TUTTE LE NOVELLE, di Giovanni Verga - pagina 61
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Piuttosto gli rincresceva che Femia ci avesse a patire negli interessi, per star dove era lui.
Ei non voleva far del male ad alcuno; no davvero! Femia invece era contenta di lavorare alla filanda, lì vicino.
Che gliene importava di un boccone di più o di meno? - Già non ho altri al mondo, ve l'ho detto! - Almeno si vedevano ogni domenica, perché lei esciva dal filatoio quando era già suonata la ritirata, e ci entrava appena giorno.
Balestra progettava di affittare una stanza, dove potessero vedersi in santa pace, giacché in caserma non poteva condurla, e non era un bel divertimento star sempre a passeggiare nel Parco.
Ella non disse di no; ma lo guardava timorosa, con quell'innocenza che le era rimasta perché non aveva trovato mai un cane che la volesse.
Nel frattempo le capitò la disgrazia d'ammalarsi.
Fu un pezzo più di là che di qua, e la portarono all'ospedale di Milano.
Balestra scrisse due volte.
Poi seppe che aveva il vaiuolo.
Dopo circa due mesi Femia guarì, ma col viso tutto butterato; talché si vergognava a farsi vedere da Balestra in quello stato.
Passarono giorni e settimane prima che si decidesse a tornare al filatoio.
A poco a poco il gruzzolo di denari se n'era andato, ed era proprio necessario! Però in cuor suo era contenta che fosse necessario, perché voleva vedere cosa ne dicesse lui.
Andò a Monza un sabato, come l'altra volta, per aspettare la domenica all'albergo.
Il cuore le batteva, mentre vedeva i soldati che escivano dalla caserma a schiere di quattro o cinque.
Balestra era dei primi, e quasi non la riconosceva.
Poi disse: - Oh, poveretta, come siete ridotta! -
Andarono insieme al Parco, come al solito, discorrendo dei casi loro.
Egli stava per terminare la ferma, e aspettava il congedo.
- Ora, - disse, - me ne vado al mio paese -.
Femia domandava se avesse notizie dell'Anna Maria.
- No, da un gran pezzo - lo sapete il proverbio: lontan dagli occhi lontan dal cuore.
- Non importa, - conchiuse.
- Son contento ad ogni modo di tornarmene a casa -.
Da che non s'erano più visti, egli si era trovata un'altra amante, lì nelle vicinanze.
Femia lo vide insieme a lei qualche giorno dopo, che camminavano a braccetto pel viale.
Balestra era stato zitto.
Quando Femia gliene parlò la prima volta, gli venne un risolino furbo, fra pelle e pelle, sotto il naso a trombetta.
- Ah, la Giulia? come lo sapete? -
Ella glielo disse.
Balestra voleva sapere pure che gliene sembrava.
- E così - conchiuse Femia, - se partite, lasciate anche lei?
- Già, non posso mica tirarmi dietro tutti quelli che vorrei.
A questo mondo, si sa!...
Ma ancora non le ho detto nulla -.
Femia andava a cercarlo, ogni volta che poteva, timidamente, per chiedergli se gli occorresse qualche cosa.
Lui, grazie, non gli occorreva nulla.
Quando si vedevano parlavano anche della Giulia e del congedo che non arrivava, e del poco lavoro che ci era al filatoio.
Poi Balestra scappava per correre dall'altra, la quale era gelosa.
Guai se lo sapesse! Questa era la sola carezza che toccasse a Femia: - guai se Giulia sapesse! -
Infine venne il giorno della partenza.
Femia almeno desiderava accompagnarlo alla stazione, se si poteva...
- Perché no? - disse Balestra.
- Ormai, quell'altra...
me ne vado via! - Del resto se pure la vedeva, si capiva che erano butteri venuti dopo, come può capitare a tutti, ed egli non l'aveva presa con quella faccia.
Discorrevano sotto la tettoia, aspettando il treno, Balestra guardando di qua e di là se spuntava la Giulia.
- Ma si sa, a questo mondo!...
Specie ora che la Giulia era certa di non vederlo più.
- Inoltre si erano un po' guastati perché lei aspettava che Balestra le lasciasse un regaluccio.
Femia ci pensava, e non osava dirgli che gli aveva comperato apposta un anellino colla pietra.
Balestra intanto accennava che Anna Maria, dopo tanto tempo, chissà?...
Femia domandava da che parte fosse il suo paese, e quando contava d'arrivare.
In questa sopraggiunse il treno, sbuffando.
Balestra raccattò in fretta le sue robe, zaino, sacco, cappotto.
- Doveva tenerli di conto pel debito di massa.
- Intanto ella facendosi rossa gli aveva cacciato in mano l'anello messo nella carta.
Egli non ebbe il tempo di domandare cosa fosse, né perché avesse gli occhi pieni di lagrime.
- Partenza! partenza! - gridava il conduttore.
L'OSTERIA DEI "BUONI AMICI"
La prima volta che agguantarono Tonino in questura, un sabato grasso, fu per via di quelle donne di San Vittorello, che l'Orbo l'aveva strascinato a far baldoria coi denari della settimana.
Per fortuna non gli trovarono addosso la grossa chiave colla quale aveva mezzo accoppato il Magnocchi, merciaio.
Erano stati a mangiare e a bere all'osteria dei "Buoni Amici", lì in San Calimero, e l'Orbo aveva raccattato pure il Basletta e Marco il Nano - pagava Tonino.
