DECAMERON, di Giovanni Boccaccio - pagina 12
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Conclusione
Già era il sole inchinato al vespro, e in gran parte il caldo diminuito, quando le novelle delle giovani donne e de' tre giovani si trovarono esser finite.
Per la qual cosa la loro reina piacevolmente disse:
E perciò a reverenza di Colui a cui tutte le cose vivono e consolazione di noi, per questa seconda giornata Filomena, discretissima giovane, reina guiderà il nostro regno.
E così detto, in piè levatasi e trattasi la ghirlanda dello alloro, a lei reverente la mise; la quale essa prima e appresso tutte l'altre e i giovani similmente salutaron come reina e alla sua signoria piacevolmente s'offersero.
Filomena, alquanto per vergogna arrossata veggendosi coronata del regno e ricordandosi delle parole poco avanti dette da Pampinea, acciò che milensa non paresse, ripreso l'ardire, primieramente gli ufici dati da Pampinea riconfermò, e dispose quello che per la seguente mattina e per la futura cena fare si dovesse, quivi dimorando dove erano; e appresso così cominciò a parlare:
Se io ho ben riguardato alle maniere oggi da Pampinea tenute, egli me le pare avere parimente laudevoli e dilettevoli conosciute; e per ciò infino a tanto che elle, o per troppa continuanza o per altra cagione, non ci divenisser noiose, quelle non giudico da mutare.
Dato adunque ordine a quello che abbiamo già a fare cominciato, quinci levatici, alquanto n'andrem sollazzando, e come il sole sarà per andar sotto, ceneremo per lo fresco, e, dopo alcune canzonette e altri sollazzi, sarà ben fatto l'andarsi a dormire.
Domattina, per lo fresco levatici, similmente in alcuna parte n'andremo sollazzando, come a ciascuno sarà più a grado di fare, e, come oggi avem fatto, così all'ora debita torneremo a mangiare, balleremo, e da dormire levatici, come oggi state siamo, qui al novellar torneremo, nel quale mi par grandissima parte di piacere e d'utilità similmente consistere.
È il vero che quello che Pampinea non potè fare, per lo esser tardi eletta al reggimento, io il voglio cominciare a fare, cioè a ristrignere dentro ad alcun termine quello di che dobbiamo novellare e davanti mostrarlovi, acciò che ciascuno abbia spazio di poter pensare ad alcuna bella novella sopra la data proposta contare; la quale, quando questo vi piaccia, sia questa: che, con ciò sia cosa che dal principio del mondo gli uomini sieno stati da diversi casi della fortuna menati, e saranno infino alla fine, ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine.
Le donne e gli uomini parimente tutti questo ordine commendarono e quello dissero di seguire.
Dioneo solamente, tutti gli altri tacendo già, disse:
- Madonna, come tutti questi altri hanno detto, così dico io sommamente esser piacevole e commendabile l'ordine dato da voi; ma di spezial grazia vi chieggio un dono, il quale voglio che mi sia confermato per infino a tanto che la nostra compagnia durerà, il quale è questo: che io a questa legge non sia costretto di dover dire novella secondo la proposta data, se io non vorrò, ma quale più di dire mi piacerà.
E acciò che alcun non creda che io questa grazia voglia sì come uomo che delle novelle non abbia alle mani, infino da ora son contento d'esser sempre l'ultimo che ragioni.
La reina, la quale lui e sollazzevole uomo e festevole conoscea e ottimamente si avvisò questo lui non chiedere se non per dovere la brigata, se stanca fosse del ragionare, rallegrare con alcuna novella da ridere, col consentimento degli altri lietamente la grazia gli fece.
E da seder levatasi, verso un rivo d'acqua chiarissima, il quale d'una montagnetta discendeva in una valle ombrosa da molti arbori fra vive pietre e verdi erbette, con lento passo se n'andarono.
Quivi, scalze e colle braccia nude per l'acqua andando, cominciarono a prendere vari diletti fra se' medesime.
E appressandosi l'ora della cena, verso il palagio tornatesi, con diletto cenarono.
Dopo la qual cena, fatti venir gli strumenti, comandò la reina che una danza fosse presa, e quella menando la Lauretta, Emilia cantasse una canzone, dal leuto di Dioneo aiutata.
Per lo qual comandamento Lauretta prestamente prese una danza, e quella menò, cantando Emilia la seguente canzone amorosamente:
Io son sì vaga della mia bellezza,
che d'altro amor giammai
non curerò, né credo aver vaghezza.
Io veggio in quella, ogn'ora ch'io mi specchio,
quel ben che fa contento lo 'ntelletto,
né accidente nuovo o pensier vecchio
mi può privar di si caro diletto.
Qual altro dunque piacevole oggetto
potrei veder giammai,
che mi mettesse in cuor nuova vaghezza?
Non fugge questo ben, qualor disio
di rimirarlo in mia consolazione;
anzi si fa incontro al piacer mio
tanto soave a sentir, che sermone
dir nol poria, ne prendere intenzione
d'alcun mortal giammai,
che non ardesse di cotal vaghezza.
E io, che ciascun'ora più m'accendo,
quanto più fiso gli occhi tengo in esso,
tutta mi dono a lui, tutta mi rendo,
gustando già di ciò ch'el m'ha promesso,
e maggior gioia spero più da presso
sì fatta, che giammai
simil non si sentì qui di vaghezza.
Questa ballatetta finita, alla qual tutti lietamente aveano risposto, ancor che alcuni molto alle parole di quella pensar facesse, dopo alcune altre carolette fatte, essendo già una particella della brieve notte passata, piacque alla reina di dar fine alla prima giornata; e, fatti i torchi accendere, comandò che ciascuno infino alla seguente mattina s'andasse a riposare; per che ciascuno, alla sua camera tornatosi, così fece.
Finisce la prima giornata del Decameron
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Seconda Giornata
Introduzione alla seconda giornata
Novella prima
Martellino, infignendosi attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guarire, e, conosciuto il suo inganno, è battuto, e poi, preso e in pericolo venuto d'esser impiccato per la gola, ultimamente scampa.
Novella seconda
Rinaldo d'Esti, rubato, capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova e, de' suoi danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
Novella terza
Tre giovani, male il loro avere spendendo, impoveriscono; dei quali un nepote con uno abate accontatosi tornandosi a casa per dispe lui truova essere la figliuola del re d'lnghilterra, la quale lui per marito prende e de' suoi zii ogni danno ristora, tornandogli in buono stato.
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Madonna Beritola, con due cavriuoli sopra una isola trovata, avendo due figliuoli perduti, ne va in Lunigiana; quivi l'un de' figliuoli col signor di lei si pone e colla figliuola di lui giace ed è messo in prigione.
Cicilia ribellata al re Carlo, e il figliuolo riconosciuto dalla madre, sposa la figliuola del suo signore e il suo fratello ritrova e in grande stato ritornano.
Novella settima
Il soldano di Babilonia ne manda una sua figliuola a marito al re del Garbo, la quale per diversi accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del Garbo, come prima faceva, per moglie.
Novella ottava
Il conte d'Anguersa, falsamente accusato, va in essilio e lascia due suoi figliuoli in diversi luoghi in Inghilterra, ed egli sconosciuto tornando, lor truova in buono stato, va come ragazzo nello essercito del re di Francia, e riconosciuto innocente, è nel primo stato ritornato.
Novella nona
Bernabò da Genova, da Ambrogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia uccisa.
Ella scampa, e in abito d'uomo serve il soldano; ritrova lo 'ngannatore, e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ngannatore punito, ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova.
Novella decima
Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e diventa amico di Paganino.
Raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele concede.
Ella non vuol con lui tornare, e, morto messer Ricciardo, moglie di Paganin diviene.
Conclusione della seconda giornata
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Introduzione
Incomincia la seconda giornata, nella quale, sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine.
Già per tutto aveva il sol recato colla sua luce il nuovo giorno e gli uccelli, su per gli verdi rami cantando piacevoli versi, ne davano agli orecchi testimonianza, quando parimente tutte le donne e i tre giovani levatisi ne' giardini se n'entrarono e le rugiadose erbe con lento passo scalpitando, d'una parte in un'altra, belle ghirlande faccendosi, per lungo spazio diportando s'andarono.
E sì come il trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente: per lo fresco avendo mangiato, dopo alcun ballo s'andarono a riposare, e da quello appresso la nona levatisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pratello venuti, a lei dintorno si posero a sedere.
Ella, la quale era formosa e di piacevole aspetto molto, della sua ghirlanda dello alloro coronata, alquanto stata e tutta la sua compagnia riguardata nel viso, a Neifile comandò che alle future novelle con una desse principio; la quale, senza scusa alcuna fare, così lieta cominciò a parlare.
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Novella Prima
Martellino, infignendosi attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guarire, e, conosciuto il suo inganno, è battuto, e poi, preso e in pericolo venuto d'esser impiccato per la gola, ultimamente scampa.
Spesse volte, carissime donne, avvenne che chi altrui s'è di beffare ingegnato, e massimamente quelle cose che sono da reverire, s'è colle beffe e talvolta col danno di sé solo ritrovato.
Il che, acciò che io al comandamento della reina ubbidisca e principio dea con una mia novella alla proposta, intendo di raccontarvi quello che prima sventuratamente, e poi fuori di tutto il suo pensiero assai felicemente, ad un nostro cittadino avvenisse.
Era, non è ancora lungo tempo passato, un tedesco a Trivigi, chiamato Arrigo, il quale, povero uomo essendo, di portar pesi a prezzo serviva chi il richiedeva; e, con questo, uomo di santissima vita e di buona era tenuto da tutti.
Per la qual cosa, o vero o non vero che si fosse, morendo egli, adivenne, secondo che i trivigiani affermano, che nell'ora della sua morte le campane della maggior chiesa di Trivigi tutte, senza essere da alcuno tirate, cominciarono a sonare.
Il che in luogo di miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso tutto il popolo della città alla casa nella quale il suo corpo giaceva, quello a guisa d'un corpo santo nella chiesa maggiore ne portarono, menando quivi zoppi attratti e ciechi e altri di qualunque infermità o difetto impediti, quasi tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani.
In tanto tumulto e discorrimento di popolo, avvenne che in Trivigi giunsero tre nostri cittadini, de' quali l'uno era chiamato Stecchi, l'altro Martellino e il terzo Marchese, uomini li quali, le corti de' signori visitando, di contraffarsi e con nuovi atti contraffacendo qualunque altro uomo li veditori sollazzavano.
Li quali quivi non essendo stati giammai, veggendo correre ogni uomo, si maravigliarono, e udita la cagione per che ciò era, disiderosi divennero d'andare a vedere.
E poste le lor cose ad uno albergo, disse Marchese:
- Noi vogliamo andare a veder questo santo; ma io per me non veggio come noi vi ci possiam pervenire, per ciò che io ho inteso che la piazza è piena di tedeschi e d'altra gente armata, la quale il signor di questa terra, acciò che romor non si faccia, vi fa stare; e oltre a questo la chiesa, per quello che si dica, è sì piena di gente che quasi niuna persona più vi può entrare.
Martellino allora, che di veder questa cosa disiderava, disse:
- Per questo non rimanga; ché di pervenire infino al corpo santo troverrò io ben modo.
Disse Marchese:
- Come?
Rispose Martellino:
- Dicolti.
Io mi contraffarò a guisa d'uno attratto, e tu dall'un lato e Stecchi dall'altro, come se io per me andar non potessi, mi verrete sostenendo, faccendo sembianti di volermi là menare acciò che questo santo mi guarisca; egli non sarà alcuno che veggendoci non ci faccia luogo, e lascici andare.
A Marchese e a Stecchi piacque il modo; e, senza alcuno indugio usciti fuori dello albergo, tutti e tre in un solitario luogo venuti, Martellino si storse in guisa le mani, le dita e le braccia e le gambe, e oltre a questo la bocca e gli occhi e tutto il viso, che fiera cosa pareva a vedere; né sarebbe stato alcuno che veduto l'avesse, che non avesse detto lui veramente esser tutto della persona perduto rattratto.
E preso così fatto da Marchese e da Stecchi, verso la chiesa si dirizzarono, in vista tutti pieni di pietà, umilemente e per lo amor di Dio domandando a ciascuno che dinanzi lor si parava, che loro luogo facesse; il che agevolmente impetravano; e in brieve, riguardati da tutti, e quasi per tutto gridandosi - fa luogo, fa luogo, - là pervennero ove il corpo di santo Arrigo era posto; e da certi gentili uomini, che v'erano dattorno, fu Martellino prestamente preso e sopra il corpo posto, acciò che per quello il beneficio della sanità acquistasse.
Martellino, essendo tutta la gente attenta a vedere che di lui avvenisse, stato alquanto, cominciò, come colui che ottimamente far lo sapeva, a far sembiante di distendere l'uno dediti, e appresso la mano, e poi il braccio, e così tutto a venirsi distendendo.
Il che veggendo la gente, sì gran romore in lode di santo Arrigo facevano che i tuoni non si sarieno potuti udire.
Era per avventura un fiorentino vicino a questo luogo, il quale molto bene conoscea Martellino, ma per l'essere così travolto quando vi fu menato non lo avea conosciuto; il quale, veggendolo ridirizzato e riconosciutolo, subitamente cominciò a ridere e a dire:
- Domine, fallo tristo! chi non avrebbe creduto, veggendol venire, che egli fosse stato attratto da dovero?
Queste parole udirono alcuni trivigiani, li quali incontanente il domandarono:
- Come! Non era costui attratto?
A'quali il fiorentino rispose:
- Non piaccia a Dio! egli è sempre stato diritto come è qualunque di noi, ma sa meglio che altro uomo, come voi avete potuto vedere, far queste ciance di contraffarsi in qualunque forma vuole.
Come costoro ebbero udito questo, non bisognò più avanti; essi si fecero per forza innanzi e cominciarono a gridare:
- Sia preso questo traditore e beffatore di Dio e de' santi, il quale, non essendo attratto, per ischernire il nostro santo e noi, qui a guisa d'attratto è venuto.
E così dicendo il pigliarono, e giù del luogo dove era il tirarono, e presolo per li capelli e stracciatigli tutti i panni in dosso, gli cominciarono a dare delle pugna e de' calci; né parea a colui esser uomo, che a questo far non correa.
Martellino gridava mercé per Dio e quanto poteva s'aiutava; ma ciò era niente: la calca gli multiplicava ogni ora addosso maggiore.
La qual cosa veggendo Stecchi e Marchese, cominciarono fra sé a dire che la cosa stava male, e di sé medesimi dubitando, non ardivano ad aiutarlo; anzi con gli altri insieme gridavano ch'el fosse morto, avendo nondimeno pensiero tuttavia come trarre il potessero delle mani del popolo.
Il quale fermamente l'avrebbe ucciso, se uno argomento non fosse stato, il qual Marchese subitamente prese; che, essendo ivi di fuori la famiglia tutta della signoria, Marchese, come più tosto potè, n'andò a colui che in luogo del podestà v'era, e disse:
- Mercé per Dio! egli è qua un malvagio uomo che m'ha tagliata la borsa con ben cento fiorini d'oro; io vi priego che voi il pigliate, sì che io riabbia il mio.
