le sue operazion mena ad effetto, non ha voluto lasciare impunito; e così come voi senza ragione v'ingegnaste di tor voi medesima a Tedaldo, così il vostro marito senza ragione per Tedaldo è stato ed è ancora in pericolo, e voi in tribulazione.
Dalla quale se liberata esser volete, quello che a voi conviene promettere e molto maggiormente fare, è questo: se mai avviene che Tedaldo dal suo lungo sbandeggiamento qui torni, la vostra grazia, il vostro amore, la vostra benivolenzia e dimestichezza gli rendiate e in quello stato il ripognate nel quale era avanti che voi scioccamente credeste al matto frate.
Aveva il peregrino le sue parole finite, quando la donna, che attentissimamente le raccoglieva, per ciò che verissime le parevan le sue ragoni, e sé per certo per quel peccato, a lui udendol dire, estimava tribolata, disse:
- Amico di Dio, assai conosco vere le cose le quali ragionate, e in gran parte per la vostra dimostrazione conosco chi sieno i frati, infino ad ora da me tutti santi tenuti; e senza dubbio conosco il mio difetto essere stato grande in ciò che contro a Tedaldo adoperai, e se per me si potesse, volentieri l'amenderei nella maniera che detta avete; ma questo come si può fare? Tedaldo non ci potrà mai tornare; egli è morto; e per ciò quello che non si dee poter fare non so perché bisogni che io il vi prometta.
A cui il peregrin disse:
- Madonna, Tedaldo non è punto morto, per quello che Iddio mi dimostri, ma è vivo e sano e in buono stato, se egli la vostra grazia avesse.
Disse allora la donna:
- Guardate che voi diciate; io il vidi morto davanti alla mia porta di più punte di coltello, ed ebbilo in queste braccia e di molte mie lagrime gli bagnai il morto viso, le quali forse furon cagione di farne parlare quel cotanto che parlato se n'è disonestamente.
Allora disse il peregrino:
- Madonna, che che voi vi diciate, io v'accerto che Tedaldo è vivo; e, dove voi quello prometter vogliate per doverlo attenere, io spero che voi il vedrete tosto.
La donna allora disse:
- Questo fo io e farò volentieri; né cosa potrebbe avvenire che simile letizia mi fosse, che sarebbe il vedere il mio marito libero senza danno e Tedaldo vivo.
Parve allora a Tedaldo tempo di palesarsi e di confortare la donna con più certa speranza del suo marito, e disse:
- Madonna, acciò che io vi consoli del vostro marito, un gran segreto mi vi convien dimostrare, il quale guarderete che per la vita vostra voi mai non manifestiate.
Essi erano in parte assai remota e soli, somma confidenzia avendo la donna presa della santità che nel peregrino le pareva che fosse; per che Tedaldo, tratto fuori uno anello guardato da lui con somma diligenza, il quale la donna gli avea donato l'ultima notte che con lei era stato, e mostrando gliele disse:
- Madonna, conoscete voi questo?
Come la donna il vide, così il riconobbe, e disse:
- Messer sì, io il donai già a Tedaldo.
Il peregrino allora, levatosi in piè e prestamente la schiavina gittatasi di dosso e di capo il cappello, e fiorentino parlando disse:
- E me conoscete voi?
Quando la donna il vide, conoscendo lui esser Tedaldo, tutta stordì, così di lui temendo come de' morti corpi, se poi veduti andare come vivi, si teme; e non come Tedaldo venuto di Cipri a riceverlo gli si fece incontro, ma come Tedaldo dalla sepoltura quivi tornato fosse, fuggir si volle temendo.
A cui Tedaldo disse:
- Madonna, non dubitate, io sono il vostro Tedaldo vivo e sano, e mai né mori'né fu'morto? che che voi e i miei fratelli si credano.
La donna, rassicurata alquanto e tenendo la sua voce e alquanto più riguardatolo e seco affermando che per certo egli era Tedaldo, piagnendo gli si gittò al collo e baciollo, dicendo:
- Tedaldo mio dolce, tu sii il ben tornato.
Tedaldo, baciata e abbracciata lei, disse:
- Madonna, egli non è or tempo da fare più strette accoglienze; io voglio andare a fare che Aldobrandino vi sia sano e salvo renduto, della qual cosa spero che avanti che doman sia sera voi udirete novelle che vi piaceranno; sì veramente, se io l'ho buone, come io credo, della sua salute, io voglio stanotte poter venir da voi e contarlevi per più agio che al presente non posso.
E rimessasi la schiavina e 'l cappello, baciata un'altra volta la donna e con buona speranza riconfortatala, da lei si partì e colà se n'andò dove Aldobrandino in prigione era, più di paura della soprastante morte pensoso che di speranza di futura salute; e quasi in guisa di confortatore col piacere dei prigionieri a lui se n'entrò, e postosi con lui a sedere, gli disse:
- Aldobrandino, io sono un tuo amico a te mandato da Dio per la tua salute, al quale per la tua innocenzia è di te venuta pietà; e per ciò, se a reverenza di lui un picciol dono che io ti domanderò conceder mi vuoli, senza alcun fallo avanti che doman sia sera, dove tu la sentenzia della morte attendi, quella della tua assoluzione udirai.
A cui Aldobrandin rispose:
- Valente uomo, poi che tu della mia salute se'sollicito, come che io non ti conosca né mi ricordi mai più averti veduto, amico dei essere come tu di'.
E nel vero il peccato per lo quale uom dice che io debbo essere a morte giudicato, io nol commisi giammai; assai degli altri ho già fatti, li quali forse a que sto condotto m'hanno.
Ma così ti dico a reverenza di Dio, se egli ha al presente misericordia di me, ogni gran cosa, non che una picciola, farei volentieri, non che io promettessi; e però quello che ti piace addomanda, ché senza fallo, ov'egli avvenga che io scampi, io lo serverò fermamente.
Il peregrino allora disse:
- Quello che io voglio niun'altra cosa è se non che tu perdoni a' quattro fratelli di Tedaldo l'averti a questo punto condotto, te credendo nella morte del lor fratello esser colpevole, e abbigli per fratelli e per amici, dove essi di questo ti dimandin perdono.
A cui Aldobrandin rispose:
- Non sa quanto dolce cosa si sia la vendetta, né con quanto ardor si disideri, se non chi riceve l'offese; ma tuttavia, acciò che Iddio alla mia salute intenda, volentieri loro perdonerò e ora loro perdono; e se io quinci esco vivo e scampo, in ciò fare quella maniera terrò che a grado ti fia.
Questo piacque al peregrino, e senza volergli dire altro, sommamente il pregò che di buon cuore stesse, ché per certo che, avanti che il seguente giorno finisse, egli udirebbe novella certissima della sua salute.
E da lui partitosi, se n'andò alla signoria, e in segreto ad un cavaliere che quella tenea disse così:
- Signor mio, ciascun dee volentieri faticarsi in far che la verità delle cose si conosca, e massimamente coloro che tengono il luogo che voi tenete, acciò che coloro non portino le pene che non hanno il peccato commesso e i peccatori sien puniti.
La qual cosa acciò che avvenga, in onor di voi e in male di chi meritato l'ha, io son qui venuto a voi.
Come voi sapete, voi avete rigidamente contro Aldobrandin Palermini proceduto, e parvi aver trovato per vero lui essere stato quello che Tedaldo Elisei uccise, e siete per condannarlo; il che è certissimamente falso, sì come io credo avanti che mezza notte sia, dandovi gli ucciditori di quel giovane nelle mani, avervi mostrato.
Il valoroso uomo, al quale d'Aldobrandino increscea, volentier diede orecchi alle parole del peregrino; e molte cose da lui sopra ciò ragionate, per sua introduzione in su 'l primo sonno i due fratelli albergatori e il lor fante a man salva prese; e lor volendo, per rinvenire come stata fosse la cosa, porre al martorio, nol soffersero, ma ciascun per sé e poi tutti insieme apertamente confessarono sé essere stati coloro che Tedaldo Elisei ucciso aveano, non conoscendolo.
Domandati della cagione, dissero per ciò che egli alla moglie dell'un di loro, non essendovi essi nello albergo, aveva molta noia data e volutola sforzare a fare il voler suo.
Il peregrino, questo avendo saputo, con licenzia del gentile uomo si partì, e occultamente alla casa di madonna Ermellina se ne venne, e lei sola, essendo ogn'altro della casa andato a dormire, trovò che l'aspettava, parimente disiderosa d'udire buone novelle del marito e di riconciliarsi pienamente col suo Tedaldo.
Alla qual venuto, con lieto viso disse:
- Carissima donna mia, rallegrati, ché per certo tu riavrai domane qui sano e salvo il tuo Aldobrandino; - e per darle di ciò più intera credenza, ciò che fatto avea pienamente le raccontò.
La donna di due così fatti accidenti e così subiti, cioè di riaver Tedaldo vivo, il quale veramente credeva aver pianto morto, e di veder libero dal pericolo Aldobrandino, il quale fra pochi dì si credeva dover piagner morto, tanto lieta quanto altra ne fosse mai, affettuosamente abbracciò e baciò il suo Tedaldo; e andatisene insieme al letto, di buon volere fecero graziosa e lieta pace, l'un dell'altro prendendo dilettosa gioia.
E come il giorno s'appressò, Tedaldo levatosi, avendo già alla donna mostrato ciò che fare intendeva e da capo pregatola che occultissimo fosse, pure in abito peregrino si uscì del la casa della donna, per dovere, quando ora fosse, attendere a' fatti d'Aldobrandino.
La signoria, venuto il giorno, e parendole piena informazione avere dell'opera, prestamente Aldobrandino liberò, e pochi dì appresso a' malfattori, dove commesso avevan l'omicidio, fece tagliar la testa.
Essendo adunque libero Aldobrandino, con gran letizia di lui e della sua donna e di tutti i suoi amici e parenti, e conoscendo manifestamente ciò essere per opera del peregrino avvenuto, lui alla lor casa condussero per tanto quanto nella città gli piacesse di stare; e quivi di fargli onore e festa non si potevano veder sazi, e spezialmente la donna, che sapeva a cui farlosi.
Ma parendogli dopo alcun dì tempo di dovere i fratelli riducere a concordia con Aldobrandino, li quali esso sentiva non solamente per lo suo scampo scornati, ma armati per tema, domandò ad Aldobrandino la promessa.
Aldobrandino liberamente rispose sé essere apparecchiato.
A cui il peregrino fece per lo seguente dì apprestare un bel convito, nel quale gli disse che voleva che egli co' suoi parenti e colle sue donne ricevesse i quattro fratelli e le lor donne, aggiugnendo che esso medesimo andrebbe incontanente ad invitargli alla sua pace e al suo convito da sua parte.
Ed essendo Aldobrandino di quanto al peregrino piaceva contento il peregrino tantosto n'andò a' quattro fratelli, e con loro assai delle parole che intorno a tal materia si richiedeano usate, al fine con ragioni irrepugnabili assai agevolmente gli condusse a dovere, domandando perdono, l'amistà d'Aldobrandino racquistare; e questo fatto, loro e le lor donne a dover desinare la seguente mattina con Aldobrandino gl'invitò; ed essi liberamente, della sua fè sicurati, tennero lo 'nvito.
La mattina adunque seguente, in su l'ora del mangiare, primieramente i quattro fratelli di Tedaldo, così vestiti di nero come erano, con alquanti loro amici vennero a casa Aldobrandino, che gli attendeva; e quivi, davanti a tutti coloro che a fare lor compagnia erano stati da Aldobrandino invitati, gittate l'armi in terra, nelle mani d'Aldobrandino si rimisero, perdonanza domandando di ciò che contro a lui avevano adoperato.
Aldobrandino lagrimando pietosamente gli ricevette; e tutti baciandogli in bocca, con poche parole spacciandosi, ogni ingiuria ricevuta rimise.
Appresso costoro le sirocchie e le mogli loro, tutte di bruno vestite, vennero, e da madonna Ermellina e dall'altre donne graziosamente ricevute furono.
Ed essendo stati magnificamente serviti nel convito gli uomini parimente e le donne, né avendo avuto in quello cosa alcuna altro che laudevole, se non una, la taciturnità stata per lo fresco dolore rappresentato ne'vestimenti oscuri de' parenti di Tedaldo (per la qual cosa da alquanti il diviso e lo 'nvito del peregrino era stato biasimato ed egli se n'era accorto), come seco disposto avea, venuto il tempo da torla via, si levò in piè, mangiando ancora gli altri le frutte, e disse:
- Niuna cosa è mancata a questo convito a doverlo far lieto, se non Tedaldo; il quale, poi che avendolo avuto continuamente con voi non lo avete conosciuto, io il vi voglio mostrare.
E di dosso gittatasi la schiavina e ogni abito peregrino, in una giubba di zendado verde rimase, e non senza grandissima maraviglia di tutti guatato e riconosciuto fu lungamente, avanti che alcun s'arrischiasse a credere ch'el fosse desso.
Il che Tedaldo vedendo, assai de' lor parentadi, delle cose tra loro avvenute, de' suoi accidenti raccontò.
Per che i frategli e gli altri uomini, tutti di lagrime d'allegrezza pieni, ad abbracciare il corsero, e il simigliante appresso fecer le donne, così le non parenti come le parenti, fuor che monna Ermellina.
Il che Aldobrandino veggendo disse:
- Che è questo, Ermellina? Come non fai tu, come l'altre donne, festa a Tedaldo?
A cui, udenti tutti, la donna rispose:
- Niuna ce n'è che più volentieri gli abbia fatto festa e faccia, che farei io, sì come colei che più gli è tenuta che al cuna altra, considerato che per le sue opere io t'abbia riavuto; ma le disoneste parole dette ne'dì che noi piagnemmo colui che noi credevam Tedaldo, me ne fanno stare.
A cui Aldobrandin disse:
- Va via, credi tu che io creda agli abbaiatori? Esso, procacciando la mia salute, assai bene dimostrato ha quello essere stato falso, senza che io mai nol credetti; tosto leva su, va abbraccialo.
La donna, che altro non desiderava, non fu lenta in questo ad ubbidire il marito; per che, levatasi, come l'altre avevan fatto, così ella abbracciandolo gli fece lieta festa.
Questa liberalità d'Aldobrandino piacque molto ai fratelli di Tedaldo, e a ciascuno uomo e donna che quivi era; e ogni rugginuzza, che fosse nata nelle menti d'alcuni dalle parole state, per que sto si tolse via.
Fatta adunque da ciascun festa a Tedaldo, esso medesimo stracciò li vestimenti neri in dosso a' fratelli e i bruni alle sirocchie e alle cognate; e volle che quivi altri vestimenti si facessero venire.
Li quali poi che rivestiti furono, canti e balli e altri sollazzi vi si fecero assai; per la qual cosa il convito, che tacito principio avuto avea, ebbe sonoro fine.
E con grandissima allegrezza, così come eran, tutti a casa di Tedaldo n'andarono, e quivi la sera cenarono; e più giorni appresso, questa maniera tegnendo, la festa continuarono.
Li fiorentini più giorni quasi come un uomo risuscitato e maravigliosa cosa riguardaron Tedaldo; e a molti, e a' fratelli ancora, n'era un cotal dubbio debole nell'animo se fosse desso o no, e nol credevano ancor fermamente, né forse avrebber fatto a pezza, se un caso avvenuto non fosse che fe'lor chiaro chi fosse stato l'ucciso; il quale fu questo.
Passavano un giorno fanti di Lunigiana davanti a casa loro, e vedendo Tedaldo gli si fecero sirocchie dicendo:
- Ben possa stare Faziuolo.
A'quali Tedaldo in presenzia de' fratelli rispose:
- Voi m'avete colto in iscambio.
Costoro, udendol parlare, si vergognarono, e chiesongli perdono dicendo:
- In verità che voi risomigliate, più che uomo che noi vedessimo mai risomigliare un altro, un nostro compagno, il quale si chiama Faziuolo da Pontremoli, che venne, forse quindici dì o poco più fa, qua, né mai potemmo poi sapere che di lui si fosse.
Bene è vero che noi ci maravigliavamo dello abito, per ciò che esso era, sì come noi siamo, masnadiere.
Il maggior fratel di Tedaldo, udendo questo, si fece innanzi e domandò di che fosse stato vestito quel Faziuolo.
Costoro il dissero, e trovossi appunto così essere stato come costor dicevano; di che, tra per questi e per gli altri segni, riconosciuto fu colui che era stato ucciso essere stato Faziuolo e non Tedaldo; laonde il sospetto di lui uscì a' fratelli e a ciascun altro.
Tedaldo adunque, tornato ricchissimo, perseverò nel suo amare, e, senza più turbarsi la donna, discretamente operando, lungamente goderon del loro amore.
Iddio faccia noi goder del nostro.
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Novella Ottava
Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e dall'abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella moglie di lui generato.
Venuta era la fine della lunga novella d'Emilia, non per ciò dispiaciuta ad alcuno per la sua lunghezza, ma da tutti tenuto che brievemente narrata fosse stata, avendo rispetto alla quantità e alla varietà de' casi in essa raccontati; per che la reina, alla Lauretta con un sol cenno mostrato il suo disio, le diè cagione di così cominciare.
Carissime donne, a me si para davanti a doversi far raccontare una verità che ha, troppo più che di quello che ella fu, di menzogna sembianza, e quella nella mente m'ha ritornata l'avere udito un per un altro essere stato pianto e sepellito.
Dico adunque come un vivo per morto sepellito fosse, e come poi per risuscitato, e non per vivo, egli stesso e molti altri lui credessero essere della sepoltura uscito, colui di ciò essendo per santo adorato che come colpevole ne dovea più tosto essere condannato.
Fu adunque in Toscana una badia, e ancora è, posta, sì come noi ne veggiam molte, in luogo non troppo frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco, il quale in ogni cosa era santissimo fuor che nell'opera delle femine; e questo sapeva sì cautamente fare che quasi niuno, non che il sapesse, ma né suspicava, per che santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa.
Ora avvenne che, essendosi molto collo abate dimesticato un ricchissimo villano, il quale avea nome Ferondo, uomo materiale e grosso senza modo (né per altro la sua dimestichezza piaceva allo abate, se non per alcune recreazioni le quali talvolta pigliava delle sue simplicità), e in questa dimestichezza s'accorse l'abate Ferondo avere una bellissima donna per moglie, della quale esso sì ferventemente s'innamorò che ad altro non pensava né dì né notte.
Ma udendo che, quantunque Ferondo fosse in ogni altra cosa semplice e dissipito, in amare questa sua moglie e guardarla bene era savissimo, quasi se ne disperava.
Ma pure, come molto avveduto, recò a tanto Ferondo, che egli insieme colla sua donna a prendere alcuno diporto nel giardino della badia venivano alcuna volta; e quivi con loro della beatitudine di vita etterna e di santissime opere di molti uomini e donne passate ragionava modestissimamente loro, tanto che alla donna venne disidero di confessarsi da lui e chiesene la licenzia da Ferondo ed ebbela.
Venuta adunque a confessarsi la donna allo abate, con grandissimo piacer di lui e a piè postaglisi a sedere, anzi che adire altro venisse, incominciò:
- Messere, se Iddio m'avesse dato marito o non me lo avesse dato, forse mi sarebbe agevole co' vostri ammaestramenti d'entrare nel cammino che ragionato n'avete che mena altrui a vita etterna; ma io, considerato chi è Ferondo e la sua stultizia, mi posso dir vedova, e pur maritata sono, in quanto, vivendo esso, altro marito aver non posso; ed egli, così matto come egli è, senza alcuna cagione è sì fuori d'ogni misura geloso di me, che io, per questo, altro che in tribulazione e in mala ventura con lui viver non posso.
Per la qual cosa, prima che io ad altra confession venga, quanto più posso umilmente vi priego che sopra questo vi piaccia darmi alcun consiglio, per ciò che, se quinci non comincia la cagione del mio ben potere adoperare, il confessarmi o altro bene fare poco mi gioverà.
Questo ragionamento con gran piacere toccò l'animo dello abate, e parvegli che la fortuna gli avesse al suo maggior disidero aperta la via, e disse:
- Figliuola mia, io credo che gran noia sia ad una bella e dilicata donna, come voi siete, aver per marito un mentecatto, ma molto maggiore la credo essere l'avere un geloso; per che, avendo voi e l'uno e l'altro, agevolmente ciò che della vostra tribolazione dite vi credo.
Ma a questo, brievemente parlando, niuno né consiglio né rimedio veggo fuor che uno, il quale è che Ferondo di questa gelosia si guarisca.
La medicina da guarirlo so io troppo ben fare, purché a voi dea il cuore di segreto temere ciò che io vi ragionerò.
La donna disse:
- Padre mio, di ciò non dubitate, per ciò che io mi lascierei innanzi morire che io cosa dicessi ad altrui che voi mi diceste che io non dicessi; ma come si potrà far questo?
Rispose l'abate:
- Se noi vogliamo che egli guarisca, di necessità convien che egli vada in purgatoro.
- E come, - disse la donna - vi potrà egli andare vivendo?
Disse l'abate:
- Egli convien ch'e'muoia, e così v'andrà; e quando tanta pena avrà sofferta che egli di questa sua gelosia sarà gastigato, noi con certe orazioni pregheremo Iddio che in questa vita il ritorni, ed egli il farà.
- Adunque, - disse la donna - debbo io rimaner vedova?
- Sì, - rispose l'abate - per un certo tempo, nel quale vi converrà molto ben guardare che voi ad altrui non vi lasciate rimaritare, per ciò che Iddio l'avrebbe per male, e, tornandoci Ferondo, vi converrebbe a lui tornare, e sarebbe più geloso che mai.
La donna disse:
- Purché egli di questa mala ventura guarisca, che egli non mi convenga sempre stare in prigione, io son contenta; fate come vi piace.
