AMINTA, di Torquato Tasso - pagina 2
...
.
220 [SILVIA] E perché lor non crede? [DAFNE] Or tu non sai
ciò che Tirsi ne scrisse, allor ch'ardendo
forsennato egli errò per le foreste,
sì ch'insieme movea pietate e riso
ne le vezzose ninfe e ne' pastori?
225 Né già cose scrivea degne di riso,
se ben cose facea degne di riso.
Lo scrisse in mille piante, e con le piante
crebbero i versi; e così lessi in una:
"Specchi del cor, fallaci infidi lumi,
230 ben riconosco in voi gli inganni vostri:
ma che pro', se schivarli Amor mi toglie?"
[SILVIA] Io qui trapasso il tempo ragionando,
né mi sovviene ch'oggi è 'l dì prescritto
ch'andar si deve a la caccia ordinata
235 ne l'Eliceto.
Or, se ti pare, aspetta
ch'io pria deponga nel solito fonte
il sudore e la polve, ond'ier mi sparsi
seguendo in caccia una damma veloce,
ch'al fin giunsi ed ancisi.
[DAFNE] Aspetterotti,
240 e forse anch'io mi bagnerò nel fonte.
Ma sino a le mie case ir prima voglio,
ché l'ora non è tarda, come pare.
Tu ne le tue m'aspetta ch'a te venga,
e pensa in tanto pur quel che più importa
245 de la caccia e del fonte; e, se non sai,
credi di non saper, e credi a' savi.
SCENA SECONDA
Aminta, Tirsi
[AMINTA] Ho visto al pianto mio
risponder per pietate i sassi e l'onde,
e sospirar le fronde
ho visto al pianto mio;
5 ma non ho visto mai,
né spero di vedere,
compassion ne la crudele e bella,
che non so s'io mi chiami o donna o fera:
ma niega d'esser donna,
10 poiché nega pietate
a chi non la negaro
le cose inanimate.
[TIRSI] Pasce l'agna l'erbette, il lupo l'agne,
ma il crudo Amor di lagrime si pasce,
15 né se ne mostra mai satollo.
[AMINTA] Ahi, lasso,
ch'Amor satollo è del mio pianto omai,
e solo ha sete del mio sangue; e tosto
voglio ch'egli e quest'empia il sangue mio
bevan con gli occhi.
[TIRSI] Ahi, Aminta, ahi, Aminta,
20 che parli? o che vaneggi? Or ti conforta,
ch'un'altra troverai, se ti disprezza
questa crudele.
[AMINTA] Ohimè, come poss'io
altri trovar, se me trovar non posso?
Se perduto ho me stesso, quale acquisto
25 farò mai che mi piaccia? [TIRSI] O miserello,
non disperar, ch'acquisterai costei.
La lunga etate insegna a l'uom di porre
freno ai leoni ed a le tigri ircane.
[AMINTA] Ma il misero non puote a la sua morte
30 indugio sostener di lungo tempo.
[TIRSI] Sarà corto l'indugio: in breve spazio
s'adira e in breve spazio anco si placa
femina, cosa mobil per natura
più che fraschetta al vento e più che cima
35 di pieghevole spica.
Ma, ti prego,
fa ch'io sappia più a dentro de la tua
dura condizione e de l'amore;
ché, se ben confessato m'hai più volte
d'amare, mi tacesti però dove
40 fosse posto l'amore.
Ed è ben degna
la fedele amicizia ed il commune
studio de le Muse ch'a me scuopra
ciò ch'agli altri si cela.
[AMINTA] Io son contento,
Tirsi, a te dir ciò che le selve e i monti
45 e i fiumi sanno, e gli uomini non sanno.
Ch'io sono omai sì prossimo a la morte,
ch'è ben ragion ch'io lasci chi ridica
la cagion del morire, e che l'incida
ne la scorza d'un faggio, presso il luogo
50 dove sarà sepolto il corpo essangue;
sì che talor passandovi quell'empia
si goda di calcar l'ossa infelici
co 'l piè superbo, e tra sé dica: "È questo
pur mio trionfo"; e goda di vedere
55 che nota sia la sua vittoria a tutti
li pastori paesani e pellegrini
che quivi il caso guidi; e forse (ahi, spero
troppo alte cose) un giorno esser potrebbe
ch'ella, commossa da tarda pietate,
60 piangesse morto chi già vivo uccise,
dicendo: "Oh pur qui fosse, e fosse mio!"