Subitamente, udito questo, ben dodici de' sergenti corsero là dove il misero Martellino era senza pettine carminato, e alle maggior fatiche del mondo rotta la calca, loro tutto pesto e tutto rotto il trassero delle mani e menaronnelo a palagio; dove molti seguitolo che da lui si tenevano scherniti, avendo udito che per tagliaborse era stato preso, non parendo loro avere alcuno altro più giusto titolo a fargli dar la mala ventura, similemente cominciarono a dire, ciascuno da lui essergli stata tagliata la borsa.
Le quali cose udendo il giudice del podestà, il quale era un ruvido uomo, prestamente da parte menatolo, sopra ciò 'ncominciò ad esaminare.
Ma Martellino rispondea motteggiando, quasi per niente avesse quella presura; di che il giudice turbato, fattolo legare alla colla, parecchie tratte delle buone gli fece dare con animo di fargli confessare ciò che coloro dicevano, per farlo poi appiccare per la gola.
Ma poi che egli fu in terra posto, domandandolo il giudice se ciò fosse vero che coloro incontro a lui dicevano, non valendogli il dire di no, disse:
- Signor mio, io son presto a confessarvi il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e dove io gli tagliai la borsa, e io vi dirò quello che io avrò fatto, e quel che no.
Disse il giudice:
- Questo mi piace; - e fattine alquanti chiamare, l'uno diceva che gliele avea tagliata otto dì eran passati, l'altro sei, l'altro quattro, e alcuni dicevano quel dì stesso.
Il che udendo Martellino, disse:
- Signor mio, essi mentono tutti per la gola; e che io dica il vero, questa pruova ve ne posso fare, che così non fossi io mai in questa terra entrato, come io mal non ci fui, se non da poco fa in qua; e come io giunsi, per mia disavventura andai a vedere questo corpo santo, dove io sono stato pettinato come voi potete vedere; e che questo che io dico sia vero, ve ne può far chiaro l'uficiale del signore il quale sta alle presentagioni, e il suo libro, e ancora l'oste mio.
Per che, se così trovate come io vi dico, non mi vogliate ad instanzia di questi malvagi uomini straziare e uccidere.
Mentre le cose erano in questi termini, Marchese e Stecchi, li quali avevan sentito che il giudice del podestà fieramente contro a lui procedeva, e già l'aveva collato, temetter forte, seco dicendo: "Male abbiam procacciato; noi abbiamo costui tratto della padella, e gittatolo nel fuoco".
Per che, con ogni sollecitudine dandosi attorno, e l'oste loro ritrovato, come il fatto era gli raccontarono.
Di che esso ridendo, gli menò ad un Sandro Agolanti, il quale in Trivigi abitava e appresso al signore avea grande stato, e ogni cosa per ordine dettagli, con loro insieme il pregò che de' fatti di Martellino gli tenesse.
Sandro, dopo molte risa, andatosene al signore, impetrò che per Martellino fosse mandato, e così fu.
Il quale coloro che per lui andarono trovarono ancora in camicia dinanzi al giudice, e tutto smarrito e pauroso forte, perciò che il giudice niuna cosa in sua scusa voleva udire; anzi, per avventura avendo alcuno odio né fiorentini, del tutto era disposto a volerlo fare impiccar per la gola, e in niuna guisa rendere il voleva al signore, infino a tanto che costretto non fu di renderlo a suo dispetto.
Al quale poiché egli fu davanti, e ogni cosa per ordine dettagli, porse prieghi che in luogo di somma grazia via il lasciasse andare; per ciò che, infino che in Firenze non fosse, sempre gli parrebbe il capestro aver nella gola.
Il signore fece grandissime risa di così fatto accidente; e fatta donare una roba per uomo, oltre alla speranza di tutti e tre di così gran pericolo usciti, sani e salvi se ne tornarono a casa loro.
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Novella Seconda
Rinaldo d'Esti, rubato, capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova e, de' suoi danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
Degli accidenti di Martellino da Neifile raccontati senza modo risero le donne, e massimamente tra'giovani Filostrato, al quale, per ciò che appresso di Neifile sedea, comandò la reina che novellando la seguitasse.
Il quale senza indugio alcuno incominciò.
Belle donne, a raccontarsi mi tira una novella di cose catoliche e di sciagure e d'amore in parte mescolata, la quale per avventura non fia altro che utile avere udita; e spezialmente a coloro li quali per li dubbiosi paesi d'amore sono camminanti, né quali, chi non ha detto il paternostro di san Giuliano, spesse volte, ancora che abbia buon letto, alberga male.
Era adunque, al tempo del marchese Azzo da Ferrara, un mercatante chiamato Rinaldo d'Esti per sue bisogne venuto a Bologna; le quali avendo fornite e a casa tornandosi, avvenne che, uscito di Ferrara e cavalcando verso Verona, s'abbattè in alcuni li quali mercatanti parevano ed erano masnadieri e uomini di malvagia vita e condizione, con li quali ragionando incautamente s'accompagnò.
Costoro, veggendol mercatante e stimando lui dover portar danari, seco diliberarono che, come prima tempo si vedessero, di rubarlo; e perciò, acciò che egli niuna suspezion prendesse, come uomini modesti e di buona condizione, pure d'oneste cose e di lealtà andavano con lui favellando, rendendosi, in ciò che potevano e sapevano, umili e benigni verso di lui; per che egli di avergli trovati si reputava in gran ventura, per ciò che solo era con uno suo fante a cavallo.
E così camminando, d'una cosa in altra, come né ragionamenti addiviene, trapassando, caddero in sul ragionare delle orazioni che gli uomini fanno a Dio; e l'un de' masnadieri, che erano tre, disse verso Rinaldo:
- E voi, gentile uomo, che orazione usate di dir camminando?
Al quale Rinaldo rispose:
- Nel vero io sono uomo di queste cose assai materiale e rozzo, e poche orazioni ho per le mani, sì come colui che mi vivo all'antica e lascio correr due soldi per ventiquattro denari; ma nondimeno ho sempre avuto in costume camminando di dir la mattina, quando esco dell'albergo, un paternostro e una avemaria per l'anima del padre e della madre di san Giuliano, dopo il quale io priego Iddio e lui che la seguente notte mi deano buono albergo.
E assai volte già de' miei dì sono stato camminando in gran pericoli, de' quali tutti scampato, pur sono la notte poi stato in buon luogo e bene albergato; per che io porto ferma credenza che san Giuliano, a cui onore io il dico, m'abbia questa grazia impetrata da Dio; né mi parrebbe il dì ben potere andare, né dovere la notte vegnente bene arrivare, che io non l'avessi la mattina detto.
A cui colui, che domandato l'avea, disse:
- E istamane dicestel voi?
A cui Rinaldo rispose:
- Sì bene.
Allora quegli che già sapeva come andar doveva il fatto, disse seco medesimo: "Al bisogno ti fia venuto; ché, se fallito non ci viene, per mio avviso tu albergherai pur male"; e poi gli disse:
- Io similmente ho già molto camminato, e mai nol dissi, quantunque io l'abbia a molti molto già udito commendare, né giammai non m'avvenne che io per ciò altro che bene albergassi; e questa sera per avventura ve ne potrete avvedere chi meglio albergherà, o voi che detto l'avete o io che non l'ho detto.
Bene è il vero che io uso in luogo di quello il Dirupisti, o la 'ntemerata, o il Deprofundi, che sono, secondo che una mia avola mi soleva dire, di grandissima virtù.
E così di varie cose parlando e al lor cammin procedendo, e aspettando luogo e tempo al loro malvagio proponimento, avvenne che, essendo già tardi, di là da Castel Guiglielmo, al valicare d'un fiume, questi tre, veggendo l'ora tarda e il luogo solitario e chiuso, assalitolo, il rubarono, e lui a piè e in camicia lasciato, partendosi dissero:
- Va e sappi se il tuo san Giuliano questa notte ti darà buono albergo, ché il nostro il darà bene a noi; - e, valicato il fiume, andaron via.
Il fante di Rinaldo veggendolo assalire, come cattivo, niuna cosa al suo aiuto adoperò, ma, volto il cavallo sopra il quale era, non si ritenne di correre sì fu a Castel Guiglielmo, e in quello, essendo già sera, entrato, senza darsi altro impaccio, albergò.
Rinaldo rimaso in camicia e scalzo, essendo il freddo grande e nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo già sopravvenuta la notte, tremando e battendo i denti, cominciò a riguardare se dattorno alcun ricetto si vedesse, dove la notte potesse stare, che non si morisse di freddo; ma niun veggendone (per ciò che poco davanti essendo stata guerra nella contrada v'era ogni cosa arsa), sospinto dalla freddura, trottando si dirizzò verso Castel Guiglielmo, non sappiendo perciò che il suo fante là o altrove si fosse fuggito, pensando, se dentro entrare vi potesse, qual che soccorso gli manderebbe Iddio.
Ma la notte oscura il soprapprese di lungi dal castello presso ad un miglio; per la quale cosa sì tardi vi giunse che, essendo le porti serrate e i ponti levati, entrar non vi potè dentro.
Laonde, dolente e isconsolato, piagnendo guardava dintorno dove porre si potesse, che almeno addosso non gli nevicasse; e per avventura vide una casa sopra le mura del castello sportata alquanto in fuori, sotto il quale sporto diliberò d'andarsi a stare infino al giorno; e là andatosene e sotto quello sporto trovato un uscio, come che serrato fosse, a piè di quello ragunato alquanto di pagliericcio che vicin v'era, tristo e dolente si pose a stare, spesse volte dolendosi a san Giuliano, dicendo questo non essere della fede che aveva in lui.
Ma san Giuliano, avendo a lui riguardo, senza troppo indugio gli apparecchiò buono albergo.
Egli era in questo castello una donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale il marchese Azzo amava quanto la vita sua, e quivi ad instanzia di sé la facea stare.
E dimorava la predetta donna in quella casa, sotto lo sporto della quale Rinaldo s'era andato a dimorare.
Ed era il dì dinanzi per avventura il marchese quivi venuto per doversi la notte giacere con essolei, e in casa di lei medesima tacitamente aveva fatto fare un bagno, e nobilmente da cena.
Ed essendo ogni cosa presta, e niun'altra cosa che la venuta del marchese era da lei aspettata, avvenne che un fante giunse alla porta, il quale recò novelle al marchese, per le quali a lui subitamente cavalcar convenne; per la qual cosa, mandato a dire alla donna che non lo attendesse, prestamente andò via.
Onde la donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi, deliberò d'entrare nel bagno fatto per lo marchese, e poi cenare e andarsi al letto; e così nel bagno se n'entrò.
Era questo bagno vicino all'uscio dove il meschino Rinaldo s'era accostato fuori della terra; per che, stando la donna nel bagno, sentì il pianto e 'l tremito che Rinaldo faceva, il quale pareva diventato una cicogna.
Laonde, chiamata la sua fante, le disse:
- Va su e guarda fuor del muro a piè di questo uscio chi v'è, e chi egli è, e quel ch'el vi fa.
La fante andò, e aiutandola la chiarità dell'aere, vide costui in camicia e scalzo quivi sedersi come detto è, tremando forte; per che ella il domandò chi el fosse.
E Rinaldo, sì forte tremando che appena poteva le parole formare, chi el fosse e come e perché quivi, quanto più brieve potè, le disse; e poi pietosamente la cominciò a pregare che, se esser potesse, quivi non lo lasciasse di freddo la notte morire.
La fante, divenutane pietosa, tornò alla donna e ogni cosa le disse.
La qual similmente pietà avendone, ricordatasi che di quello uscio aveva la chiave, il quale alcuna volta serviva alle occulte entrate del marchese, disse:
- Va, e pianamente gli apri; qui è questa cena, e non saria chi mangiarla, e da poterlo albergare ci è assai.
La fante di questa umanità avendo molto commendata la donna, andò e sì gli aperse, e dentro messolo, quasi assiderato veggendolo, gli disse la donna:
- Tosto, buono uomo, entra in quel bagno, il quale ancora è caldo.
Ed egli questo, senza più inviti aspettare, di voglia fece; e tutto dalla caldezza di quello riconfortato, da morte a vita gli parve essere tornato.
La donna gli fece apprestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li quali come vestiti s'ebbe, a suo dosso fatti parevano; e aspettando quello che la donna gli comandasse, incominciò a ringraziare Iddio e san Giuliano che di sì malvagia notte, come egli aspettava, l'avevano liberato, e a buono albergo, per quello che gli pareva, condotto
Appresso questo la donna alquanto riposatasi, avendo fatto fare un grandissimo fuoco in una sua camminata, in quella se ne venne, e del buono uomo domandò che ne fosse.
A cui la fante rispose:
- Madonna, egli s'è rivestito, ed è un bello uomo e par persona molto da bene e costumato.
- Va dunque, - disse la donna - e chiamalo, e digli che qua se ne venga al fuoco, e sì cenerà, ché so che cenato non ha.
Rinaldo nella camminata entrato, e veggendo la donna, e da molto parendogli, reverentemente la salutò, e quelle grazie le quali seppe maggiori del beneficio fattogli le rende'.
La donna, vedutolo e uditolo, e parendole quello che la fante dicea, lietamente il ricevette e seco al fuoco familiarmente il fè sedere e dello accidente che quivi condotto l'avea il domandò.
Alla quale Rinaldo per ordine ogni cosa narrò.
Aveva la donna, nel venire del fante di Rinaldo nel castello, di questo alcuna cosa sentita, per che ella ciò che da lui era detto interamente credette; e sì gli disse ciò che del suo fante sapeva e come leggiermente la mattina appresso ritrovare il potrebbe.
Ma poi che la tavola fu messa, come la donna volle, Rinaldo, con lei insieme le mani lavatesi, si pose a cenare.
Egli era grande della persona e bello e piacevole nel viso e di maniere assai laudevoli e graziose e giovane di mezza età; al quale la donna avendo più volte posto l'occhio addosso e molto commendatolo, e già, per lo marchese che con lei dovea venire a giacersi, il concupiscibile appetito avendo desto nella mente, dopo la cena, da tavola levatasi, colla sua fante si consigliò se ben fatto le paresse che ella, poi che il marchese beffata l'avea, usasse quel bene che innanzi l'avea la fortuna mandato.
La fante, conoscendo il disiderio della sua donna, quanto potè e seppe a seguirlo la confortò; per che la donna, al fuoco tornatasi, dove Rinaldo solo lasciato aveva, cominciatolo amorosamente a guardare, gli disse:
- Deh, Rinaldo, perché state voi così pensoso? Non credete voi potere essere ristorato d'un cavallo e d'alquanti panni che voi abbiate perduti? Confortatevi, state lietamente, voi siete in casa vostra; anzi vi voglio dire più avanti, che, veggendovi cotesti panni in dosso, li quali del mio morto marito furono, parendomi voi pur desso, m'è venuto stasera forse cento volte voglia d'abbracciarvi e di baciarvi; e, se io non avessi temuto che dispiaciuto vi fosse, per certo io l'avrei fatto.