Disse allora l'abate:
- E io il farò; ma che guiderdon debbo io aver da voi di così fatto servigio?
- Padre mio, - disse la donna - ciò che vi piace, purché io possa; ma che puote una mia pari, che ad un così fatto uomo, come voi siete, sia convenevole?
A cui l'abate disse:
- Madonna, voi potete non meno adoperar per me che sia quello che io mi metto a far per voi; per ciò che, sì come io mi dispongo a far quello che vostro bene e vostra consolazion dee essere, così voi potete far quello che fia salute e scampo della vita mia.
Disse allora la donna:
- Se così è, io sono apparecchiata.
- Adunque, - disse l'abate - mi donerete voi il vostro amore e faretemi contento di voi, per la quale io ardo tutto e mi consumo.
La donna, udendo questo, tutta sbigottita rispose:
- Ohimè, padre mio, che è ciò che voi domandate? Io mi credeva che voi foste un santo; or conviensi egli a' santi uomini di richieder le donne, che a lor vanno per consiglio, di così fatte cose?
A cui l'abate disse:
- Anima mia bella, non vi maravigliate, ché per questo la santità non diventa minore, per ciò che ella dimora nell'anima e quello che io vi domando è peccato del corpo.
Ma, che che si sia, tanta forza ha avuta la vostra vaga bellezza, che amore mi costrigne a così fare.
E dicovi che voi della vostra bellezza più che altra donna gloriar vi potete, pensando che ella piaccia a' santi, che sono usi di vedere quelle del cielo.
E oltre a questo, come che io sia abate, io sono uomo come gli altri, e, come voi vedete, io non sono ancor vecchio.
E non vi dee questo esser grave a dover fare, anzi il dovete disiderare, per ciò che, mentre che Ferondo starà in purgatoro, io vi darò, faccendovi la notte compagnia, quella consolazion che vi dovrebbe dare egli; né mai di questo persona niuna s'accorgerà, credendo ciascun di me quello, e più, che voi poco avante ne credevate.
Non rifiutate la grazia che Iddio vi manda, ché assai sono di quelle che quello disiderano che voi potete avere, e avrete, se savia crederete al mio consiglio.
Oltre a questo, io ho di belli gioielli e di cari, li quali io non intendo che d'altra persona sieno che vostri.
Fate adunque, dolce speranza mia, per me quello che io fo per voi volentieri.
La donna teneva il viso basso, né sapeva come negarlo, e il concedergliele non le pareva far bene; per che l'abate, veggendola averlo ascoltato e dare indugio alla risposta, parendo gliele avere già mezza convertita, con molte altre parole alle prime continuandosi, avanti che egli ristesse l'ebbe nel capo messo che questo fosse ben fatto; per che essa vergognosamente disse sé essere apparecchiata ad ogni suo comando, ma prima non potere che Ferondo andato fosse in purgatoro.
A cui l'abate contentissimo disse:
- E noi faremo che egli v'andrà incontanente; farete pure che domane o l'altro dì egli qua con meco se ne venga a dimorare; - e detto questo, postole celatamente in mano un bellissimo anello, la licenziò.
La donna lieta del dono e attendendo d'aver degli altri, alle compagne tornata, maravigliose cose cominciò a raccontare della santità dello abate e con loro a casa se ne tornò.
Ivi a pochi dì Ferondo se n'andò alla badia, il quale come l'abate vide, così s'avvisò di mandarlo in purgatoro.
E ritrovata una polvere di maravigliosa virtù, la quale nelle parti di Levante avuta avea da un gran principe, il quale affermava quella solersi usare per lo Veglio della Montagna, quando alcun voleva dormendo mandare nel suo paradiso o trarlone, e che ella, più e men data, senza alcuna lesione faceva per sì fatta maniera più e men dormire colui che la prendeva, che, mentre la sua virtù durava, alcuno non avrebbe mai detto colui in sé aver vita; e di questa tanta presane che a fare dormir tre giorni sufficiente fosse, e in un bicchier di vino non ben chiaro, ancora nella sua cella, senza avvedersene Ferondo, gliele diè bere, e lui appresso menò nel chiostro, e con più altri de' suoi monaci di lui cominciarono e delle sue sciocchezze a pigliar diletto.
Il quale non durò guari che, lavorando la polvere, a costui venne un sonno subito e fiero nella testa, tale che stando ancora in piè s'addormentò e addormentato cadde.
L'abate, mostrando di turbarsi dello accidente, fattolo scignere e fatta recare acqua fredda e gittargliele nel viso, e molti suoi altri argomenti fatti fare, quasi da alcuna fumosità di stomaco o d'altro che occupato l'avesse gli volesse la smarrita vita e 'l sentimento rivocare; veggendo l'abate e'monaci che per tutto questo egli non si risentiva, toccandogli il polso e niun sentimento trovandogli, tutti per constante ebbero ch'e'fosse morto; per che, mandatolo a dire alla moglie e a' parenti di lui, tutti quivi prestamente vennero, e avendolo la moglie colle sue parenti alquanto pianto, così vestito come era il fece l'abate mettere in uno avello.
La donna si tornò a casa, e da un piccol fanciullin che di lui aveva disse che non intendeva partirsi giammai; e così, rimasasi nella casa, il figliuolo e la ricchezza, che stata era di Ferondo, cominciò a governare.
L'abate con un monaco bolognese, di cui egli molto si confidava e che quel dì quivi da Bologna era venuto, levatosi la notte tacitamente, Ferondo trassero della sepoltura, e lui in una tomba, nella quale alcun lume non si vedea e che per prigione de' monaci che fallissero era stata fatta, nel portarono; e trattigli i suoi vestimenti e a guisa di monaco vestitolo, sopra un fascio di paglia il posero e lasciaronlo stare tanto ch'egli si risentisse.
In questo mezzo il monaco bolognese, dallo abate informato di quello che avesse a fare, senza saperne alcuna altra persona niuna cosa, cominciò ad attender che Ferondo si risentisse.
L'abate il dì seguente con alcun de' suoi monaci per modo di visitazion se n'andò a casa della donna, la quale di nero vestita e tribolata trovò, e confortatala alquanto, pianamente la richiese della promessa.
La donna, veggendosi libera e senza lo 'mpaccio di Ferondo o d'altrui, avendogli veduto in dito un altro bello anello, disse che era apparecchiata; e con lui compose che la seguente notte v'andasse.
Per che, venuta la notte, l'abate, travestito de' panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato, v'andò e con lei infino al matutino con grandissimo diletto e piacere si giacque, e poi si ritornò alla badia, quel camino per così fatto servigio faccendo assai sovente; e da alcuni e nello andare e nel tornare alcuna volta essendo scontrato, fu creduto che fosse Ferondo che andasse per quella contrada penitenza faccendo; e poi molte novelle tra la gente grossa della villa contatone, e alla moglie ancora, che ben sapeva ciò che era, più volte fu detto.
Il monaco bolognese, risentito Ferondo e quivi trovandosi senza saper dove si fosse, entrato dentro con una voce orribile, con certe verghe in mano, presolo, gli diede una gran battitura.
Ferondo, piangendo e gridando, non faceva altro che domandare:
- Dove sono io?
A cui il monaco rispose:
- Tu se'in purgatoro.
- Come! - disse Ferondo - dunque sono io morto?
Disse il monaco:
- Mai sì; - per che Ferondo sé stesso e la sua donna e 'l suo figliuolo cominciò a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.
Al quale il monaco portò alquanto da mangiare e da bere.
Il che veggendo Ferondo, disse:
- O mangiano i morti?
Disse il monaco:
- Sì; e questo che io ti reco è ciò che la donna, che fu tua, mandò stamane alla chiesa a far dir messe per l'anima tua, il che Domeneddio vuole che qui rappresentato ti sia.
Disse allora Ferondo:
- Domine, dalle il buono anno.
Io le voleva ben gran bene anzi che io morissi, tanto che io me la teneva tutta notte in braccio e non faceva altro che baciarla e anche faceva altro quando voglia me ne veniva.
E poi, gran voglia avendone, cominciò a mangiare e a bere; e non parendogli il vino troppo buono, disse:
- Domine, falla trista, ché ella non diede al prete del vino della botte di lungo il muro.
Ma poi che mangiato ebbe, il monaco da capo il riprese e con quelle medesime verghe gli diede una gran battitura.
A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse:
- Deh.
questo perché mi fai tu?
Disse il monaco:
- Per ciò che così ha comandato Domeneddio che ogni dì due volte ti sia fatto.
- E per che cagione? - disse Ferondo.
Disse il monaco:
- Perché tu fosti geloso, avendo la miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie.
- Ohimè, - disse Ferondo - tu di'vero, e la più dolce; ella era più melata che 'l confetto, ma io non sapeva che Domeneddio avesse per male che l'uomo fosse geloso, ché io non sarei stato.
Disse il monaco:
- Di questo ti dovevi tu avvedere mentre eri di là, e ammendartene; e se egli avviene che tu mai vi torni, fa che tu abbi sì a mente quello che io fo ora, che tu non sii mai più geloso.
Disse Ferondo:
- O ritornavi mai chi muore?
Disse il monaco:
- Sì, chi Dio vuole.
- Oh, - disse Ferondo - se io vi torno mai, io sarò il miglior marito del mondo; mai non la batterò, mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane, e anche non ci ha mandato candela niuna, ed emmi convenuto mangiare al buio.
Disse il monaco:
- Sì fece bene, ma elle arsero alle messe.
- Oh, - disse Ferondo - tu dirai vero; e per certo se io vi torno, io la lascerò fare ciò che ella vorrà.
Ma dimmi chi se'tu che questo mi fai?
Disse il monaco:
- Io sono anche morto, e fui di Sardigna, e perché io lodai già molto ad un mio signore l'esser geloso, sono stato dannato da Dio a questa pena, che io ti debba dare mangiare e bere e queste battiture, infino a tanto che Iddio di libererà altro di te e di me.
Disse Ferondo:
- Non c'è egli più persona che noi due?
Disse il monaco:
- Sì, a migliaia, ma tu non gli puoi né vedere né udire, se non come essi te.
Disse allora Ferondo:
- O quanto siam noi di lungi dalle nostre contrade?
- Ohioh! - disse il monaco - sevvi di lungi delle miglia più di ben la cacheremo.
- Gnaffe! cotesto è bene assai; - disse Ferondo - e per quel che mi paia, noi dovremmo essere fuor del mondo, tanta ci ha.
Ora in così fatti ragionamenti e in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo da dieci mesi in fra li quali assai sovente l'abate bene avventurosamente visitò la bella donna e con lei si diede il più bel tempo del mondo.
Ma, come avvengono le sventure, la donna ingravidò, e prestamente accortasene, il disse all'abate; per che ad amenduni parve che senza indugio Ferondo fosse da dovere essere di purgatoro rivocato a vita e che a lei si tornasse, ed ella di lui dicesse che gravida fosse.
L'abate adunque la seguente notte fece con una voce contraffatta chiamar Ferondo nella prigione, e dirgli:
- Ferondo, confortati, ché a Dio piace che tu torni al mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo della tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto, per ciò che per gli prieghi del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa questa grazia.
Ferondo, udendo questo, fu forte lieto e disse:
- Ben mi piace.
Dio gli dea il buono anno a messer Domeneddio e allo abate e a san Benedetto e alla moglie mia caciata, melata, dolciata.
L'abate, fattogli dare nel vino che egli gli mandava di quella polvere tanta che forse quattro ora il facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente il tornarono nello avello nel quale era stato sepellito.
La mattina in sul far del giorno Ferondo si risentì e vide per alcuno pertugio dello avello lume, il quale egli veduto non avea ben dieci mesi: per che, parendogli esser vivo, cominciò a gridare: - Apritemi, apritemi - ed egli stesso a pontar col capo nel coperchio dello avello sì forte, che ismossolo, per ciò che poca ismovitura avea, lo 'ncominciava a mandar via; quando i monaci, che detto avean matutino, corson colà e conobbero la voce di Ferondo e viderlo già del monimento uscir fuori; di che, spaventati tutti per la novità del fatto, cominciarono a fuggire e allo abate n'andarono.
Il quale, sembianti faccendo di levarsi d'orazione, disse:
- Figliuoli, non abbiate paura, prendete la croce e l'acqua santa e appresso di me venite, e veggiamo ciò che la potenzia di Dio ne vuol mostrare; - e così fece.
Era Ferondo tutto pallido, come colui che tanto tempo era stato senza vedere il cielo, fuor dello avello uscito.
Il quale, come vide l'abate, così gli corse a' piedi e disse:
- Padre mio, le vostre orazioni, secondo che revelato mi fu, e quelle di san Benedetto e della mia donna, m'hanno delle pene del purgatoro tratto e tornato in vita, di che io priego Iddio che vi dea il buono anno e le buone calendi, oggi e tuttavia.
L'abate disse:
- Lodata sia la potenza di Dio.
Va dunque, figliuolo, poscia che Iddio t'ha qui rimandato, e consola la tua donna, la qual sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata in lagrime, e sii da quinci innanzi amico e servidore di Dio.
Disse Ferondo:
- Messere, egli m'è ben detto così; lasciate far pur me, ché come io la troverò, così la bacerò, tanto bene le voglio.
L'abate rimaso co' monaci suoi, mostrò d'avere di questa cosa una grande ammirazione, e fecene divotamente cantare il Miserere.
Ferondo tornò nella sua villa, dove chiunque il vedeva fuggiva, come far si suole delle orribili cose, ma egli, richiamandogli, affermava sé essere risuscitato.
La moglie similmente aveva di lui paura.
Ma poi che la gente alquanto si fu rassicurata con lui e videro che egli era vivo, domandandolo di molte cose, quasi savio ritornato, a tutti rispondeva e diceva loro novelle dell'anime de' parenti loro, e faceva da sé medesimo le più belle favole del mondo de' fatti purgatoro, e in pien popolo raccontò la revelazione statagli fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello avanti che risuscitasse.
Per la qual cosa in casa colla moglie tornatosi e in possessione rientrato de' suoi beni, la 'ngravidò al suo parere, e per ventura venne che a convenevole tempo, secondo l'oppinione degli sciocchi che credono la femina nove mesi appunto portare i figliuoli, la donna partorì un figliuol maschio, il qual fu chiamato Benedetto Ferondi.
La tornata di Ferondo e le sue parole, credendo quasi ogn'uomo che risuscitato fosse, acrebbero senza fine la fama della santità dello abate.
E Ferondo, che per la sua gelosia molte battiture ricevute avea, sì come di quella guerito, secondo la promessa dello abate fatta alla donna, più geloso non fu per innanzi; di che la donna contenta, onestamente, come soleva, con lui si visse, sì veramente che, quando acconciamente poteva, volentieri col santo abate si ritrovava, il quale bene e diligentemente ne'suoi maggior bisogni servita l'avea.
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Novella Nona
Giletta di Nerbona guerisce il re di Francia d'una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui ed ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la tenne.
Restava, non volendo il suo privilegio rompere a Dioneo, solamente a dire alla reina, con ciò fosse cosa che già finita fosse la novella di Lauretta.
Per la qual cosa essa, senza aspettar d'essere sollicitata da' suoi, così tutta vaga cominciò a parlare.
Chi dirà novella omai che bella paia, avendo quella di Lauretta udita? Certo vantaggio ne fu che ella non fu la primiera, ché poche poi dell'altre ne sarebbon piaciute, e così spero che avverrà di quelle che per questa giornata sono a raccontare.
Ma pure, chente che ella si sia, quella che alla proposta materia m'occorre vi conterò.
Nel reame di Francia fu un gentile uomo, il quale chiamato fu Isnardo, conte di Rossiglione, il quale, per ciò che poco sano era, sempre appresso di sé teneva un medico, chiamato maestro Gerardo di Nerbona.
Aveva il detto conte un suo figliuol piccolo senza più, chiamato Beltramo, il quale era bellissimo e piacevole, e con lui altri fanciulli della sua età s'allevavano, tra'quali era una fanciulla del detto medico, chiamata Giletta; la quale infinito amore e oltre al convenevole della tenera età fervente pose a questo Beltramo.
Al quale, morto il conte e lui nelle mani del re lasciato, ne convenne andare a Parigi; di che la giovinetta fieramente rimase sconsolata; e non guari appresso, essendosi il padre di lei morto, se onesta cagione avesse potuta avere, volentieri a Parigi per veder Beltramo sarebbe andata; ma essendo molto guardata, per ciò che ricca e sola era rimasa, onesta via non vedea.
Ed essendo ella già d'età da marito, non avendo mai potuto Beltramo dimenticare, molti, a' quali i suoi parenti l'avevan voluta maritare, rifiutati n'avea senza la cagion dimostrare.
Ora avvenne che, ardendo ella dello amor di Beltramo più che mai, per ciò che bellissimo giovane udiva ch'era divenuto, le venne sentita una novella, come al re di Francia, per una nascenza che avuta avea nel petto ed era male stata curata, gli era rimasa una fistola, la quale di grandissima noia e di grandissima angoscia gli era, né s'era ancor potuto trovar medico, come che molti se ne fossero esperimentati, che di ciò l'avesse potuto guerire, ma tutti l'avean peggiorato, per la qual cosa il re, disperatosene, più d'alcun non voleva né consiglio né aiuto.
Di che la giovane fu oltremodo contenta, e pensossi non solamente per questo aver ligittima cagione d'andar a Parigi, ma, se quella infermità fosse che ella credeva, leggiermente poterle venir fatto d'aver Beltram per marito.
Laonde, sì come colei che già dal padre aveva assai cose apprese, fatta sua polvere di certe erbe utili a quella infermità che avvisava che fosse, montò a cavallo e a Parigi n'andò.
Né prima altro fece che ella s'ingegnò di veder Beltramo; e appresso nel cospetto del re venuta, di grazia chiese che la sua infermità gli mostrasse.
Il re veggendola bella giovane e avvenente, non gliele seppe disdire, e mostrogliele.
Come costei l'ebbe veduta, così incontanente si confortò di doverlo guerire, e disse:
- Monsignore, quando vi piaccia, senza alcuna noia o fatica di voi, io ho speranza in Dio d'avervi in otto giorni di questa infermità renduto sano.
Il re si fece in sé medesimo beffe delle parole di costei dicendo: - Quello che i maggiori medici del mondo non hanno potuto né saputo, una giovane femina come il potrebbe sapere? - Ringraziolla adunque della sua buona volontà e rispose che proposto avea seco di più consiglio di medico non seguire.
A cui la giovane disse:
- Monsignore, voi schifate la mia arte, perché giovane e femina sono; ma io vi ricordo che io non medico colla mia scienzia, anzi collo aiuto d'lddio e colla scienzia del maestro Gerardo nerbonese, il quale mio padre fu e famoso medico mentre visse.
Il re allora disse seco: - Forse m'è costei mandata da Dio; perché non pruovo io ciò che ella sa fare, poi dice senza noia di me in picciol tempo guerirmi? - E accordatosi di provarlo, disse:
- Damigella, e se voi non ci guerite, faccendoci rompere il nostro proponimento, che volete voi che ve ne segua?
- Monsignore, - rispose la giovane - fatemi guardare; e se io infra otto giorni non vi guerisco, fatemi bruciare; ma se io vi guerisco, che merito me ne seguirà?
A cui il re rispose:
- Voi ne parete ancor senza marito; se ciò farete, noi vi mariteremo bene e altamente.
Al quale la giovane disse:
- Monsignore, veramente mi piace che voi mi maritiate, ma io voglio un marito tale quale io vi domanderò, senza dovervi domandare alcun de' vostri figliuoli o della casa reale.
Il re tantosto le promise di farlo.
La giovane cominciò la sua medicina, e in brieve anzi il termine l'ebbe condotto a sanità.
Di che il re, guerito sentendosi, disse:
- Damigella, voi avete ben guadagnato il marito.
A cui ella rispose:
- Adunque, monsignore, ho io guadagnato Beltramo di Rossiglione, il quale infino nella mia puerizia io cominciai ad amare e ho poi sempre sommamente amato.
Gran cosa parve al re dovergliele dare; ma, poi che promesso l'avea, non volendo della sua fè mancare, se 'l fece chiamare e sì gli disse:
- Beltramo, voi siete omai grande e fornito.
Noi vogliamo che voi torniate a governare il vostro contado e con voi ne meniate una damigella, la qual noi v'abbiamo per moglie data.
Disse Beltramo:
- E chi è la damigella, monsignore?
A cui il re rispose:
- Ella è colei la qual n'ha con le sue medicine sanità renduta.
Beltramo, il quale la conosceva e veduta l'avea, quantunque molto bella gli paresse, conoscendo lei non esser di legnaggio che alla sua nobiltà bene stesse, tutto sdegnoso disse:
- Monsignore, dunque mi volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio non piaccia che io sì fatta femina prenda giammai.
A cui il re disse:
- Dunque volete voi che noi vegniamo meno di nostra fede, la qual noi per riaver sanità donammo alla damigella, che voi in guiderdon di ciò domandò per marito?
- Monsignore, - disse Beltramo - voi mi potete torre quant'io tengo, e donarmi, sì come vostro uomo, a chi vi piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non sarò di tal maritaggio contento.
- Sì sarete, - disse il re - per ciò che la damigella è bella e savia e amavi molto; per che speriamo che molto più lieta vita con lei avrete che con una donna di più alto legnaggio non avreste.
Beltramo si tacque, e il re fece fare l'apparecchio grande per la festa delle nozze.
E venuto il giorno a ciò determinato, quantunque Beltramo mal volentieri il facesse, nella presenzia del re la damigella sposò, che più che sé l'amava.