Dopo, pettoruto per la spesa che aveva fatto, disse: - S'ha da andare al Carcano? - che c'era veglione quella sera.
Ma subito rientrato in sé si pentì della scappata, e contava nella tasca adagio adagio i soldi che gli restavano.
Gli altri lo sbeffeggiavano.
- Hai paura della mamma, neh? o della Barberina che ti tratta a sculacciate, come un bambino? - Già se loro andavano al veglione il biglietto lo pagavano a spintoni, tutti e tre ragazzi che gli bastava l'animo di passare sotto il naso delle guardie col mozzicone in bocca.
E lì in teatro brancicamenti e pizzicotti alle mascherine, che non cercavano altro, tanto che il Nano e Basletta escirono a cazzotti, nel tempo che Tonino aveva condotto a bere una Selvaggia, la quale leticava coi cappelloni ogni volta, a motivo di quel gonnellino di piume che sventolava come una bandiera.
Al caffè, coi gomiti sul tavolino, si erano dette delle sciocchezze, e la Selvaggia ci rideva su, col petto che gli saltava fuori, dall'allegria.
Tonino gli avrebbe pagata mezza la bottega, sinché ne aveva in tasca, tanto erano ladri quegli occhi tinti col carbone, e quel fiore di pezza nei capelli, che gli avevano fatto come un'imbriacatura.
E gli proponeva questo, e gli proponeva quell'altro, come uno che se ne intendeva ed era del mestiere, tavoleggiante al caffè della Rosa, lì a San Celso.
L'Orbo, accorso all'odor del trattamento, andava dicendo che Tonino era figlio della prima erbaiuola del Verziere, e poteva spendere.
Ma la ragazza voleva tornare a ballare, to'! Era venuta pel veglione.
Poi non aveva più sete; grazie tante; un'altra volta.
Tonino più s'accendeva: - Ancora un valzer, bellezza! - E ci si metteva tutto, col suo bel garbo di giovane di caffè, pettinato a ricciolini, dimenando il busto, le gambe che s'intrecciavano a quelle di lei, e sotto il naso quel petto che gli infarinava il vestito.
- Mi lasci andare, caro lei, in parola d'onore.
Ci ho lì il mio ballerino che mi ha pagato il costume, quel turco che fa gli occhiacci.
Se vuol venire a trovarmi sa dove sto di casa, a San Vittorello; cerchi dell'Assunta -.
Tonino, rosso come un gallo, gli avrebbe mangiato il naso a quel turco, anima sacchetta! L'Orbo, che gli stava alle costole non avendo altro da fare, lo calmava così:
- Finiscila, e andiamo a bere -.
Là fuori aspettavano Marco il Nano e Basletta, masticando un mozzicone di sigaro, e colle mani in tasca.
Per scaldarsi andarono insieme dal Gaina.
Tonino, che gli bruciava il sangue dal bere e dalla gelosia, ed anche di quel che gli dicevano che stesse sotto le gonnelle di sua sorella, sbraitava che voleva fare uno sproposito, porca l'oca! Voleva andare ad aspettare l'Assunta in barba al turco, proprio sulla sua porta, a San Vittorello! E gli altri, Marco il Nano e Basletta, a ridergli sul naso.
Lui, per mostrare che era in sensi, non l'avrebbero tenuto in quattro.
- Lascia andare, via! A quest'ora non ci aprono più ti dico.
Piuttosto andiamo dal Malacarne che ha il valpolicella buono! - Tonino, buon figliuolo, da un momento all'altro, dimenticava ogni cosa e si lasciava condurre dove volevano, allegro come un pesce, sgolandosi a cantare la Mariettina, e come incontravano delle maschere gli gridavano dietro delle porcherie.
Il Nano che aveva il vino donnaiuolo, tornò al discorso dell'Assunta, un bel tocco di ragazza, per bacco, con quel vestito da selvaggia! E allora Tonino s'infuriava coi compagni che non lo lasciavano andare dove gli pareva e piaceva, e lo tenevano davvero per un ragazzo! Così leticando, e colla lingua grossa, avevano fatto senza accorgersene il Corso di San Celso e via Maddalena, che Tonino alla cantonata si mise a correre per via San Vittorello, e voleva che gli aprissero a ogni costo, giacché di sopra c'era ancora il lume.
Le donne al sentire i sassi alle finestre e i calci con cui picchiavano alla porta, si misero a gridare come se venissero ad accopparle, e non per altro.
Magnocchi il quale era ancora di sopra coi compagni, scese in istrada.
- Cosa venivano a cercare? Volevano un salasso pel vino che avevano in corpo? - Te lo darò io il salasso, barabba! -
Nel parapiglia si udì gridare: - Ahi! m'ammazzano! - E l'Orbo fu appena in tempo di buttar via la chiave con cui Tonino aveva rotto il capo a quell'altro, che il ragazzo, pallido come un morto, non sapeva da che parte scappare, e già si udivano gli stivali delle guardie.
Ai parenti andarono a dirglielo il giorno dopo, mentre la sora Gnesa disfaceva il banco, e la Barberina, fuori la baracca, guardava inquieta di qua e di là se spuntasse il fratello, perché il padrone del caffè l'aveva mandato a cercare.
Fu l'Adele, la ragazza del barbiere che era venuta a vedere se ci avessero ancora due soldi di ravanelli rossi, per dopo tavola, e l'aveva sentita in bottega.