Rinaldo, queste parole udendo e il lampeggiar degli occhi della donna veggendo, come colui che mentecatto non era, fattolesi incontro colle braccia aperte, disse:
- Madonna, pensando che io per voi possa omai sempre dire che io sia vivo, a quello guardando donde torre mi faceste, gran villania sarebbe la mia se io ogni cosa che a grado vi fosse non m'ingegnassi di fare; e però contentate il piacer vostro d'abbracciarmi e di baciarmi, ché io abbraccerò e bacerò voi vie più che volentieri.
Oltre a queste non bisognar più parole.
La donna, che tutta d'amoroso disio ardeva, prestamente gli si gittò nelle braccia; e poi che mille volte, disiderosamente strignendolo, baciato l'ebbe e altrettante da lui fu baciata, levatisi di quindi, nella camera se n'andarono, e senza niuno indugio coricatisi, pienamente e molte volte, anzi che il giorno venisse, i lor disii adempierono.
Ma poi che ad apparire cominciò l'aurora, sì come alla donna piacque, levatisi, acciò che questa cosa non si potesse presummere per alcuno, datigli alcuni panni assai cattivi ed empiutagli la borsa di denari, pregandolo che questo tenesse celato, avendogli prima mostrato che via tener dovesse a venir dentro a ritrovare il fante suo, per quello usciolo onde era entrato, il mise fuori.
Egli, fatto dì chiaro, mostrando di venire di più lontano, aperte le porti, entrò nel castello e ritrovò il suo fante; per che, rivestitosi de' panni suoi che nella valigia erano, e volendo montare in su 'l cavallo del fante, quasi per divino miracolo addivenne che li tre masnadieri che la sera davanti rubato l'aveano, per altro maleficio da loro fatto poco poi appresso presi, furono in quel castello menati, e per confessione da loro medesimi fatta, gli fu restituito il suo cavallo, i panni e i danari, né ne perdé altro che un paio di cintolini, dei quali non sapevano i masnadieri che fatto se n'avessero.
Per la qual cosa Rinaldo, Iddio e san Giuliano ringraziando, montò a cavallo e sano e salvo ritornò a casa sua; e i tre masnadieri il dì seguente andarono a dar de' calci a rovaio.
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Novella Terza
Tre giovani, male il loro avere spendendo, impoveriscono; dei quali un nepote con uno abate accontatosi tornandosi a casa per disperato, lui truova essere la figliuola del re d'lnghilterra, la quale lui per marito prende e de' suoi zii ogni danno ristora, tornandogli in buono stato.
Furono con ammirazione ascoltati i casi di Rinaldo d'Esti dalle donne e dà giovani, e la sua divozion commendata, e Iddio e san Giuliano ringraziati, che al suo bisogno maggiore gli avevano prestato soccorso.
Né fu per ciò (quantunque cotal mezzo di nascoso si dicesse) la donna reputata sciocca, che saputo aveva pigliare il bene che Iddio a casa l'aveva mandato.
E mentre che della buona notte che colei ebbe sogghignando si ragionava, Pampinea, che sé allato allato a Filostrato vedea, avvisando, sì come avvenne, che a lei la volta dovesse toccare, in sé stessa recatasi, quel che dovesse dire cominciò a pensare; e dopo il comandamento della reina, non meno ardita che lieta, così cominciò a parlare.
Valorose donne, quanto più si parla de' fatti della Fortuna, tanto più, a chi vuole le sue cose ben riguardare, ne resta a poter dire; e di ciò niuno dee aver maraviglia, se discretamente pensa che tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei secondo il suo occulto giudicio, senza alcuna posa d'uno in altro e d'altro in uno successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate.
Il che, quantunque con piena fede in ogni cosa e tutto il giorno si mostri, e ancora in alcune novelle di sopra mostrato sia, nondimeno, piacendo alla nostra reina che sopra ciò si favelli, forse non senza utilità degli ascoltanti aggiugnerò alle dette una mia novella, la quale avviso dovrà piacere.
Fu già nella nostra città un cavaliere, il cui nome fu messer Tebaldo, il quale, secondo che alcuni vogliono, fu de' Lamberti; e altri affermano lui essere stato degli Agolanti, forse più dal mestiere de' figliuoli di lui poscia fatto, conforme a quello che sempre gli Agolanti hanno fatto e fanno, prendendo argomento, che da altro.
Ma, lasciando stare di quale delle due case si fosse, dico che esso fu né suoi tempi ricchissimo cavaliere, ed ebbe tre figliuoli, de' quali il primo ebbe nome Lamberto, il secondo Tedaldo, e il terzo Agolante, già belli e leggiadri giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni non aggiugnesse, quando esso messer Tebaldo ricchissimo venne a morte, e a loro, sì come a legittimi suoi eredi, ogni suo bene e mobile e stabile lasciò.
Li quali, veggendosi rimasi ricchissimi e di contanti e di possessioni, senza alcuno altro governo che del loro medesimo piacere, senza alcuno freno o ritegno cominciarono a spendere, tenendo grandissima famiglia e molti e buoni cavalli e cani e uccelli e continuamente corte, donando e armeggiando, e faccendo ciò non solamente che a gentili uomini s'appartiene, ma ancora quello che nello appetito loro giovenile cadeva di voler fare.
Né lungamente fecer cotal vita,che il tesoro lasciato loro dal padre venne meno; e non bastando alle cominciate spese seguire le loro rendite, cominciarono a impegnare e a vendere le possessioni; e oggi l'una e doman l'altra vendendo, appena s'avvidero che quasi al niente venuti furono, e aperse loro gli occhi la povertà, li quali la ricchezza aveva tenuti chiusi.
Per la qual cosa Lamberto, chiamati un giorno gli altri due, disse loro qual fosse l'orrevolezza del padre stata e quanta la loro, e quale la lor ricchezza e chente la povertà nella quale per lo disordinato loro spendere eran venuti; e, come seppe il meglio, avanti che più della lor miseria apparisse, gli confortò con lui insieme a vendere quel poco che rimaso era loro e andarsene via; e così fecero.
E, senza commiato chiedere o fare alcuna pompa, di Firenze usciti, non si ritenner sì furono in Inghilterra; e quivi, presa in Londra una casetta, faccendo sottilissime spese, agramente cominciarono a prestare ad usura; e sì fu in questo loro favorevole la fortuna, che in pochi anni grandissima quantità di denari avanzarono.
Per la qual cosa con quelli, successivamente or l'uno or l'altro a Firenze tornandosi, gran parte delle lor possessioni ricomperarono, e molte dell'altre comperar sopra quelle, e presero moglie; e continuamente in Inghilterra prestando, ad attendere a' fatti loro un giovane loro nepote, che avea nome Alessandro, mandarono, ed essi tutti e tre a Firenze avendo dimenticato a qual partito gli avesse lo sconcio spendere altra volta recati, nonostante che in famiglia tutti venuti fossero, più che mai strabocchevolmente spendevano ed erano sommamente creduti da ogni mercatante, e d'ogni gran quantità di danari.
Le quali spese alquanti anni aiutò loro sostenere la moneta da Alessandro loro mandata, il quale messo s'era in prestare a' baroni sopra castella e altre loro entrate, le quali di gran vantaggio bene gli rispondevano.
E mentre così i tre fratelli largamente spendeano, e mancando denari accattavano, avendo sempre la speranza ferma in Inghilterra, avvenne che, contro alla oppinion d'ogni uomo, nacque in Inghilterra una guerra tra il re e un suo figliuolo, per la qual tutta l'isola si divise, e chi tenea con l'uno e chi coll'altro; per la qual cosa furono tutte le castella de' baroni tolte ad Alessandro, né alcuna altra rendita era che di niente gli rispondesse.
E sperandosi che di giorno in giorno tra 'l figliuolo e 'l padre dovesse esser pace, e per conseguente ogni cosa restituita ad Alessandro, e merito e capitale, Alessandro dell'isola non si partiva, e i tre fratelli, che in Firenze erano, in niuna cosa le loro spese grandissime limitavano, ogni giorno più accattando.
Ma poi che in più anni niuno effetto seguire si vide alla speranza avuta, li tre fratelli non solamente la credenza perderono, ma, volendo coloro che aver doveano esser pagati, furono subitamente presi; e non bastando al pagamento le lor possessioni, per lo rimanente rimasono in prigione, e le lor donne e i figliuoli piccioletti qual se ne andò in contado e qual qua e qual là assai poveramente in arnese, più non sappiendo che aspettare si dovessono, se non misera vita sempre.
Alessandro, il quale in Inghilterra la pace più anni aspettata avea, veggendo che ella non venia e parendogli quivi non meno in dubbio della vita sua che invano dimorare, di liberato di tornarsi in Italia, tutto soletto si mise in cammino.
E per ventura di Bruggia uscendo, vide n'usciva similmente uno abate bianco con molti monaci accompagnato e con molta famiglia e con gran salmeria avanti, al quale appresso venieno due cavalieri antichi e parenti del re, co' quali, sì come con conoscenti, Alessandro accontatosi, da loro in compagnia fu volentieri ricevuto.
Camminando adunque Alessandro con costoro, dolcemente gli domandò chi fossero i monaci che con tanta famiglia cavalcavano avanti e dove andassono.
Al quale l'uno de' cavalieri rispose:
- Questi che avanti cavalca è un giovinetto nostro parente, nuovamente eletto abate d'una delle maggior badie d'lnghilterra; e per ciò che egli è più giovane che per le leggi non è conceduto a sì fatta dignità, andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare dal Santo Padre che nel difetto della troppo giovane età dispensi con lui, e appresso nella dignità il confermi; ma ciò non si vuol con alcuno ragionare.
Camminando adunque il novello abate ora avanti e ora appresso alla sua famiglia, sì come noi tutto il giorno veggiamo per cammino avvenire de' signori, gli venne nel cammino presso di sé veduto Alessandro, il quale era giovane assai, di persona e di viso bellissimo, e, quanto alcuno altro esser potesse, costumato e piacevole e di bella maniera; il quale maravigliosamente nella prima vista gli piacque quanto mai alcuna altra cosa gli fosse piaciuta e, chiamatolo a sè, con lui cominciò piacevolmente a ragionare e domandar chi fosse, donde venisse e dove andasse.
Al quale Alessandro ogni suo stato liberamente aperse e sodisfece alla sua domanda e sé ad ogni suo servigio, quantunque poco potesse, offerse.
L'abate, udendo il suo ragionare bello e ordinato, e più partitamente i suoi costumi considerando e lui seco estimando, come che il suo mestiere fosse stato servile, essere gentile uomo, più del piacer di lui s'accese e, già pieno di compassion divenuto delle sue sciagure, assai familiarmente il confortò e gli disse che a buona speranza stesse, per ciò che, se valente uom fosse, ancora Iddio il riporterebbe là onde la fortuna l'aveva gittato, e più ad alto; e pregollo che, poi verso Toscana andava, gli piacesse d'essere in sua compagnia, con ciò fosse cosa che esso là similmente andasse.
Alessandro gli rendè grazie del conforto e sé ad ogni suo comandamento disse esser presto.
Camminando adunque l'abate, al quale nuove cose si volgean per lo petto del veduto Alessandro, avvenne che dopo più giorni essi pervennero ad una villa, la quale non era troppo riccamente fornita d'alberghi; e volendo quivi l'abate albergare, Alessandro in casa d'uno oste, il quale assai suo dimestico era, il fece smontare, e fecegli la sua camera fare nel meno disagiato luogo della casa; e quasi già divenuto uno siniscalco dello abate, sì come colui che molto era pratico, come il meglio si potè per la villa allogata tutta la sua famiglia chi qua e chi là, avendo l'abate cenato e già essendo buona pezza di notte e ogni uomo andato a dormire, Alessandro domandò l'oste là dove esso potesse dormire.
Al quale l'oste rispose:
- In verità io non so; tu vedi che ogni cosa è pieno, e puoi veder me e la mia famiglia dormir su per le panche; tuttavia nella camera dello abate sono certi granai, à quali io ti posso menare e porrovvi su alcun letticello, e quivi, se ti piace, come meglio puoi questa notte ti giaci.
A cui Alessandro disse:
- Come andrò io nella camera dello abate, che sai che è piccola e per istrettezza non v'è potuto giacere alcuno de' suoi monaci? Se io mi fossi di ciò accorto quando le cortine si tesero, io avrei fatto dormire sopra i granai i monaci suoi e io mi sarei stato dove i monaci dormono.
Al quale l'oste disse:
- L'opera sta pur così, e tu puoi, se tu vuogli, quivi stare il meglio del mondo: l'abate dorme, e le cortine son dinanzi; io vi ti porrò chetamente una coltricetta, e dormiviti.
Alessandro, veggendo che questo si poteva fare senza da re alcuna noia allo abate, vi s'accordò, e quanto più cheta mente potè vi s'acconciò.
L'abate, il quale non dormiva, anzi alli suoi nuovi disii fieramente pensava, udiva ciò che l'oste e Alessandro parlavano, e similmente avea sentito dove Alessandro s'era a giacer messo; per che, seco stesso forte contento, cominciò a dire: - Iddio ha mandato tempo a' miei desiri: se io nol prendo, per avventura simile a pezza non mi tornerà -
E diliberatosi del tutto di prenderlo, parendogli ogni cosa cheta per lo albergo, con sommessa voce chiamò Alessandro e gli disse che appresso lui si coricasse; il quale, dopo molte disdette spogliatosi, vi si coricò.
L'abate postagli la mano sopra 'l petto, lo 'ncominciò a toccare non altramenti che sogliano fare le vaghe giovani i loro amanti; di che Alessandro si maravigliò forte e dubitò non forse l'abate, da disonesto amore preso si movesse a così fattamente toccarlo.
La qual dubitazione, o per presunzione o per alcuno atto che Alessandro facesse, subitamente l'abate conobbe, e sorrise; e prestamente di dosso una camicia, che avea, cacciatasi, prese la mano d'Alessandro e quella sopra il petto si pose, dicendo:
- Alessandro, caccia via il tuo sciocco pensiero, e, cercando qui, conosci quello che io nascondo.
Alessandro, posta la mano sopra il petto dello abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate, non altramenti che se d'avorio fossono state; le quali egli trovate e conosciuto tantosto costei esser femina, senza altro invito aspettare, prestamente abbracciatala, la voleva baciare, quando ella gli disse:
- Avanti che tu più mi t'avvicini, attendi quello che io ti voglio dire.
Come tu puoi conoscere, io son femina e non uomo; e pulcella partitami da casa mia, al papa andava che mi maritasse.
O tua ventura o mia sciagura che sia, come l'altro giorno ti vidi, sì di te m'accese Amore, che donna non fu mai che tanto amasse uomo; e per questo io ho diliberato di volere te avanti che alcuno altro per marito; dove tu me per moglie non vogli, tantosto di qui ti diparti e nel tuo luogo ritorna.
Alessandro, quantunque non la conoscesse, avendo riguardo alla compagnia che ella avea, lei estimò dovere essere nobile e ricca, e bellissima la vedea; per che, senza troppo lungo pensiero, rispose che, se questo a lei piacea, a lui era molto a grado.