E questo fatto, come colui che seco già pensato avea quello che far dovesse, dicendo che al suo contado tornar si voleva e quivi consumare il matrimonio, chiese commiato al re; e montato a cavallo, non nel suo contado se n'andò, ma se ne venne in Toscana.
E saputo che i fiorentini guerreggiavano co' sanesi, ad essere in lor favore si dispose; dove, lietamente ricevuto e con onore, fatto di certa quantità di gente capitano e da loro avendo buona provisione, al loro servigio si rimase e fu buon tempo.
La novella sposa, poco contenta di tal ventura, sperando di doverlo, per suo bene operare, rivocare al suo contado, se ne venne a Rossiglione, dove da tutti come lor donna fu ricevuta.
Quivi trovando ella, per lo lungo tempo che senza conte stato v'era, ogni cosa guasta e scapestrata, sì come savia donna, con gran diligenzia e sollicitudine ogni cosa rimise in ordine; di che i suggetti si contentaron molto e lei ebbero molto cara e poserle grande amore, forte biasimando il conte di ciò ch'egli di lei non si contentava.
Avendo la donna tutto racconcio il paese, per due cavalieri al conte il significò, pregandolo che, se per lei stesse di non venire al suo contado, gliele significasse, ed ella per compiacergli si partirebbe.
Alli quali esso durissimo disse:
- Di questo faccia ella il piacer suo; io per me vi tornerò allora ad esser con lei che ella questo anello avrà in dito, e in braccio figliuol di me acquistato.
Egli aveva l'anello assai caro, né mai da sé il partiva, per alcuna virtù che stato gli era dato ad intendere ch'egli avea.
I cavalieri intesero la dura condizione posta nelle due quasi impossibili cose; e veggendo che per loro parole dal suo proponimento nol potevan rimovere, si tornarono alla donna e la sua risposta le raccontarono.
La quale, dolorosa molto, dopo lungo pensiero diliberò di voler sapere se quelle due cose potesser venir fatt'e dove, acciò che per conseguente il marito suo riavesse.
E avendo quello che far dovesse avvisato, ragunati una parte de' maggiori e de' migliori uomini del suo contado, loro assai ordinatamente e con pietose parole raccontò ciò che già fatto avea per amor del conte, e mostrò quello che di ciò seguiva; e ultimamente disse che sua intenzion non era che per la sua dimora quivi il conte stesse in perpetuo essilio, anzi intendeva di consumare il rimanente della sua vita in peregrinaggi e in servigi misericordiosi per la salute dell'anima sua; e pregogli che la guardia e il governo del contado prendessero e al conte significassero lei avergli vacua ed espedita lasciata la possessione, e dileguatasi con intenzione di mai in Rossiglione non tornare.
Quivi, mentre ella parlava, furon lagrime sparte assai dai buoni uomini e a lei porti molti prieghi che le piacesse di mutar consiglio e di rimanere; ma niente montarono.
Essa, accomandati loro a Dio, con un suo cugino e con una sua cameriera in abito di peregrini, ben forniti a denari e care gioie, senza sapere alcuno ove ella s'andasse, entrò in cammino, né mai ristette sì fu in Firenze; e quivi per avventura arrivata in uno alberghetto, il quale una buona donna vedova teneva, pianamente a guisa di povera peregrina si stava, disiderosa di sentire novelle del suo signore.
Avvenne adunque che il seguente dì ella vide davanti allo albergo passare Beltramo a cavallo con sua compagnia, il quale quantunque ella molto ben conoscesse, nondimeno domandò la buona donna dello albergo chi egli fosse.
A cui l'albergatrice rispose:
- Questi è un gentile uom forestiere, il quale si chiama il conte Beltramo, piacevole e cortese e molto amato in questa città; ed è il più innamorato uom del mondo d'una nostra vicina, la quale è gentil femina, ma è povera.
Vero è che onestissima giovane è, e per povertà non si marita ancora, ma con una sua madre, savissima e buona donna, si sta; e forse, se questa sua madre non fosse, avrebbe ella già fatto di quello che a questo conte fosse piaciuto.
La contessa, queste parole intendendo, raccolse bene; e più tritamente essaminando vegnendo ogni particularità, e bene ogni cosa compresa fermò il suo consiglio; e apparata la casa e 'l nome della donna e della sua figliuola dal conte amata, un giorno tacitamente in abito peregrino là se n'andò; e la donna e la sua figliuola trovate assai poveramente, salutatele, disse alla donna, quando le piacesse, le volea parlare.
La gentil donna, levatasi, disse che apparecchiata era d'udirla; ed entratesene sole in una sua camera e postesi a sedere, cominciò la contessa:
- Madonna, e'mi pare che voi siate delle nimiche della fortuna, come sono io; ma, dove voi voleste, per avventura voi potreste voi e me consolare.
La donna rispose che niuna cosa disiderava quanto di consolarsi onestamente.
Seguì la contessa:
- A me bisogna la vostra fede, nella quale se io mi rimetto e voi m'ingannaste, voi guastereste i vostri fatti e i miei.
- Sicuramente, - disse la gentil donna - ogni cosa che vi piace mi dite, ché mai da me non vi troverete ingannata.
Allora la contessa, cominciatasi dar suo primo innamoramento, chi ell'era e ciò che intervenuto l'era infino a quel giorno le raccontò per sì fatta maniera, che la gentil donna, dando fede alle sue parole, sì come quella che già in parte udite l'aveva da altrui, cominciò di lei ad aver compassione.
E la contessa, i suoi casi raccontati, seguì:
- Udite adunque avete tra l'altre mie noie quali sieno quelle due cose che aver mi convien, se io voglio avere il mio marito, le quali niuna altra persona conosco che far me le possa aver, se non voi, se quello è vero che io intendo, cioè che 'l conte mio marito sommamente ami vostra figliuola.
A cui la gentil donna disse:
- Madonna, se il conte ama mia figliuola io nol so, ma egli ne fa gran sembianti; ma che poss'io per ciò in questo adoperare che voi disiderate?
- Madonna, - rispose la contessa - io il vi dirò; ma primieramente vi voglio mostrar quello che io voglio che ve ne segua, dove voi mi serviate.
Io veggio vostra figliuola bella e grande da marito, e per quello che io abbia inteso e comprender mi paia, il non aver ben da maritarla ve la fa guardare in casa.
Io intendo che, in merito del servigio che mi farete, di darle prestamente de' miei denari quella dote che voi medesima a maritarla onorevolmente stimerete che sia convenevole.
Alla donna, sì come bisognosa, piacque la profferta, ma tuttavia, avendo l'animo gentil, disse:
- Madonna, ditemi quello che io posso per voi operare, e, se egli sarà onesto a me, io il farò volentieri, e voi appresso farete quello che vi piacerà.
Disse allora la contessa:
- A me bisogna che voi, per alcuna persona di cui voi vi fidiate, facciate al conte mio marito dire che vostra figliuola sia presta a fare ogni suo piacere, dove ella possa esser certa che egli così l'ami come dimostra; il che ella non crederà mai, se egli non le manda l'anello il quale egli porta in mano e che ella ha udito ch'egli ama cotanto; il quale se egli 'l vi manda, voi 'l mi donerete.
E appresso gli manderete a dire vostra figliuola essere apparecchiata di fare il piacer suo, e qui il farete occultamente venire e nascosamente me in iscambio di vostra figliuola gli metterete al lato.
Forse mi farà Iddio grazia d'ingravidare; e così appresso, avendo il suo anello in dito e il figliuolo in braccio da lui generato, io il racquisterò e con lui dimorerò come moglie dee dimorar con marito, essendone voi stata cagione.
Gran cosa parve questa alla gentil donna, temendo non forse biasimo ne seguisse alla figliuola; ma pur pensando che onesta cosa era il dare opera che la buona donna riavesse il suo marito e che essa ad onesto fine a far ciò si mettea, nella sua buona e onesta affezion confidandosi, non solamente di farlo promise alla contessa, ma infra pochi giorni con segreta cautela, secondo l'ordine dato da lei, ed ebbe l'anello (quantunque gravetto paresse al conte) e lei in iscambio della figliuola a giacer col conte maestrevolmente mise.
Ne'quali primi congiugnimenti affettuosissimamente dal conte cercati, come fu piacer di Dio, la donna ingravidò in due figliuoli maschi, come il parto al suo tempo venuto fece manifesto.
Né solamente d'una volta contentò la gentil donna la contessa degli abbracciamenti del marito, ma molte, sì segretamente operando, che mai parola non se ne seppe; credendosi sempre il conte non con la moglie, ma con colei la quale egli amava essere stato.
A cui, quando a partir si venia la mattina, avea parecchi belle e care gioie donate, le quali tutte diligentemente la contessa guardava.
La quale, sentendosi gravida, non volle più la gentil donna gravare di tal servigio, ma le disse:
- Madonna, la Dio mercé e la vostra, io ho ciò che io disiderava, e per ciò tempo è che per me si faccia quello che v'aggraderà, acciò che io poi me ne vada.
La gentil donna le disse che, se ella aveva cosa che l'aggradisse, che le piaceva; ma che ciò ella non avea fatto per alcuna speranza di guiderdone, ma perché le pareva doverlo fare a voler ben fare.
A cui la contessa disse:
- Madonna, questo mi piace bene, e così d'altra parte io non intendo di donarvi quello che voi mi domanderete per guiderdone, ma per far bene, ché mi pare che si debba così fare.
La gentil donna allora, da necessità costretta, con grandissima vergogna cento lire le domandò per maritar la figliuola.
La contessa, cognoscendo la sua vergogna e udendo la sua cortese domanda, le ne donò cinquecento e tanti belli e cari gioielli, che valevano per avventura altrettanto; di che la gentil donna vie più che contenta, quelle grazie che maggiori potè alla contessa rendè, la quale da lei partitasi se ne tornò allo albergo.
La gentil donna, per torre materia a Beltramo di più né mandare né venire a casa sua, insieme con la figliuola se n'andò in contado a casa di suoi parenti; e Beltramo ivi a poco tempo da' suoi uomini richiamato, a casa sua, udendo che la contessa s'era dileguata, se ne tornò.
La contessa, sentendo lui di Firenze partito e tornato nel suo contado, fu contenta assai, e tanto in Firenze dimorò che 'l tempo del parto venne, e partorì due figliuoli maschi simigliantissimi al padre loro, e quegli fe'dilingentemente nudrire.
E quando tempo le parve, in cammino messasi, senza essere da alcuna persona conosciuta con essi a Monpolier se ne venne; e quivi più giorni riposata, e del conte e dove fosse avendo spiato, e sentendo lui il dì d'Ognissanti in Rossiglione dover fare una gran festa di donne e di cavalieri, pure in forma di peregrina, come usata n'era, là se n'andò.
E sentendo le donne e'cavaleri nel palagio del conte adunati per dovere andare a tavola, senza mutare abito, con questi suoi figlioletti in braccio salita in su la sala, tra uomo e uomo là se n'andò dove il conte vide, e gittataglisi a' piedi disse piagnendo:
- Signor mio, io sono la tua sventurata sposa, la quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente andata son tapinando.
Io ti richieggo per Dio che le condizioni postemi per li due cavalieri che io ti mandai, tu le mi osservi; ed ecco nelle mie braccia non un sol figliuol di te, ma due, ed ecco qui il tuo anello.
Tempo è adunque che io debba da te, sì come moglie esser ricevuta secondo la tua promessa.
Il conte, udendo questo, tutto misvenne, e riconobbe l'anello e i figliuoli ancora, sì simili erano a lui; ma pur disse:
- Come può questo essere intervenuto?
La contessa, con gran meraviglia del conte e di tutti gli altri che presenti erano, ordinatamente ciò che stato era, e come, raccontò.
Per la qual cosa il conte, conoscendo lei dire il vero e veggendo la sua perseveranza e il suo senno e appresso due così be'figlioletti; e per servar quello che promesso avea e per compiacere a tutti i suoi uomini e alle donne, che tutti pregavano che lei come sua ligittima sposa dovesse omai raccogliere e onorare, pose giù la sua ostinata gravezza e in piè fece levar la contessa, e lei abbracciò e baciò e per sua ligittima moglie riconobbe, e quegli per suoi figliuoli.
E fattala di vestimenti a lei convenevoli rivestire, con grandissimo piacere di quanti ve n'erano e di tutti gli altri suoi vassalli che ciò sentirono, fece, non solamente tutto quel dì ma più altri grandissima festa; e da quel dì innanzi, lei sempre come sua sposa e moglie onorando, l'amò e sommamente ebbe cara.
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Novella Decima
Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.
Dioneo, che diligentemente la novella della reina ascoltata avea, sentendo che finita era e che a lui solo restava il dire, senza comandamento aspettare, sorridendo cominciò a dire.
Graziose donne, voi non udiste forse mai dire come il diavolo si rimetta in inferno; e per ciò, senza partirmi guari dallo effetto che voi tutto questo dì ragionato avete, io il vi vo'dire; forse ancora ne potrete guadagnare l'anima avendolo apparato, e potrete anche conoscere che, quantunque Amore i lieti palagi e le morbide camere più volentieri che le povere capanne abiti, non è egli per ciò che alcuna volta esso fra'folti boschi e fra le rigide alpi e nelle diserte spelunche non faccia le sue forze sentire; il perché comprender si può alla sua potenza essere ogni cosa suggetta.
Adunque, venendo al fatto, dico che nella città di Capsa in Barberia fu già un ricchissimo uomo, il quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e gentilesca, il cui nome fu Alibech.
La quale, non essendo cristiana e udendo a molti cristiani che nella città erano molto commendare la cristiana fede e il servire a Dio, un dì ne domandò alcuno in che maniera e con meno impedimento a Dio si potesse servire.
Il quale le rispose che coloro meglio a Dio servivano che più delle cose del mondo fuggivano, come coloro facevano che nelle solitudini de' diserti di Tebaida andati se n'erano.
La giovane, che semplicissima era e d'età forse di quattordici anni, non da ordinato disidero ma da un cotal fanciullesco appetito mossa, senza altro farne ad alcuna persona sentire, la seguente mattina ad andar verso il diserto di Tebaida nascosamente tutta sola si mise; e con gran fatica di lei, durando l'appetito, dopo alcun dì a quelle solitudini pervenne; e veduta di lontano una casetta, a quella n'andò, dove un santo uomo trovò sopra l'uscio, il quale, maravigliandosi di quivi vederla, la domandò quello che ella andasse cercando.
La quale rispose, che, spirata da Dio andava cercando d'essere al suo servigio, e ancora chi le 'nsegnasse come servire gli si conveniva.
Il valente uomo, veggendola giovane e assai bella, temendo non il demonio, se egli la ritenesse, lo 'ngannasse, le commendò la sua buona disposizione; e dandole alquanto da mangiare radici d'erbe e pomi salvatichi e datteri e bere acqua, le disse:
- Figliuola mia, non guari lontan di qui è un santo uomo, il quale di ciò che tu vai cercando è molto migliore maestro che io non sono; a lui te n'andrai; - e misela nella via.
Ed ella, pervenuta a lui e avute da lui queste medesime parole, andata più avanti, pervenne alla cella d'uno romito giovane, assai divota persona e buona, il cui nome era Rustico, e quella dimanda gli fece che agli altri aveva fatta.
Il quale, per volere fare della sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la mandò via o più avanti, ma seco la ritenne nella sua cella; e venuta la notte, un lettuccio di frondi di palma le fece da una parte e sopra quello le disse si riposasse.
Questo fatto, non preser guari d'indugio le tentazioni a dar battaglia alle forze di costui; il quale, trovandosi di gran lunga ingannato da quelle, senza troppi assalti voltò le spalle e rendessi per vinto; e lasciati stare dall'una delle parti i pensier santi e l'orazioni e le discipline, a recarsi per la memoria la giovinezza e la bellezza di costei 'ncominciò, e oltre a questo a pensar che via e che modo egli dovesse con lei tenere, acciò che essa non s'accorgesse lui come uomo dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava.
E tentato primieramente con certe domande, lei non aver mai uomo conosciuto conobbe e così essere semplice come parea; per che s'avvisò come, sotto spezie di servire a Dio, lei dovesse recare a' suoi piaceri.
E primieramente con molte parole le mostrò quanto il diavolo fosse nemico di Domeneddio; e appresso le diede ad intendere che quello servigio che più si poteva far grato a Dio si era rimettere il diavolo in inferno, nel quale Domeneddio l'aveva dannato.
La giovinetta il domandò, come questo si facesse.
Alla quale Rustico disse:
- Tu il saprai tosto, e perciò farai quello che a me far vedrai; - e cominciossi a spogliare quegli pochi vestimenti che aveva, e rimase tutto ignudo, e così ancora fece la fanciulla, e posesi ginocchione a guisa che adorar volesse e dirimpetto a sé fece star lei.
E così stando, essendo Rustico più che mai nel suo disidero acceso per lo vederla così bella, venne la resurrezion della carne, la quale riguardando Alibech e maravigliatasi, disse:
- Rustico, quella che cosa è che io ti veggio che così si pigne in fuori, e non l'ho io?
- O figliuola mia, - disse Rustico - questo è il diavolo di che io t'ho parlato.
E vedi tu? ora egli mi dà grandissima molestia, tanta che io appena la posso sofferire.
Allora disse la giovane:
- Oh lodato sia Iddio, ché io veggio che io sto meglio che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io.
Disse Rustico:
- Tu di'vero, ma tu hai un'altra cosa che non la ho io, e haila in iscambio di questo.
Disse Alibech: - O che?
A cui Rustico disse:
- Hai il ninferno; e dicoti che io mi credo che Iddio t'abbia qui mandata per la salute della anima mia, per ciò che se questo diavolo pur mi darà questa noia, ove tu vogli aver di me tanta pietà e sofferire che io in inferno il rimetta, tu mi darai grandissima consolazione e a Dio farai grandissimo piacere e servigio, se tu per quello fare in queste parti venuta se', che tu di'.
La giovane di buona fede rispose:
- O padre mio, poscia che io ho il ninferno, sia pure quando vi piacerà.
Disse allora Rustico:
- Figliuola mia, benedetta sia tu; andiamo dunque, e rimettiamlovi sì che egli poscia mi lasci stare.
E così detto, menata la giovane sopra uno de' loro letticelli, le 'nsegnò come star si dovesse a dovere incarcerare quel maladetto da Dio.
La giovane, che mai più non aveva in inferno messo diavolo alcuno, per la prima volta sentì un poco di noia, per che ella disse a Rustico:
- Per certo, padre mio, mala cosa dee essere questo diavolo, e veramente nimico di Dio, ché ancora al ninferno, non che altrui, duole quando egli v'è dentro rimesso.
Disse Rustico:
- Figliuola, egli non avverrà sempre così.
E per fare che questo non avvenisse, da sei volte, anzi che di su il letticel si movessero, ve 'l rimisero, tanto che per quella volta gli trasser sì la superbia del capo, che egli si stette volentieri in pace.
Ma, ritornatagli poi nel seguente tempo più volte, e la giovane ubbidiente sempre a trargliele si disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e cominciò a dire a Rustico:
- Ben veggio che il ver dicevano que'valentuomini in Capsa, che il servire a Dio era così dolce cosa; e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra ne facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimetter il diavolo in inferno; e per ciò io giudico ogn'altra persona, che ad altro che a servire a Dio attende, essere una bestia.
Per la qual cosa essa spesse volte andava a Rustico, e gli dicea:
- Padre mio, io son qui venuta per servire a Dio e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo in inferno.
La qual cosa faccendo, diceva ella alcuna volta:
- Rustico, io non so perché il diavolo si fugga del ninferno; ché, s'egli vi stesse così volentieri come il ninferno il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai.
Così adunque invitando spesso la giovane Rustico e al servigio di Dio confortandolo, sì la bambagia del farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva freddo che un altro sarebbe sudato; e per ciò egli incominciò a dire alla giovane che il diavolo non era da gastigare né da rimettere in inferno se non quando egli per superbia levasse il capo: - E noi per la grazia di Dio l'abbiamo sì sgannato, che egli priega Iddio di starsi in pace ; - e così alquanto impose di silenzio alla giovane.
La qual, poi che vide che Rustico più non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse un giorno:
- Rustico, se il diavolo tuo è gastigato e più non ti dà noia, me il mio ninferno non lascia stare; per che tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti attutare la rabbia al mio ninferno, com'io col mio ninferno ho aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo.
Rustico, che di radici d'erba e d'acqua vivea, poteva male rispondere alle poste; e dissele che troppi diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare, ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse; e così alcuna volta le sodisfaceva, ma sì era di rado, che altro non era che gittare una fava in bocca al leone; di che la giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva, mormorava anzi che no.
Ma, mentre che tra il diavolo di Rustico e il ninferno d'Alibech era, per troppo disiderio e per men potere, questa quistione, avvenne che un fuoco s'apprese in Capsa, il quale nella propria casa arse il padre d'Alibech con quanti figliuoli e altra famiglia avea; per la qual cosa Alibech d'ogni suo bene rimase erede.
Laonde un giovane chiamato Neerbale, avendo in cortesia tutte le sue facultà spese, sentendo costei esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che la corte i beni stati del padre, sì come d'uomo senza erede morto, occupasse, con gran piacere di Rustico e contra al volere di lei la rimenò in Capsa e per moglie la prese, e con lei insieme del gran patrimonio divenne erede.
Ma, essendo ella domandata dalle donne di che nel diserto servisse a Dio, non essendo ancor Neerbale giaciuto con lei, rispose che il serviva di rimettere il diavolo in inferno, e che Neerbale aveva fatto gran peccato d'averla tolta da così fatto servigio.
Le donne domandarono: - Come si rimette il diavolo in inferno?
La giovane, tra con parole e con atti, il mostrò loro.