- Hanno ammazzato quel che vende i nastri in via San Vittorello, e Tonino era nella rissa -.
Per fortuna il Magnocchi non era morto; ma le donne, madre e figlia, si misero a strillare che Tonino li aveva precipitati.
In un momento tutto il Verziere fu in rivoluzione.
Barberina afferrò in mano le sottane, e via a chiamare il babbo, che solennizzava la domenica grassa dall'Ambrogio, il primogenito, il quale teneva pizzicheria in via della Signora.
- Hanno arrestato Tonino in via San Vittorello! - Il sor Mattia, ancora male in gambe, prese il cappello per correre a San Fedele, e Ambrogio anche lui, scongiurando la sorella di chetarsi, per non rovinargli il negozio.
In Questura li accolsero come cani, padre e figlio.
Li lasciavano lì, sulla panchetta, senza che nessuno gli badasse, a far perdere tempo al pizzicagnolo, quella giornata, col cappello fra le mani.
Il maresciallo che lo conosceva, gli disse burbero: - Torni domattina.
Ha un bell'arnese di fratello, sa! -
Poi Tonino escì a libertà, col cappelluccio sulle ventitré.
Alla sora Gnesa che piagnucolava e brontolava, rimbeccò: - Orsù! finitela, mamma! Che son stufo, veh! -
E accese la pipetta.
La Barberina invece non voleva finirla.
Gli strillava che era un boia, e loro marcivano sotto la tenda in Verziere per mantener il signorino in prigione e pagargli i vizi.
Tanto che il fratello voleva darle due ceffoni, e fregarle quella sua faccia di pettegola colla sua stessa insalata, fregarle! In quella arrivò il babbo, e si rimise la pipa in tasca, mogio mogio.
- Brigante! - cominciò il sor Mattia.
- Cattivo arnese! non vedi come si lavora noi, tua mamma, tua sorella e Ambrogio? Ti pare che abbiamo a mantenere i tuoi vizi? Prima che ti accoppino gli sbirri voglio strozzarti colle mie mani piuttosto! Voglio romperti le ossa!
- Ohè! - sclamava Tonino pallido come un cencio, e schermendosi coi gomiti.
- Ohè! non giocate colle mani, babbo! non giocate! -
La sora Gnesa strillava peggio di un oca, e la Barberina faceva accorrere tutto il Verziere.
Il babbo diceva le sue ragioni a tutti.
Per dargli uno stato aveva messo Tonino cameriere al caffè della Rosa, uno dei primi, e il padrone era suo amico.
Quando si fosse impratichito si poteva aprir bottega anche loro; Ambrogio pizzicagnolo, le donne erbaiuole, lui al banco, tutta un'architettura che faceva rovinare quello scapestrato! Il sor Mattia soffocava dalla bile.
Per non lasciarsi andare a qualche sproposito se ne tornò in via della Signora.
Ambrogio corse a trovare il padrone del caffè, pregandolo di ripigliare Tonino, che era pentito e prometteva di far giudizio.
- Caro lei, è impossibile.
Nel mio mestiere è un affare serio.
Ora che in questura hanno preso gusto a vostro fratello, non mi piace di vedermi quelle facce tutto il giorno in bottega, che vengono a cercarmelo in cucina e dietro il banco.
Ci va del mio negozio.
Voi lo pigliereste? -
Ambrogio non voleva che suo fratello bazzicasse neppure nella sua bottega, dacché un questurino gli aveva battuto sulla spalla come a un vecchio amico.
Le donne, il babbo e tutti si sfogavano allora sul malcapitato, buono a nulla, che restava di peso alla famiglia, e nessuno lo voleva.
- Ero buono soltanto quando portavo a casa i denari delle mance! - brontolava il ragazzone, che gli facevano mancare quel che si dice il bisognevole, e lo tenevano in casa come un pitocco.
Un giorno che Basletta lo incontrò a girandolare fra i banchi del mercato esclamò:
- Tò! Sei qui? È un pezzo che non ti si vede.
Mi paghi da bere? -
Tonino rispose che non aveva soldi.
I suoi di casa gli avevano fatte delle scene per quella storia di San Vittorello.
Basletta, come passavano vicino alla baracca della sora Gnesa, adocchiò la Barberina che ammazzolava delle rape, colle belle braccia rosse, nude sino al gomito.
- Finiscila! - borbottò Tonino.
- Non mi piacciono gli scherzi a mia sorella.
-
- Guarda! adesso che sei stato in tribunale ti sei fatto permaloso! Non te la mangio mica tua sorella! Bel modo di accogliere la gente! -
Voleva condurlo a salutar gli amici, cent'anni che non lo vedevano.
Tonino, nicchiava.
- Bestia! pel conto che fanno di te i tuoi parenti! Piantali, via -.
Ai Buoni Amici trovarono l'Orbo, che voleva salutar Tonino anche lui, e giuocava a briscola in un cantuccio con dei carrettieri.
Al Verziere non ci veniva più, perché la sora Gnesa lo accusava di guastargli il figliuolo, e Barberina gli faceva delle partacce.
- Un gendarme, quella ragazza! - Poi dissero che volevano andare a cercare il Nano, il quale aveva disertato dai Buoni Amici dacché l'oste non gli faceva più credito.
Prima di scovare dove avesse dato fondo il Nano dovettero girare mezza dozzina d'osterie.