Or odi.
[TIRSI] Segui pur, ch'io ben t'ascolto,
e forse a miglior fin che tu non pensi.
[AMINTA] Essendo io fanciulletto, sì che a pena
65 giunger potea con la man pargoletta
a côrre i frutti dai piegati rami
degli arboscelli, intrinseco divenni
de la più vaga e cara verginella
che mai spiegasse al vento chioma d'oro.
70 La figliuola conosci di Cidippe
e di Montan, ricchissimo d'armenti,
Silvia, onor de le selve, ardor de l'alme?
Di questa parlo, ahi lasso; vissi a questa
così unito alcun tempo, che fra due
75 tortorelle più fida compagnia
non sarà mai, né fue.
Congiunti eran gli alberghi,
ma più congiunti i cori;
conforme era l'etate,
80 ma 'l pensier più conforme;
seco tendeva insidie con le reti
ai pesci ed agli augelli, e seguitava
i cervi seco e le veloci damme:
e 'l diletto e la preda era commune.
85 Ma, mentre io fea rapina d'animali,
fui non so come a me stesso rapito.
A poco a poco nacque nel mio petto,
non so da qual radice,
com'erba suol che per se stessa germini,
90 un incognito affetto,
che mi fea desiare
d'esser sempre presente
a la mia bella Silvia;
e bevea da' suoi lumi
95 un'estranea dolcezza,
che lasciava nel fine
un non so che d'amaro;
sospirava sovente, e non sapeva
la cagion de' sospiri.
100 Così fui prima amante ch'intendessi
che cosa fosse Amore.
Ben me n'accorsi al fin: ed in qual modo,
ora m'ascolta, e nota.
[TIRSI] È da notare.
[AMINTA] A l'ombra d'un bel faggio Silvia e Filli
105 sedean un giorno, ed io con loro insieme,
quando un'ape ingegnosa, che, cogliendo
sen' giva il mel per que' prati fioriti,
a le guancie di Fillide volando,
a le guancie vermiglie come rosa,
110 le morse e le rimorse avidamente:
ch'a la similitudine ingannata
forse un fior le credette.
Allora Filli
cominciò lamentarsi, impaziente
de l'acuta puntura:
115 ma la mia bella Silvia disse: "Taci,
taci, non ti lagnar, Filli, perch'io
con parole d'incanti leverotti
il dolor de la picciola ferita.
A me insegnò già questo secreto
120 la saggia Aresia, e n'ebbe per mercede
quel mio corno d'avolio ornato d'oro".
Così dicendo, avvicinò le labra
de la sua bella e dolcissima bocca
a la guancia rimorsa, e con soave
125 susurro mormorò non so che versi.
Oh mirabili effetti! Sentì tosto
cessar la doglia, o fosse la virtute
di que' magici detti, o, com'io credo,
la virtù de la bocca,
130 che sana ciò che tocca.
Io, che sino a quel punto altro non volsi
che 'l soave splendor degli occhi belli,
e le dolci parole, assai più dolci
che 'l mormorar d'un lento fiumicello
135 che rompa il corso fra minuti sassi,
o che 'l garrir de l'aura infra le frondi,
allor sentii nel cor novo desire
d'appressare a la sua questa mia bocca;
e fatto non so come astuto e scaltro
140 più de l'usato (guarda quanto Amore
aguzza l'intelletto!) mi sovvenne
d'un inganno gentile, co 'l qual io
recar potessi a fine il mio talento:
ché, fingendo ch'un'ape avesse morso
145 il mio labro di sotto, incominciai
a lamentarmi di cotal maniera,
che quella medicina, che la lingua
non richiedeva, il volto richiedeva.