Di che esse fecero sì gran risa che ancor ridono, e dissono:
- Non ti dar malinconia, figliuola, no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirà bene con esso teco Domeneddio.
Poi l'una all'altra per la città ridicendolo, vi ridussono in volgar motto che il più piacevol servigio che a Dio si facesse era il rimettere il diavolo in inferno; il qual motto passato di qua da mare ancora dura.
E per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacer delle parti, e molto bene ne può nascere e seguire.
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Conclusione
Mille fiate o più aveva la novella di Dioneo a rider mosse l'oneste donne, tali e sì fatte loro parevan le sue parole.
Per che, venuto egli al conchiuder di quella, conoscendo la reina che il termine della sua signoria era venuto, levatasi la laurea di capo, quella assai piacevolmente pose sopra la testa a Filostrato, e disse:
- Tosto ci avvedremo se il lupo saprà meglio guidare le pecore, che le pecore abbiano i lupi guidati.
Filostrato, udendo questo, disse ridendo:
- Se mi fosse stato creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in inferno, non peggio che Rustico facesse ad Alibech, e perciò non ne chiamate lupi, dove voi state pecore non siete; tuttavia, secondo che conceduto mi fia, io reggerò il regno commesso.
A cui Neifile rispose:
- Odi, Filostrato, voi avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno, come apparò Masetto da Lamporecchio dalle monache e riavere la favella a tale ora che l'ossa senza maestro avrebbono apparato a sufolare.
Filostrato, conoscendo che falci si trovavano non meno che egli avesse strali, lasciato stare il motteggiare, a darsi al governo del regno commesso cominciò.
E, fattosi il siniscalco chiamare, a che punto le cose fossero tutte volle sentire; e oltre a questo, secondo che avviso che bene stesse e che dovesse sodisfare alla compagnia, per quanto la sua signoria dovea durare, discretamente ordinò; e quindi alle donne rivolto, disse:
- Amorose donne, per la mia disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza d'alcuna di voi stato sono ad Amor suggetto, né l'essere umile né l'essere ubbidiente né il seguirlo in ciò che per me s'è conosciuto alla seconda in tutti i suoi costumi, m'è valuto, ch'io prima per altro abbandonato e poi non sia sempre di male in peggio andato, e così credo che io andrò di qui alla morte; e per ciò non d'altra materia domane mi piace che si ragioni se non di quella che a' miei fatti è più conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero infelice fine, per ciò che io a lungo andar l'aspetto infelicissimo, né per altro il nome, per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire mi fu imposto - e così detto, in piè levatosi, per infino all'ora della cena licenziò ciascuno.
Era sì bello il giardino e sì dilettevole, che alcuno non vi fu che eleggesse di quello uscire per più piacere altrove dover sentire.
Anzi, non faccendo il sol già tiepido alcuna noia a seguire, i cavriuoli e i conigli e gli altri animali che erano per quello e che a lor sedenti forse cento volte per mezzo lor saltando eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare.
Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di Messer Guiglielmo e della Dama del Vergiù; Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi; e così chi una cosa e chi altra faccendo, fuggendosi il tempo, l'ora della cena appena aspettata sopravvenne; per che, messe le tavole d'intorno alla bella fonte, quivi con grandissimo diletto cenaron la sera.
Filostrato, per non uscir del camin tenuto da quelle che reine avanti a lui erano state, come levate furono le tavole, così comandò che la Lauretta una danza prendesse e dicesse una canzone.
La qual disse:
- Signor mio, delle altrui canzoni io non so, né delle mie alcuna n'ho alla mente che sia assai convenevole a così lieta brigata; se voi di quelle che io ho volete, io ne dirò volentieri.
Alla quale il re disse:
- Niuna tua cosa potrebbe essere altro che bella e piacevole; e per ciò tale qual tu l'hai, cotale la di'.
Lauretta allora con voce assai soave, ma con maniera alquanto pietosa, rispondendo l'altre, cominciò così
Niuna sconsolata
da dolersi ha quant'io,
che 'nvan sospiro, lassa!, innamorata
Colui che muove il cielo e ogni stella,
mi fece a suo diletto
vaga, leggiadra, graziosa e bella,
per dar qua giù ad ogn'alto intelletto
alcun segno di quella
biltà, che sempre a lui sta nel cospetto:
e il mortal difetto,
come mal conosciuta,
non m'aggradisce, anzi m'ha dispregiata.
Già fu chi m'ebbe cara, e volentieri
giovinetta mi prese
nelle sue braccia e dentro a' suoi pensieri
e de' miei occhi tututto s'accese;
e 'l tempo, che leggieri
sen vola, tutto in vagheggiarmi spese;
e io, come cortese,
di me il feci degno;
ma or ne son, dolente a me!, privata.
Femmisi innanzi poi presuntuoso
un giovinetto fiero,
sé nobil reputando e valoroso,
e presa tienmi, e con falso pensiero
divenuto è geloso;
laond'io, lassa!, quasi mi dispero,
cognoscendo per vero,
per ben di molti al mondo
venuta, da uno essere occupata.
Io maladico la mia isventura,
quando, per mutar vesta,
sì dissi mai; sì bella nella oscura
mi vidi già e lieta, dove in questa
io meno vita dura,
vie men che prima reputata onesta
O dolorosa festa,
morta foss'io avanti
che io t'avessi in tal caso provata!
O caro amante, del qual prima fui
più che altra contenta,
che or nel ciel se'davanti a Colui
che ne creò, deh pietoso diventa
di me, che per altrui
te obliar non posso; fa ch'io senta
che quella fiamma spenta
non sia, che per me t'arse,
e costà su m'impetra la tornata.
Qui fece fine la Lauretta alla sua canzone, la quale notata da tutti, diversamente da diversi fu intesa; ed ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse meglio un buon porco che una bella tosa.
Altri furono di più sublime e migliore e più vero intelletto, del quale al presente recitare non accade.
Il re, dopo questa, su l'erba e 'n su'fiori avendo fatti molti doppieri accendere, ne fece più altre cantare infin che già ogni stella a cader cominciò che salia.
Per che, ora parendogli da dormire, comandò che con la buona notte ciascuno alla sua camera si tornasse.
Finisce la terza giornata del Decameron
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Quarta Giornata
Introduzione alla quarta giornata
Novella prima
Tancredi prenze di Salerno uccide l'amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d'oro; la quale, messa sopr'esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore.
Novella seconda
Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l'Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei; poi, per paura de' parenti di lei della casa gittatosi, in casa d'uno povero uomo ricovera, il quale in forma d'uomo salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da' suoi frati preso e incarcerato.
Novella terza
Tre giovani amano tre sorelle e con loro si fuggono in Creti.
La maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima, l'amante della quale l'uccide e con la prima si fugge: ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia; e presi il confessano e per tema di morire con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi e in povertà quivi muoiono.
Novella quarta
Gerbino, contra la fede data dal re Guglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre una sua figliuola, la quale uccisa da quegli che su v'erano, loro uccide, e a lui è poi tagliata la testa.
Novella quinta
I fratelli dell'Isabetta uccidon l'amante di lei; egli l'apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato.
Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
Novella sesta
L'Andreuola ama Gabriotto; raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un altro; muorsi di subito nelle sue braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l'opera sta; il podestà la vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa monaca.
Novella settima
La Simona ama Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a' denti una foglia di salvia e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a' denti, similmente si muore.
Novella ottava
Girolamo ama la Salvestra; va, costretto da' prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa, nuore la Salvestra allato a lui.
Novella nona
Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita.
Novella decima
La moglie d'un medico per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due usurai se ne portano in casa.
Questi si sente, è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria sé averlo esso nell'arca dagli usurieri imbolata, laond'egli scampa dalle forche e i prestatori d'avere l'arca furata sono condannati in denari.
Conclusione della quarta giornata
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Introduzione
Incomincia la quarta giornata nella quale, sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine.
Carissime donne, sì per le parole de' savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e lette, estimava io che lo 'mpetuoso vento e ardente della invidia non dovesse percuotere se non l'alte torri o le più levate cime degli alberi; ma io mi truovo dalla mia estimazione ingannato.
Per ciò che, fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non solamente pe'piani, ma ancora per le profondissime valli tacito e nascoso mi sono ingegnato d'andare.
Il che assai manifesto può apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali, non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più possono.
Né per tutto ciò l'essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che diradicato e tutto da' morsi della invidia esser lacerato, non ho potuto cessare.
Per che assai manifestamente posso comprendere quel lo esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti.
Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi, e alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io fo.
Altri, più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età non sta bene l'andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro.
E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi.
E son di quegli ancora che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più discretamente a pensare dond'io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento.
E certi altri in altra guisa essere state le cose da me raccontate che come io le vi porgo, s'ingegnano, in detrimento della mia fatica, di dimostrare.
Adunque da cotanti e da così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così aguti, valorose donne, mentre io ne'vostri servigi milito, sono sospinto, molestato e infino nel vivo trafitto.
Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto e intendo; e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze; anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli dagli orecchi, e questo far senza indugio.
Per ciò che, se già, non essendo io ancora al terzo della lo mia fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze vostre.
Ma avanti che io venga a far la risposta ad alcuno, mi piace in favor di me raccontare non una novella intera (acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia, qual fu quella che dimostrata v'ho, mescolare), ma parte d'una, acciò che il suo difetto stesso sè mostri non esser di quelle; e a' miei assalitori favellando, dico che nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino, il qual fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggiere, ma ricco e bene inviato ed esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una sua donna moglie, la quale egli sommamente amava, ed ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niun'altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l'uno all'altro.
Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sè a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d'età di due anni era.
Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse.
E veggendosi di quella compagnia la quale egli più amava rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo, ma di darsi al servigio di Dio, e il simigliante fare del suo piccol figliuolo.
Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n'andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta si mise col suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare là dove egli fosse d'alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da così fatto servigio nol traessero, ma sempre della gloria di vita etterna e di Dio e de' santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandoli; e in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire, né alcuna altra cosa che sè dimostrandogli.
Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le sue opportunità dagli amici di Dio sovvenuto, alla sua cella tornava.
Ora avvenne che, essendo già il garzone d'età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò ov'egli andava.
Filippo gliele disse.
Al quale il garzon disse:
- Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durare fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò che, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe'nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?
Il valente uomo, pensando che già questo suo figliuolo era grande, ed era sì abituato al servigio di Dio che malagevolmente le cose del mondo a sè il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: - Costui dice bene - Per che, avendovi ad andare, seco il menò.
Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l'altre cose delle quali tutta la città piena si vede, sì come colui che mai più per ricordanza vedute non n'avea, si cominciò forte a maravigliare, e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero.
Il padre gliele diceva; ed egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d'una altra.
E così domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno; le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero.
A cui il padre disse:
- Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ch'elle son mala cosa.
Disse allora il figliuolo:
- O come si chiamano?
Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse:
- Elle si chiamano papere.
Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non n'avea, non curatosi de' palagi, non del bue, non del cavallo, non dell'asino, non de' danari né d'altra cosa che veduta avesse, subitamente disse:
- Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere.
- Ohimè, figliuol mio, - disse il padre - taci: elle son mala cosa.
A cui il giovane domandando disse:
- O son così fatte le male cose?
- Sì - disse il padre.
Ed egli allora disse:
- Io non so che voi vi dite, né perché queste siano mala cosa; quanto è a me, non m'è ancora paruta vedere alcuna così bella né così piacevole, come queste sono.
Elle son più belle che gli agnoli dipinti che voi m'avete più volte mostrati.
Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà su di queste papere, e io le darò beccare.
Disse il padre:
- Io non voglio; tu non sai donde elle s'imbeccano -; e sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi d'averlo menato a Firenze.
Ma avere infino a qui detto della presente novella voglio che mi basti, e a coloro rivolgermi alli quali l'ho raccontata.
Dicono adunque alquanti de' miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me.
Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m'ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare l'aver conosciuti gli amorosi baciari e i piacevoli abbracciari e i congiugnimenti dilettevoli che di voi,dolcissime donne, sovente si prendono; ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga bellezza e l'ornata leggiadria e oltre a ciò la vostra donnesca onestà, quando colui che nutrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini di una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l'affezion seguitate.
Riprenderannomi, morderannomi, lacerrannomi costoro se io, il corpo del quale il ciel produsse tutto atto ad amarvi, e io dalla mia puerizia l'anima vi disposi sentendo la virtù della luce degli occhi vostri, la soavità delle parole melliflue e la fiamma accesa da' pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi m'ingegno, e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un romitello, ad un giovinetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per certo chi non v'ama, e da voi non disidera d'essere amato, sì come persona che i piaceri né la virtù della naturale affezione né sente né conosce, così mi ripiglia, e io poco me ne curo.
E quegli che contro alla mia età parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde.
A' quali lasciando stare il motteggiare dall'un de' lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello estremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi, e messer Cino da Pistoia vecchissimo, onor si tennono e fu lor caro il piacer loro.
E se non fosse che uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte piene mosterrei d'antichi uomini e valorosi, ne'loro più maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne: il che se essi non sanno, vadino e sì l'apparino.
Che io con le Muse in Parnaso mi debbia stare, affermo che è buon consiglio, ma tuttavia né noi possiam dimorare con le Muse né esse con esso noi; se quando avviene che l'uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare.
Le Muse son donne, e benché le donne quello che le Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle; sì che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere.
Senza che le donne già mi fur cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furon di farne alcun cagione.
Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que'mille; e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse e in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano, quanto molti per avventura s'avvisano.
Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so; se non che, volendo meco pensare qual sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne dimandassi, m'avviso che direbbono: - Va cercane tra le favole.
- E già più ne trovarono tra le lor favole i poeti, che molti ricchi tra'lor tesori.
E assai già, dietro alle lor favole andando, fecero la loro età fiorire, dove in contrario molti nel cercar d'aver più pane che bisogno non era loro, perirono acerbi.
Che più? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro; non che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e, quando pur sopravenisse il bisogno, io so, secondo l'Apostolo, abbondare e necessità sofferire; e per ciò a niun caglia più di me che a me.
Quegli che queste cose così non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali, se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la loro riprensione e d'amendar me stesso m'ingegnerei; ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono.
E volendo per questa volta assai aver risposto, dico che dallo aiuto di Dio e dal vostro, gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiare; per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire, che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove, la porta in alto, e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degli imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, più giù andar non può che il luogo onde levata fu.
E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora più che mai mi vi disporrò; per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrà alcuna con ragione, se non che gli altri e io, che vi amiamo, naturalmente operiamo.
Alle cui leggi, cioè della natura, voler contastare, troppe gran forze bisognano, e spesse volte non solamente in vano ma con grandissimo danno del faticante s'adoperano.
Le quali forze io confesso che io non l'ho né d'averle disidero in questo; e se io l'avessi, più tosto ad altrui le presterrei che io per me l'adoperassi.
Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne lori diletti, anzi appetiti corrotti standosi, me nel mio, questa brieve vita che posta n'è, lascino stare.
Ma da ritornare è,.
per ciò che assai vagati siamo, o belle donne, là onde ci dipartimmo, e l'ordine cominciato seguire.
Cacciata aveva il sole del cielo già ogni stella e della terra l'umida ombra della notte, quando Filostrato, levatosi, tutta la sua brigata fece levare; e nel bel giardino andatisene, quivi s'incominciarono a diportare; e l'ora del mangiar venuta, quivi desinarono dove la passata sera cenato aveano.
E da dormire, essendo il sole nella sua maggior sommità, levati, nella maniera usata vicini alla bella fonte si posero a sedere.
Là dove Filostrato alla Fiammetta comandò che principio desse alle novelle; la quale, senza più aspettare che detto le fosse, donnescamente così cominciò.
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Novella Prima
Tancredi prenze di Salerno uccide l'amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d'oro; la quale, messa sopr'esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore.
Fiera materia di ragionare n'ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontare l'altrui lagrime, le quali dir non si possono, che chi le dice e chi l'ode non abbia compassione.
Forse per temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati l'ha fatto; ma, che che se l'abbia mosso, poi che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime, racconterò.
Tancredi principe di Salerno fu signore assai umano e di benigno ingegno; se egli nello amoroso sangue nella sua vecchiezza non s'avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse.
Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai; e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l'età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sè partire, non la maritava; poi alla fine ad un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi.
Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcun'altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea.
E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l'amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante.
E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e i costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per virtù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s'accese, ogn'ora più lodando i modi suoi.
E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l'aveva per sì fatta maniera nel cuore ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa.
In cotal guisa adunque amando l'un l'altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né volendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia.
Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente avesse per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciuol di canna, sollazzando la diede a Guiscardo, dicendo:
- Fara'ne questa sera un soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco.
Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa, e guardando la canna e quella veggendo fessa, l'aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala, e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse giammai, e diedesi a dare opera di dovere a lei andare, secondo il modo da lei dimostratogli.
Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio, la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da un fortissimo uscio serrata fosse.
Ed era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s'era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava; ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l'aveva nella memoria tornata alla innamorata donna.
La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea, anzi che venir fatto le potesse d'aprir quell'uscio; il quale aperto, e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venire s'ingegnasse, avendogli disegnata l'altezza che da quello infino in terra esser poteva.
Alla qual cosa fornire Guiscardo, prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa, e sè vestito d'un cuoio che da' pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire ad alcuno, la seguente notte allo spiraglio n'andò, e accomandato ben l'uno de' capi della fune ad un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quello si collò nella grotta ed attese la donna.
La quale il seguente dì, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l'uscio, nella grotta discese, dove trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e, dato discreto ordine alli loro amori acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo ed ella serrato l'uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori.
Guiscardo poi, la notte vegnente su per la sua fune salendo, per lo spiraglio donde era entrato se n'uscì fuori e tornossi a casa.
E avendo questo cammino appreso, più volte poi in processo di tempo vi ritornò.
Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia dei due amanti rivolse in tristo pianto.
Era usato Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi.
Il quale un giorno dietro mangiare laggiù venutone essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere stato da alcuno veduto o sentito, entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sè la cortina quasi come se studiosamente si fosse nascoso quivi, s'addormentò.
E così dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se n'entrò nella camera, e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l'uscio a Guiscardo che l'attendeva e andatisene in su 'l letto, sì come usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano; e dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, se egli potesse, per potere più cautamente fare e con minore sua vergogna quello che già gli era caduto nell'animo di dover fare.
I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve, discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta ed ella s'uscì della camera.
Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino, e senza essere da alcuno veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò.
E per ordine da lui dato, all'uscir dello spiraglio la seguente notte in su 'l primo sonno, Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due, e segretamente a Tancredi menato.
Il quale, come il vide, quasi piagnendo disse:
- Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l'oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m'hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei.
Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo:
- Amor può troppo più che né voi né io possiamo.
Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse, e così fu fatto.
Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismonda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate, appresso mangiare, secondo la sua usanza, nella camera n'andò della figliuola, dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piagnendo le cominciò a dire:
- Ghismonda, parendomi conoscere la tua virtù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell'animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co' miei occhi non lo avessi veduto, che tu di sottoporti ad alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba sempre sarò dolente, di ciò ricordandomi.
E or volesse Iddio che, poi che a tanta disonestà conducere ti dovevi avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n'usano, eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come per Dio da picciol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d'animo messo m'hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare.
Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che farne; ma di te, sallo Iddio che io non so che farmi.
Dall'una parte mi trae l'amore, il quale io t'ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d'altra mi trae giustissimo sdegno, preso per la tua gran follia; quegli vuole che io ti perdoni, e questi vuole che contro a mia natura in te incrudelisca; ma prima che io partito prenda, disidero d'udire quello che tu a questo dei dire.
- E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto.
Ghismonda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto, ma ancora esser preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì, e a mostrarlo con romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina; ma pur, questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sè porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo.
Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato, così al padre disse:
- Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l'un mi varrebbe né l'altro voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e 'l tuo amore; ma, il ver confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dello animo mio.
Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l'amerò; e se appresso la morte s'ama, non mi rimarrò d'amarlo; ma a questo non mi indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui.
Esser ti dovea, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sia vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza; e, come che tu uomo in parte ne'tuoi migliori anni nell'armi esercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne'vecchi non che ne'giovani.
Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane; e per l'una cosa e per l'altra piena di concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l'aver già, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento.
Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora'mi.
E certo in questo opposi ogni mia virtù di non volere né a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare.
Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna Fortuna assai occulta via m'avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a' miei disideri perveniva; e questo, chi che ti se l'abbi mostrato o come che tu il sappi, io nol nego.
Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad ogn'altro, e con avveduto pensiero a me lo'ntrodussi, e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio.
Di che egli pare, oltre allo amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare oppinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo (quasi turbato esser non ti dovessi, se io nobile uomo avessi a questo eletto) che io con uom di bassa condizione mi son posta.
In che non ti accorgi che non il mio peccato ma quello della Fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni ad alto leva, a basso lasciando i dignissimi.
Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a' principii delle cose: tu vedrai noi d'una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo creatore tutte l'anime con iguali forze, con iguali potenzie, con iguali virtù create.
La virtù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile.
E benché contraria usanza poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da' buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera apertamente si mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama, commette difetto.
Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini ed esamina la lor virtù, i lor costumi e le loro maniere, e d'altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani.
Delle virtù e del valore di Guiscardo io non credetti al giudicio d'alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de' miei occhi.
Chi il commendò mai tanto, quanto tu 'l commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato? E certo non a torto; ché se i miei occhi non m'ingannarono, niuna laude da te data gli fu, che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non potevano esprimere, non vedessi; e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata.
Dirai dunque che io con uomo di bassa condizione mi sia posta? Tu non dirai il vero; ma per avventura, se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, che così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertà non toglie gentilezza ad alcuno, ma sì avere.