Marco adesso era come un uccello sul ramo, dacché aveva piantato i Buoni Amici.
L'Orbo, che aveva vinto a briscola, pagò due volte da bere.
Poi col Nano si abbracciarono e baciarono come se uscissero tutti di prigione; e stavolta pagò il Nano.
- Voi altri, - conchiuse, - vi fate ancora rubare i quattrini da quel dei Buoni Amici.
- Belli, quelli amici! Tutte guardie travestite, la sera! -
Sicché, per farla corta, escirono in istrada ch'era acceso il gas, e Basletta doveva ancora andare a fare la mezza giornata del lunedì col principale, che l'aspettava in via dei Bigli, - c'era da mettere dei tappeti, prima di sera, che arrivavano i padroni! - Orbè! - rispose il Nano.
- Arriveranno senza tappeti, e il principale aspetterà.
Io ho piantato il mio, e piglio lavoro in casa, quando capita, da ebanista.
È che ci vogliono capitali.
Ma intendo lavorare a modo mio -.
L'Orbo non gliene importava, perché s'era guadagnata la giornata a briscola.
Egli non aveva mestiere fisso.
Faceva di tutto, facchino, tosatore di cani, stalliere, sensale.
Guadagnava dippiù, ed era libero come l'aria.
- Viva la libertà! - esclamò Basletta.
- Quando verrà la repubblica non ci saranno più né giovani né principali -.
E tutti e quattro andavano ciondolando sul bastione, cantando a squarciagola, e giuocando a spintoni verso il fossato.
Prima d'arrivare a Porta Romana videro luccicare nel buio le placche dei carabinieri.
Risposero che tornavano dal lavoro.
Tonino allora salutò la compagnia.
- Torna a casa, va, ragazzo! Se no la Barberina ti dà le sculacciate! - gli gridavano dietro.
- Dacché è stato a San Fedele quel ragazzo è diventato un pulcino bagnato, - disse l'Orbo.
Ma ei non dava retta.
All'Orbo, che lo stuzzicava più davvicino, gli diede una gomitata che quasi lo faceva ruzzolare nel fossato.
In casa aiutava al negozio delle donne.
Si alzava di notte, per scaricare i carri degli ortolani, rizzava il banco, accendeva il caldaro per le bruciate.
Più tardi scambiava delle barzellette coi banchi vicini, giuocava di mano colle servotte, pispolava alle ragazze che passavano.
Poi sbadigliava e si stirava le braccia.
Ogni giorno leticava colla sorella che gli lesinava il soldo per la pipa.
- Gli serve per quelle donnacce di via Pantano, che gli fanno pissi pissi dietro le persiane! - borbottava la Barberina.
Ella non avrebbe dato un cavolo a credenza neppure al sor Domenico, il vinaio lì sulla cantonata, che era un uomo stagionato e facoltoso, e doveva sposarla.
Tutta intenta al suo negozio, quella ragazza! Il sor Domenico stesso, alle volte, si muoveva a compassione del ragazzaccio, e gli dava il soldo ridendo.
Tonino, rosso come un pomodoro, lo prendeva perché dovevano essere cognati; ma gli cuoceva dentro, perbacco!
- Lavora! - gli rinfacciava il sor Mattia.
- Fa quello che facciamo noi, poltronaccio! - E non si sarebbe mosso per cento lire dal suo posto, accanto al banco del pizzicagnolo, colle mani in croce sul bastone.
Gli amici, ogni volta che incontravano Tonino, gli dicevano:
- O scioccone! non vedi che ti tengono peggio di un cane? Fossi in te li pianterei, loro e il pane che ti fanno sudare -.
L'Orbo aggiungeva che lui non voleva mischiarcisi, perché la Barberina minacciava di cavargli gli occhi, se lo vedeva bazzicare con suo fratello.
- Un accidente, quella ragazza! - Ora lui cercava di vivere in pace e avere il suo pane assicurato.
S'era messo a fare il facchino in una drogheria.
Un buon impiego, niente da fare, e qualcosa spesso da mettersi in tasca.
Tonino giurava che a lui gli bastava l'animo di pestargli il muso come i gatti, a sua sorella.
Volevano vedere?
Ai Buoni Amici era una vergogna dovere accettare sempre le gentilezze degli altri; o se facevano un litro alla mora, e gli toccava pagarlo, esser costretto a segnarlo sul muro, col carbone.
Gli davano a credenza perché sapevano di chi era figlio, e che in fin dei conti avrebbe pagato.
Inoltre s'ingegnava con le carte da giuoco, a briscola o a zecchinetta, talché alle volte andava a finire a pugni e a calci, e l'oste li cacciava tutti fuori, per non compromettere l'osteria.
Già i questurini la tenevano d'occhio, a motivo di quelle facce che vi bazzicavano, e ogni volta che c'era da fare una retata per primo mettevano le mani ai Buoni Amici.
Aveva ragione il Nano di dire che quel posto era peggio del bosco della Merlata.
Non si era mai sicuri d'andare a dormire nel suo letto, quando si passava la sera in quella bettola.
Ma egli stesso vi era tornato per la malinconia di non poterne fare a meno.
Là si radunavano l'Orbo, Basletta, ed altri amici dello stesso fare, che alle volte conducevano pure delle donne, e si stava allegri, mondo birbone!
A trovare il Basletta veniva spesso Lippa, una bruna alta appena così, ma col diavolo in corpo, e dicevano che doveva sposarla in estremis.