La semplicetta Silvia,
150 pietosa del mio male,
s'offrì di dar aita
a la finta ferita, ahi lasso, e fece
più cupa e più mortale
la mia piaga verace,
155 quando le labra sue
giunse a le labra mie.
Né l'api d'alcun fiore
coglion sì dolce il mel ch'allora io colsi
da quelle fresche rose,
160 se ben gli ardenti baci,
che spingeva il desire a inumidirsi,
raffrenò la temenza
e la vergogna, o felli
più lenti e meno audaci.
165 Ma mentre al cor scendeva
quella dolcezza mista
d'un secreto veleno,
tal diletto n'avea
che, fingendo ch'ancor non mi passasse
170 il dolor di quel morso,
fei sì ch'ella più volte
vi replicò l'incanto.
Da indi in qua andò in guisa crescendo
il desire e l'affanno impaziente
175 che, non potendo più capir nel petto,
fu forza che scoppiasse; ed una volta
che in cerchio sedevam ninfe e pastori,
e facevamo alcuni nostri giuochi,
ché ciascun ne l'orecchio del vicino
180 mormorando diceva un suo secreto,
"Silvia," le dissi "io per te ardo, e certo
morrò, se non m'aiti." A quel parlare
chinò ella il bel volto, e fuor le venne
un improviso, insolito rossore
185 che diede segno di vergogna e d'ira;
né ebbi altra risposta che un silenzio,
un silenzio turbato e pien di dure
minaccie.
Indi si tolse, e più non volle
né vedermi né udirmi.
E già tre volte
190 ha il nudo mietitor tronche le spighe,
ed altretante il verno ha scossi i boschi
de le lor verdi chiome; ed ogni cosa
tentata ho per placarla, fuor che morte.
Mi resta sol che per placarla io mora;
195 e morrò volontier, pur ch'io sia certo
ch'ella o se ne compiaccia, o se ne doglia:
né so di tai due cose qual più brami.
Ben fora la pietà premio maggiore
a la mia fede, e maggior ricompensa
200 a la mia morte; ma bramar non deggio
cosa che turbi il bel lume sereno
agli occhi cari, e affanni quel bel petto.
[TIRSI] È possibil però che, s'ella un giorno
udisse tai parole, non t'amasse?
205 [AMINTA] Non so, né 'l credo; ma fugge i miei detti
come l'aspe l'incanto.
[TIRSI] Or ti confida,
ch'a me dà il cuor di far ch'ella t'ascolti.
[AMINTA] O nulla impetrerai, o, se tu impetri
ch'io parli, io nulla impetrerò parlando.
210 [TIRSI] Perché disperi sì? [AMINTA] Giusta cagione
ho del mio disperar, che il saggio Mopso
mi predisse la mia cruda ventura,
Mopso ch'intende il parlar degli augelli
e la virtù de l'erbe e de le fonti.
215 [TIRSI] Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso
c'ha ne la lingua melate parole,
e ne le labra un amichevol ghigno,
e la fraude nel seno, ed il rasoio
tien sotto il manto? Or su, sta di bon core,
220 ché i sciaurati pronostichi infelici,
ch'ei vende a' mal accorti con quel grave
suo supercilio, non han mai effetto:
e per prova so io ciò che ti dico;
anzi da questo sol ch'ei t'ha predetto
225 mi giova di sperar felice fine
a l'amor tuo.
[AMINTA] Se sai cosa per prova,
che conforti mia speme, non tacerla.
[TIRSI] Dirolla volontieri.
Allor che prima
mia sorte mi condusse in queste selve,
230 costui conobbi, e lo stimava io tale
qual tu lo stimi; in tanto un dì mi venne
e bisogno e talento d'irne dove
siede la gran cittade in ripa al fiume,
ed a costui ne feci motto; ed egli
235 così mi disse: "Andrai ne la gran terra,
ove gli astuti e scaltri cittadini
e i cortigian malvagi molte volte
prendonsi a gabbo, e fanno brutti scherni
di noi rustici incauti; però, figlio,
240 va su l'avviso, e non t'appressar troppo
ove sian drappi colorati e d'oro,
e pennacchi e divise e foggie nove;
ma sopra tutto guarda che mal fato
o giovenil vaghezza non ti meni
245 al magazzino de le ciancie: ah fuggi,
fuggi quell'incantato alloggiamento".