Essa allora, levatasi a sedere in su il letto, davanti ad una tavoletta dove Nostro Signore era effigiato, postogli in mano uno anello, gli si fece sposare; e appresso insieme abbracciatisi, con gran piacere di ciascuna delle parti, quanto di quella notte restava si sollazzarono.
E, preso tra loro modo e ordine alli lor fatti, come il giorno venne, Alessandro levatosi e per quindi della camera uscendo, donde era entrato, senza sapere alcuno dove la notte dormito si fosse, lieto oltre misura, con lo abate e con sua compagnia rientrò in cammino, e dopo molte giornate pervennero a Roma.
E quivi, poi che alcun dì dimorati furono, l'abate con li due cavalieri e con Alessandro senza più entrarono al papa, e fatta la debita reverenza, così cominciò l'abate a favellare:
- Santo padre, sì come voi meglio che alcuno altro dovete sapere, ciascun che bene e onestamente vuol vivere, dee, in quanto può, fuggire ogni cagione la quale ad altramenti fare il potesse conducere; il che acciò che io, che onestamente viver disidero, potessi compiutamente fare, nell'abito nel quale mi vedete, fuggita segretamente con grandissima parte de' tesori del re d'lnghilterra mio padre (il quale al re di Scozia vecchissimo signore, essendo io giovane come voi mi vedete, mi voleva per moglie dare), per qui venire, acciò che la vostra santità mi maritasse, mi misi in via.
Né mi fece tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la paura di non fare per la fragilità della mia giovanezza, se a lui maritata fossi, cosa che fosse contra le divine leggi e contra l'onore del real sangue del padre mio.
E così disposta venendo, Iddio, il quale solo ottimamente conosce ciò che fa mestiere a ciascuno, credo per la sua misericordia, colui che a lui piacea che mio marito fosse mi pose avanti agli occhi; e quel fu questo giovane - e mostrò Alessandro - il quale voi qui appresso di me vedete, li cui costumi e il cui valore son degni di qualunque gran donna, quantunque forse la nobiltà del suo sangue non sia così chiara come è la reale.
Lui ho adunque preso e lui voglio; né mai alcuno altro n'avrò, che che se ne debba parere al padre mio o ad altrui.
Per che la principal cagione per la quale mi mossi è tolta via; ma piacquemi di fornire il mio cammino, sì per visitare li santi luoghi e reverendi, de' quali questa città è piena, e la vostra santità, e sì acciò che per voi il contratto matrimonio tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi aperto nella vostra e per conseguente degli altri uomini.
Per che umilemente vi priego che quello che a Dio e a me è piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne doniate, acciò che con quella, sì come con più certezza del piacere di Colui del quale voi siete vicario, noi possiamo insieme, all'onore di Dio ed al vostro, vivere e ultimamente morire.
Maravigliossi Alessandro, udendo la moglie esser figliuola del re d'lnghilterra, e di mirabile allegrezza occulta fu ripieno; ma più si maravigliarono li due cavalieri e sì si turbarono che, se in altra parte che davanti al papa stati fossero, avrebbono ad Alessandro e forse alla donna fatta villania.
D'altra parte il papa si maravigliò assai e dello abito della donna e della sua elezione; ma, conoscendo che indietro tornare non si potea, la volle del suo priego sodisfare.
E primieramente, racconsolati i cavalieri li quali turbati conoscea e in buona pace con la donna e con Alessandro rimessigli, diede ordine a quello che da far fosse.
E il giorno posto da lui essendo venuto, davanti a tutti i cardinali e dimolti altri gran valenti uomini, li quali invitati ad una grandissima festa da lui apparecchiata eran venuti, fece venire la donna realmente vestita, la qual tanto bella e sì piacevol parea che meritamente da tutti era commendata e simigliantemente Alessandro splendidamente vestito, in apparenza e in costurni non miga giovane che ad usura avesse prestato, ma più tosto reale e da' due cavalieri molto onorato; e quivi da capo fece solennemente le sponsalizie celebrare, e appresso le nozze belle e magnifiche fatte, colla sua benedizione gli licenziò.
Piacque ad Alessandro e similmente alla donna, di Roma partendosi, di venire a Firenze, dove già la fama aveva la novella recata; e quivi, da' cittadini con sommo onore ricevuti, fece la donna li tre fratelli liberare, avendo prima fatto ogni uom pagare, e loro e le lor donne rimise nelle lor possessioni.
Per la qual cosa, con buona grazie di tutti, Alessandro con la sua donna, menandone seco Agolante, si partì di Firenze, e a Parigi venuti, onorevolmente dal re ricevuti furono.
Quindi andarono i due cavalieri in Inghilterra e tanto col re adoperarono, che egli le rende' la grazia sua e con grandissima festa lei e 'l suo genero ricevette, il quale egli poco appresso con grandissimo onore fè cavaliere e donogli la contea di Cornovaglia.
Il quale fu da tanto e tanto seppe fare, che egli paceficò il figliuolo col padre, di che seguì gran bene all'isola, ed egli n'acquistò l'amore e la grazia di tutti i paesani; e Agolante ricoverò tutto ciò che aver vi doveano interamente e ricco oltre modo si tornò a Firenze, avendol prima il conte Alessandro cavalier fatto.
Il conte poi con la sua donna gloriosamente visse; e, secondo che alcuni voglion dire, tra col suo senno e valore e l'aiuto del suocero, egli conquistò poi la Scozia e funne re coronato.
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Novella Quarta
Landolfo Rufolo, impoverito, divien corsale e da' Genovesi preso, rompe in mare, e sopra una cassetta, di gioie carissime piena, scampa, e in Gurfo ricevuto da una femina, ricco si torna a casa sua.
La Lauretta appresso Pampinea sedea, la qual veggendo lei al glorioso fine della sua novella, senza altro aspettare, a parlar cominciò in cotal guisa.
Graziosissime donne, niuno atto della Fortuna, secondo il mio giudicio, si può veder maggiore, che vedere uno d'infima miseria a stato reale elevare, come la novella di Pampinea n'ha mostrato essere al suo Alessandro addivenuto.
E per ciò che a qualunque della proposta materia da quinci innanzi novellerà converrà che infra questi termini dica, non mi vergognerò io di dire una novella, la quale, ancora che miserie maggiori in sé contenga, non per ciò abbia così splendida riuscita.
Ben so che, pure a quella avendo riguardo, con minor diligenzia fia la mia udita; ma altro non potendo, sarò scusata.
Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d'ltalia; nella quale assai presso a Salerno e una costa sopra 'l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d'Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d'uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri.
Tra le quali città dette n'è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v'abbia di ricchi uomini, ve n'ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di raddoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella sé stesso.
Costui adunque, sì come usanza suole essere de' mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo legno, e quello tutto di suoi denari caricò di varie mercatantie e andonne con esse in Cipri.
Quivi, con quelle qualità medesime di mercatantie che egli aveva portate, trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione, non solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via; laonde egli fu vicino al disertarsi.
E portando egli di questa cosa seco grandissima noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che la onde ricco partito s'era povero non tornasse.
E, trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantia avuti avea, comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d'ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della roba d'ogni uomo, e massimamente sopra i turchi.
Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola che alla mercatantia stata non era.
Egli, forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto, ma di gran lunga quello avere raddoppiato.
Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai per non incappar nel secondo, a sé medesimo dimostrò quello che aveva, senza voler più, dovergli bastare; e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua.
E pauroso della mercatantia, non s'mpacciò d'investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli avea, dato de' remi in acqua, si mise al ritornare.
E già nello Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco, il quale non solamente era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo picciol legno non avrebbe bene potuto comportare, in uno seno di mare, il quale una piccola isoletta faceva, da quello vento coperto, si raccolse, quivi proponendo d'aspettarlo migliore.
Nel qual seno poco stante due gran cocche di genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero.
Le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci, a doverlo avere si disposero.
E messa in terra parte della lor gente con balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del legnetto niuna persona, sé saettato esser non voleva, poteva discendere; ed essi, fattisi tirare a' paliscalmi e aiutati dal mare, s'accostarono al picciol legno di Landolfo, e quello con picciola fatica in picciolo spazio, con tutta la ciurma, senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l'una delle lor cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono, lui in un povero farsettino ritenendo.
Il dì seguente, mutatosi il vento, le cocche ver ponente venendo fer vela: e tutto quel dì prosperamente vennero al loro viaggio; ma nel far della sera si mise un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi, divise le due cocche l'una dall'altra.
E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e povero Landolfo, con grandissimo impeto di sopra all'isola di Cifalonia percosse in una secca e, non altramenti che un vetro percosso ad un muro tutta s'aperse e si stritolò; di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo già il mare tutto pieno di mercatantie che notavano e di casse e di tavole, come in così fatti casi suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse e il mare grossissimo e gonfiato, notando quelli che notar sapevano, s'incominciarono ad appiccare a quelle cose che per ventura loro si paravan davanti.
Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, vedendola presta n'ebbe paura; e, come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella s'appicco', se forse Iddio, indugiando egli l'affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo; e a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua e ora in là, si sostenne infino al chiaro giorno.
Il quale venuto, guardandosi egli d'attorno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, e una cassa la quale sopra l'onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s'appressava, temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse; e sempre che presso gli venia, quanto potea con mano, come che poca forza n'avesse, la lontanava.
Ma, come che il fatto s'andasse, avvenne che, solutosi subitamente nell'aere un groppo di vento e percosso nel mare, sì grande in questa cassa diede e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo lasciatola andò sotto l'onde e ritornò suso notando, più da paura che da forza aiutato, e vide da se molto dilungata la tavola; per che, temendo non potere ad essa pervenire, s'appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva, colle braccia la reggeva diritta.
E in questa maniera, gittato dal mare ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come colui che non aveva che, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente.
Il dì seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che 'l facesse, costui divenuto quasi una spugna, tenendo forte con amendue le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono, quando prendono alcuna cosa, pervenne al lito dell'isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli con la rena e con l'acqua salsa lavava e facea belli.
La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma, dubitando e gridando si trasse indietro.
Questi non potea favellare e poco vedea, e perciò niente le disse; ma pure, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente guardando e vedendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravvisò la faccia e quello essere che era s'imaginò.
Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare, che già era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa il tiro in terra, e quivi con fatica le mani dalla cassa sviluppatogli, e quella posta in capo ad una sua figlioletta che con lei era, lui come un picciol fanciullo ne portò nella terra, e in una stufa messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavo che in lui ritornò lo smarrito calore e alquante delle perdute forze; e quando tempo le parve trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconforto, e alcun giorno, come potè il meglio, il tenne, tanto che esso, le forze recuperate, conobbe la dove era.
Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la quale salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura, e così fece.
Costui, che di cassa non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì poco valere che alcun dì non gli facesse le spese; e trovandola molto leggiera, assai manco della sua speranza.
Nondimeno, non essendo la buona femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse, e trovò in quella molte preziose pietre, e legate e sciolte, delle quali egli alquanto s'intendea; le quali veggendo e di gran valore conoscendole, lodando Iddio che ancora abbandonare non l'avea voluto, tutto si riconfortò.
Ma, si come colui che in picciol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere a casa sua; per che in alcuni stracci, come meglio potè, ravvoltole, disse alla buona femina che più di cassa non avea bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella.
La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì, e montato sopra una barca, passò a Brandizio, e di quindi, marina marina, si condusse infino a Trani, dove trovati de' suoi cittadini li quali eran drappieri, quasi per l'amor di Dio fu da loro rivestito, avendo esso già loro tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; e oltre a questo, prestatogli cavallo e datogli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto diceva di voler tornare, il rimandarono.
Quivi parendogli essere sicuro, ringraziando Iddio che condotto ve l'avea, sciolse il suo sacchetto, e con più diligenzia cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e sì fatte pietre che, a convenevole pregio vendendole e ancor meno, egli era il doppio più ricco che quando partito s'era.
E trovato modo di spacciare le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantità di denari, per merito del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l'avea tratto, e il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l'aveano; e il rimanente, senza più volere mercatare, si ritenne e onorevolmente visse infino alla fine.
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Novella Quinta
Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua.
Le pietre da Landolfo trovate - cominciò la Fiammetta, alla quale del novellar toccava - m'hanno alla memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da essa, in quanto quegli forse in più anni e questi nello spazio d'una sola notte addivennero, come udirete.
Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d'oro, non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n'andò: dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall'oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne, né di niuno potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de' fiorini che aveva.
E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: - Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei? - e passò oltre.
Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a attendere.
Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all'albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì : e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la mattina.
La giovane, che prima la borsa d'Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che quivi facesse e come il conoscesse.
La quale ogni cosa così particularmente de' fatti d'Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse e perché venuto fosse.
La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de' nomi, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all'albergo dove Andreuccio tornava.
La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò.
Alla quale dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte, disse:
- Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri.
-
Il quale ve vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s'avvisò questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato e domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse.
A cui la fanticella rispose:
- Messere, quando di venir vi piaccia, ella v'attende in casa sua.
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Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell'albergo, disse:
- Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso.
-
Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra.
Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se n'entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già sua donna chiamata e detto - Ecco Andreuccio, - la vide in capo della scala farsi a aspettarlo.
Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta disse:
- O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto! -
Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose:
- Madonna, voi siate la ben trovata! -
Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa parlare, con lui nella sua camera se n'entrò, la quale di rose, di fiori d'aranci e d'altri odori tutta oliva, là dove egli un bellissimo letto incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là, e altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo, fermamente credette lei dovesse essere non men che gran donna.
E postisi a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare:
- Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non m'udisti.
Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m'ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de' miei fratelli, come che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non muoia.
E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo'dire.
Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai.
Ma tra gli altri che molto l'amarono, mia madre, che gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l'amò, tanto che, posta giù la paura del padre e de' fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si dimestico', che io ne nacqui e sonne qual tu mi vedi.
Poi, sopravenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliola non nata d'una fante né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani.
Ma che è?.
Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare: la cosa andò pur così.
Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare a Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo.
Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa che mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo), la sciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione, sì come tu potrai ancor vedere.
E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua, fratel mio dolce, ti veggio.
-
E così detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte.
Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla quale in niuno atto moriva la parola tra'denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo de' giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose:
- Madonna, egli non vi dee parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna coscienza aveva di voi se non come se non foste; e emmi tanto più caro l'avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più solo e meno questo sperava.
E nel vero io non conosco uomo di sì alto affare al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo mercatante sono.
Ma d'una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?"
Al quale ella rispose: - Questa mattina mel fè sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e in Perugia stette, e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell'altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei.
-
Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente, alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava.
Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti e fè dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne, ma sembiante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse:
- Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare all'albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d'onore.
-
Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse:
- Io v'ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania.
Ed ella allora disse:
- Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a' tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata.
-
Andreuccio rispose che de' suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l'era, di lui facesse il piacer suo.
Ella allora fè vista di mandare a dire all'albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura; ed essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe, per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somigliante.
Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d'esser con costei, stette.
Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un'altra camera se n'andò.
Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell'uno de' canti della camera gli mostrò uno uscio e disse:
- Andate là entro.