Basletta brontolava quando lo chiappava a cena; ma ella gli ficcava le mani nel piatto senza domandare il permesso, e come non bastasse, alle volte, si tirava dietro anche la Bionda, magra e allampanata, che ci volevano gli spintoni per risolverla ad entrare, e si mangiava i piatti cogli occhi.
Tonino stesso, per compassione, una volta l'aveva invitata, e così s'era fatta la conoscenza.
Dopo venivano fuori a passeggiare all'aria aperta sul bastione.
- Mia sorella non vuol capirla che alla mia età ho bisogno di denari anch'io! - brontolava fra di sé.
- Gli par che tutti non abbiano altro in mente fuori del negozio, come il suo vinaio.
- E tu ingégnati! - gli rispose l'Orbo.
Marco il Nano in quei giorni aveva fatto un negozio, che arrivava sempre colle tasche piene, e gli altri ne parlavano sottovoce fra di loro.
Le guardie di questura quando venivano a fiutare il vento, e vedevano che cambiavano discorso, o tacevano subito, battevano sulla spalla di Tonino, e gli ripetevano: - Bada bene, che ci torni a San Fedele! -
La Bionda, se leticavano sul bastione, perché Tonino era geloso, gli diceva colla faccia pallida: - Hai ragione, tò! ma io sono una povera ragazza, e bisogna che m'aiuti! - Lui si struggeva sentendosela spiattellare in faccia, con quella voce calma, e quegli occhi grigi che lo guardavano tranquillamente sotto il lampione.
Spesso erano insieme, lui, l'Orbo e Marco il Nano colla Bionda, briachi tutti e quattro, che ogni volta allungavano le manacce Tonino avrebbe fatto un omicidio.
E poi da solo ruminava ciò che gli rinfacciava la Barberina, che bisognava prima d'ogni altro ingegnarsi.
E s'ingegnò davvero.
La Barberina non sapeva che dovesse ingegnarsi appunto col suo cassetto, una notte che tutti dormivano in bottega, e che si era messo a lavorare attorno al banco con un chiodo storto in punta.
Fatto il tiro spalancò l'uscio, e si mise a gridare al ladro, come se la Barberina fosse donna da lasciarsi infinocchiare.
Ma essa lo abbrancò pel collo, in camicia com'era, e voleva mandarlo in galera senza dar retta a lui che giurava e spergiurava, colle mani in croce, di non saper nulla.
Accorsero la mamma, Ambrogio e il sor Mattia, a fargli vomitare il morto, e così lo cacciarono via nudo e crudo, che la Bionda, quando lo vide arrivare con quella faccia, non ebbe il coraggio di chiudergli l'uscio sul naso.
L'Orbo, che era diventato amico di casa, gli predicava: - Se vuoi vivere alle spalle di quella povera ragazza, sei un maiale ve'! -
Lei pure gli seccava d'averlo sempre attaccato alle sottane, che non gli lasciava mezz'ora di libertà colla sua gelosia; e lo mandava a lavorare.
Egli sospettava che fosse per godersela insieme all'Orbo.
- Ti giuro che voglio bene soltanto a te! - rispondeva lei.
- Ma che vuoi farci? Non son mica una signora! -
E lui se ne andava, col cuore stretto in un pugno.
Un bel giorno arrestarono il Nano e Basletta, per un furto di certi pacchi di candele nella drogheria dov'era l'Orbo, e Tonino pure, col pretesto che l'avevano trovato sul canto di via Armorari a far la guardia.
Lui e il suo avvocato giuravano che era a far tutt'altro, e ci si trovava per una sua occorrenza.
Ma fu inutile: lo condannarono alla prigione.
Nel carcere però correva voce che la Bionda s'era messa coll'Orbo, e aveva fatto la spia per levarsi Tonino di fra i piedi, e papparsi le tre lire della denuncia.
Tonino non voleva crederci; eppure il babbo, la mamma, suo fratello Ambrogio, persino la Barberina, erano venuti a visitarlo in carcere, rinfacciandogli che glielo avevano predetto.
- Ma tant'è, erano venuti! E lui piangeva e si sentiva alleggerire il cuore.
- Ma la Bionda no!
Dicevano che avevano visto l'Orbo coi panni di Tonino, una giacchetta a scacchi, che era ancora nel cassettone della Bionda, quando l'avevano arrestato.
GELOSIA
Il Bobbia disse fra di sé: - Voglio vedere se è vero, o no! - E si mise in agguato sul canto di San Damiano.
Crescioni stava là di faccia: c'era il lume alla finestra.
Verso le nove, come gli avevano detto, eccoti la Carlotta che passava il ponte, colle sottane in mano, e infilava la porta di Crescioni.
Vi andava proprio in gala, quella sfacciata! Allora - sangue di Diana!...
In quattro salti la raggiunse in cima al pianerottolo, ché lei volava su per le scale; e Crescioni se li vide capitar dentro in mazzo, Carlotta e il suo uomo, acciuffati pei capelli.
Successe un terremoto! Lui a scansar le bòtte; il Bobbia, colla schiuma alla bocca, che aveva tirato fuori di tasca qualche accidente; la Carlotta poi strillava per tutti e tre.
Crescioni, svelto, ti agguanta la coperta del letto, già bello e preparato, e te l'insacca sul Bobbia, che se no, guai! Il sor Gostino, un pezzo d'uomo che avrebbe potuto fare il portinaio in un palazzo, menava giù nel mucchio, col manico della scopa, per chetarli.