"Che luogo è questo?" io chiesi; ed ei soggiunse:
"Quivi abitan le maghe, che incantando
fan traveder e traudir ciascuno.
250 Ciò che diamante sembra ed oro fino,
è vetro e rame; e quelle arche d'argento,
che stimeresti piene di tesoro,
sporte son piene di vesciche bugge.
Quivi le mura son fatte con arte,
255 che parlano e rispondono ai parlanti;
né già rispondon la parola mozza,
com'Eco suole ne le nostre selve,
ma la replican tutta intiera intiera:
con giunta anco di quel ch'altri non disse.
260 I trespidi, le tavole e le panche,
le scranne, le lettiere, le cortine,
e gli arnesi di camera e di sala
han tutti lingua e voce: e gridan sempre.
Quivi le ciancie in forma di bambine
265 vanno trescando, e se un muto v'entrasse,
un muto ciancerebbe a suo dispetto.
Ma questo è 'l minor mal che ti potesse
incontrar: tu potresti indi restarne
converso in selce, in fera, in acqua, o in foco:
270 acqua di pianto, e foco di sospiri".
Così diss'egli; ed io n'andai con questo
fallace antiveder ne la cittade;
e, come volse il Ciel benigno, a caso
passai per là dov'è 'l felice albergo.
275 Quindi uscian fuor voci canore e dolci
e di cigni e di ninfe e di sirene,
di sirene celesti; e n'uscian suoni
soavi e chiari; e tanto altro diletto,
ch'attonito godendo ed ammirando,
280 mi fermai buona pezza.
Era su l'uscio,
quasi per guardia de le cose belle,
uom d'aspetto magnanimo e robusto,
di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi
s'egli sia miglior duce o cavaliero;
285 che, con fronte benigna insieme e grave,
con regal cortesia invitò dentro,
ei grande e 'n pregio, me negletto e basso.
Oh che sentii? che vidi allora? I' vidi
celesti dee, ninfe leggiadre e belle,
290 novi Lini ed Orfei; ed oltre ancora,
senza vel, senza nube, e quale e quanta
a gl'immortali appar, vergine Aurora
sparger d'argento e d'or rugiade e raggi;
e fecondando illuminar d'intorno
295 vidi Febo, e le Muse, e fra le Muse
Elpin seder accolto; ed in quel punto
sentii me far di me stesso maggiore,
pien di nova virtù, pieno di nova
deitade, e cantai guerre ed eroi,
300 sdegnando pastoral ruvido carme.
E se ben poi (come altrui piacque) feci
ritorno a queste selve, io pur ritenni
parte di quello spirto; né già suona
la mia sampogna umil come soleva,
305 ma di voce più altera e più sonora
emula de le trombe, empie le selve.
Udimmi Mopso poscia, e con maligno
guardo mirando, affascinommi; ond'io
roco divenni, e poi gran tempo tacqui:
310 quando i pastor credean ch'io fossi stato
visto dal lupo, e 'l lupo era costui.
Questo t'ho detto, acciò che sappi quanto
il parlar di costui di fede è degno;
e déi bene sperar, sol perché ei vuole
315 che nulla speri.
[AMINTA] Piacemi d'udire
quanto mi narri.
A te dunque rimetto
la cura di mia vita.
[TIRSI] Io n'avrò cura.
Tu fra mezz'ora qui trovar ti lassa.
[CORO] O bella età de l'oro,
320 non già perché di latte
sen' corse il fiume e stillò mele il bosco;
non perché i frutti loro
dier da l'aratro intatte
le terre, e gli angui errar senz'ira o tosco;
325 non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch'ora s'accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
330 né portò peregrino
o guerra o merce agli altrui lidi il pino;
ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno,
335 quel che dal volgo insano
onor poscia fu detto,
che di nostra natura 'l feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
340 de l'amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell'alme in libertate avvezze,
ma legge aurea e felice
che natura scolpì: "S'ei piace, ei lice".