Molti re, molti gran principi furon già poveri; e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne.
L'ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccial del tutto via.
Se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè ad incrudelir, se'disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale ad alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t'accerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno.
Or via, va con le femine a spander le tue lagrime, e incrudelendo con un medesimo colpo altrui e me, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi.
Conobbe il prenze la grandezza dell'animo della sua figliuola; ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva.
Per che, da lei partitosi e da sè rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore, e comandò a' due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono, e, trattogli il cuore, a lui il recassero; li quali, così come loro era stato comandato, così operarono.
Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d'oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che, quando gliele desse, dicesse: - Il tuo padre ti manda questo, per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava.
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Ghismonda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua ridusse, per presta averla se quello di che elle temeva avvenisse.
Alla quale venuto il famigliare e col presente e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese, e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo.
Per che, levato il viso verso il famigliare, disse:
- Non si conveniva sepoltura men degna che d'oro a così fatto cuore chente questo è; discretamente in ciò ha il mio padre adoperato.
E così detto, appressatoselo alla bocca, il baciò, e poi disse:
- In ogni cosa sempre e infino a questo estremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l'amore, ma ora più che giammai; e per ciò l'ultime grazie, le quali render gli debbo giammai, di così gran presente da mia parte gli renderai.
Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse:
- Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, mala detta sia la crudeltà di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m'era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora.
Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se'spacciato; venuto se'alla fine alla qual ciascun corre; lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche, e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata.
Niuna cosa ti mancava ad aver compiute esequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l'avessi, pose Iddio nel l'animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi; e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già cotanto cara guardasti.
E con qual compagnia ne potre'io andar più contenta o meglio si cura ai luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro e riguarda i luoghi de' suoi diletti e de' miei; e come colei che ancor son certa che m'ama, aspetta la mia, dalla quale sommamente è amata.
E così detto, non altramenti che se una fonte d'acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi, piagnendo cominciò a versare tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, baciando infinite volte il morto cuore.
Le sue damigelle, che dattorno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dire le parole di lei non intendevano; ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano, e molto più, come meglio sapevano e potevano, s'ingegnavano di confortarla.
La qual, poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttosi gli occhi, disse:
- O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito; né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia
E questo detto, si fe'dare l'orcioletto nel quale era l'acqua che il dì avanti aveva fatta, la qual mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato, e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve, e bevutala, con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello, e al suo cuore accostò quello del morto amante, e senza dire alcuna cosa aspettava la morte.
Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandata a dire; il quale, temendo di quello che sopravvenne, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo i termini ne'quali era, cominciò dolorosamente a piagnere.
Al quale la donna disse:
- Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero.
Chi vide mai alcuno, altro che te, piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo dono mi concedi che, poi che a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che 'l mio corpo col suo, dove che tu te l'abbi fatto gittar morto, palese stea.
L'angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze.
Laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi strignendosi al petto il morto cuore, disse:
- Rimanete con Dio, ché io mi parto.
E velati gli occhi, e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì.
Così doloroso fine ebbe l'amor di Guiscardo e di Ghismonda, come udito avete; li quali Tancredi dopo molto pianto, e tardi pentuto della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente amenduni in un medesimo sepolcro gli fe'sepellire.
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Novella Seconda
Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l'Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei; poi, per paura de' parenti di lei della casa gittatosi, in casa d'uno povero uomo ricovera, il quale in forma d'uomo salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da' suoi frati preso e incarcerato.
Aveva la novella dalla Fiammetta raccontata le lagrime più volte tirate insino in su gli occhi alle sue compagne, ma quella già essendo compiuta, il re con rigido viso disse:
- Poco prezzo mi parrebbe la vita mia a dover dare per la metà diletto di quello che con Guiscardo ebbe Ghismonda, né se ne dee di voi maravigliare alcuna, con ciò sia cosa che io, vivendo, ogni ora mille morti sento, né per tutte quelle una sola particella di diletto m'è data.
Ma, lasciando al presente li miei fatti ne'loro termini stare, voglio che ne'fieri ragionamenti, e a' miei accidenti in parte simili, Pampinea ragionando seguisca; la quale se, come Fiammetta ha cominciato, andrà appresso, senza dubbio alcuna rugiada cadere sopra il mio fuoco comincerò a sentire.
Pampinea, a sé sentendo il comandamento venuto, più per la sua affezione cognobbe l'animo delle compagne che quello del re per le sue parole, e per ciò, più disposta a dovere al quanto recrear loro che a dovere, fuori che del comandamento solo, il re contentare, a dire una novella, senza uscir del proposto, da ridere si dispose, e cominciò.
Usano i volgari un così fatto proverbio: - Chi è reo e buono è tenuto, può fare il male e non è creduto.
- Il quale ampia materia a ciò che m'è stato proposto mi presta di favellare, e ancora a dimostrare quanta e quale sia la ipocresia de' religiosi, li quali, co' panni larghi e lunghi e co' visi artificialmente pallidi e con le voci umili e mansuete nel domandar l'altrui, e altissime e rubeste in mordere negli altri li loro medesimi vizi e nel mostrare sé per torre e altri per lor donare venire a salvazione, e oltre a ciò, non come uomini che il paradiso abbiano a procacciare come noi, ma quasi come possessori e signori di quello, danti a ciaschedun che muore, secondo la quantità de' danari loro lasciata da lui, più e meno eccellente luogo, con questo prima sé medesimi, se così credono, e poscia coloro che in ciò alle loro parole dan fede, sforzansi d'ingannare.
De' quali, se quanto si convenisse fosse licito a me di mostrare, tosto dichiarerei a molti semplici quello che nelle lor cappe larghissime tengon nascoso.
Ma ora fosse piacer di Dio che così delle lor bugie a tutti intervenisse, come ad un frate minore, non miga giovane, ma di quelli che de' maggior ch'ha Ascesi era tenuto a Vinegia; del quale sommamente mi piace di raccontare, per alquanto gli animi vostri, pieni di compassione per la morte di Ghismonda, forse con risa e con piacere rilevare.
Fu adunque, valorose donne, in Imola uno uomo di scelerata vita e di corrotta, il qual fu chiamato Berto della Massa; le cui vituperose opere molto dagli imolesi conosciute a tanto il recarono che, non che la bugia, ma la verità non era in Imola chi gli credesse; per che, accorgendosi quivi più le sue gherminelle non aver luogo, come disperato, a Vinegia d'ogni bruttura ricevitrice si trasmutò, e quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio adoperare che fatto non avea in altra parte.
E, quasi da conscienzia rimorso delle malvagie opere nel preterito fatte da lui, da somma umiltà soprapreso mostrando si, e oltre ad ogni altro uomo divenuto catolico, andò e sì si fece frate minore, e fecesi chiamare frate Alberto da Imola; e in tale abito cominciò a far per sembianti una aspra vita e a commendar molto la penitenzia e l'astinenzia, né mai carne mangiava né bevea vino, quando non n'avea che gli piacesse.
Né se ne fu appena avveduto alcuno, che di ladrone, di ruffiano, di falsario, d'omicida, subitamente fu un gran predicatore divenuto, senza aver per ciò i predetti vizi abbandonati, quando nascosamente gli avesse potuti mettere in opera.
E oltre a ciò fattosi prete, sempre all'altare, quando celebrava, se da molti veduto era, piagneva la passione del Salvatore, sì come colui al quale poco costavano le lagrime quando le volea.
E in brieve, tra colle sue prediche e le sue lagrime, egli seppe in sì fatta guisa li viniziani adescare, che egli quasi d'ogni testamento che vi si faceva era fedecommessario e dipositario, e guardatore di denari di molti, confessore e consigliatore quasi della maggior parte degli uomini e delle donne; e così faccendo, di lupo era divenuto pastore, ed era la sua fama di santità in quelle parti troppo maggior che mai non fu di san Francesco ad Ascesi.
Ora avvenne che una giovane donna bamba e sciocca, che chiamata fu madonna Lisetta da ca'Quirino, moglie d'un gran mercatante che era andato con le galee in Fiandra, s'andò con altre donne a confessar da questo santo frate.
La quale essendogli a' piedi, sì come colei che viniziana era, ed essi son tutti bergoli, avendo parte detta de' fatti suoi, fu da frate Alberto addomandata se alcuno amadore avesse.
Al quale ella con un mal viso rispose:
- Deh, messere lo frate, non avete voi occhi in capo? Paionvi le mie bellezze fatte come quelle di queste altre? Troppi n'avrei degli amadori, se io ne volessi; ma non sono le mie bellezze da lasciare amare né da tale né da quale.
Quante ce ne vedete voi, le cui bellezze sien fatte come le mie, che sarei bella nel paradiso?
E oltre a ciò, disse tante cose di questa sua bellezza, che fu un fastidio ad udire.
Frate Alberto conobbe incontanente che costei sentia dello scemo e, parendogli terreno da' ferri suoi, di lei subitamente e oltre modo s'innamorò; ma, riserbandosi in più comodo tempo le lusinghe, pur, per mostrarsi santo, quella volta cominciò a volerla riprendere e a dirle che questa era vanagloria, e altre sue novelle; per che la donna gli disse che egli era una bestia e che egli non conosceva che si fosse più una bellezza che un'altra.
Per che frate Alberto, non volendola troppo turbare, fattale la confessione, la lasciò andar via con l'altre.
E stato alquanti dì, preso un suo fido compagno, n'andò a casa madonna Lisetta, e trattosi da una parte in una sala con lei e non potendo da altri esser veduto, le si gittò davanti ginocchione e disse:
- Madonna, io vi priego per Dio che voi mi perdoniate di ciò che io domenica, ragionandomi voi della vostra bellezza, vi dissi, per ciò che sì fieramente la notte seguente gastigato ne fui, che mai poscia da giacere non mi son potuto levar se non oggi.
Disse allora donna Mestola:
- E chi ve ne gastigò così?
Disse frate Alberto:
- Io il vi dirò.
Standomi io la notte in orazione, sì come io soglio star sempre, io vidi subitamente nella mia cella un grande splendore, né prima mi pote'volgere per veder che ciò fosse, che io mi vidi sopra un giovane bellissimo con un grosso bastone in mano, il quale, presomi per la cappa e tiratomisi a' piè, tante mi diè che tutto mi ruppe.
Il quale io appresso domandai perché ciò fatto avesse, ed egli rispose: - Per ciò che tu presummesti oggi di riprendere le celestiali bellezze di madonna Lisetta, la quale io amo, da Dio in fuori, sopra ogni altra cosa.
- E io allora domandai: - Chi siete voi? - A cui egli rispose che era l'agnolo Gabriello.
- O signor mio, - dissi io - io vi priego che voi mi perdoniate.
- E egli allora disse : - E io ti perdono per tal convenente, che tu a lei vada come tu prima potrai, e facciti perdonare; e dove ella non ti perdoni, io ci tornerò e darottene tante che io ti farò tristo per tutto il tempo che tu ci viverai.
- Quello che egli poi mi dicesse, io non ve l'oso dire, se prima non mi perdonate.
Donna Zucca al vento, la quale era anzi che no un poco dolce di sale, godeva tutta udendo queste parole e verissime tutte le credea, e dopo alquanto disse:
- Io vi diceva bene, frate Alberto, che le mie bellezze eran celestiali; ma, se Dio m'aiuti, di voi m'incresce, e in fino ad ora, acciò che più non vi sia fatto male, io vi perdono, sì veramente che voi mi diciate ciò che l'agnolo poi vi disse.
Frate Alberto disse:
- Madonna, poi che perdonato m'avete, io il vi dirò volentieri; ma una cosa vi ricordo, che cosa che io vi dica voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona che sia nel mondo, se voi non volete guastare i fatti vostri, che siete la più avventurata donna che oggi sia al mondo.
Questo agnol Gabriello mi disse che io vi dicessi che voi gli piacevate tanto, che più volte a starsi con voi venuto la notte sarebbe, se non fosse per non spaventarvi.
Ora vi manda egli dicendo per me, che a voi vuol venire una notte e dimorarsi una pezza con voi; e per ciò che egli è agnolo e venendo in forma d'agnolo voi nol potreste toccare, dice che per diletto di voi vuol venire in forma d'uomo, e per ciò dice che voi gli mandiate a dire quando volete che egli venga, e in forma di cui ed egli ci verrà; di che voi, più che altra donna che viva, tener vi potete beata.
Madonna Baderla allora disse che molto le piaceva se l'agnolo Gabriello l'amava; per ciò che ella amava ben lui, né era mai che una candela d'un mattapan non gli accendesse davanti dove dipinto il vedeva; e che, quale ora egli volesse a lei venire, egli fosse il ben venuto, ché egli la troverebbe tutta sola nella sua camera, ma con questo patto, che egli non dovesse lasciar lei per la Vergine Maria, che l'era detto che egli le voleva molto bene, e anche si pareva, ché in ogni luogo che ella il vedeva, le stava ginocchione innanzi; e oltre a questo, che a lui stesse di venire in qual forma volesse, purché ella non avesse paura.
Allora disse frate Alberto:
- Madonna, voi parlate saviamente; e io ordinerò ben con lui quello che voi mi dite.
Ma voi mi potete fare una gran grazia, e a voi non costerà niente; e la grazia è questa, che voi vogliate che egli venga con questo mio corpo.
E udite in che voi mi farete grazia: che egli mi trarrà l'anima mia di corpo e metteralla in paradiso, ed egli enterrà in me, e quanto egli starà con voi, tanto si starà l'anima mia in paradiso.
Disse allora donna Pocofila:
- Ben mi piace; io voglio che, in luogo delle busse le quali egli vi diede a mie cagioni, che voi abbiate questa consolazione.
Allora disse frate Alberto:
- Or farete che questa notte egli truovi la porta della vostra casa per modo che egli possa entrarci, per ciò che vegnendo in corpo umano, come egli verrà, non potrebbe entrare se non per l'uscio.
La donna rispose che fatto sarebbe.
Frate Alberto si partì, ed ella rimase faccendo sì gran galloria che non le toccava il cul la camicia, mille anni parendole che l'agnolo Gabriello a lei venisse.
Frate Alberto, pensando che cavaliere, non agnolo, esser gli convenia la notte, con confetti e altre buone cose s'incominciò a confortare, acciò che di leggier non fosse da caval gittato.
E avuta la licenzia, con uno compagno, come notte fu, se n'entrò in casa d'una sua amica, dalla quale altra volta aveva prese le mosse quando andava a correr le giumente; e di quindi, quando tempo gli parve, trasformato se n'andò a casa la donna, e in quella entrato, con sue frasche che portate avea, in agnolo si trasfigurò, e salitosene suso, se n'entrò nella camera della donna.
La quale, come questa cosa così bianca vide, gli s'inginocchiò innanzi, e l'agnolo la benedisse e levolla in piè e fecele segno che a letto s'andasse.
Il che ella, volenterosa d'ubbidire, fece prestamente, e l'agnolo appresso colla sua divota si coricò.
Era frate Alberto bello uomo del corpo e robusto, e stavangli troppo bene le gambe in su la persona; per la qual cosa con donna Lisetta trovandosi, che era fresca e morbida, altra giacitura faccendole che il marito, molte volte la notte volò senza ali, di che ella forte si chiamò per contenta; e oltre a ciò molte cose le disse della gloria celestiale.
Poi, appressandosi il dì, dato ordine al ritornare, co' suoi arnesi fuor se n'uscì e tornossi al compagno suo, al quale, acciò che paura non avesse dormendo solo, aveva la buona femina della casa fatta amichevole compagnia.
La donna, come desinato ebbe, presa sua compagnia, se n'andò a frate Alberto e novelle gli disse dello agnolo Gabriello e ciò che da lui udito avea della gloria di vita etterna, e come egli era fatto, aggiugnendo oltre a questo maravigliose favole.
A cui frate Alberto disse:
- Madonna, io non so come voi vi steste con lui; so io bene che stanotte, vegnendo egli a me e io avendogli fatta la vostra ambasciata, egli ne portò subitamente l'anima mia tra tanti fiori e tra tante rose, che mai non se ne videro di qua tante, e stettimi in uno de' più dilettevoli luoghi che fosse mai infino a stamane a matutino; quello che il mio corpo si divenisse, io non so.
- Non ve 'l dich'io? - disse la donna - il vostro corpo stette tutta notte in braccio mio con l'agnol Gabriello; e se voi non mi credete, guateretevi sotto la poppa manca là dove io diedi un grandissimo bacio all'agnolo, tale che egli vi si parrà il segnale parecchi dì.
Disse allora frate Alberto:
- Ben farò oggi una cosa che io non feci già è gran tempo più, che io mi spoglierò per vedere se.
voi dite il vero.
E dopo molto cianciare la donna se ne tornò a casa; alla quale in forma d'agnolo frate Alberto andò poi molte volte senza alcuno impedimento ricevere.
Pure avvenne un giorno che, essendo madonna Lisetta con una sua comare e insieme di bellezze quistionando, per porre la sua innanzi ad ogn'altra, sì come colei che poco sale aveva in zucca, disse:
- Se voi sapeste a cui la mia bellezza piace, in verità voi tacereste dell'altre.
La comare, vaga d'udire, sì come colei che ben la conoscea, disse:
- Madonna, voi potreste dir vero, ma tuttavia, non sappiendo chi questi si sia, altri non si rivolgerebbe così di leggiero.
Allora la donna, che piccola levatura avea, disse:
- Comare, egli non si vuol dire, ma lo 'ntendimento mio è l'agnolo Gabriello, il quale più che sé m'ama, sì come la più bella donna, per quello che egli mi dica, che sia nel mondo o in maremma.
La comare ebbe allora voglia di ridere, ma pur si tenne per farla più avanti parlare, e disse:
- In fè di Dio, madonna, se l'agnolo Gabriello è vostro intendimento e dicevi questo, egli dee bene esser così; ma io non credeva che gli agnoli facesson queste cose.
Disse la donna:
- Comare, voi siete errata; per le plaghe di Dio, egli il fa meglio che mio marido, e dicemi che egli si fa anche colassù; ma, per ciò che io gli paio più bella che niuna che ne sia in cielo, s'è egli innamorato di me e viensene a star meco bene spesso; mo vedì vu?
La comare, partita da madonna Lisetta, le parve mille anni che ella fosse in parte ove ella potesse queste cose ridire; e ragunatasi ad una festa con una gran brigata di donne, loro ordinatamente raccontò la novella.
Queste donne il dissero a' mariti e ad altre donne, e quelle a quell'altre, e così in meno di due dì ne fu tutta ripiena Vinegia.
Ma tra gli altri a' quali questa cosa venne agli orecchi furono i cognati di lei, li quali, senza alcuna cosa dirle, si posero in cuore di trovare questo agnolo e di sapere se egli sapesse volare; e più notti stettero in posta.
Avvenne che di questo fatto alcuna novelluzza ne venne a frate Alberto agli orecchi; il quale, per riprender la donna, una notte andatovi, appena spogliato s'era, che i cognati di lei, che veduto l'avevan venire, furono all'uscio della sua camera per aprirlo.
Il che frate Alberto sentendo, e avvisato ciò che era, levatosi, non veggendo altro rifugio, aperse una finestra la qual sopra il maggior canal rispondea, e quindi si gittò nell'acqua.
Il fondo v'era grande ed egli sapeva ben notare, sì che male alcun non si fece; e, notato dall'altra parte del canale, in una casa che aperta v'era prestamente se n'entrò, pregando un buono uomo che dentro v'era che per l'amor di Dio gli scampasse la vita, sue favole dicendo perché quivi a quella ora e ignudo fosse.
Il buono uomo, mosso a pietà, convenendogli andare a far sue bisogne, nel suo letto il mise, e dissegli che quivi infino alla sua tornata si stesse; e dentro serratolo, andò a fare i fatti suoi.
I cognati della donna entrati nella camera trovarono che l'agnolo Gabriello, quivi avendo lasciate l'ali, se n'era volato; di che quasi scornati grandissima villania dissero alla donna, e lei ultimamente sconsolata lasciarono stare e a casa lor tornarsi con gli arnesi dello agnolo.
In questo mezzo, fattosi il dì chiaro, essendo il buono uomo in sul Rialto, udì dire come l'agnolo Gabriello era la notte andato a giacere con madonna Lisetta e da' cognati trovatovi, s'era per paura gittato nel canale, né si sapeva che divenuto se ne fosse; per che prestamente s'avvisò colui che in casa avea esser desso.
E là venutosene e riconosciutolo, dopo molte novelle, con lui trovò modo che, s'egli non volesse che a' cognati di lei il desse, gli facesse venire cinquanta ducati; e così fu fatto.
E appresso questo, disiderando frate Alberto d'uscir di quindi, gli disse il buono uomo:
- Qui non ha modo alcuno, se già in uno non voleste.
Noi facciamo oggi una festa, nella quale chi mena uno uomo vestito a modo d'orso e chi a guisa d'uom salvatico, e chi d'una cosa e chi d'un'altra, e in su la piazza di San Marco si fa una caccia, la qual fornita, è finita la festa; e poi ciascun va, con quel che menato ha, dove gli piace.
Se voi volete, anzi che spiar si possa che voi siate qui, che io in alcun di questi modi vi meni, io vi potrò menare dove voi vorrete; altramenti non veggio come uscirci possiate che conosciuto non siate; e i cognati della donna, avvisando che voi in alcun luogo quincentro siate, per tutto hanno messe le guardie per avervi.
Come che duro paresse a frate Alberto l'andare in cotal guisa, pur per la paura che aveva de' parenti della donna vi si condusse, e disse a costui dove voleva esser menato, e come il menasse era contento.