Accorsero le guardie e li condussero in questura.
Là, colle ossa peste, cominciarono a ragionare.
Carlotta sbraitava che non era vero niente, in coscienza sua! Ma con quell'omaccio non voleva più starci, ora che l'aveva sospettata! Tanto non erano marito e moglie.
- Se non siete marito e moglie...
- disse il Delegato.
- Dopo cinque mesi che si stava insieme come se lo fossimo! - rinfacciava il Bobbia.
- Cosa gli è mancato in cinque mesi, dica, sor Delegato? E vestiti, e stivaletti, e scampagnate, le feste e le domeniche! Allora avrei dovuto aprire gli occhi, quando si perdeva nei boschetti a Gorla, con questo e con quello, sotto pretesto di cogliere i pamporcini.
E lasciavo fare come fossimo marito e moglie!
- Io non ne sapevo nulla! - borbottò Crescioni, asciugandosi il sangue dal naso.
- Giacché non ne sapeva nulla, stia tranquillo che non pretendo restare a carico suo, se non mi vuole! - strillò Carlotta, inviperita nel passare in rassegna gli strappi del vestito nuovo.
Il sor Gostino, testimonio, metteva buone parole.
- Via, non è nulla! Dev'essere un malinteso -.
Ma il Bobbia s'era cacciato per forza in casa altrui, a fare il prepotente; e fu miracolo a cavarsela con un po' di carcere.
- Tanto, non era vostra moglie! - profferì il Delegato.
E il Bobbia rispose:
- Per me gliela lascio volentieri, quella gioia! Oramai ne sono stufo -.
L'amante si grattava il capo.
Però Carlotta gli buttò le braccia al collo, dinanzi al sor Delegato, e gli giurò che d'ora innanzi voleva esser sua o di nessun altro.
Il sor Gostino l'aiutò a portar la roba dal Crescioni; ma intanto andava predicando che bisognava far la pace col Bobbia, appena usciva di prigione; se no, un giorno o l'altro, andava a finir male.
- Col Crescioni? - gridò poi il Bobbia.
- Con quel traditore che mi faceva l'amico?...
- Bè! ora che s'è presa la Carlotta! Faccia conto che siano marito e moglie, e il torto glielo abbia fatto lei pel primo -.
Con questi discorsi non la finivano più, passo passo, dall'osteria di San Damiano alla porta del sor Gostino, sino a dopo mezzanotte, ciangottando colla lingua grossa.
Una sera incontrarono la Carlotta a braccetto del Crescioni, e leticavano nel buio.
Un'altra volta il Bobbia la vide che comprava della verdura dinanzi alla porta, e frugava nel carro dell'ortolano, colle braccia nude e spettinata.
Talché pareva che gli fosse rimasto attaccato il cuore da quelle parti.
Quando incontrava il Crescioni, aggobbito, colla barba di otto giorni che gli faceva il viso d'ammalato, si fregava le mani.
- Ci vuol altro che quel biondino per la Carlotta, ci vuole!
- Ogni giorno e' sono liti e bòtte da orbi, - narrava il sor Gostino.
- Ieri ancora la è scappata nel mio casotto seminuda, ché il Crescioni voleva accopparla.
Dice che lo fa per levarsela dattorno -.
La vigilia di Natale, come Dio volle, riescì a farli bere insieme.
- Volete incominciare l'anno nuovo colla ruggine in corpo? - La Carlotta stava sulla sua, in fronzoli, e arricciando il naso a ogni bicchiere, perché c'era il Bobbia presente.
Carina, con quella frangia di capelli sul naso! Ma Crescioni aveva il vino cattivo, stava ingrugnato, colle spalle al muro, e tossiva di malumore.
- Gli avete portato via l'amante, al Bobbia! O cosa volete d'altro? - gli sussurrò all'orecchio il sor Gostino.
Il Bobbia, invece, si sentiva tutto rammollire, e pagava una bottiglia dopo l'altra, senza batter ciglio.
- Mi rammento - disse alla Carlotta nell'orecchio, - mi rammento quando siamo andati insieme a casa mia, la prima volta -.
E Crescioni, con tanto d'occhiacci, cavò fuori il mento dalla sciarpa.
Poi la comitiva andò via insieme.
Crescioni avanti, colle mani in tasca e annuvolato.
Aprì lo sportello e fece passare prima la Carlotta, borbottando:
- Sto a vedere che mi vuoi fare col Bobbia quel servizio che gli ho fatto io! -
Il sor Gostino sogghignava pensando: - Questa notte la mi capita in camicia di certo -.
Al Bobbia raccontava in confidenza come la Carlotta gli piacesse anche a lui, per quel suo fare allegro.
- Senza ombra di malizia, veh! - Fortuna che sua moglie stava sempre al primo piano, dal padrone, il quale non gliela lasciava un minuto solo.
Se no, gelosa com'era, guai! - Il sor Gostino aveva una paura maledetta della sora Bettina, che l'aveva sposato e innalzato a portinaio perché da quarant'anni lei era tutta una cosa col padrone.
Tanto che costui, quando leticavano fra marito e moglie, e si udivano nella corte gli improperi e le parolacce della sora Bettina, si affacciava al balcone, in pantofole, e strillava colla voce catarrosa: - Ohè, Gostino! Cosa l'è sta storia? -
Ma torniamo agli altri due.