345 Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
350 vezzi e susurri, ed ai susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose,
ch'or tien nel velo ascose,
355 e le poma del seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l'amata il vago.
Tu prima, Onor, velasti
la fonte dei diletti,
360 negando l'onde a l'amorosa sete;
tu a' begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete;
tu raccogliesti in rete
365 le chiome a l'aura sparte;
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi;
ai detti il fren ponesti, ai passi l'arte;
opra è tua sola, o Onore,
370 che furto sia quel che fu don d'Amore.
E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d'Amore e di Natura donno,
tu domator de' Regi,
375 che fai tra questi chiostri,
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene, e turba il sonno
agl'illustri e potenti:
noi qui, negletta e bassa
380 turba, senza te lassa
viver ne l'uso de l'antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
385 a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Satiro solo
[SATIRO] Picciola è l'ape, e fa col picciol morso
pur gravi e pur moleste le ferite;
ma qual cosa è più picciola d'Amore,
se in ogni breve spazio entra, e s'asconde
5 in ogni breve spazio? or sotto a l'ombra
de le palpebre, or tra' minuti rivi
d'un biondo crine, or dentro le pozzette
che forma un dolce riso in bella guancia;
e pur fa tanto grandi e sì mortali
10 e così immedicabili le piaghe.
Ohimè, che tutte piaga e tutte sangue
son le viscere mie; e mille spiedi
ha ne gli occhi di Silvia il crudo Amore.
Crudel Amor, Silvia crudele ed empia
15 più che le selve! Oh come a te confassi
tal nome, e quanto vide chi te 'l pose!
Celan le selve angui, leoni ed orsi,
dentro il lor verde: e tu dentro al bel petto
nascondi odio, disdegno ed impietate,
20 fere peggior ch'angui, leoni ed orsi
ché si placano quei, questi placarsi
non possono per prego né per dono.
Ohimè, quando ti porto i fior novelli,
tu li ricusi, ritrosetta, forse
25 perché fior via più belli hai nel bel volto.
Ohimè, quando io ti porgo i vaghi pomi,
tu li rifiuti, disdegnosa, forse
perché pomi più vaghi hai nel bel seno.
Lasso, quand'io t'offrisco il dolce mele,
30 tu lo disprezzi, dispettosa, forse
perché mel via più dolce hai ne le labra.
Ma, se mia povertà non può donarti
cosa ch'in te non sia più bella e dolce,
me medesmo ti dono.
Or perché iniqua
35 scherni e abborri il dono? non son io
da disprezzar, se ben me stesso vidi
nel liquido del mar, quando l'altr'ieri
taceano i venti ed ei giacea senz'onda.
Questa mia faccia di color sanguigno,
40 queste mie spalle larghe, e queste braccia
torose e nerborute, e questo petto
setoso, e queste mie velate coscie
son di virilità, di robustezza
indicio; e, se no 'l credi, fanne prova.
45 Che vuoi tu far di questi tenerelli,
che di molle lanugine fiorite
hanno a pena le guancie? e che con arte
dispongono i capelli in ordinanza?
Femine nel sembiante e ne le forze
50 sono costoro.
Or di' ch'alcun ti segua
per le selve e pei monti, e 'ncontra gli orsi
ed incontra i cinghiai per te combatta.
Non sono io brutto, no, né tu mi sprezzi
perché sì fatto io sia, ma solamente
55 perché povero sono.
Ahi, ché le ville
seguon l'essempio de le gran cittadi!
e veramente il secol d'oro è questo,
poiché sol vince l'oro e regna l'oro.
O chiunque tu fosti, che insegnasti
60 primo a vender l'amor, sia maledetto
il tuo cener sepolto e l'ossa fredde,
e non si trovi mai pastore o ninfa
che lor dica passando: "Abbiate pace";
ma le bagni la pioggia e mova il vento,
65 e con piè immondo la greggia il calpesti
e 'l peregrin.
Tu prima svergognasti
la nobiltà d'amor; tu le sue liete
dolcezze inamaristi.