-
Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era ; per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n'andò quindi giuso: e di tanto l'amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s'imbrattò.
Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò.
Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l'una casa e l'altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l'una.
Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l'ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna.
La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v'erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d'un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente andò a chiuder l'uscio del quale egli era uscito quando cadde.
Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente.
Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all'uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n'andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò e percosse.
Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire:
- Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella! -
E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l'uscio e a gridare; e tanto fece così che molti de' circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra proverbiosamente disse:
- Chi picchia là giù? -
- Oh! - disse Andreuccio - o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso.
-
Al quale ella rispose: - Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì ; va in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace.
-
- Come - disse Andreuccio - non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno i panni miei li quali lasciati v'ho, e io m'andrò volentier con Dio.
-
Al quale ella quasi ridendo disse:
- Buono uomo, e'mi par che tu sogni, - e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa.
Di che Andreuccio, già certissimo de' suoi danni, quasi per doglia fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò a percuotere la porta.
La qual cosa molti de' vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire:
- Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte -
Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa, orribile e fiera disse:
- Chi è laggiù? -
Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose:
- Io sono un fratello della donna di là entro.
-
Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse:
- Io non so a che io mi tegno che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona; - e tornatosi dentro serrò la finestra.
Alcuni de' vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio dissono:
- Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì : vattene per lo tuo migliore.
-
Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da' conforti di coloro li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de' suoi denar disperato, verso quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza sa per dove s'andasse, prese la via per tornarsi all'albergo.
E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana si mise.
E verso l'alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò.
Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n'entrarono; e quivi l'un di loro, scaricati certi ferramenti che in collo avea, con l'altro insieme gl'incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando.
E mentre parlavano, disse l'uno:
- Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire; - e questo detto alzata alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel d'Andreuccio, e stupefatti domandar: - Chi è là? -
Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente.
Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sè: - Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo.
- E a lui rivolti, disse l'uno:
- Buono uomo, come che tu abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co' denari avresti la persona perduta.
Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola.
-
E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero:
- Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai -
Andreuccio, sì come disperato, rispuose ch'era presto.
Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin d'oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto.
Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si mise in via; e andando verso la chiesa maggiore, e Andreuccio putendo forte, disse l'uno:
- Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così fieramente? -
Disse l'altro:
- Sì, noi siam qui presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente.
Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v'era ma il secchione n'era stato levato: per che insieme diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero.
Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti.
Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune.
Costoro assetati, posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare credendo a quella il secchion pien d'acqua essere appicato.
Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella.
La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s'incominciò a maravigliare.
Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove.
Così andando si venne scontrato in que'due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l'avesse tratto.
Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo.
Di che costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s'eran fuggiti e chi stati eran coloro che su l'avean tirato.
E senza più parole fare, essendo già mezzanotte, n'andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente entrarono e furono all'arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch'era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo.
E fatto questo, cominciò l'uno a dire:
- Chi entrerà dentro? -
A cui l'altro rispose:
- Non io.
-
- Nè io - disse colui - ma entrivi Andreuccio.
-
- Questo non farò io - disse Andreuccio.
Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero:
- Come non v'enterrai? In fè di Dio, se tu non v'entri, noi ti darem tante d'uno di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto.
-
Andreuccio temendo v'entrò, e entrandovi pensò seco: - Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall'arca, essi se ne andranno pe'fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna.
- E per ciò s'avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all'arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v'avea.
Costoro, affermando che esser vi doveva l'anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne, alquanto li tenne ad aspettare.
Costoro che d'altra parte eran sì come lui maliziosi,dicendo pur che ben cercasse preso tempo, tirarono via il puntello che il coperchio dell'arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall'arca lasciaron racchiuso.
La qual cosa sentendo Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può pensare.
Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli.
Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all'un de' due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra'vermini del morto corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere appiccato.
E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co' suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte.
Ma poi che costoro ebbero l'arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse:
- Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v'entrerò dentro io.
-
E così detto, posto il petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi giuso calare.
Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l'una delle gambe e fè sembiante di volerlo giù tirare.
La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell'arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l'arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati.
La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all'avventura, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbattè ; dove li suoi compagni e l'albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de' fatti suoi.
A' quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell'oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato.
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Novella Sesta
Madonna Beritola, con due cavriuoli sopra una isola trovata, avendo due figliuoli perduti, ne va in Lunigiana; quivi l'un de' figliuoli col signor di lei si pone e colla figliuola di lui giace ed è messo in prigione.
Cicilia ribellata al re Carlo, e il figliuolo riconosciuto dalla madre, sposa la figliuola del suo signore e il suo fratello ritrova e in grande stato ritornano.
Avevan le donne parimente e i giovani riso molto de' casi d'Andreuccio dalla Fiammetta narrati, quando Emilia, sentendo la novella finita, per comandamento della reina, così cominciò.
Gravi cose e noiose sono i movimenti vari della Fortuna, de' quali perché quante volte alcuna cosa si parla, tante è un destare delle nostre menti, le quali leggiermente s'addormentano nelle sue lusinghe, giudico mai rincrescer non dover l'ascoltare e a' felici e agli sventurati, in quanto li primi rende avvisati e i secondi consola.
E per ciò, quantunque gran cose dette ne sieno avanti, io intendo di raccontarvene una novella non meno vera che pietosa; la quale, ancora che lieto fine avesse, fu tanta e sì lunga l'amaritudine, che appena che io possa credere che mai da letizia seguita si raddolcisse.
Carissime donne, voi dovete sapere che appresso la morte di Federigo secondo imperadore fu re di Cicilia coronato Manfredi, appo il quale in grandissimo stato fu un gentile uomo di Napoli chiamato Arrighetto Capece, il quale per moglie avea una bella e gentil donna similmente napoletana, chiamata madonna Beritola Caracciola.
Il quale Arrighetto, avendo il governo dell'isola nelle mani, sentendo che il re Carlo primo avea a Benevento vinto e ucciso Manfredi, e tutto il regno a lui si rivolgea, avendo poca sicurtà della corta fede de' ciciliani e non volendo suddito divenire del nimico del suo signore, di fuggire s'apparecchiava.
Ma questo da' ciciliani conosciuto, subitamente egli e molti altri amici e servitori del re Manfredi furono per prigioni dati al re Carlo, e la possessione dell'isola appresso.
Madonna Beritola in tanto mutamento di cose, non sappiendo che d'Arrighetto si fosse e sempre di quello che era avvenuto temendo, per tema di vergogna, ogni sua cosa lasciata, con un suo figliuolo d'età forse d'otto anni, chiamato Giusfredi, e gravida e povera, montata sopra una barchetta, se ne fuggì a Lipari, e quivi partorì un altro figliuol maschio, il quale nominò lo Scacciato; e presa una balia, con tutti sopra un legnetto montò per tornarsene a Napoli a' suoi parenti.
Ma altramenti avvenne che il suo avviso; perciò che per forza di vento il legno, che a Napoli andar dovea, fu trasportato all'isola di Ponzo, dove, entrati in un picciol seno di mare, cominciarono ad attender tempo al loro viaggio.
Madama Beritola, come gli altri, smontata in su l'isola e sopra quella un luogo solitario e rimoto trovato, quivi a dolersi del suo Arrighetto si mise tutta sola.
E questa maniera ciascun giorno tenendo, avvenne che, essendo ella al suo dolersi occupata, senza che alcuno o marinaro o altri se n'accorgesse, una galea di corsari sopravvenne, la quale tutti a man salva gli prese, e andò via.
Madama Beritola, finito il suo diurno lamento, tornata al lito per rivedere i figliuoli, come usata era di fare, niuna persona vi trovò; di che prima si maravigliò, e poi, subitamente di quello che avvenuto era sospettando, gli occhi infra 'l mare sospinse, e vide la galea, non molto ancora allungata, dietro tirarsi il legnetto; per la qual cosa ottimamente conobbe, sì come il marito, aver perduti i figliuoli; e povera e sola e abbandonata, senza saper dove mai alcuno doversene ritrovare, quivi vedendosi, tramortita, il marito è figliuoli chiamando, cadde in su 'l lito.
Quivi non era chi con acqua fredda o con altro argomento le smarrite forze rivocasse; per che a bello agio poterono gli spiriti andar vagando dove lor piacque; ma, poi che nel misero corpo le partite forze insieme colle lagrime e col pianto tornate furono, lungamente chiamò i figliuoli, e molto per ogni caverna gli andò cercando.
Ma poi che la sua fatica conobbe vana e vide la notte sopravvenire, sperando e non sappiendo che, di sé medesima alquanto divenne sollicita, e dal lito partitasi, in quella caverna, dove di piagnere e di dolersi era usa, si ritornò.
E poi che la notte con molta paura e con dolore inestimabile fu passata, e il dì nuovo venuto, e già l'ora della terza valicata, essa, che la sera avanti cenato non avea, da fame costretta, a pascere l'erbe si diede; e, pasciuta come potè, piagnendo, a vari pensieri della sua futura vita si diede.
Nè quali mentre ella dimorava, vide venire una cavriuola ed entrare ivi vicino in una caverna, e dopo alquanto uscirne e per lo bosco andarsene; per che ella, levatasi, là entrò donde uscita era la cavriuola, e videvi due cavriuoli forse il dì medesimo nati, li quali le parevano la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa; e, non essendolesi ancora del nuovo parto rasciutto il latte del petto, quegli teneramente prese e al petto gli si pose.
Li quali, non rifiutando il servigio, così lei poppavano come la madre avrebber fatto; e d'allora innanzi dalla madre a lei niuna distinzion fecero.
Per che, parendo alla gentil donna avere nel diserto luogo alcuna compagnia trovata, l'erbe pascendo e bevendo l'acqua, e tante volte piagnendo quante del marito e de' figliuoli e della sua preterita vita si ricordava, quivi e a vivere e a morire s'era disposta, non meno dimestica della cavriuola divenuta che de' figliuoli.
E così dimorando la gentil donna divenuta fiera, avvenne dopo più mesi che per fortuna similmente quivi arrivò un legnetto di pisani, dove ella prima era arrivata, e più giorni vi dimorò.
Era sopra quel legno un gentile uomo chiamato Currado de' marchesi Malespini con una sua donna valorosa e santa; e venivano di pellegrinaggio da tutti i santi luoghi li quali nel regno di Puglia sono, e a casa loro se ne tornavano.
Il quale, per passare malinconia, insieme colla sua donna e con alcuni suoi famigliari e con suoi cani, un dì ad andare fra l'isola si mise, e non guari lontano al luogo, dove era madama Beritola, cominciarono i cani di Currado a seguire i due cavriuoli, li quali già grandicelli pascendo andavano; li quali cavriuoli da' cani cacciati, in nulla altra parte fuggirono che alla caverna dove era madama Beritola.
La quale, questo vedendo, levata in piè e preso un bastone, li cani mandò indietro; e quivi Currado e la sua donna, che i lor cani seguitavano, sopravvenuti, vedendo costei, che bruna e magra e pilosa divenuta era, si maravigliarono, ed ella molto più di loro.
Ma poi che a' prieghi di lei ebbe Currado i suoi cani tirati indietro, dopo molti prieghi la piegarono a dire chi ella fosse e che quivi facesse; la quale pienamente ogni sua condizione e ogni suo accidente e il suo fiero proponimento loro aperse.
Il che udendo Currado, che molto bene Arrighetto Capece conosciuto avea, di compassion pianse, e con parole assai s'ingegnò di rimuoverla da proponimento sì fiero, offerendole di rimenarla a casa sua o di seco tenerla in quello onore che sua sorella, e stesse tanto che Iddio più lieta fortuna le mandasse innanzi.
Alle quali proferte non piegandosi la donna, Currado con lei lasciò la moglie e le disse che da mangiare quivi facesse venire, e lei, che tutta era stracciata, d'alcuna delle sue robe rivestisse e del tutto facesse che seco la ne menasse.
La gentil donna con lei rimasa, avendo prima molto con madama Beritola pianto de' suoi infortuni, fatti venire vestimenti e vivande, colla maggior fatica del mondo a prendergli e a mangiar la condusse; e ultimamente, dopo molti prieghi, affermando ella di mai non volere andare ove conosciuta fosse, la 'ndusse a doversene seco andare in Lunigiana insieme co' due cavriuoli e colla cavriuola, la quale in quel mezzo era tornata e, non senza gran maraviglia della gentil donna, l'avea fatta grandissima festa.
E così venuto il buon tempo, madama Beritola con Currado e colla sua donna sopra il lor legno montò, e con loro insieme la cavriuola e i due cavriuoli (da'quali, non sappiendosi per tutti il suo nome, ella fu Cavriuola dinominata), e con buon vento tosto infino nella foce della Magra n'andarono, dove smontati, alle lor castella ne salirono.
Quivi appresso la donna di Currado madama Beritola, in abito vedovile, come una sua damigella, onesta e umile e obediente stette, sempre a' suoi cavriuoli avendo amore e faccendogli nutricare.
I corsari, li quali avevano a Ponzo preso il legno sopra il quale madama Beritola venuta era, lei lasciata sì come da lor non veduta, con tutta l'altra gente a Genova n'andarono; e quivi tra'padroni della galea divisa la preda, tocco'per avventura, tra l'altre cose, in sorte ad un messer Guasparrin d'Oria la balia di madama Beritola e i due fanciulli con lei; il quale lei co' fanciulli insieme a casa sua ne mandò, per tenergli a guisa di servi né servigi della casa.
La balia, dolente oltre modo della perdita della sua donna e della misera fortuna nella quale sé e i due fanciulli caduti vedea, lungamente pianse.
Ma, poi che vide le lacrime niente giovare e sé esser serva con loro insieme, ancora che povera femina fosse, pure era savia e avveduta; per che, prima come potè il meglio riconfortatasi, e appresso riguardando dove erano pervenuti, s'avvisò che, se i due fanciulli conosciuti fossono, per avventura potrebbono di leggiere impedimento ricevere; e oltre a questo sperando che, quando che sia, si potrebbe mutar la fortuna ed essi potrebbero, se vivi fossero, nel perduto stato tornare, pensò di non palesare ad alcuna persona chi fossero, se tempo di ciò non vedesse; e a tutti diceva, che di ciò domandata l'avessero, che suoi figliuoli erano.
E il maggiore non Giusfredi, ma Giannotto di Procida nominava; al minore non curò di mutar nome; e con somma diligenzia mostrò a Giusfredi perché il nome cambiato gli avea e a qual pericolo egli potesse essere se conosciuto fosse; e questo non una volta ma molte e molto spesso, gli ricordava; la qual cosa il fanciullo, che intendente era, secondo l'ammaestramento della savia balia ottimamente faceva.
Stettero adunque, e mal vestiti e peggio calzati, ad ogni vil servigio adoperati, colla balia insieme pazientemente più anni i due garzoni in casa messer Guasparrino.
Ma Giannotto, già d'età di sedici anni, avendo più animo che a servo non s'apparteneva, sdegnando la viltà della servil condizione, salito sopra galee che in Alessandria andavano, dal servigio di messer Guasparrino si partì, e in più parti andò in niente potendosi avanzare.