Crescioni voleva sposare la Carlotta sul serio, perché essa gli andava dicendo che stavolta era proprio necessario.
- Almeno, - pensava lui, - sarò certo che il bambino è roba mia! -
Il sor Gostino strizzava l'occhio furbo: - E se cercate un padrino, ve l'ho già bello e trovato!
- Che discorsi! - gridava la sora Carlotta tentando di arrossire.
Il Bobbia era arrabbiato come un cane.
Da un pezzo non la vedeva; e la Gigia, tabaccaia, dopo averlo menato pel naso una settimana o due, gli aveva risposto picche, sulla guancia.
- Ah! di lui non voleva più saperne, la sora Carlotta, onde farsi sposare dal Crescioni? - Si sentiva la febbre addosso ogni volta che la vedeva, dal bugigattolo del sor Gostino, a menar la tromba, dimenando i fianchi, o a portar su l'acqua, colla pancia in fuori.
- Mi lasci andare ad aiutarla, sor Gostino.
No, non ho più sete.
Il resto lo beva lei per amor mio -.
Ma la Carlotta scappava via appena lo vedeva.
- Andatevene! C'è lui in casa.
Poi, tutto è finito fra di noi -.
Avrebbe voluto batterla e afferrarla per quella collottola grassa che gli faceva bollire il sangue.
- Ah! tu c'ingrassi con quel tisico! tu vuoi farmi morir tisico come lui! Che son fatto di stucco, ti pare?...
- Dovevate pensarci prima.
To', questa vi calmerà i bollori -.
E Bobbia se ne andava scuotendo l'acqua dal vestito e bestemmiando.
Si fece il matrimonio.
Nacque un bambino, due mesi prima del solito, e fu una femmina.
Crescioni era sulle furie, perché almeno avrebbe voluto un maschio, e non dover pensare alla dote e a tante altre seccature.
- Quanto a ciò non si dia pena per sua figlia - lo confortava il sor Gostino - la farà come sua madre -.
Sua madre aveva fatto quello che sapevano tutti.
S'era lasciata prendere dalle belle parole di un signorino, e dopo era scappata via di casa, per nascondere il marrone, accorgendosi che la mamma le ficcava gli occhi addosso senza dir nulla, e si sentiva salire le fiamme al viso.
Fu un sabato grasso; giusto la Luisina era andata ad impegnare roba per fare il carnevale, e disse alla figliuola: - Cos'hai che non mangi? - con cert'occhi! Il giorno dopo trovarono l'uscio aperto; e il babbo, poveraccio, s'era dato al bere dal crepacuore.
Che colpa ne aveva lei? Da fanciulletta era andata attorno per le strade e nei caffè, vendendo paralumi.
- Come chi dicesse andare a scuola per apprendere il mestiere.
- Poi la miseria, l'uggia di tornare a casa colla mercanzia tale e quale, via della Commenda, ch'era tutta una pozzanghera, la tentazione delle vetrine, i discorsi dei monelli, le paroline degli avventori che contrattavano soltanto...
Insomma, era destinata!
Allorché il suo amante l'aveva piantata in via San Vincenzino, con quattro cenci nel baule e diciassette lire in tasca, era stata costretta a mettersi col Bobbia, il quale la teneva allegra, quando ne aveva da spendere, e la picchiava dopo, per via della bolletta.
Crescioni, invece, non beveva, non bestemmiava, ed era sempre malinconico pensando alla sua poca salute.
Ella era andata da lui a sfogarsi dei cattivi trattamenti, e poi c'era rimasta pel piacer suo.
Quel giovanotto era preciso come lo voleva lei.
Egli predicava: - Vieni di sera.
- Vieni di nascosto.
- Bada che lui non se ne accorga! - Tale e quale a un ragazzo pauroso dell'ombra sua.
Sicché quando il Bobbia capitò a fare quel baccano, Carlotta non gliela perdonò mai più.
Infine, cos'era stato? Suo padre stesso, quand'era scappata via di casa, non aveva fatto tanto chiasso.
Eppure il danno era più grosso! - Per quel Crescioni, poi, ch'era quasi un ragazzo! - Sentite! - finiva lo sfogo col sor Gostino.
- Fosse stato geloso di voi, o di qualche altro pezzo d'uomo, pazienza! Ma del Crescioni?...
Veh! Tutta una birbonata del Bobbia per avere il pretesto di piantarmi...
-
Il sor Gostino si fregava le mani.
Non che ci avesse pel capo certe idee!...
Poi con quell'accidente di sua moglie sempre sulla testa, alla finestra del padrone!...
Perciò aveva preso l'abitudine di spazzar la scala sino in cima, allo scopo di non dar nell'occhio.
- O che non leticate più con vostro marito? È un pezzetto che non vi vedo arrivare in sottanina -.
Appoggiava la scopa contro l'uscio, e si fregava le mani un'altra volta.
- No! Stia cheto con le mani! Adesso è finito il tempo delle sciocchezze!
- Non sono sciocchezze, sora Carlotta! Sembro un Sansone, direte.
Ma non è vero! Pel cuore sono un ragazzo.
E sempre disgraziato, veh! Perfino mia moglie, è otto giorni che non la vedo, dacché il padrone è a letto.
Anche lei, povera sora Carlotta, le si vede in faccia; suo marito la lascia per correre chissà dove! O pensa tuttora al Bobbia?