Amor venale,
amor servo de l'oro è il maggior mostro
70 ed il più abominabile e il più sozzo,
che produca la terra o 'l mar fra l'onde.
Ma perché in van mi lagno? Usa ciascuno
quell'armi che gli ha date la natura
per sua salute: il cervo adopra il corso,
75 il leone gli artigli, ed il bavoso
cinghiale il dente; e son potenza ed armi
de la donna bellezza e leggiadria;
io, perché non per mia salute adopro
la violenza, se mi fe' natura
80 atto a far violenza ed a rapire?
Sforzerò, rapirò quel che costei
mi niega, ingrata, in merto de l'amore;
che, per quanto un caprar testé mi ha detto,
ch'osservato ha suo stile, ella ha per uso
85 d'andar sovente a rinfrescarsi a un fonte;
e mostrato m'ha il loco.
Ivi io disegno
tra i cespugli appiattarmi e tra gli arbusti,
ed aspettar fin che vi venga; e, come
veggia l'occasion, correrle addosso.
90 Qual contrasto col corso o con le braccia
potrà fare una tenera fanciulla
contra me sì veloce e sì possente?
Pianga e sospiri pure, usi ogni sforzo
di pietà, di bellezza: che, s'io posso
95 questa mano ravvoglierle nel crine,
indi non partirà, ch'io pria non tinga
l'armi mie per vendetta nel suo sangue.
SCENA SECONDA
Dafne, Tirsi
[DAFNE] Tirsi, com'io t'ho detto, io m'era accorta
ch'Aminta amava Silvia; e Dio sa quanti
buoni officii n'ho fatti, e son per farli
tanto più volontier, quant'or vi aggiungi
5 le tue preghiere; ma torrei più tosto
a domar un giuvenco, un orso, un tigre,
che a domar una semplice fanciulla:
fanciulla tanto sciocca quanto bella,
che non s'avveggia ancor come sian calde
10 l'armi di sua bellezza e come acute,
ma ridendo e piangendo uccida altrui,
e l'uccida e non sappia di ferire.
[TIRSI] Ma quale è così semplice fanciulla
che, uscita da le fascie, non apprenda
15 l'arte del parer bella e del piacere,
de l'uccider piacendo, e del sapere
qual arme fera, e qual dia morte, e quale
sani e ritorni in vita? [DAFNE] Chi è 'l mastro
di cotant'arte? [TIRSI] Tu fingi, e mi tenti:
20 quel che insegna agli augelli il canto e 'l volo,
a' pesci il nuoto ed a' montoni il cozzo,
al toro usar il corno, ed al pavone
spiegar la pompa de l'occhiute piume.
[DAFNE] Come ha nome 'l gran mastro? [TIRSI] Dafne ha nome.
25 [DAFNE] Lingua bugiarda! [TIRSI] E perché? tu non sei
atta a tener mille fanciulle a scola?
Benché, per dir il ver, non han bisogno
di maestro: maestra è la natura,
ma la madre e la balia anco v'han parte.
30 [DAFNE] In somma, tu sei goffo insieme e tristo.
Ora, per dirti il ver, non mi risolvo
se Silvia è semplicetta come pare
a le parole, a gli atti.
Ier vidi un segno
che me ne mette in dubbio.
Io la trovai
35 là presso la cittade in quei gran prati
ove fra stagni giace un'isoletta,
sovra essa un lago limpido e tranquillo,
tutta pendente in atto che parea
vagheggiar se medesma, e 'nsieme insieme
40 chieder consiglio a l'acque in qual maniera
dispor dovesse in su la fronte i crini,
e sovra i crini il velo, e sovra 'l velo
i fior che tenea in grembo; e spesso spesso
or prendeva un lingustro, or una rosa,
45 e l'accostava al bel candido collo,
a le guancie vermiglie, e de' colori
fea paragone; e poi, sì come lieta
de la vittoria, lampeggiava un riso
che parea che dicesse: "Io pur vi vinco,
50 né porto voi per ornamento mio,
ma porto voi sol per vergogna vostra,
perché si veggia quanto mi cedete".