Alla fine, forse dopo tre o quattro anni appresso la partita fatta da messer Guasparrino, essendo bel giovane e grande della persona divenuto, e avendo sentito il padre di lui, il quale morto credeva che fosse, essere ancor vivo, ma in prigione e in cattività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna disperato, vagabundo andando, pervenne in Lunigiana, e quivi per ventura con Currado Malespina si mise per famigliare, lui assai acconciamente e a grado servendo.
E come che (non) rade volte la sua madre, la quale colla donna di Currado era, vedesse, niuna volta la conobbe, né ella lui; tanto la età l'uno e l'altro, da quello che esser soleano quando ultimamente si videro, gli avea trasformati.
Essendo adunque Giannotto al servigio di Currado, avvenne che una figliuola di Currado, il cui nome era Spina, rimasa vedova d'uno Niccolò da Grignano, alla casa del padre tornò; la quale, essendo assai bella e piacevole e giovane di poco più di sedici anni, per ventura pose gli occhi addosso a Giannotto, ed egli a lei, e ferventissimamente l'uno dell'altro s'innamorò.
Il quale amore non fu lungamente senza effetto; e più mesi durò avanti che di ciò niuna persona s'accorgesse.
Per la qual cosa essi, troppo assicurati, cominciarono a tener maniera men discreta che a così fatte cose non si richiedea.
E andando un giorno per un bosco bello e folto d'alberi la giovane insieme con Giannotto, lasciata tutta l'altra compagnia, entrarono innanzi; e parendo loro molto di via aver gli altri avanzati, in un luogo dilettevole e pien d'erba e di fiori, e d'alberi chiuso, ripostisi, a prendere amoroso piacere l'un dell'altro incominciarono.
E, come che lungo spazio stati già fossero insieme, avendo il gran diletto fattolo loro parere molto brieve, in ciò dalla madre della giovane prima, e appresso da Currado, soprappresi furono.
Il quale, doloroso oltre modo questo vedendo, senza alcuna cosa dire del perché, amenduni gli fece pigliare a tre suoi servidori e ad uno suo castello legati menargliene; e d'ira e di cruccio fremendo andava, disposto di fargli vituperosamente morire.
La madre della giovane, quantunque molto turbata fosse e degna reputasse la figliuola per lo suo fallo d'ogni crudel penitenzia, avendo per alcuna parola di Currado compreso qual fosse l'animo suo verso i nocenti, non potendo ciò comportare, avacciandosi sopraggiunse l'adirato marito, e cominciollo a pregare che gli dovesse piacere di non correr furiosamente a volere nella sua vecchiezza della figliuola divenir micidiale e a bruttarsi le mani del sangue d'un suo fante, e che egli altra maniera trovasse a sodisfare all'ira sua, sì come di fargli imprigionare e in prigione stentare e piagnere il peccato commesso.
E tanto e queste e molte altre parole gli andò dicendo la santa donna, che essa da uccidergli l'animo suo rivolse; e comandò che in diversi luoghi ciascun di loro imprigionato fosse, e quivi guardati bene, e con poco cibo e con molto disagio servati infino a tanto che esso altro diliberasse di loro; e così fu fatto.
Quale la vita loro in cattività e in continue lagrime e in più lunghi digiuni che loro non sarien bisognati si fosse, ciascuno sel può pensare.
Stando adunque Giannotto e la Spina in vita così dolente ed essendovi già uno anno, senza ricordarsi Currado di loro, dimorati, avvenne che il re Piero di Raona, per trattato di messer Gian di Procida, l'isola di Cicilia ribellò e tolse al re Carlo; di che Currado, come ghibellino, fece gran festa.
La quale Giannotto sentendo da alcuno di quelli che a guardia l'aveano, gittò un gran sospiro, e disse:
- Ahi lasso me! che passati sono omai quattordici anni che io sono andato tapinando per lo mondo, niuna altra cosa aspettando che questa, la quale, ora che venuta è, acciò che io mai d'aver ben più non speri, m'ha trovato in prigione, della quale mai se non morto uscire non spero!
- E come? - disse il prigioniere - che monta a te quello che i grandissimi re si facciano? Che avevi tu a fare in Cicilia?
A cui Giannotto disse:
- El pare che 'l cuor mi si schianti, ricordandomi di ciò che già mio padre v'ebbe a fare; il quale, ancora che picciol fanciul fossi quando me ne fuggii, pur mi ricorda che io nel vidi signore, vivendo il re Manfredi.
Seguì il prigioniere:
- E chi fu tuo padre?
- Il mio padre - disse Giannotto - posso io omai sicuramente manifestare, poi del pericolo mi veggio fuori, il quale io temeva scoprendolo.
Egli fu chiamato ed è ancora, s'el vive, Arrighetto Capece, e io non Giannotto, ma Giusfredi ho nome; e non dubito punto, se io di qui fossi fuori, che tornando in Cicilia io non vi avessi ancora grandissimo luogo.
Il valente uomo, senza più avanti andare, come prima ebbe tempo, tutto questo raccontò a Currado.
Il che Currado udendo, quantunque al prigioniere mostrasse di non curarsene, andatosene a madonna Beritola, piacevolmente la domandò se alcun figliuolo avesse d'Arrighetto avuto che Giusfredi avesse nome.
La donna piagnendo rispose che, se il maggiore de' suoi due che avuti avea fosse vivo, così si chiamerebbe e sarebbe d'eta di ventidue anni.
Questo udendo Currado, avvisò lui dovere esser desso, e caddegli nell'animo, se così fosse, che egli ad una ora poteva una gran misericordia fare e la sua vergogna e quella della figliuola tor via, dandola per moglie a costui; e per ciò fattosi segretamente Giannotto venire, partitamente d'ogni sua passata vita l'esaminò.
E trovando per assai manifesti indizi lui veramente esser Giusfredi, figliuolo d'Arrighetto Capece, gli disse:
- Giannotto, tu sai quanta e quale sia la 'ngiuria la qual tu m'hai fatta nella mia propia figliuola, là dove, trattandoti io bene e amichevolmente, secondo che servidor si dee fare, tu dovevi il mio onore e delle mie cose sempre e cercare e operare; e molti sarebbero stati quegli, a' quali se tu quello avessi fatto che a me facesti, che vituperosamente ti avrebber fatto morire; so il che la mia pietà non sofferse.
Ora, poi che così è come tu mi dì, che tu figliuolo sé di gentile uomo e di gentil donna, io voglio alle tue angoscie, quando tu medesimo vogli, porre fine e trarti della miseria e della cattività nella qual tu dimori, e ad una ora il tuo onore e 'l mio nel suo debito luogo riducere.
Come tu sai, la Spina, la quale tu con amorosa, avvegna che sconvenevole a te e a lei, amistà prendesti, è vedova, e la sua dota è grande e buona; quali sieno i suoi costumi, e il padre e la madre di lei, tu il sai; del tuo presente stato niente dico.
Per che, quando tu vogli, io sono disposto, dove ella disonestamente amica ti fu, ch'ella onestamente tua moglie divenga e che in guisa di mio figliuolo qui, con esso meco e con lei, quanto ti piacerà dimori.
Aveva la prigione macerate le carni di Giannotto, ma il generoso animo dalla sua origine tratto non aveva ella in cosa alcuna diminuito, né ancora lo 'ntero amore il quale egli alla sua donna portava.
E quantunque egli ferventemente disiderasse quello che Currado gli offereva e sé vedesse nelle sue forze, in niuna parte piegò quello che la grandezza dello animo suo gli mostrava di dover dire, e rispose:
- Currado, né cupidità di signoria né desiderio di denari né altra cagione alcuna mi fece mai alla tua vita né alle tue cose insidie, come traditor, porre.
Amai tua figliuola e amo e amerò sempre, per ciò che degna la reputo del mio amore; e se io seco fui meno che onestamente, secondo la oppinion de' meccanici, quel peccato commisi, il quale sempre seco tiene la giovanezza congiunto e che, se via si volesse torre, converrebbe che via si togliesse la giovanezza, e il quale, se i vecchi si volessero ricordare d'essere stati giovani e gli altrui difetti colli loro misurare e li loro cogli altrui, non saria grave come tu e molti altri fanno; e come amico e non come nemico il commisi.
Quello che tu offeri di voler fare sempre il disiderai, e se io avessi creduto che conceduto mi dovesse esser suto, lungo tempo è che domandato l'avrei; e tanto mi sarà ora più caro, quanto di ciò la speranza è minore.
Se tu non hai quello animo che le parole tue dimostrano, non mi pascere di vana speranza; fammi ritornare alla prigione e quivi quanto ti piace mi fa affliggere, ché quanto io amerò la Spina, tanto sempre per amor di lei amerò te, che che tu mi ti facci, e avrotti in reverenza.
Currado, avendo costui udito, si maravigliò e di grande animo il tenne e il suo amore fervente reputò, e più ne l'ebbe caro; e per ciò levatosi in piè, l'abbracciò e baciò, e senza dar più indugio alla cosa, comandò che quivi chetamente fosse menata la Spina.
Ella era nella prigione magra e pallida divenuta e debole, e quasi un'altra femina che esser non soleva parea, e così Giannotto un altro uomo: i quali nella presenzia di Currado di pari consentimento contrassero le sponsalizie secondo la nostra usanza.
E poi che più giorni, senza sentirsi da alcuna persona di ciò che fatto era alcuna cosa, gli ebbe di tutto ciò che bisognò loro e di piacere era fatti adagiare, parendogli tempo di farne le loro madri liete, chiamate la sua donna e la Cavriuola, così verso lor disse:
- Che direste voi, madonna, se io vi facessi il vostro figliuolo maggior riavere, essendo egli marito d'una delle mie figliuole?
A cui la Cavriuola rispose:
- Io non vi potrei di ciò altro dire se non che, se io vi potessi più esser tenuta che io non sono, tanto più vi sarei quanto voi più cara cosa che non sono io medesima a me mi rendereste; e rendendomela in quella guisa che voi dite, alquanto in me la mia perduta speranza rivocareste; - e lagrimando si tacque.
Allora disse Currado alla sua donna:
- E a te che ne parrebbe, donna, se io così fatto genero ti donassi?
A cui la donna rispose:
- Non che un di loro, che gentili uomini sono, ma un ribaldo, quando a voi piacesse, mi piacerebbe.
Allora disse Currado:
- Io spero infra pochi dì farvi di ciò liete femine.
E veggendo già nella prima forma i due giovani ritornati, onorevolmente vestitigli, domandò Giusfredi:
- Che ti sarebbe caro sopra l'allegrezza la qual tu hai, se tu qui la tua madre vedessi?
A cui Giusfredi rispose:
- Egli non mi si lascia credere che i dolori de' suoi sventurati accidenti l'abbian tanto lasciata viva; ma, se pur fosse, sommamente mi saria caro, sì come colui che ancora per lo suo consiglio mi crederrei gran parte del mio stato ricoverare in Cicilia.
Allora Currado l'una e l'altra donna quivi fece venire.
Elle fecero amendune maravigliosa festa alla nuova sposa, non poco maravigliandosi, quale spirazione potesse essere stata che Currado avesse a tanta benignità recato, che Giannotto con lei avesse congiunto.
Al quale madama Beritola, per le parole da Currado udite, cominciò a riguardare, e da occulta virtù desta in lei alcuna rammemorazione de' puerili lineamenti del viso del suo figliuolo, senza aspettare altro dimostramento, colle braccia aperte gli corse al collo; né la soprabondante pietà e allegrezza materna le permisero di potere alcuna parola dire, anzi sì ogni virtù sensitiva le chiusero che quasi morta nelle braccia del figliuol cadde.
Il quale, quantunque molto si maravigliasse, ricordandosi d'averla molte volte avanti in quel castello medesimo veduta e mai non riconosciutola, pur non dimeno conobbe incontanente l'odor materno e sé medesimo della sua preterita trascutaggine biasimando, lei nelle braccia ricevuta lagrimando teneramente baciò.
Ma poi che madama Beritola, pietosamente dalla donna di Currado e dalla Spina aiutata e con acqua fredda e con altre loro arti, in sé le smarrite forze ebbe rivocate, rabbraccò da capo il figliuolo con molte lagrime e con molte parole dolci; e piena di materna pietà mille volte o più il baciò, ed egli lei reverentemente molto la vide e ricevette.
Ma poi che l'accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte, non senza gran letizia e piacere de' circustanti, e l'uno all'altro ebbe ogni suo accidente narrato; avendo già Currado a' suoi amici significato con gran piacere di tutti il nuovo parentado fatto da lui, e ordinando una bella e magnifica festa, gli disse Giusfredi:
- Currado, voi avete fatto me lieto di molte cose e lungamente avete onorata mia madre; ora, acciò che niuna parte in quello che per vo'si possa ci resti a fare, vi priego che voi mia madre e la mia festa e me facciate lieti della presenza di mio fratello, il quale in forma di servo messer Guasparrin d'Oria tiene in casa il quale come io vi dissi già, e lui e me prese in corso; e appresso che voi alcuna persona mandiate in Cicilia, il quale pienamente s'informi delle condizioni e dello stato del paese, e mettasi a sentire quello che è d'Arrighetto mio padre, se egli è o vivo o morto; e se è vivo, in che stato; e d'ogni cosa pienamente informato, a noi ritorni.
Piacque a Currado la domanda di Giusfredi e, senza alcuno indugio, discretissime persone mandò e a Genova e in Cicilia.
Colui che a Genova andò, trovato messer Guasparrino, da parte di Currado diligentemente il pregò che lo Scacciato e la sua balia gli dovesse mandare, ordinatamente narrandogli ciò che per Currado era stato fatto verso Giusfredi e verso la madre.
Messer Guasparrin si maraviò forte, questo udendo, e disse:
- Egli è vero che io farei per Currado ogni cosa, che io potessi, che gli piacesse; e ho bene in casa avuti, già sono quattordici anni, il garzon che tu dimandi e una sua madre, li quali io gli manderò volentieri; ma dira'gli da mia parte che si guardi di non aver troppo creduto o di non credere alle favole di Giannotto, il qual dì che oggi si fa chiamar Giusfredi, per ciò che egli è troppo più malvagio che egli non s'avvisa.
E così detto, fatto onorare il valente uomo, si fece in segreto chiamar la balia e cautamente la esaminò di questo fatto.
La quale, avendo udita la rebellion di Cicilia e sentendo Arrighetto esser vivo, cacciata via la paura che già avuta avea, ordinatamente ogni cosa gli disse.
e le cagioni gli mostrò per che quella maniera che fatto aveva tenuta avesse.
Messer Guasparrino, veggendo li detti della balia con quegli dello ambasciador di Currado ottimamente convenirsi.
cominciò a dar fede alle parole; e per un modo e per un altro, sì come uomo che astutissimo era, fatta inquisizion di questa opera, e più ogni ora trovando cose che più fede gli davano al fatto, vergognandosi del vil trattamento fatto del garzone, in ammenda di ciò, avendo una sua bella figlioletta d'età d'undici anni, conoscendo egli chi Arrighetto era stato e fosse, con una gran dota gli diè per moglie; e, dopo una gran festa di ciò fatta.
col garzone e colla figliuola e collo ambasciadore di Currado e colla balia montato sopra una galeotta bene armata, se ne venne a Lerici; dove, ricevuto da Currado, con tutta la sua brigata n'andò ad un castel di Currado, non molto di quivi lontano, dove la festa grande era apparecchiata.