Costui, avendol già tutto unto di mele ed empiuto di sopra di penna matta, e messagli una catena in gola e una maschera in capo, e datogli dall'una mano un gran bastone e dall'altra due gran cani, che dal macello avea menati, mandò uno al Rialto, che bandisse che chi volesse veder l'agnolo Gabriello andasse in su la piazza di San Marco: e fu lealtà viniziana questa.
E questo fatto, dopo alquanto il menò fuori e miseselo innanzi, e andandol tenendo per la catena di dietro, non senza gran romore di molti, che tutti diceano: - Che xè quel? che xè quel? - il condusse in su la piazza, dove tra quegli che venuti gli eran dietro e quegli ancora che, udito il bando, da Rialto venuti v'erano, erano gente senza fine.
Questi là pervenuto, in luogo rilevato e alto legò il suo uomo salvatico ad una colonna, sembianti faccendo d'attendere la caccia; al quale le mosche e'tafani, per ciò che di mele era unto, davan grandissima noia.
Ma poi che costui vide piazza ben piena, faccendo sembianti di volere scatenare il suo uom salvatico, a frate Alberto trasse la maschera dicendo:
- Signori, poi che il porco non viene alla caccia, e non si fa, acciò che voi non siate venuti in vano, io voglio che voi veggiate l'agnolo Gabriello, il quale di cielo in terra discende la notte a consolare le donne viniziane.
Come la maschera fu fuori, così fu frate Alberto incontanente da tutti conosciuto; contro al quale si levaron le grida di tutti, dicendogli le più vituperose parole e la maggior villania che mai ad alcun ghiotton si dicesse, e oltre a questo per lo viso gettandogli chi una lordura e chi un'altra; e così grandissimo spazio il tennero, tanto che per ventura la novella a' suoi frati pervenuta, infino a sei di loro mossisi quivi vennero, e gittatagli una cappa in dosso e scatenatolo, non senza grandissimo romor dietro, infino a casa loro nel menarono, dove, incarceratolo, dopo misera vita si crede che egli morisse.
Così costui, tenuto buono e male adoperando non essendo creduto, ardì di farsi l'agnolo Gabriello, e di questo in un uom salvatico convertito, a lungo andare, come meritato avea, vituperato senza pro pianse i peccati commessi.
Così piaccia a Dio che a tutti gli altri possa intervenire.
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Novella Terza
Tre giovani amano tre sorelle e con loro si fuggono in Creti.
La maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima, l'amante della quale l'uccide e con la prima si fugge: ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia; e presi il confessano e per tema di morire con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi e in povertà quivi muoiono.
Filostrato, udita la fine del novellar di Pampinea, sovra sé stesso alquanto stette e poi disse verso di lei:
- Un poco di buono e che mi piacque fu nella fine della vostra novella; ma troppo più vi fu innanzi a quella da ridere, il che avrei voluto che stato non vi fosse.
Poi alla Lauretta voltato disse:
- Donna, seguite appresso con una migliore, se esser può.
La Lauretta ridendo disse:
- Troppo siete contro agli amanti crudele, se pure malvagio fine disiderate di loro; e io, per ubidirvi, ne racconterò una di tre li quali igualmente mal capitarono, poco del loro amore essendo goduti; - e così detto, incominciò.
Giovani donne, sì come voi apertamente potete conoscere, ogni vizio può in gravissima noia tornar di colui che l'usa e molte volte d'altrui; e tra gli altri che con più abbandonate redine ne'nostri pericoli ne trasporta, mi pare che l'ira sia quello; la quale niuna altra cosa è che un movimento subito e inconsiderato, da sentita tristizia sospinto, il quale, ogni ragion cacciata e gli occhi della mente avendo di tenebre offuscati, in ferventissimo furore accende l'anima nostra.
E come che questo sovente negli uomini avvenga, e più in uno che in uno altro, nondimeno già con maggior danni s'è nelle donne veduto, per ciò che più leggiermente in quelle s'accende e ardevi con fiamma più chiara e con meno rattenimento le sospigne.
Né è di ciò maraviglia, per ciò che, se ragguardar vorremo, vedremo che il fuoco di sua natura più tosto nelle leggieri e morbide cose s'apprende che nelle dure e più gravanti; e noi pur siamo (non l'abbiano gli uomini a male) più delicate che essi non sono e molto più mobili.
Laonde, veggendoci naturalmente a ciò inchinevoli, e appresso ragguardato come la nostra mansuetudine e benignità sia di gran riposo e di piacere agli uomini co' quali a costumare abbiamo, e così l'ira e il furore essere di gran noia e di pericolo, acciò che da quella con più forte petto ci guardiamo, l'amor di tre giovani e d'altrettante donne, come di sopra dissi, per l'ira d'una di loro di felice essere divenuto infelicissimo, intendo con la mia novella mostrarvi.
Marsilia, sì come voi sapete, è in Provenza sopra la marina posta, antica e nobilissima città, e già fu di ricchi uomini e di gran mercatanti più copiosa che oggi non si vede.
Tra'quali ne fu un chiamato N'Arnald Civada, uomo di nazione infima, ma di chiara fede e leal mercatante, senza misura di possessioni e di denari ricco, il quale d'una sua donna avea più figliuoli, de' quali tre n'erano femine ed eran di tempo maggiori che gli altri che maschi erano.
Delle qua li le due, nate ad un corpo, erano d'età di quindici anni, la terza aveva quattordici; né altro s'attendeva per li loro parenti a maritarle, che la tornata di N'Arnald il quale con sua mercatantia era andato in Ispagna.
Erano i nomi delle due prime, dell'una Ninetta e dell'altra Maddalena; la terza era chiamata Bertella.
Della Ninetta era un giovane gentile uomo, avvegna che povero fosse, chiamato Restagnone, innamorato quanto più potea, e la giovane di lui; e sì avevan saputo adoperare, che, senza saperlo alcuna persona del mondo, essi godevano del loro amore; e già buona pezza goduti n'erano, quando avvenne che due giovani compagni, de' quali l'uno era chiamato Folco e l'altro Ughetto, morti i padri loro ed essendo rimasi ricchissimi, l'un della Maddalena e l'altro della Bertella s'innamorarono.
Della qual cosa avvedutosi Restagnone, essendogli stato dalla Ninetta mostrato, pensò di potersi ne'suoi difetti adagiare per lo costoro amore.
E con lor presa dimestichezza, or l'uno e or l'altro e talvolta amenduni gli accompagnava a vedere le lor donne e la sua; e quando dimestico assai e amico di costoro esser gli parve, un giorno in casa sua chiamatigli, disse loro:
- Carissimi giovani, la nostra usanza vi può aver renduti certi quanto sia l'amore che io vi porto, e che io per voi adopererei quello che io per me medesimo adoperassi; e per ciò che io molto v'amo, quello che nello animo caduto mi sia intendo di dimostrarvi, e voi appresso con meco insieme quel partito ne prenderemo che vi parrà il migliore.
Voi, se le vostre parole non mentono, e per quello ancora che ne'vostri atti e di dì e di notte mi pare aver compreso, di grandissimo amore delle due giovani amate da voi ardete, e io della terza loro sorella; al quale ardore, ove voi vi vogliate accordare, mi dà il cuore di trovare assai dolce e piacevole rimedio, il quale è questo.
Voi siete ricchissimi giovani, quello che non sono io.
Dove voi vogliate recare le vostre ricchezze in uno e me far terzo posseditore con voi insieme di quelle e diliberare in che parte del mondo noi vogliamo andare a vivere in lieta vita con quelle, senza alcun fallo mi dà il cuor di fare che le tre sorelle, con gran parte di quello del padre loro, con esso noi, dove noi andar ne vorremo ne verranno; e quivi ciascun con la sua, a guisa di tre fratelli, viver potremo li più contenti uomini che altri che al mondo sieno.
A voi omai sta il prender partito in volervi di ciò consolare, o lasciarlo.
Li due giovani, che oltre modo ardevano, udendo che le lor giovani avrebbono, non penar troppo a diliberarsi, ma dissero, dove questo seguir dovesse, che essi erano apparecchiati di così fare.
Restagnone, avuta questa risposta da' giovani, ivi a pochi giorni si trovò con la Ninetta, alla quale non senza gran malagevolezza andar poteva; e poi che alquanto con lei fu dimorato, ciò che co' giovani detto aveale ragionò, e con molte ragion s'ingegnò di farle questa impresa piacere.
Ma poco malagevole gli fu, per ciò che essa molto più di lui disiderava di poter con lui esser senza sospetto; per che essa liberamente rispostogli che le piaceva e che le sorelle, e massimamente in questo, quel farebbono che ella volesse, gli disse che ogni cosa opportuna intorno a ciò, quanto più tosto potesse, ordinasse.
Restagnone a' due giovani tornato, li quali molto ciò che ragionato avea loro il sollicitavano, disse loro, che dalla parte delle lor donne l'opera era messa in assetto.
E fra sé diliberati di doverne in Creti andar, vendute alcune possessioni le quali avevano, sotto titolo di voler con denari andar mercatando, e d'ogn'altra lor cosa fatti denari, una saettia comperarono e quella segretamente armarono di gran vantaggio, e aspettarono il termine dato.
D'altra parte la Ninetta, che del disiderio delle sorelle sapeva assai, con dolci parole in tanta volontà di questo fatto l'accese che esse non credevano tanto vivere che a ciò pervenissero.
Per che, venuta la notte che salire sopra la saettia dovevano, le tre sorelle, aperto un gran cassone del padre loro, di quello grandissima quantità di denari e di gioie trassono, e con esse di casa tutte e tre tacitamente uscite secondo l'ordine dato, li lor tre amanti che l'aspettavano trovarono; con li quali senza alcuno indugio sopra la saettia montate, dier de' remi in acqua e andar via; e senza punto rattenersi in alcuno luogo, la seguente sera giunsero a Genova, dove i novelli amanti gioia e piacere primieramente presero del loro amore.
E rinfrescatisi di ciò che avean bisogno, andaron via, e d'un porto in uno altro, anzi che l'ottavo dì fosse senza alcuno impedimento pervennero in Creti, dove grandissime e belle possessioni comperarono, alle quali assai vicini di Candia fecero bellissimi abituri e dilettevoli e quivi con molta famiglia, con cani e con uccelli e con cavalli, in conviti e in festa e in gioia colle lor donne i più contenti uomini del mondo a guisa di baroni cominciarono a vivere.
E in tal maniera dimorando, avvenne (sì come noi veggiamo tutto il giorno avvenire che, quantunque le cose molto piacciano, avendone soperchia copia rincrescono) che a Restagnone, il qual molto amata avea la Ninetta, potendola egli senza alcun sospetto ad ogni suo piacere avere, gl'incominciò a rincrescere e per conseguente a mancar verso lei l'amore.
Ed essendogli ad una festa sommamente piaciuta una giovane del paese, bella e gentil donna, e quella con ogni studio seguitando, cominciò per lei a far maravigliose cortesie e feste; di che la Ninetta accorgendosi, entrò di lui in tanta gelosia, che egli non poteva andare un passo che ella nol risapesse, e appresso con parole e con crucci lui e sé non ne tribolasse.
Ma così come la copia delle cose genera fastidio, così l'esser le disiderate negate moltiplica l'appetito, così i crucci della Ninetta le fiamme del nuovo amore di Restagnone accrescevano; e come che in processo di tempo s'avvenisse, o che Restagnone l'amistà della donna amata avesse o no, la Ninetta, chi che gliele rapportasse, l'ebbe per fermo; di che ella in tanta tristizia cadde, e di quella in tanta ira e per conseguente in tanto furor trascorse, che, rivoltato l'amore il quale a Restagnon portava in acerbo odio, accecata dalla sua ira, s'avvisò colla morte di Restagnone l'onta che ricever l'era paruta vendicare.
E avuta una vecchia greca gran maestra di compor veleni, con promesse e con doni a fare un'acqua mortifera la condusse, la quale essa, senza altramenti consigliarsi, una sera a Restagnon riscaldato e che di ciò non si guardava diè bere.
La potenzia di quella fu tale che, avanti che il mattutin venisse, l'ebbe ucciso.
La cui morte sentendo Folco e Ughetto e le lor donne, senza saper che di veleno fosse morto, insieme con la Ninetta amaramente piansero e onorevolmente il fecero sepellire.
Ma non dopo molti giorni avvenne che per altra malvagia opera fu presa la vecchia che alla Ninetta l'acqua avvelenata composta avea, la quale tra gli altri suoi mali, martoriata, confessò questo, pienamente mostrando ciò che per quello avvenuto ne fosse; di che il duca di Creti, senza alcuna cosa dirne, tacitamente una notte fu d'intorno al palagio di Folco, e senza romore o contradizione alcuna, presa ne menò la Ninetta.
Dalla quale senza alcun martorio prestissimamente ciò che udir volle ebbe della morte di Restagnone.
Folco e Ughetto occultamente dal duca avean sentito, e da loro le lor donne, perché presa la Ninetta fosse, il che forte dispiacque loro; e ogni studio ponevano in far che dal fuoco la Ninetta dovesse campare, al quale avvisavano che giudicata sarebbe, sì come colei che molto ben guadagnato l'avea; ma tutto pareva niente, per ciò che il duca pur fermo a volerne fare giustizia stava.
La Maddalena, la quale bella giovane era e lungamente stata vagheggiata dal duca senza mai aver voluta far cosa che gli piacesse, imaginando che piacendogli potrebbe la sirocchia dal fuoco sottrarre, per un cauto ambasciadore gli significò sé esser ad ogni suo comandamento, dove due cose ne dovesser seguire: la prima, che ella la sua sorella salva e libera dovesse riavere; l'altra che questa cosa fosse segreta.
Il duca, udita l'ambasciata e piaciutagli, lungamente seco pensò se fare il volesse, e alla fine vi s'accordò e disse ch'era presto.
Fatto adunque di consentimento della donna, quasi da loro informar si volesse del fatto, sostenere una notte Folco e Ughetto, ad albergare se n'andò segretamente colla Maddalena.
E fatto prima sembiante d'avere la Ninetta messa in un sacco e doverla quella notte stessa farla in mare mazzerare, seco la rimenò alla sua sorella e per prezzo di quella notte gliele donò, la mattina nel dipartirsi pregandola che quella notte, la qual prima era stata nel loro amore, non fosse l'ultima; e oltre a questo le 'mpose che via ne mandasse la colpevole donna, acciò che a lui non fosse biasimo o non gli convenisse da capo contro di lei incrudelire.
La mattina seguente Folco e Ughetto, avendo udito la Ninetta la notte essere stata mazzerata, e credendolo, furon liberati; e alla lor casa, per consolar le lor donne della morte della sorella, tornati, quantunque la Maddalena s'ingegnasse di nasconderla molto, pur s'accorse Folco che ella v'era; di che egli si maravigliò molto, e subitamente suspicò (già avendo sentito che il duca aveva la Maddalena amata), e domandolla come questo esser potesse che la Ninetta quivi fosse.
La Maddalena ordì una lunga favola a volergliele mostrare, poco da lui, che malizioso era, creduta, il quale, a doversi dire il vero la costrinse; la quale dopo molte parole gliele disse.
Folco, da dolor vinto e in furor montato, tirata fuori una spada, lei invano mercé addomandante uccise; e temendo l'ira e la giustizia del duca, lei lasciata nella camera morta, se n'andò colà ove la Ninetta era, e con viso infintamente lieto le disse:
- Tosto andianne là dove diterminato è da tua sorella che io ti meni, acciò che più non venghi alle mani del duca.
La qual cosa la Ninetta credendo e come paurosa disiderando di partirsi, con Folco, senza altro commiato chiedere alla sorella, essendo già notte, si mise in via, e con que' denari a' quali Folco potè por mani, che furon pochi; e alla marina andatisene, sopra una barca montarono, né mai si seppe dove arrivati si fossero.
Venuto il dì seguente ed essendosi la Maddalena trovata uccisa, furono alcuni che per invidia e odio che ad Ughetto portavano, subitamente al duca l'ebbero fatto sentire; per la qual cosa il duca, che molto la Maddalena amava, focosamente alla casa corso, Ughetto prese e la sua donna e loro, che di queste cose niente ancor sapeano, cioè della partita di Folco e della Ninetta, costrinse a confessar sé insieme con Folco esser della morte della Maddalena colpevoli.
Per la qual confessione costoro meritamente della morte temendo, con grande ingegno coloro che gli guardavano corruppono, dando loro una certa quantità di denari, li quali nella lor casa nascosti per li casi opportuni guardavano e con le guardie insieme, senza avere spazio di potere alcuna lor cosa torre, sopra una barca montati, di notte se ne fuggirono a Rodi, dove in povertà e in miseria vissero non gran tempo.
Adunque a così fatto partito il folle amore di Restagnone e l'ira della Ninetta sé condussero e altrui.
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Novella Quarta
Gerbino, contra la fede data dal re Guglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre una sua figliuola, la quale uccisa da quegli che su v'erano, loro uccide, e a lui è poi tagliata la testa.
La Lauretta, finita la sua novella, taceva, e fra la brigata chi con un chi con un altro della sciagura degli amanti si dolea; e chi l'ira della Ninetta biasimava, e chi una cosa e chi altra diceva, quando il re, quasi da profondo pensier tolto, alzò il viso e ad Elissa fe'segno che appresso dicesse, la quale umilmente incominciò.
Piacevoli donne, assai son coloro che credono Amor solamente dagli occhi acceso le sue saette mandare, coloro schernendo che tener vogliono che alcuno per udita si possa innamorare; li quali essere ingannati assai manifestamente apparirà in una novella la qual dire intendo.
Nella quale non solamente ciò la fama, senza aversi veduto giammai, avere operato vedrete, ma ciascuno a misera morte aver condotto vi fia manifesto.
Guiglielmo secondo re di Cicilia, come i ciciliani vogliono, ebbe due figliuoli, l'uno maschio e chiamato Ruggieri, e l'altro femina, chiamata Gostanza.
Il quale Ruggieri, anzi che il padre morendo, lasciò un figliuolo nominato Gerbino; il quale, dal suo avolo con diligenza allevato, divenne bellissimo giovane e famoso in prodezza e in cortesia.
Né solamente dentro a' termini di Cicilia stette la sua fama racchiusa, ma in varie parti del mondo sonando, in Barberia era chiarissima, la quale in que'tempi al re di Cicilia tributaria era.
E tra gli altri alli cui orecchi la magnifica fama delle virtù e della cortesia del Gerbin venne, fu ad una figliuola del re di Tunisi, la qual, secondo che ciascun che veduta l'avea ragionava, era una delle più belle creature che mai dalla natura fosse stata formata, e la più costumata e con nobile e grande animo.
La quale, volentieri de' valorosi uomini ragionare udendo, con tanta affezione le cose valorosamente operate dal Gerbino da uno e da un altro raccontate raccolse, e sì le piacevano, che essa, seco stessa imaginando come fatto esser dovesse, ferventemente di lui s'innamorò, e più volentieri che d'altro di lui ragionava e chi ne ragionava ascoltava.
D'altra parte era, sì come altrove, in Cicilia pervenuta la grandissima fama della bellezza parimente e del valor di lei, e non senza gran diletto né in vano gli orecchi del Gerbino aveva tocchi; anzi, non meno che di lui la giovane infiammata fosse, lui di lei aveva infiammato.
Per la qual cosa infino a tanto che con onesta cagione dallo avolo d'andare a Tunisi la licenzia impetrasse, disideroso oltre modo di vederla, ad ogni suo amico che là andava imponeva che a suo potere il suo segreto e grande amor facesse, per quel modo che miglior gli paresse, sentire e di lei novelle gli recasse.
De' quali alcuno sagacissimamente il fece, gioie da donne portandole, come i mercatanti fanno, a vedere; e interamente l'ardore del Gerbino apertole, lui e le sue cose a' suoi comandamenti offerse apparecchiate.
La quale con lieto viso e l'ambasciadore e l'ambasciata ricevette, e rispostogli che ella di pari amore ardeva, una delle sue più care gioie in testimonianza di ciò gli mandò.
La quale il Gerbino con tanta allegrezza ricevette, con quanta qualunque cara cosa ricever si possa, e a lei per costui medesimo più volte scrisse e mandò carissimi doni, con lei certi trattati tenendo da doversi, se la fortuna conceduto lo avesse, vedere e toccare.
Ma andando le cose in questa guisa e un poco più lunghe che bisognato non sarebbe, ardendo d'una parte la giovane e d'altra il Gerbino, avvenne che il re di Tunisi la maritò al re di Granata; di che ella fu crucciosa oltre modo, pensando che non solamente per lunga distanzia al suo amante s'allontanava, ma che quasi del tutto tolta gli era; e se modo veduto avesse, volentieri, acciò che questo avvenuto non fosse, fuggita si sarebbe dal padre e venutasene al Gerbino.
Similmente il Gerbino, questo maritaggio sentendo, senza misura ne viveva dolente, e seco spesso pensava, se modo veder potesse, di volerla torre per forza, se avvenisse che per mare a marito n'andasse.
Il re di Tunisi, sentendo alcuna cosa di questo amore e del proponimento del Gerbino, e del suo valore e della potenzia dubitando, venendo il tempo che mandar ne la dovea, al re Guiglielmo mandò significando ciò che fare in tendeva, e che, sicurato da lui che né dal Gerbino né da altri per lui in ciò impedito sarebbe, lo 'ntendeva di fa re.
Il re Guiglielmo, che vecchio signore era né dello innamoramento del Gerbino aveva alcuna cosa sentita, non imaginandosi che per questo addomandata fosse tal sicurtà, liberamente la concedette e in segno di ciò mandò al re di Tunisi un suo guanto.
Il quale, poi che la sicurtà ricevuta ebbe, fece una grandissima e bella nave nel porto di Cartagine apprestare, e fornirla di ciò che bisogno aveva a chi su vi doveva andare, e ornarla e acconciarla per su mandarvi la figliuola in Granata, né altro aspettava che tempo.