Ma, mentre ella s'ornava e vagheggiava,
rivolse gli occhi a caso, e si fu accorta
55 ch'io di lei m'era accorta, e vergognando
rizzossi tosto, e fior lasciò cadere.
In tanto io più ridea del suo rossore,
ella più s'arrossia del riso mio.
Ma, perché accolta una parte de' crini
60 e l'altra aveva sparsa, una o due volte
con gli occhi al fonte consiglier ricorse,
e si mirò quasi di furto, pure
temendo ch'io nel suo guatar guatassi;
ed incolta si vide, e si compiacque
65 perché bella si vide ancor che incolta.
Io me n'avvidi, e tacqui.
[TIRSI] Tu mi narri
quel ch'io credeva a punto.
Or non m'apposi?
[DAFNE] Ben t'apponesti; ma pur odo dire
che non erano pria le pastorelle,
70 né le ninfe sì accorte; né io tale
fui in mia fanciullezza.
Il mondo invecchia,
e invecchiando intristisce.
[TIRSI] Forse allora
non usavan sì spesso i cittadini
ne le selve e ne i campi, né sì spesso
75 le nostre forosette aveano in uso
d'andare a la cittade.
Or son mischiate
schiatte e costumi.
Ma lasciam da parte
questi discorsi; or non farai ch'un giorno
Silvia contenta sia che le ragioni
80 Aminta, o solo, o almeno in tua presenza?
[DAFNE] Non so.
Silvia è ritrosa fuor di modo.
[TIRSI] E costui rispettoso è fuor di modo.
[DAFNE] È spacciato un amante rispettoso:
consiglial pur che faccia altro mestiero,
85 poich'egli è tal.
Chi imparar vuol d'amare,
disimpari il rispetto: osi, domandi,
solleciti, importuni, al fine involi;
e se questo non basta, anco rapisca.
Or non sai tu com'è fatta la donna?
90 Fugge, e fuggendo vuol che altri la giunga;
niega, e negando vuol ch'altri si toglia;
pugna, e pugnando vuol ch'altri la vinca.
Ve', Tirsi, io parlo teco in confidenza:
non ridir ch'io ciò dica.
E sovra tutto
95 non porlo in rime.
Tu sai s'io saprei
renderti poi per versi altro che versi.
[TIRSI] Non hai cagion di sospettar ch'io dica
cosa giamai che sia contra tuo grado.
Ma ti prego, o mia Dafne, per la dolce
100 memoria di tua fresca giovanezza,
che tu m'aiti ad aitar Aminta
miserel, che si muore.
[DAFNE] Oh che gentile
scongiuro ha ritrovato questo sciocco
di rammentarmi la mia giovanezza,
105 il ben passato e la presente noia!
Ma che vuoi tu ch'io faccia? [TIRSI] A te non manca
né saper, né consiglio.
Basta sol che
ti disponga a voler.
[DAFNE] Or su, dirotti:
debbiamo in breve andare Silvia ed io
110 al fonte che s'appella di Diana,
là dove a le dolci acque fa dolce ombra
quel platano ch'invita al fresco seggio
le ninfe cacciatrici.
Ivi so certo
che tufferà le belle membra ignude.
115 [TIRSI] Ma che però? [DAFNE] Ma che però? Da poco
intenditor! s'hai senno, tanto basti.
[TIRSI] Intendo; ma non so s'egli avrà tanto
d'ardir.
[DAFNE] S'ei non l'avrà, stiasi, ed aspetti
ch'altri lui cerchi.
[TIRSI] Egli è ben tal che 'l merta.
120 [DAFNE] Ma non vogliamo noi parlar alquanto
di te medesmo? Or su, Tirsi, non vuoi
tu inamorarti? sei giovane ancora,
né passi di quattr'anni il quinto lustro,
se ben sovviemmi quando eri fanciullo;
125 vuoi viver neghittoso e senza gioia?
ché sol amando uom sa che sia diletto.
[TIRSI] I diletti di Venere non lascia
l'uom che
...
[Pagina successiva]