Quale la festa della madre fosse rivedendo il suo figliuolo, qual quella de' due fratelli, qual quella di tutti e tre alla fedel balia, qual quella di tutti fatta a messer Guasparrino e alla sua figliuola, e di lui a tutti, e di tutti insieme con Currado e colla sua donna e co' figliuoli e co' suoi amici, non si potrebbe con parole spiegare; e per ciò a voi, donne, la lascio ad imaginare.
Alla quale, acciò che compiuta fosse, volle Domeneddio, abbondantissimo donatore quando comincia, sopraggiugnere le liete novelle della vita e del buono stato d'Arrighetto Capece.
Per ciò che, essendo la festa grande e i convitati (le donne e gli uomini) alle tavole ancora alla prima vivanda, sopraggiunse colui il quale andato era in Cicilia, e tra l'altre cose, raccontò d'Arrighetto che, essendo egli in Catania per lo re Carlo guardato in prigione quando il romore contro al re si levò nella terra, il popolo a furore corse alla prigione e, uccise le guardie, lui n'avean tratto fuori, e sì come capitale nemico del re Carlo, l'avevano fatto lor capitano e seguitolo a cacciare e ad uccidere i franceschi.
Per la qual cosa egli sommamente era venuto nella grazia del re Pietro, il quale lui in tutti i suoi beni e in ogni suo onore rimesso aveva; laonde egli era in grande e in buono stato; aggiugnendo che egli aveva lui con sommo onore ricevuto e inestimabile festa aveva fatta della sua donna e del figliuolo, de' quali mai dopo la presura sua niente aveva saputo; e oltre a ciò mandava per loro una saettia con alquanti gentili uomini, li quali appresso venieno.
Costui fu con grande allegrezza e festa ricevuto e ascoltato; e prestamente Currado con alquanti dei suoi amici in contro si fecero a' gentili uomini che per madama Beritola e per Giusfredi venieno, e loro lietamente ricevette, e al suo convito, il quale ancora al mezzo non era, gl'introdusse.
Quivi e la donna e Giusfredi e oltre a questi tutti gli altri con tanta letizia gli videro, che mai simile non fu udita; e essi, avanti che a mangiar si ponessero, da parte d'Arrighetto e salutarono e ringraziarono, quanto il meglio seppero e più poterono, Currado e la sua donna dell'onore fatto e alla donna di lui e al figliuolo; e Arrighetto e ogni cosa che per lui si potesse offersero al lor piacere.
Quindi a messer Guasparrino rivolti, il cui beneficio era inoppinato, dissero sé essere certissimi che, qualora ciò che per lui verso lo Scacciato stato era fatto da Arrighetto si sapesse, che grazie simiglianti e maggiori rendute sarebbono.
Appresso questo, lietissimamente nella festa delle due nuove spose e con li novelli sposi mangiarono.
Nè solo quel dì fece Currado festa al genero e agli altri suoi e parenti e amici, ma molti altri.
La quale poi che riposata fu, parendo a madama Beritola e a Giusfredi e agli altri di doversi partire, con molte lagrime da Currado e dalla sua donna e da messer Guasparrino, sopra la saettia montati, seco la Spina menandone, si partirono; e avendo prospero vento, tosto in Cicilia pervennero, dove con tanta festa da Arrighetto tutti parimente, è figliuoli e le donne, furono in Palermo ricevuti, che dire non si potrebbe giammai: dove poi molto tempo si crede che essi tutti felicemente vivessero, e, come conoscenti del ricevuto beneficio, amici di Messer Domeneddio.
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Novella Settima
Il soldano di Babilonia ne manda una sua figliuola a marito al re del Garbo, la quale per diversi accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del Garbo, come prima faceva, per moglie.
Forse non molto più si sarebbe la novella d'Emilia distesa, che la compassione avuta dalle giovani donne a' casi di madama Beritola loro avrebbe condotte a lagrimare.
Ma, poi che a quella fu posta fine, piacque alla reina che Panfilo seguitasse, la sua raccontando; per la qual cosa egli, che ubidientissimo era, incominci.
Malagevolmente, piacevoli donne, si può da noi conoscer quello che per noi si faccia, per ci che, se come assai volte s'è potuto vedere, molti estimando, se essi ricchi divenissero, senza sollecitudine e sicuri poter vivere, quello non solamente con prieghi a Dio addomandarono, ma sollecitamente, non recusando alcuna fatica o pericolo, d'acquistarlo cercarono; e, come che loro venisse fatto, trovarono chi per vaghezza di così ampia eredità gli uccise, li quali avanti che arricchiti fossero amavan la vita loro.
Altri di basso stato per mille pericolose battaglie, per mezzo il sangue de' fratelli e degli amici loro saliti all'altezza de' regni, in quegli somma felicità esser credendo, senza le infinite sollecitudini e paure di che piena la videro e sentirono, conobbero, non senza la morte loro, che nell'oro alle mense reali si beveva il veleno.
Molti furono che la forza corporale e la bellezza, e certi gli ornamenti, con appetito ardentissimo disiderarono, né prima d'aver mal disiderato s'avvidero, che essi quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione.
E acciò che io partitamente di tutti gli umani disideri non parli, affermo niuno poterne essere con pieno avvedimento, sì come sicuro da' fortunosi casi, che da' viventi si possa eleggere; per che, se dirittamente operar volessimo, a quello prendere e possedere ci dovremmo disporre che Colui ci donasse, il quale sol ciò che ci fa bisogno conosce e puolci dare.
Ma per ciò che, come che gli uomini in varie cose pecchino disiderando, voi, graziose donne, sommamente peccate in una, cioè nel disiderare d'esser belle, in tanto che, non bastandovi le bellezze che dalla natura concedute vi sono, ancora con maravigliosa arte quelle cercate d'accrescere, mi piace di raccontarvi quanto sventuratamente fosse bella una saracina, alla quale in forse quattro anni avvenne per la sua bellezza di fare nuove nozze da nove volte.
Già è buon tempo passato che di Babilonia fu un soldano, il quale ebbe nome Beminedab, al quale ne'suoi dì assai cose secondo il suo piacere avvennero.
Aveva costui, tra gli altri suoi molti figliuoli e maschi e femine, una figliuola chiamata Alatiel, la quale, per quello che ciascuno che la vedeva dicesse, era la più bella femina che si vedesse in quei tempi nel mondo; e per ciò che in una grande sconfitta, la quale aveva data ad una gran moltitudine d'arabi che addosso gli eran venuti, l'aveva maravigliosamente aiutato il re del Garbo, a lui, domandandogliele egli di grazia speziale, l'aveva per moglie data, e lei con onorevole compagnia e d'uomini e di donne e con molti nobili e ricchi arnesi fece sopra una nave bene armata e ben corredata montare, e a lui mandandola, l'accomandò a Dio.
I marinari, come videro il tempo ben disposto, diedero le vele a' venti e del porto d'Alessandria si partirono e più giorni felicemente navigarono; e già avendo la Sardigna passata, parendo loro alla fine del loro cammino esser vicini, si levarono subitamente un giorno diversi venti, li quali, essendo ciascuno oltre modo impetuoso, sì faticarono la nave dove la donna era e'marinari, che più volte per perduti si tennero.
Ma pure, come valenti uomini, ogni arte e ogni forza operando, essendo da infinito mare combattuti, due dì sostennero; e surgendo già dalla tempesta cominciata la terza notte, e quella non cessando ma crescendo tutta fiata, non sappiendo essi dove si fossero né potendolo per estimazion marinaresca comprendere né per vista, per ciò che oscurissimo di nuvoli e di buia notte era il cielo, essendo essi non guari sopra Maiolica, sentirono la nave sdrucire.
Per la qual cosa, non veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente ciascun sè medesimo e non altrui, in mare gittarono un paliscalmo, e sopra quello più tosto di fidarsi disponendo, che sopra la isdrucita nave, si gittarono i padroni; a' quali appresso or l'uno or l'altro di quanti uomini erano nella nave, quantunque quelli che prima nel paliscalmo eran discesi colle coltella in mano il contradicessero, tutti si gittarono; e, credendosi la morte fuggire, in quella incapparono; per ciò che non potendone per la contrarietà del tempo tanti reggere il paliscalmo, andato sotto, tutti quanti perirono.
E la nave, che da impetuoso vento era sospinta, quantunque sdrucita fosse e già presso che piena d'acqua (non essendovi su rimasa altra persona che la donna e le sue femine, e quelle tutte per la tempesta del mare e per la paura vinte su per quella quasi morte giacevano), velocissimamente correndo, in una piaggia dell'isola di Maiolica percosse; e fu tanta e sì grande la foga di quella, che quasi tutta si ficcò nella rena vicina al lito forse una gittata di pietra; e quivi dal mar combattuta, la notte, senza poter più dal vento esser mossa, si stette.
Venuto il giorno chiaro e alquanto la tempesta acchetata, la donna, che quasi mezza morta era, alzò la testa, e così debole come era cominciò a chiamare ora uno e ora un altro della sua famiglia; ma per niente chiamava, ché i chiamati eran troppo lontani.
Per che, non sentendosi rispondere ad alcuno né alcuno veggendone, si maravigliò molto e cominciò ad avere grandissima paura; e come meglio potè levatasi, le donne che in compagnia di lei erano e l'altre femine tutte vide giacere, e or l'una e or l'altra dopo molto chiamare tentando, poche ve ne trovò che avessono sentimento, sì come quelle che, tra per grave angoscia di stomaco e per paura morte s'erano; di che la paura alla donna divenne maggiore.
Ma nondimeno, strignendola necessità di consiglio, per ciò che quivi tutta sola si vedeva, non conoscendo o sappiendo dove si fosse, pure stimolò tanto quelle che vive erano, che su le fece levare; e trovando quelle non sapere dove gli uomini andati fossero, e veggendo la nave in terra percossa e d'acqua piena, con quelle insieme dolorosamente cominciò a piagnere.
E già era ora di nona, avanti che alcuna persona su per lo lito o in altra parte vedessero, a cui di sé potessero fare venire alcuna pietà ad aiutarle.
In su la nona, per avventura da un suo luogo tornando, passò quindi un gentile uomo, il cui nome era Pericon da Visalgo, con più suoi famigli a cavallo, il quale, veggendo la nave, subitamente imaginò ciò che era e comandò ad un de' famigli che senza indugio procacciasse di su montarvi e gli raccontasse ciò che vi fosse.
Il famigliare, ancora che con difficultà il facesse, pur vi montò su, e trovò la gentil giovane, con quella poca compagnia che avea, sotto il becco della proda della nave tutta timida star nascosa.
Le quali, come costui videro, piagnendo più volte misericordia addomandarono; ma, accorgendosi che intese non erano, né esse lui intendevano, con atti s'ingegnarono di dimostrare la loro disavventura.
Il famigliare, come potè il meglio ogni cosa ragguardata, raccontò a Pericone ciò che su v'era; il quale, prestamente fattone giù torre le donne e le più preziose cose che in essa erano e che aver si potessono, con esse n'andò ad un suo castello; e quivi con vivande e con riposo riconfortate le donne, comprese, per gli arnesi ricchi, la donna che trovata avea dovere essere gran gentil donna, e lei prestamente conobbe all'onore che vedeva dall'altre fare a lei sola.
E quantunque pallida e assai male in ordine della persona per la fatica del mare allor fosse la donna, pur parevano le sue fattezze bellissime a Pericone; per la qual cosa subitamente seco diliberò, se ella marito non avesse, di volerla per moglie, e se per moglie avere non la potesse, di volere avere la sua amistà.
Era Pericone uomo di fiera vista e robusto molto; e avendo per alcun dì la donna ottimamente fatta servire, e per questo essendo ella riconfortata tutta, veggendola esso oltre ad ogni estimazione bellissima, dolente senza modo che lei intendere non poteva né ella lui, e così non poter saper chi si fosse, acceso nondimeno della sua bellezza smisuratamente, con atti piacevoli e amorosi s'ingegnò d'inducerla a fare senza contenzione i suoi piaceri.
Ma ciò era niente: ella rifiutava del tutto la sua dimestichezza; e intanto più s'accendeva l'ardore di Pericone.
Il che la donna veggendo, e già quivi per alcuni giorni dimorata, e per li costumi avvisando che tra cristiani era e in parte dove, se pure avesse saputo, il farsi conoscere le montava poco, avvisandosi che a lungo andare o per forza o per amore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Pericon fare, con altezza d'animo seco propose di calcare la miseria della sua fortuna, e alle sue femine, che più che tre rimase non le ne erano, comandò che ad alcuna persona mai manifestassero chi fossero, salvo se in parte si trovassero dove aiuto manifesto alla lor libertà conoscessero; oltre a questo sommamente confortandole a conservare la loro castità, affermando sé aver seco proposto che mai di lei se non il suo marito goderebbe.
Le sue femine di ciò la commendarono, e dissero di servare al loro potere il suo comandamento.
Pericone, più di giorno in giorno accendendosi, e tanto più quanto più vicina si vedeva la disiderata cosa e più negata, e veggendo che le sue lusinghe non gli valevano, di spose lo 'ngegno e l'arti, riserbandosi alla fine le forze.
Ed essendosi avveduto alcuna volta che alla donna piaceva il vino, sì come a colei che usata non n'era di bere per la sua legge che il vietava, con quello, sì come con ministro di Venere, s'avvisò di poterla pigliare; e mostrando di non aver cura di ciò che ella si mostrava schifa, fece una sera, per modo di solenne festa, una bella cena, nella quale la donna venne; e in quella, essendo di molte cose la cena lieta, ordinò con colui che a lei serviva, che di vari vini mescolati le desse bere.
Il che colui ottimamente fece; ed ella, che di ciò non si guardava, dalla piacevolezza del beveraggio tirata, più ne prese che alla sua onestà non sarebbe richiesto; di che ella, ogni avversità trapassata dimenticando, divenne lieta, e veggendo alcune femine alla guisa di Maiolica ballare, essa alla maniera alessandrina ballò.
Il che veggendo Pericone, esser gli parve vicino a quel che egli disiderava; e continuando in più abbondanza di cibi e di beveraggi la cena, per grande spazio di notte la prolungò.
Ultimamente, partitisi i convitati, colla donna solo se n'entrò nella camera; la quale, più calda di vino che d'onestà temperata, quasi come se Pericone una delle sue femine fosse, senza alcuno ritegno di vergogna, in presenza di lui spogliatasi, se n'entrò nel letto.
Pericone non diede indugio a seguitarla; ma spento ogni lume, prestamente dall'altra parte le si coricò allato, e in braccio recatalasi, senza alcuna contradizione di lei, con lei incominciò amorosamente a sollazzarsi; il che poi che ella ebbe sentito, non avendo mai davanti saputo con che corno gli uomini cozzano, quasi pentuta del non avere alle lusinghe di Pericone assentito, senza attendere d'essere a così dolci notti invitata, spesse volte sé stessa invitava, non colle parole, ché non si sapea fare intendere, ma co' fatti.