La giovane donna, che tutto questo sapeva e vedeva, occultamente un suo servidore mandò a Palermo e imposegli che il bel Gerbino da sua parte salutasse e gli dicesse come ella in fra pochi dì era per andarne in Granata; per che ora si parrebbe se così fosse valente uomo come si diceva e se cotanto l'amasse quanto più volte significato l'avea.
Costui, a cui imposta fu, ottimamente fe'l'ambasciata e a Tunisi ritornossi.
Gerbino questo udendo e sappiendo che il re Guiglielmo suo avolo data avea la sicurtà al re di Tunisi, non sapeva che farsi; ma pur, da amor sospinto, avendo le parole della donna intese e per non parer vile, andatosene a Messina, quivi prestamente fece due galee sottili armare, e messivi su di valenti uomini, con esse sopra la Sardigna n'andò, avvisando quindi dovere la nave della donna passare.
Né fu di lungi l'effetto al suo avviso; per ciò che pochi dì quivi fu stato, che la nave con poco vento non guari lontana al luogo dove aspettandola riposto s'era sopravenne.
La qual veggendo Gerbino, a' suoi compagni disse:
- Signori, se voi così valorosi siete come io vi tegno, niun di voi senza aver sentito o sentire amore credo che sia, senza il quale, sì come io meco medesimo estimo, niun mortal può alcuna virtù o bene in sé avere; e se innamorati stati siete o sete, leggier cosa vi fia comprendere il mio disio.
Io amo, e amor m'indusse a darvi la presente fatica; e ciò che io amo nella nave che qui davanti ne vedete dimora, la quale, insieme con quella cosa che io più disidero, è piena di grandissime ricchezze, le quali, se valorosi uomini siete, con poca fatica, virilmente combattendo, acquistar possiamo.
Della qual vittoria io non cerco che in parte mi venga se non una donna, per lo cui amore i'muovo l'arme; ogni altra cosa sia vostra libera mente infin da ora.
Andiamo adunque, e bene avventurosa mente assagliamo la nave; Iddio, alla nostra impresa favorevole, senza vento prestarle la ci tien ferma.
Non erano al bel Gerbino tante parole bisogno, per ciò che i messinesi che con lui erano, vaghi della rapina, già con l'animo erano a far quello di che il Gerbino gli confortava con le parole.
Per che, fatto un grandissimo romore nella fine del suo parlare che così fosse, le trombe sonarono; e prese l'armi, dierono de' remi in acqua e alla nave pervennero.
Coloro che sopra la nave erano, veggendo di lontan venir le galee, non potendosi partire, s'apprestarono alla difesa.
Il bel Gerbino, a quella pervenuto, fe'comandare che i padroni di quella sopra le galee mandati fossero, se la battaglia non voleano.
I saracini, certificati chi erano e che domandassero, dissero sé essere contro alla fede lor data dal re da loro assaliti; e in segno di ciò mostrarono il guanto del re Guiglielmo e del tutto negaron di mai, se non per battaglia vinti, arrendersi o cosa che sopra la nave fosse lor dare.
Gerbino, il qual sopra la poppa della nave veduta aveva la donna troppo più bella assai che egli seco non estimava, infiammato più che prima, al mostrar del guanto rispose che quivi non avea falconi al presente perché guanto v'avesse luogo; e per ciò, ove dar non volesser la donna, a ricever la battaglia s'apprestassero.
La qual senza più attendere, a saettare e a gittar pietre l'un verso l'altro fieramente incominciarono, e lungamente con danno di ciascuna delle parti in tal guisa combatterono.
Ultimamente, veggendosi Gerbino poco util fare, preso un legnetto che di Sardigna menato aveano, e in quel messo fuoco, con amendue le galee quello accostò alla nave.
Il che veggendo i saracini e conoscendo sé di necessità o doversi arrendere o morire, fatto sopra coverta la figliola del re venire, che sotto coverta piagnea, e quella menata alla proda della nave e chiamato il Gerbino, presente agli occhi suoi lei gridante mercé e aiuto svenarono, e in mar gittandola dissono:
- Togli, noi la ti diamo qual noi possiamo e chente la tua fede l'ha meritata.
Gerbino, veggendo la crudeltà di costoro, quasi di morir vago, non curando di saetta né di pietra, alla nave si fece accostare; e quivi su, malgrado di quanti ve n'eran, montato, non altramenti che un leon famelico nell'armento di giuvenchi venuto or questo or quello svenando prima co' denti e con l'unghie la sua ira sazia che la fame, con una spada in mano or questo or quel tagliando de' saracini crudelmente molti n'uccise Gerbino; e, già crescente il fuoco nella accesa nave, fattone a' marinari trarre quello che si potè per appagamento di loro, giù se ne scese con poco lieta vittoria de' suoi avversari avere acquistata.
Quindi, fatto il corpo della bella donna ricoglier di mare, lungamente e con molte lagrime il pianse, e in Cicilia tornandosi, in Ustica, piccioletta isola quasi a Trapani dirimpetto, onorevolmente il fe'sepellire, e a casa più doloroso che altro uomo si tornò.
Il re di Tunisi, saputa la novella, suoi ambasciadori di nero vestiti al re Guiglielmo mandò, dogliendosi della fede che gli era stata male osservata, e raccontarono il come.
Di che il re Guiglielmo turbato forte, né vedendo via da poter lor giustizia negare (ché la dimandavano), fece prendere il Gerbino; ed egli medesimo, non essendo alcun de' baron suoi che con prieghi da ciò si sforzasse di rimuoverlo, il condannò nella testa e in sua presenzia gliele fece tagliare, volendo avanti senza nepote rimanere che esser tenuto re senza fede.
Adunque così miseramente in pochi giorni i due amanti, senza alcun frutto del loro amore aver sentito, di mala morte morirono, com'io v'ho detto.
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Novella Quinta
I fratelli dell'Isabetta uccidon l'amante di lei; egli l'apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato.
Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
Finita la novella d'Elissa, e alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse; la quale, tutta piena di compassione del misero Gerbino e della sua donna, dopo un pietoso sospiro incominciò.
La mia novella, graziose donne, non sarà di genti di sì alta condizione, come costoro furono de' quali Elissa ha raccontato, ma ella per avventura non sarà men pietosa; e a ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove l'accidente avvenne.
Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il qual fu da San Gimignano, e avevano una lor sorella chiamata Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano.
E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva, il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte l'Isabetta guatato, avvenne che egli le 'ncominciò stranamente a piacere.
Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò a porre l'animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l'uno all'altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.
E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare che una notte, andando l'Isabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior de' fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse.
Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò.
Poi, venuto il giorno, a' suoi fratelli ciò che veduto avea la passata notte dell'Isabetta e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d'infignersi del tutto d'averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel qua le essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso.
E in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano avvenne che, sembianti faccendo d'andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco menarono Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se ne accorse.
E in Messina tornati dieder voce d'averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo attorno usati.
Non tornando Lorenzo, e l'Isabetta molto spesso e sollicitamente i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente, che l'uno de' fratelli le disse:
- Che vuol dir questo? Che hai tu a fare di Lorenzo, ché tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene.
Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava, e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e, senza punto rallegrarsi, sempre aspettando si stava.
Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, ed essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo l'apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli dicesse:
- O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t'attristi, e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l'ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m'uccisono.
E disegnatole il luogo dove sotterrato l'aveano, le disse che più nol chiamasse né l'aspettasse, e disparve.
La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente pianse.
Poi la mattina levata, non avendo ardire di dire al cuna cosa a' fratelli, propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l'era paruto.
E avuta la licenza d'andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia d'una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto potè là se n'andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione.
Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto volentieri tutto il corpo n'avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma, veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che potè gli spiccò dallo 'mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata e la terra sopra l'altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si partì e tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille baci dandole in ogni parte.
Poi prese un grande e un bel testo, di questi nei quali si pianta la persa o il bassilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi messovi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d'aranci o delle sue lagrime non inaffiava giammai; e per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l'avea, sopr'esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il bassilico bagnava, piagnea.
Il bassilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v'era, divenne bellissimo e odorifero molto.
E servando la giovane questa maniera del continuo, più volte da' suoi vicini fu veduta.
Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro:
- Noi ci siamo accorti, che ella ogni dì tiene la cotal maniera.
Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei fecer portar via questo testo.
Il quale, non ritrovandolo ella, con grandissima instanzia molte volte richiese; e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella infermità domandava.
I giovani si maravigliavan forte di questo addimandare e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancor sì consumata che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo.
Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse; e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n'andarono a Napoli.
La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e così il suo disavventurato amore ebbe termine.
Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcuno che compuose quel la canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:
Quale esso fu lo malo cristiano,
che mi furò la grasta, ecc.
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Novella Sesta
L'Andreuola ama Gabriotto; raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un altro; muorsi di subito nelle sue braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l'opera sta; il podestà la vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa monaca.
Quella novella, che Filomena aveva detta, fu alle donne carissima, per ciò che assai volte avevano quella canzone udita cantare né mai avevan potuto, per domandarne, sapere qual si fosse la cagione per che fosse stata fatta.
Ma, avendo il re la fine di quella udita, a Panfilo impose che allo ordine andasse dietro.
Panfilo allora disse:
Il sogno nella precedente novella raccontato mi dà materia di dovervene raccontare una nella quale di due si fa menzione, li quali di cosa che a venire era, come quello di cosa intervenuta, furono, e appena furon finiti di dire da coloro che veduti gli aveano, che l'effetto seguì d'amenduni.
E però, amorose donne, voi dovete sapere che general passione è di ciascuno che vive il veder varie cose nel sonno, le quali, quantunque a colui che dorme, dormendo, tutte paian verissime, e desto lui, alcune vere, alcune verisimili, e parte fuori d'ogni verità iudichi, nondimeno molte esserne avvenute.
si truovano
Per la qual cosa molti a ciascun sogno tanta fede prestano quanta presterieno a quelle cose le quali vegghiando vedessero; e per li lor sogni stessi s'attristano e s'allegrano secondo che per quegli o temono o sperano.
E in contrario son di quegli che niuno ne credono se non poi che nel premostrato pericolo si veggono.
De' quali né l'uno né l'altro commendo, per ciò che né sempre son veri né ogni volta falsi.
Che essi non sien tutti veri, assai volte può ciascun di noi aver conosciuto; e che essi tutti non sien falsi, già di sopra nella novella di Filomena s'è dimostrato e nella mia, come davanti dissi, intendo di dimostrarlo.
Per che giudico che nel virtuosamente vivere e operare di niuno contrario sogno a ciò si dee temere, né per quello lasciare i buoni proponimenti; nelle cose perverse e malvagie, quantunque i sogni a quelle paiano favorevoli e con seconde dimostrazioni chi gli vede confortino, niuno se ne vuol credere; e così nel contrario a tutti dar piena fede.
Ma vegniamo alla novella.
Nella città di Brescia fu già un gentile uomo chiamato messer Negro da Ponte Carraro, il quale, tra più altri figliuoli, una figliuola avea nominata Andreuola, giovane e bella assai e senza marito, la qual per ventura d'un suo vicino, ch'avea nome Gabriotto, s'innamorò, uomo di bassa condizione ma di laudevoli costumi pieno e della persona bello e piacevole; e coll'opera e collo aiuto della fante della casa operò tanto la giovane, che Gabriotto non solamente seppe sé esser dalla Andreuola amato, ma ancora in un bel giardino del padre di lei più e più volte a diletto dell'una parte e dell'altra fu menato.
E acciò che niuna cagione mai, se non morte, potesse questo lor dilettevole amor separare, marito e moglie segretamente divennero.
E così furtivamente gli lor congiugnimenti continuando, avvenne che alla giovane una notte dormendo parve in sogno vedere sé essere nel suo giardino con Gabriotto, e lui con grandissimo piacer di ciascuno tener nelle sue braccia; e mentre che così dimoravan, le pareva veder del corpo di lui uscire una cosa oscura e terribile, la forma della quale essa non poteva conoscere, e parevale che questa cosa prendesse Gabriotto e mal grado di lei con maravigliosa forza gliele strappasse di braccio e con esso ricoverasse sotterra, né mai più riveder potesse né l'uno né l'altro.
Di che assai dolore e inestimabile sentiva, e per quello si destò; e desta, come che lieta fosse veggendo che non così era come sognato avea, nondimeno l'entrò del sogno veduto paura.
E per questo, volendo poi Gabriotto la seguente notte venir da lei, quanto potè s'ingegnò di fare che la sera non vi venisse; ma pure, il suo voler vedendo, acciò che egli d'altro non sospecciasse, la seguente notte nel suo giardino il ricevette.
E avendo molte rose bianche e vermiglie colte, per ciò che la stagione era, con lui a piè d'una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a starsi se n'andò.
E quivi, dopo grande e assai lunga festa insieme avuta, Gabriotto la domandò qual fosse la cagione per che la venuta gli avea il dì dinanzi vietata.
La giovane, raccontandogli il sogno da lei la notte davanti veduto e la suspezione presa di quello, gliele contò.
Gabriotto udendo questo se ne rise, e disse che grande sciocchezza era porre ne'sogni alcuna fede, per ciò che o per soperchio di cibo o per mancamento di quello avvenieno, ed esser tutti vani si vedeano ogni giorno; e appresso disse:
- Se io fossi voluto andar dietro a' sogni, io non ci sarei venuto, non tanto per lo tuo quanto per uno che io altressì questa notte passata ne feci, il qual fu, che a me pareva essere in una bella e dilettevol selva e in quella andar cacciando e aver presa una cavriuola tanto bella e tanto piacevole quanto alcuna altra se ne vedesse giammai; e pareami che ella fosse più che la neve bianca, e in brieve spazio divenisse sì mia dimestica, che punto da me non si partiva tuttavia.
A me pareva averla sì cara che, acciò che da me non si partisse, le mi pareva nella gola aver messo un collar d'oro, e quella con una catena d'oro tener colle mani.
E appresso questo mi pareva che, riposandosi questa cavriuola una volta e tenendomi il capo in seno, uscisse non so di che parte una veltra nera come carbone, affamata e spaventevole molto nella apparenza, e verso me se ne venisse; alla quale niuna resistenza mi parea fare; per che egli mi pareva che ella mi mettesse il muso in seno nel sinistro lato, e quello tanto rodesse che al cuor perveniva, il quale pareva che ella mi strappasse per portarsel via.
Di che io sentiva sì fatto dolore che il mio sonno si ruppe, e desto colla mano subitamente corsi a cercarmi il lato se niente v'avessi; ma mal non trovandomi, mi feci beffe di me stesso che cercato v'avea.
Ma che vuol questo per ciò dire? De' così fatti e de' più spaventevoli assai n'ho già veduti, né per ciò cosa del mondo più né meno me n'è intervenuto; e per ciò lasciagli andare e pensiamo di darci buon tempo.
La giovane, per lo suo sogno assai spaventata, udendo questo divenne troppo più; ma, per non esser cagione d'alcuno sconforto a Gabriotto, quanto più potè la sua paura nascose.
E come che con lui, abbracciandolo e baciandolo alcuna volta e da lui essendo abbracciata e baciata, si sollazzasse, suspicando e non sappiendo che, più che l'usato spesse volte il riguardava nel volto, e talvolta per lo giardin riguardava se alcuna cosa nera vedesse venir d'alcuna parte.
E in tal maniera dimorando, Gabriotto, gittato un gran sospiro, l'abbracciò e disse:
- Ohimè, anima mia, aiutami, ché io muoio; - e così detto, ricadde in terra sopra l'erba del pratello.
Il che veggendo la giovane e lui caduto ritirandosi in grembio, quasi piagnendo disse:
- O signor mio dolce, o che ti senti tu?
Gabriotto non rispose, ma ansando forte e sudando tutto, dopo non guari spazio passò della presente vita.
Quanto questo fosse grave e noioso alla giovane, che più che sé l'amava, ciascuna sel dee poter pensare.
Ella il pianse assai e assai volte in vano il chiamò; ma poi che pur s'accorse lui del tutto esser morto, avendolo per ogni parte del corpo cercato e in ciascuna trovandol freddo, non sappiendo che far né che dirsi, così lagrimosa come era e piena d'angoscia andò la sua fante a chiamare, la quale di questo amor consapevole era, e la sua miseria e il suo dolore le dimostrò.
E poi che miseramente insieme alquanto ebber pianto sopra il morto viso di Gabriotto disse la giovane alla fante:
- Poi che Iddio m'ha tolto costui, io non intendo di più stare in vita; ma prima che io ad uccider mi venga, vorre'io che noi prendessimo modo convenevole a servare il mio onore e il segreto amor tra noi stato, e che il corpo, del quale la graziosa anima s'è partita, fosse sepellito.
A cui la fante disse:
- Figliuola mia, non dir di volerti uccidere, per ciò che, se tu l'hai qui perduto, uccidendoti, anche nell'altro mondo il perderesti, per ciò che tu n'andresti in inferno, là dove io son certa che la sua anima non è andata per ciò che buon giovane fu; ma molto meglio è a confortarti e pensare d'aiutare con orazioni e con altro bene l'anima sua, se forse per alcun peccato commesso n'ha bisogno.
Del sepellirlo è il modo presto qui in questo giardino, il che niuna persona saprà giammai, per ciò che niun sa ch'egli mai ci venisse; e se così non vuogli, mettianlo qui fuori del giardino e lascianlo stare; egli sarà domattina trovato e portatone a casa sua e fatto sepellire da' suoi parenti.
La giovane, quantunque piena fosse d'amaritudine e continuamente piagnesse, pure ascoltava i consigli della sua fante; e alla prima parte non accordatasi, rispose alla seconda dicendo:
- Già Dio non voglia che così caro giovane e cotanto da me amato e mio marito, io sofferi che a guisa d'un cane sia sepellito o nella strada in terra lasciato.
Egli ha avute le mie lagrime, e in quanto io potrò egli avrà quelle de' suoi parenti; e già per l'animo mi va quello che noi abbiamo in ciò a fare.
E prestamente per una pezza di drappo di seta, la quale aveva in un suo forziere, la mandò; e venuta quella, in terra distesala, su il corpo di Gabriotto vi posero, e postagli la testa sopra uno origliere e con molte lagrime chiusigli gli occhi e la bocca, e fattagli una ghirlanda di rose e tutto dattorno delle rose che colte avevano empiutolo, disse alla fante:
- Di qui alla porta della sua casa ha poca via; e per ciò tu e io, così come acconcio l'abbiamo, quivi il porteremo e dinanzi ad essa il porremo.
Egli non andrà guari di tempo che giorno fia, e sarà ricolto; e come che questo a' suoi niuna consolazion sia, pure a me, nelle cui braccia egli è morto, sarà un piacere.
E così detto, da capo con abbondantissime lagrime sopra il viso gli si gittò e per lungo spazio pianse.
La qual, molto dalla fante sollicitata, per ciò che il giorno se ne veniva, dirizzatasi, quello anello medesimo col quale da Gabriotto era stata sposata del dito suo trattosi, il mise nel dito di lui, con pianto dicendo:
- Caro mio signore, se la tua anima ora le mie lagrime vede, e niun conoscimento o sentimento dopo la partita di quella rimane a' corpi, ricevi benignamente l'ultimo dono di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; - e questo detto, tramortita addosso gli ricadde.
E dopo alquanto risentita e levatasi, colla fante insieme preso il drappo sopra il quale il corpo giaceva, con quello del giardino uscirono e verso la casa di lui si dirizzaro.
E così andando, per caso avvenne che dalla famiglia del podestà, che per caso andava a quella ora per alcuno accidente, furon trovate e prese col morto corpo.
L'Andreuola, più di morte che di vita disiderosa, conosciuta la famiglia della signoria, francamente disse:
- Io conosco chi voi siete e so che il volermi fuggire niente monterebbe; io son presta di venir con voi davanti alla signoria e che ciò sia di raccontarle; ma niuno di voi sia ardito di toccarmi, se io obbediente vi sono, né da questo corpo alcuna cosa rimuovere, se da me non vuole essere accusato.
Per che, senza essere da alcun tocca, con tutto il corpo di Gabriotto n'andò in palagio.
La qual cosa il podestà sentendo, si levò, e lei nella camera avendo, di ciò che intervenuto era s'informò; e fatto da certi medici riguardare se con veleno o altramenti fosse stato il buono uomo ucciso, tutti affermarono del no; ma che alcuna posta vicina al cuore gli s'era rotta, che affogato l'avea.
Il qual ciò udendo e sentendo costei in piccola cosa esser nocente, s'ingegnò di mostrar di donarle quello che vender non le poteva, e disse, dove ella a' suoi piaceri acconsentir si volesse, la libererebbe.
Ma non valendo quelle parole, oltre ad ogni convenevolezza, volle usar la forza.
Ma l'Andreuola, da sdegno accesa e divenuta fortissima, virilmente si difese, lui con villane parole e altiere ributtando indietro.
Ma, venuto il dì chiaro e queste cose essendo a messer Negro contate, dolente a morte, con molti de' suoi amici a palagio n'andò, e quivi d'ogni cosa dal podestà infornato, dolendosi domandò che la figliuola gli fosse renduta.
Il podestà, volendosi prima accusare egli della forza che fare l'avea voluta che egli da lei accusato fosse, lodando prima la giovane e la sua constanzia, per approvar quella venne a dire ciò che fatto avea; per la qual cosa, vedendola di tanta buona fermezza, sommo amore l'avea posto, e, dove a grado a lui, che suo padre era, e a lei fosse, non ostante che marito avesse avuto di bassa condizione, volentieri per sua donna la sposerebbe.
In questo tempo che costoro così parlavano, l'Andreuola venne in cospetto del padre e piagnendo gli si gittò innanzi e disse:
- Padre mio, io non credo che bisogni che io la istoria del mio ardire e della mia sciagura vi racconti, ché son certa che udita l'avete e sapetela; e per ciò, quanto più posso, umilmente perdono vi domando del fallo mio, cioè d'avere senza vostra saputa chi più mi piacque marito preso.
E questo perdono non vi domando perché la vita mi sia perdonata, ma per morire vostra figliuola e non vostra nimica; - e così piagnendo gli cadde a' piedi.
Messer Negro, che antico era oramai e uomo di natura benigno e amorevole, queste parole udendo cominciò a piagnere, e piagnendo levò la figliuola teneramente in piè, e disse:
- Figliuola mia, io avrei avuto molto caro che tu avessi avuto tal marito quale a te secondo il parer mio si convenia; e se tu l'avevi tal preso quale egli ti piacea, questo doveva anche a me piacere; ma l'averlo occultato della tua poca fidanza mi fa dolere, e più ancora vedendotel prima aver perduto che io l'abbia saputo.
Ma pur, poi che così è, quello che io per contentarti, vivendo egli, volentieri gli avrei fatto, cioè onore sì come a mio genero, facciaglisi alla morte; - e volto a' figliuoli e a' suo'parenti, comandò loro che le esequie s'apparecchiassero a Gabriotto grandi e onorevoli.
Eranvi in questo mezzo concorsi i parenti e le parenti del giovane, che saputa avevano la novella, e quasi donne e uomini quanti nella città n'erano.
Per che, posto nel mezzo della corte il corpo sopra il drappo della Andreuola e con tutte le sue rose, quivi non solamente da lei e dalle parenti di lui fu pianto, ma pubblicamente quasi da tutte le donne della città e da assai uomini; e non a guisa di plebeio ma di signore, tratto della corte pubblica, sopra gli omeri de' più nobili cittadini con grandissimo onore fu portato alla sepoltura.
Quindi dopo alquanti dì, seguitando il podestà quello che addomandato avea, ragionandolo messer Negro alla figliuola, niun cosa ne volle udire; ma, volendole in ciò compiacere il padre, in un monistero assai famoso di santità essa e la sua fante monache si renderono e onestamente poi in quello per molto tempo vissero.
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Novella Settima
La Simona ama Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a' denti una foglia di salvia e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a' denti, similmente si muore.
Panfilo era della sua novella diliberato, quando il re, nulla compassion mostrando all'Andreuola, riguardando Emilia, sembianti le fe' che a grado li fosse che essa a coloro che detto aveano, dicendo, si continuasse.
La quale, senza al cuna dimora fare, incominciò.
Care compagne, la novella detta da Panfilo mi tira a doverne dire una in niuna altra cosa alla sua simile, se non che, come l'Andreuola nel giardino perdè l'amante, e così colei di cui dir debbo; e similmente presa, come l'Andreuola fu, non con forza né con virtù, ma con morte inoppinata si diliberò dalla corte.
E come altra volta tra noi è stato detto, quantunque Amor volentieri le case de' nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo 'mperio di quelle de' poveri, anzi in quelle sì alcuna volta le sue forze dimostra, che come potentissimo signore da' più ricchi si fa temere.
Il che, ancora che non in tutto, in gran parte apparirà nella mia novella, con la qual mi piace nella nostra città rientrare, della quale questo dì, diverse cose diversamente parlando, per diverse parti del mondo avvolgendoci, cotanto allontanati ci siamo.
Fu adunque, non è gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e leggiadra secondo la sua condizione, e di povero padre figliuola, la quale ebbe nome Simona; e quantunque le convenisse colle proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero animo che ella non ardisse a ricevere amore nella sua mente, il quale con gli atti e colle parole piacevoli d'un giovinetto di non maggior peso di lei, che dando andava per un suo maestro lanaiuolo lana a filare, buona pezza mostrato aveva di volervi entrare.
Ricevutolo adunque in sé col piacevole aspetto del giovane che l'amava, il cui nome era Pasquino, forte disiderando e non attentando di far più avanti, filando, ad ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri più cocenti che fuoco gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data.
Quegli dall'altra parte molto sollicito divenuto che ben si filasse la lana del suo maestro, quasi quella sola che la Simona filava, e non alcuna altra, tutta la tela dovesse compiere, più spesso che l'altra era sollicitata.
Per che, l'un sollicitando e all'altra giovando d'esser sollicitata, avvenne che l'un più d'ardir prendendo che aver non solea e l'altra molto della paura e della vergogna cacciando che d'avere era usata, insieme a' piaceri comuni si congiunsono.
Li quali tanto all'una parte e all'altra aggradirono che, non che l'un dall'altro aspettasse d'esser invitato a ciò, anzi a dovervi essere si faceva incontro l'uno all'altro invitando.
E così questo lor piacere continuando d'un giorno in uno altro e sempre più nel continuare accendendosi, avvenne che Pasquino disse alla Simona che del tutto egli voleva che ella trovasse modo di poter venire ad un giardino, là dove egli menar la voleva, acciò che quivi più adagio e con men sospetto potessero essere insieme.
La Simona disse che le piaceva; e, dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare che andar voleva alla perdonanza a San Gallo, con una sua compagna chiamata la Lagina al giardino statole da Pasquino insegnato se n'andò.
Dove lui insieme con un suo compagno, che Puccino avea nome, ma era chiamato lo Stramba, trovò; e quivi fatto uno amorazzo nuovo tra lo Stramba e la Lagina, essi a far de' lor piaceri in una parte del giardin si raccolsero, e lo Stramba e la Lagina lasciarono in un'altra.
Era in quella parte del giardino, dove Pasquino e la Simona andati se ne erano, un grandissimo e bel cesto di salvia; a piè della quale postisi a sedere e gran pezza sollazzatosi insieme, e molto avendo ragionato d'una merenda che in quello orto ad animo riposato intendevan di fare, Pasquino, al gran cesto della salvia rivolto, di quella colse una foglia e con essa s'incominciò a stropicciare i denti e le gengie, dicendo che la salvia molto bene gli nettava d'ogni cosa che sopr'essi rimasa fosse dopo l'aver mangiato.
E poi che così alquanto fregati gli ebbe, ritornò in sul ragionamento della merenda, della qual prima diceva.
Né guari di spazio perseguì ragionando, che egli s'incominciò tutto nel viso a cambiare, e appresso il cambiamento non istette guari che egli perde la vista e la parola, e in brieve egli si morì.
Le quali cose la Simona veggendo, cominciò a piagnere e a gridare e a chiamar lo Stramba e la Lagina.
Li quali prestamente là corsi, e veggendo Pasquino non solamente morto, ma già tutto enfiato e pieno d'oscure macchie per lo viso e per lo corpo divenuto, subitamente gridò lo Stramba:
- Ahi malvagia femina, tu l'hai avvelenato.
E fatto il romor grande, fu da molti, che vicini al giardino abitavano, sentito.
Li quali, corsi al romore e trovando costui morto ed enfiato, e udendo lo Stramba dolersi e accusare la Simona che con inganno avvelenato l'avesse, ed ella, per lo dolore del subito accidente che il suo amante tolto avesse, quasi di sé uscita, non sappiendosi scusare, fu reputato da tutti che così fosse come lo Stramba diceva.
Per la qual cosa presala, piagnendo ella sempre forte, al palagio del podestà ne fu menata.
Quivi, prontando lo Stramba e l'Atticciato e 'l Malagevole, compagni di Pasquino che sopravenuti erano, un giudice, senza dare indugio alla cosa, si mise ad esaminarla del fatto; e non potendo comprendere costei in questa cosa avere operata malizia né esser colpevole, volle, lei presente, vedere il morto corpo e il luogo e 'l modo da lei raccontatogli, per ciò che per le parole di lei nol comprendeva assai bene.
Fattola adunque senza alcuno tumulto colà menare dove ancora il corpo di Pasquino giaceva gonfiato come una botte, ed egli appresso andatovi, maravigliatosi del morto, lei domandò come stato era.
Costei, al cesto della salvia accostatasi e ogni precedente istoria avendo raccontata, per pienamente darli ad intendere il caso sopravenuto, così fece come Pasquino aveva fatto, una di quelle foglie di salvia fregatasi a' denti.
Le quali cose mentre che per lo Stramba e per lo Atticciato e per gli altri amici e compagni di Pasquino sì come frivole e vane in presenzia del giudice erano schernite, e con più istanzia la sua malvagità accusata, niuna altra cosa per lor domandandosi se non che il fuoco fosse di così fatta malvagità punitore, la cattivella, che dal dolore del perduto amante e dalla paura della dimandata pena dallo Stramba ristretta stava, per l'aversi la salvia fregata a' denti in quel medesimo accidente cadde che prima caduto era Pasquino, non senza gran maraviglia di quanti eran presenti.
O felici anime, alle quali in un medesimo dì addivenne il fervente amore e la mortal vita terminare! E più felici, se insieme ad un medesimo luogo n'andaste! E felicissime, se nell'altra vita s'ama, e voi v'amate come di qua faceste! Ma molto più felice l'anima della Simona innanzi tratto, quanto è al nostro giudicio, che vivi dietro a lei rimasi siamo, la cui innocenzia non patì la fortuna che sotto la testimonianza cadesse dello Stramba e dell'Atticciato e del Malagevole, forse scardassieri o più vili uomini, più onesta via trovandole con pari sorte di morte al suo amante a svilupparsi dalla loro infamia e a seguitar l'anima tanto da lei amata del suo Pasquino.
Il giudice, quasi tutto stupefatto dello accidente insieme con quanti ve n'erano, non sappiendo che dirsi, lungamente soprastette; poi, in miglior senno rivenuto, disse:
- Mostra che questa salvia sia velenosa, il che della salvia non suole avvenire.
Ma acciò che ella alcuno altro offender non possa in simil modo, taglisi infino alle radici e mettasi nel fuoco.
La qual cosa colui che del giardino era guardiano in presenza del giudice faccendo, non prima abbattuto ebbe il gran cesto in terra, che la cagione della morte de' due miseri amanti apparve.
Era sotto il cesto di quella salvia una botta di maravigliosa grandezza, dal cui venenifero fiato avvisarono quella salvia esser velenosa divenuta.
Alla qual botta non avendo alcuno ardire d'appressarsi, fattale d'intorno una stipa grandissima, quivi insieme colla salvia l'arsero, e fu finito il processo di messer lo giudice sopra la morte di Pasquino cattivello.
Il quale insieme con la sua Simona, così enfiati come erano, dallo Stramba e dallo Atticciato e da Guccio Imbratta e dal Malagevole furono nella chiesa di San Paolo sepelliti, della quale per avventura eran popolani.
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Novella Ottava
Girolamo ama la Salvestra; va, costretto da' prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa, nuore la Salvestra allato a lui.
Aveva la novella d'Emilia il fine suo, quando per comandamento del re Neifile così cominciò.
Alcuni al mio giudicio, valorose donne, sono, li quali più che l'altre genti si credon sapere, e sanno meno; e per questo non solamente a' consigli degli uomini, ma ancora contra la natura delle cose presummono d'opporre il senno loro; della quale presunzione già grandissimi mali sono avvenuti e alcun bene non se ne vide giammai.
E per ciò che tra l'altre naturali cose quella che meno riceve consiglio o operazione in contrario è amore, la cui natura è tale che più tosto per sé medesimo consumar si può che per avvedimento alcuno tor via, m'è venuto nello animo di narrarvi una novella d'una donna la quale, mentre che ella cercò d'esser più savia che a lei non si apparteneva e che non era e ancora che non sosteneva la cosa in che studiava mostrare il senno suo, credendo dello innamorato cuore trarre amore, il quale forse v'avevano messo le stelle, pervenne a cacciare ad una ora amore e l'anima del corpo al figliuolo.
Fu adunque nella nostra città, secondo che gli antichi raccontano, un grandissimo mercatante e ricco, il cui nome fu Leonardo Sighieri, il quale d'una sua donna un figliuolo ebbe chiamato Girolamo, appresso la natività del quale, acconci i suoi fatti ordinatamente, passò di questa vita.
I tutori del fanciullo, insieme con la madre di lui, bene e lealmente le sue cose guidarono.
Il fanciullo crescendo co' fanciulli degli altri suoi vicini, più che con alcuno altro della contrada con una fanciulla del tempo suo, figliuola d'un sarto, si dimesticò.
E venendo più crescendo l'età, l'usanza si convertì in amore tanto e sì fiero, che Girolamo non sentiva ben se non tanto quanto costei vedeva; e certo ella non amava men lui che da lui amata fosse.
La madre del fanciullo, di ciò avvedutasi, molte volte ne gli disse male e nel gastigò.
E appresso co' tutori di lui, non potendosene Girolamo rimanere, se ne dolfe; e come colei che si credeva per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un mel rancio, disse loro:
- Questo nostro fanciullo, il quale appena ancora non ha quattordici anni, è sì innamorato d'una figliuola d'un sarto nostro vicino, che ha nome la Salvestra, che, se noi dinanzi non gliele leviamo, per avventura egli la si prenderà un giorno, senza che alcuno il sappia, per moglie, e io non sarò mai poscia lieta; o egli si consumerà per lei se ad altri la vedrà maritare; e per ciò mi parrebbe che, per fuggir questo, voi il doveste in alcuna parte mandare lontano di qui ne'servigi del fondaco; per ciò che, dilungandosi da veder costei, ella gli uscirà dello animo e potrengli poscia dare alcuna giovane ben nata per moglie.
I tutori dissero che la donna parlava bene e che essi ciò farebbero al lor potere; e fattosi chiamare il fanciullo nel fondaco, gl'incominciò l'uno a dire assai amorevolmente:
- Figliuol mio, tu se'oggimai grandicello; egli è ben fatto che tu incominci tu medesimo a vedere de' fatti tuoi; per che noi ci contenteremmo molto che tu andassi a stare a Parigi alquanto, dove gran parte della tua ricchezza vedrai come si traffica, senza che tu diventerai molto migliore e più costumato e più da bene là che qui non faresti, veggendo quei signori e quei baroni e que'gentili uomini che vi sono assai e de' lor costumi apprendendo; poi te ne potrai qui venire.
Il garzone ascoltò diligentemente e in brieve rispose niente volerne fare, per ciò che egli credeva così bene come un altro potersi stare a Firenze.
I valenti uomini, udendo questo, ancora con più parole il riprovarono; ma, non potendo trarne altra risposta, alla madre il dissero.
La quale fieramente di ciò adirata, non del non volere egli andare a Parigi, ma del suo innamoramento, gli disse una gran villania; e poi, con dolci parole raumiliandolo, lo 'ncominciò a lusingare e a pregare dolcemente che gli dovesse piacere di far quello che volevano i suoi tutori; e tanto gli seppe dire che egli acconsentì di dovervi andare a stare uno anno e non più; e così fu fatto.
Andato adunque Girolamo a Parigi fieramente innamorato, d'oggi in domane ne verrai, vi fu due anni tenuto.
Donde più innamorato che mai tornatosene, trovò la sua Salvestra maritata ad un buon giovane che faceva le trabacche, di che egli fu oltre misura dolente.
Ma pur, veggendo che altro esser non poteva, s'ingegnò di darsene pace; e spiato là dove ella stesse a casa, secondo l'usanza de' giovani innamorati incominciò a passare davanti a lei, credendo che ella non avesse lui dimenticato, se non come egli aveva lei.
Ma l'opera stava in altra guisa; ella non si ricordava di lui se non come se mai non lo avesse veduto; e, se pure alcuna cosa se ne ricordava, sì mostrava il contrario.
Di che in assai piccolo spazio di tempo il giovane s'accorse, e non senza suo grandissimo dolore.
Ma nondimeno ogni cosa faceva che poteva, per rientrarle nello animo; ma niente parendogli adoperare, si dispose, se morir ne dovesse, di parlarle esso stesso.
E da alcuno vicino informatosi come la casa di lei stesse, una sera che a vegghiare erano ella e 'l marito andati con lor vicini, nascosamente dentro v'entrò, e nella camera di lei dietro a teli di trabacche che tesi v'erano si nascose, e tanto aspettò che, tornati costoro e andatisene al letto, sentì il marito di lei addormentato, e là se n'andò dove veduto aveva che la Salvestra coricata s'era, e postale la sua mano sopra il petto, pianamente disse:
- O anima mia, dormi tu ancora?
La giovane, che non dormiva, volle gridare, ma il giovane prestamente disse:
- Per Dio, non gridare, ché io sono il tuo Girolamo.
Il che udendo costei, tutta tremante disse:
- Deh, per Dio, Girolamo, vattene; egli è passato quel tempo che alla nostra fanciullezza non si disdisse l'essere innamorati; io sono, come tu vedi, maritata; per la qual cosa più non sta bene a me d'attendere ad altro uomo che al mio marito; per che io ti priego per solo Iddio che tu te ne vada; ché se mio marito ti sentisse, pogniamo che altro male non ne seguisse, sì ne seguirebbe che mai in pace né in riposo con lui viver potrei, dove ora amata da lui in bene e in tranquillità con lui mi dimoro.
Il giovane, udendo queste parole, sentì noioso dolore; e ricordatole il passato tempo e 'l suo amore mai per distanzia non menomato, e molti prieghi e promesse grandissime mescolate, niuna cosa ottenne.
Per che, disideroso di morire, ultimamente la pregò che in merito di tanto amore ella sofferisse che egli allato a lei si coricasse, tanto che alquanto riscaldar si potesse, ché era agghiacciato aspettandola; promettendole che né le direbbe alcuna cosa né la toccherebbe e, come un poco riscaldato fosse, se n'andrebbe.
La Salvestra, avendo un poco compassion di lui, con le condizioni date da lui il concedette.
Coricossi adunque il giovine allato a lei senza toccarla; e raccolto in un pensiere il lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza, diliberò di più non vivere; e ristretti in sé gli spiriti, senza alcun motto fare, chiuse le pugna, allato a lei si morì.
E dopo alquanto spazio la giovane maravigliandosi della sua contenenza, temendo non il maritò si svegliasse, cominciò a dire:
- Deh, Girolamo, ché non te ne vai tu?
Ma non sentendosi rispondere, pensò lui essere addormentato; per che, stesa oltre la mano acciò che si svegliasse, il cominciò a tentare, e toccandolo il trovò come ghiaccio freddo, di che ella si maravigliò forte; e toccandolo con più forza e sentendo che egli non si movea, dopo più ritoccarlo cognobbe che egli era morto; di che oltre modo dolente, stette gran pezza senza saper che farsi.
Alla fine prese consiglio di volere in altrui persona tentar quello che il marito dicesse da farne; e destatolo, quello che presenzialmente a lei avvenuto era, disse essere ad un'altra intervenuto, e poi il domandò, se a lei avvenisse, che consiglio ne prenderebbe.
Il buono uomo rispose che a lui parrebbe che colui che morto fosse si dovesse chetamente riportare a casa sua e quivi lasciarlo, senza alcuna malavoglienza alla donna portarne, la quale fallato non gli pareva ch'avesse.
Allora la giovane disse:
- E così convien fare a noi; - e presagli la mano, gli fece toccare il morto giovane.
Di che egli tutto smarrito si levò su e, acceso un lume, senza entrare colla moglie in altre novelle, il morto corpo de' suoi panni medesimi rivestito e senza alcuno indugio, aiutandolo la sua innocenzia, levatoselo in su le spalle, alla porta della casa di lui nel portò e quivi il pose e lasciollo stare.
E venuto il giorno, e veduto costui davanti all'uscio suo morto, fu fatto il romor grande, e spezialmente dalla madre; e cerco per tutto e riguardato, e non trovatoglisi né piaga né percossa alcuna, per li medici generalmente fu creduto lui di dolore esser morto così come era.
Fu adunque questo corpo portato in una chiesa, e quivi venne la dolorosa madre con molte altre donne parenti e vicine, e sopra lui cominciarono dirottamente, secondo l'usanza nostra, a piagnere e a dolersi.
E mentre il corrotto grandissimo si facea, il buono uomo, in casa cui morto era, disse alla Salvestra:
- Deh ponti alcun mantello in capo e va a quella chiesa dove Girolamo è stato recato e mettiti tra le donne, e ascolterai quello che di questo fatto si ragiona, e io farò il simigliante tra gli uomini, acciò che noi sentiamo se alcuna cosa contro a noi si dicesse.
Alla giovane, che tardi era divenuta pietosa, piacque, sì come a colei che morto disiderava di veder colui a cui vivo non avea voluto d'un sol bacio piacere, e andovvi.
Maravigliosa cosa è a pensare quanto sieno difficili ad investigare le forze d'Amore! Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la miseria l'aperse, e l'antiche fiamme risuscitatevi tutte subitamente mutò in tanta pietà, come ella il viso morto vide, che sotto 'l mantel chiusa, tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al corpo fu pervenuta; e quivi, mandato fuori uno altissimo strido, sopra il morto giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò che prima nol toccò che, come al giovane il dolore la vita aveva tolta, così a costei tolse.
Ma poi che, riconfortandola le donne e dicendole che su si levasse alquanto, non conoscendola ancora, e poi che ella non si levava, levar volendola e immobile trovandola, pur sollevandola, ad una ora lei esser la Salvestra e morta conobbero.
Di che tutte le donne che quivi erano, vinte da doppia pietà, ricominciarono il pianto assai maggiore.
Sparsesi fuor della chiesa tra gli uomini la novella, la quale pervenuta agli orecchi del marito di lei, che tra loro era, senza ascoltare consolazione o conforto da alcuno, per lungo spazio pianse.
E poi ad assai di quegli che v'erano raccontata la istoria stata la notte di questo giovane e della moglie, manifes
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