A questo gran piacere di Pericone e di lei, non essendo la fortuna contenta d'averla di moglie d'un re fatta divenire amica d'un castellano, le si parò davanti più crudele amistà.
Aveva Pericone un fratello d'età di venticinque anni, bello e fresco come una rosa, il cui nome era Marato; il quale, avendo costei veduta ed essendogli sommamente piaciuta, parendogli, secondo che per gli atti di lei poteva comprendere, essere assai bene della grazia sua ed estimando che ciò che di lei disiderava niuna cosa gliele toglieva se non la solenne guardia che faceva di lei Pericone, cadde in un crudel pensiero, e al pensiero seguì senza indugio lo scelerato effetto.
Era allora per ventura nel porto della città una nave, la quale di mercatantia era carica per andare in Chiarenza in Romania, della quale due giovani genovesi eran padroni, e già aveva collata la vela per doversi, come buon vento fosse, partire; colli quali Marato convenutosi, ordinò come da loro colla donna la seguente notte ricevuto fosse.
E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò che far doveva avendo disposto, alla casa di Pericone, il quale di niente da lui si guardava, sconosciutamente se n'andò con alcuni suoi fidatissimi compagni, li quali a quello che fare intendeva richiesti aveva, e nella casa, secondo l'ordine tra lor posto, si nascose.
E poi che parte della notte fu trapassata, aperto a' suoi compagni, là dove Pericon colla donna dormiva n'andarono, e quella aperta, Pericon dormente uccisono, e la donna desta e piagnente minacciando di morte, se alcun romore facesse, presero; e con gran parte delle più preziose cose di Pericone, senza essere stati sentiti, prestamente alla marina n'andarono, e quivi senza indugio sopra la nave se ne montarono Marato e la donna, e'suoi compagni se ne tornarono.
I marinari, avendo buon vento e fresco, fecero vela al lor viaggio.
La donna amaramente e della sua prima sciagura e di questa seconda si dolfe molto; ma Marato, col santo Cresci - in - man che Iddio ci diè, la cominciò per sì fatta maniera a consolare, che ella, già con lui dimesticatasi, Pericone dimenticato avea; e già le pareva star bene, quando la fortuna l'apparecchiò nuova tristizia, quasi non contenta delle passate.
Per ciò che, essendo ella di forma bellissima, sì come già più volte detto avemo, e di maniere laudevoli molto, sì forte di lei i due giovani padroni della nave s'innamorarono che, ogn'altra cosa dimenticatane, solamente a servirle e a piacerle intendevano, guardandosi sempre non Marato s'accorgesse della cagione.
Ed essendosi l'uno dell'altro di questo amore avveduto, di ciò ebbero insieme segreto ragionamento, e convennersi di fare l'acquisto di questo amor comune, quasi amore così questo dovesse patire, come la mercatantia o i guadagni fanno.
E veggendola molto da Marato guardata, e per ciò alla loro intenzione impediti, andando un dì a vela velocissimamente la nave, e Marato standosi sopra la poppa e verso il mare riguardando, di niuna cosa da loro guardandosi, di concordia andarono e, lui prestamente di dietro preso, il gittarono in mare; e prima per ispazio di più d'un miglio dilungati furono, che alcuno si fosse pure avveduto Marato esser caduto in mare; il che sentendo la donna, e non veggendosi via da poterlo ricoverare, nuovo cordoglio sopra la nave a far cominciò.
Al conforto della quale i due amanti incontanente vennero, e con dolci parole e con promesse grandissime, quantunque ella poco intendesse, lei, che non tanto il perduto Marato quanto la sua sventura piagnea, s'ingegnavan di racchetare.
E dopo lunghi sermoni e una e altra volta con lei usati, parendo loro lei quasi avere racconsolata, a ragionamento vennero tra sé medesimi, qual prima di loro la dovesse con seco menare a giacere.
E, volendo ciascuno essere il primo, né potendosi in ciò tra loro alcuna concordia trovare, prima con parole grave e dura riotta incominciarono, e da quella accesi nell'ira, messo mano alle coltella, furiosamente s'andarono addosso, e più colpi (non potendo quelli che sopra la nave erano dividergli) si diedono insieme, de' quali incontanente l'un cadde morto e l'altro, in molte parti della persona gravemente fedito, rimase in vita.
Il che dispiacque molto alla donna, sì come a colei che quivi sola senza aiuto o consiglio d'alcun si vedea, e temeva forte non sopra lei l'ira si volgesse de' parenti e degli amici de' due padroni; ma i prieghi del fedito e il prestamente pervenire a Chiarenza, dal pericolo della morte la liberarono.
Dove col fedito insieme discese in terra, e con lui dimorando in uno albergo, subitamente corse la fama della sua gran bellezza per la città, e agli orecchi del prenze della Morea, il quale allora era in Chiarenza, pervenne; laonde egli veder la volle, e vedutola, e oltre a quello che la fama portava bella parendogli, sì forte di lei subitamente s'innamorò, che ad altro non poteva pensare.
E avendo udito in che guisa quivi pervenuta fosse, s'avvisò di doverla potere avere.
E cercando de' modi, e i parenti del fedito sappiendolo, senza altro aspettare, prestamente gliele mandarono; il che al prenze fu sommamente caro e alla donna altressì, per ciò che fuor d'un gran pericolo esser le parve.
Il prenze vedendola, oltre alla bellezza, ornata di costumi reali, non potendo altramenti saper chi ella si fosse, nobile donna dovere essere l'estimò, e per tanto il suo amore in lei si raddoppiò; e onorevolmente molto tenendola, non a guisa d'amica, ma di sua propia moglie la trattava.
Il perché, avendo a' trapassati mali alcun rispetto la donna e parendole assai bene stare, tutta riconfortata e lieta divenuta, in tanto le sue bellezze fiorirono, che di niuna altra cosa pareva che tutta la Romania avesse da favellare.
Per la qual cosa al duca d'Atene, giovane e bello e pro'della persona, amico e parente del prenze, venne disidero di vederla; e mostrando di venirlo a visitare, come usato era talvolta di fare, con bella e onorevole compagnia se ne venne a Chiarenza, dove onorevolmente fu ricevuto e con gran festa.
Poi dopo alcuni dì venuti insieme a ragionamento delle bellezze di questa donna, domandò il duca se così era mirabil cosa come si ragionava.
A cui il prenze rispose:
- Molto più; ma di ciò non le mie parole, ma gli occhi tuoi voglio ti faccian fede.
A che sollecitando il duca il prenze, insieme n'andarono là dove ella era; la quale costumatamente molto e con lieto viso, avendo davanti sentita la lor venuta, gli ricevette; e in mezzo di loro fattala sedere, non si potè di ragionar con lei prender piacere, per ciò che essa poco o niente di quella lingua intendeva.
Per che ciascun lei, sì come maravigliosa cosa, guardava, e il duca massimamente, il quale appena seco poteva credere lei essere cosa mortale; e non accorgendosi, riguardandola, dell'amoroso veleno che egli con gli occhi bevea, credendosi al suo piacer sodisfare mirandola, sé stesso miseramente impacciò, di lei ardentissimamente innamorandosi.
E poi che da lei insieme col prenze partito si fu ed ebbe spazio di poter pensare seco stesso, estimava il prenze sopra ogni altro felice, sì bella cosa avendo al suo piacere; e, dopo molti e vari pensieri, pesando più il suo focoso amore che la sua onestà, diliberò, che che avvenir se ne dovesse, di privare di questa felicità il prenze e sé a suo potere farne felice.
E avendo l'animo al doversi avacciare, lasciando ogni ragione e ogni giustizia dall'una delle parti, agl'inganni tutto il suo pensier dispose; e un giorno, secondo l'ordine malvagio da lui preso, insieme con un segretissimo cameriere del prenze, il quale avea nome Ciuriaci, segretissimamente tutti i suoi cavalli e le sue cose fece mettere in assetto per doversene andare; e la notte vegnente insieme con un compagno, tutti armati, messo fu dal predetto Ciuriaci nella camera del prenze chetamente, il quale egli vide che per lo gran caldo che era, dormendo la donna, esso tutto ignudo si stava ad una finestra volta alla marina a ricevere un venticello che da quella parte veniva.
Per la qual cosa, avendo il suo compagno davanti informato di quello che avesse a fare, chetamente n'andò per la camera infino alla finestra, e quivi con un coltello ferito il prenze per le reni, infino all'altra parte il passò e, prestamente presolo, dalla finestra il gittò fuori.
Era il palagio sopra il mare, e alto molto, e quella finestra alla quale allora era il prenze, guardava sopra certe case dall'impeto del mare fatte cadere, nelle quali rade volte o non mai andava persona; per che avvenne, sì come il duca davanti avea provveduto, che la caduta del corpo del prenze da alcuno non fu né potè esser sentita.
Il compagno del duca ciò veggendo esser fatto, prestamente un capestro da lui per ciò portato, faccendo vista di fare carezze a Ciuriaci, gli gittò alla gola, e tirò sì che Ciuriaci niuno romore potè fare; e sopraggiuntovi il duca, lui strangolarono, e dove il prenze gittato avea il gittarono.
E questo fatto, manifestamente conoscendo sé non esser stati né dalla donna né da altrui sentiti, prese il duca un lume in mano, e quello portò sopra il letto, e chetamente tutta la donna, la quale fisamente dormiva, scoperse; e riguardandola tutta, la lodò sommamente, e se vestita gli era piaciuta, oltre ad ogni comparazione ignuda gli piacque.
Per che, di più caldo disio accesosi, non spaventato dal ricente peccato da lui commesso, con le mani ancor sanguinose, allato le si coricò e con lei, tutta sonnocchiosa e credente che il prenze fosse, si giacque.
Ma poi che alquanto con grandissimo piacere fu dimorato con lei, levatosi e fatto alquanti de' suoi compagni quivi venire, fe'prender la donna in guisa che romore far non potesse, e per una falsa porta, dond'egli entrato era, trattala, e a caval messala, quanto più potè tacitamente, con tutti i suoi entrò in cammino, e verso Atene se ne tornò.
Ma (per ciò che moglie aveva) non in Atene, ma ad un suo bellissimo luogo, che poco di fuori dalla città sopra il mare aveva, la donna più che altra dolorosa mise, quivi nascosamente tenendola e faccendola onorevolmente di ciò che bisognava servire.
Avevano la seguente mattina i cortigiani del prenze infino a nona aspettato che 'l prenze si levasse; ma niente sentendo, sospinti gli usci delle camere, che solamente chiusi erano, e niuna persona trovandovi, avvisando che occultamente in alcuna parte andato fosse per istarsi alcun dì a suo diletto con quella sua bella donna, più non si dierono impaccio.
E così standosi, avvenne che il dì seguente un matto, entrato intra le ruine dove il corpo del prenze e di Ciuriaci erano, per lo capestro tirò fuori Ciuriaci, e andavaselo tirando dietro.
Il quale non senza gran maraviglia fu riconosciuto da molti, li quali con lusinghe fattisi menare al matto là, onde tratto l'avea, quivi, con grandissimo dolore di tutta la città, quello del prenze trovarono, e onorevolmente il sepellirono; e de' commettitori di così grande eccesso investigando, e veggendo il duca d'Atene non esservi, ma essersi furtivamente partito, estimarono, così come era, lui dovere aver fatto questo e menatasene la donna.
Per che prestamente in lor prenze un fratello del morto prenze sustituendo, lui alla vendetta con ogni lor potere incitarono; il quale, per più altre cose poi accertato così essere come imaginato avieno, richiesti e amici e parenti e servidori di diverse parti, prestamente congregò una bella e grande e poderosa oste, e a far guerra al duca d'Atene si dirizzò.
Il duca, queste cose sentendo, a difesa di sé similmente ogni suo sforzo apparecchiò, e in aiuto di lui molti signor vennero, tra'quali, mandati dallo imperadore di Costantino poli, furono Constanzio suo figliuolo e Manovello suo nepote, con bella e con gran gente; li quali dal duca onorevolemente ricevuti furono, e dalla duchessa più, per ciò che loro sirocchia era.
Appressandosi di giorno in giorno più alla guerra le cose, la duchessa, preso tempo, amenduni nella camera se gli fece venire, e quivi con lagrime assai e con parole molte tutta la istoria narrò, le cagioni della guerra mostrando e il dispetto a lei fatto dal duca della femina, la quale nascosamente si credeva tenere; e forte di ciò condogliendosi, gli pregò che allo onor del duca e alla consolazion di lei quello compenso mettessero, che per loro si potesse il migliore.
Sapevano i giovani tutto il fatto come stato era, e per ciò, senza troppo addomandar, la duchessa come seppero il meglio riconfortarono e di buona speranza la riempirono; e da lei informati dove stesse la donna, si dipartirono.
E avendo molte volte udita la donna di maravigliosa bellezza commendare, disideraron di vederla e il duca pregarono che loro la mostrasse.
Il quale, mal ricordandosi di ciò che al prenze avvenuto era per averla mostrata a lui, promise di farlo; e fatto in un bellissimo giardino (che nel luogo, dove la donna dimorava, era) apparecchiare un magnifico desinare, loro la seguente mattina con pochi altri compagni a mangiar con lei menò.
E sedendo Constanzio con lei, la cominciò a riguardare pieno di maraviglia, seco affermando mai sì bella cosa non aver veduta, e che per certo per iscusato si doveva avere il duca e qualunque altro che, per avere una così bella cosa, facesse tradimento o altra disonesta cosa; e una volta e altra mirandola, e più ciascuna commendandola, non altramenti a lui avvenne che al duca avvenuto era.
Per che, da lei innamorato partitosi, tutto il pensiero della guerra abbandonato, si diede a pensare come al duca torre la potesse, ottimamente a ciascuna persona il suo amor celando.
Ma, mentre che esso in questo fuoco ardeva, sopravenne il tempo d'uscire contro al prenze, che già alle terre del duca s'avvicinava; per che il duca e Constanzio e gli altri tutti, secondo l'ordine dato, d'Atene usciti, andarono a contrastare a certe frontiere, acciò che più avanti non potesse il prenze venire.
E quivi per più dì dimorando, avendo sempre Constanzio l'animo e 'l pensiero a quella donna, imaginando che, ora che 'l duca non l'era vicino, assai bene gli potrebbe venir fatto il suo piacere, per aver cagione di tornarsi ad Atene si mostrò forte della persona disagiato; per che, con licenzia del duca, commessa ogni sua podestà in Manovello, ad Atene se ne venne alla sorella, e quivi, dopo alcun dì, messala nel ragionare del dispetto che dal duca le pareva ricevere per la donna la qual teneva, le disse che, dove ella volesse, egli assai bene di ciò l'aiuterebbe, faccendola di colà ove era trarre e menarla via.
La duchessa, estimando Constanzio questo per amore di lei e non della donna fare, disse che molto le piacea, sì veramente dove in guisa si facesse che il duca mai non risape
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