- A me non me ne importa.
E poi non è vero niente -.
Il sor Gostino stava a guardare mentre ella aveva la bambina al petto, grattandosi la barba.
- Non gliene importa?...
Dica un po'!...
E quella bambina che lui dice che è figlia sua? -
Carlotta faceva una spalluccia.
Il sor Gostino si metteva a ridere anche lui, e ripigliava la scopa, ciondolando per un pezzo prima di decidersi ad andare; oppure si chinava a fare il discorsetto alla bimba, accarezzandola sul seno della mamma colle manacce sudice.
- In coscienza, non somiglia a nessuno di loro due -.
Crescioni era geloso della bambina, che veniva su bionda e color di rosa.
- Se ti vedo ancora dattorno il Bobbia - le diceva - ti fo come la donna tagliata a pezzi! -
E si faceva brutto che non pareva vero, con quella faccia dabbene di tisico.
Non che fosse geloso della Carlotta, - ormai l'aveva sempre là, davanti agli occhi, sciatta, spettinata, colla figlia al petto.
Per altro non gliene importava più dell'amore.
Era malato, e aveva altro per il capo.
Ma tant'è, poiché era stato lui a sposarla! E ci aveva sciupati i denari e la salute.
Il principale gli riduceva il salario di un terzo, adesso che non era più in gamba come prima.
E se non era in gamba e non aveva denari, lo sapeva di che cosa era capace la Carlotta! Perfino di viziargli la figliuola, a suo tempo.
La malattia gli aveva sconvolta la testa, e gli sembrava di veder la ragazza, già grandicella, lasciarsi baciare da questo e da quello, come sua madre.
Perciò arrivava a leticare colla moglie se accarezzava la bambina quasi fosse cosa sua.
Anche il sor Gostino con quell'aria di minchione...
Insomma, non ce lo voleva più a bazzicare in casa sua! - Oh Dio, quel povero diavolo! - esclamava la Carlotta.
Ma lui, testardo, non si muoveva di casa la domenica a far la guardia, se udiva la scopa per le scale, seduto accanto alla finestra, torvo, col naso nella sciarpa e le mani in tasca, senza dir nulla.
Poi, ogni volta che tossiva, saettava delle occhiatacce sulla moglie, e se la bambina strillava, era una casa del diavolo.
- Non toccare mia figlia, o per la Madonna!...
Lascia stare d'insegnarle le tue moine piuttosto! -
I dispiaceri gli minavano la salute, diceva.
A poco a poco anche il principale si stancò, e Crescioni non si mosse più dal letto.
Sua moglie, in quei quaranta giorni, impegnò sino le lenzuola.
Egli brontolava che si era ridotto in quello stato per causa sua.
All'ospedale però non voleva andarci, perché quando sarebbe stato via, chissà cosa succedeva!
Sino all'ultimo! Se ella usciva un momento a far qualche compera, se scendeva ad attinger l'acqua: - D'onde vieni così scalmanata? T'ho detto che mia figlia non devi condurla attorno! - La tosse lo soffocava sotto le coperte.
Allorché lo portarono all'ospedale infine, accusò la moglie di averlo tradito - come Giuda fece a Cristo - per scialarla in libertà.
- Non vedi come son ridotta? - si scolpava lei.
- Non vedi che non ho più neppur latte per la bambina?
- Almeno verrai a trovarmi colla piccina! -
Ci andava spesso infatti.
Ma erano altri bocconi amari.
La bimba aveva paura di suo padre, al vederlo con quel berrettino in mezzo a tanti visi nuovi.
Lui si sfogava a brontolare tutti i guai della settimana.
- Una vitaccia da cani! - lamentavasi la Carlotta col sor Gostino.
- Affaticarsi da mattina a sera, e la festa poi quel divertimento! - Il sor Gostino l'accompagnava, per bontà sua, e le comprava qualche regaluccio da portare al malato.
- Che volete farci? Bisogna aver pazienza finché campa -.
Il poveretto aveva il cuoio duro, e non finiva più di penare.
La Carlotta si stancò prima di lui d'andare e venire, e di trovarlo sempre lo stesso, con quel berrettino bianco ritto sul guanciale.
Si fermava appena due minuti, il tempo di vedere a che punto era, e di portargli qualche cosuccia, senza dire che gliela aveva regalata il portinaio.
Ma ei glielo leggeva in faccia, e le guardava le mani, sospettoso, tirandosi la coperta sino al naso, senza dir nulla, e le ficcava in faccia gli occhi neri di febbre, e domandava:
- Hai visto il Bobbia? - T'ha detto nulla il portinaio? -
Si capiva che ne aveva tante nello stomaco; ma non parlava perché era confinato in quel letto, e se Carlotta non veniva più restava solo come un cane.
Sovente almanaccava dei progetti per quando sarebbe guarito.
- Faremo questo.
Faremo quest'altro -.
Ma ella rimaneva zitta e guardava altrove.
Allora disse lui: - Se guarisco, voglio ammazzar qualcuno, dammi retta! - E la bambina si aggrappava al collo della madre, strillando di paura.
Glielo diceva il cuore, al poveraccio.
Il sor Gostino era tutto il giorno su e giù per la scala colla granata in mano.
Davvero, pel cuore era un ragazzo! Si divertiva a far quattro chiacchiere con lei, o ad accendere il fuoco, nel fornello, e farle andar la macchina - gira, gira, gira; - nello stesso tempo dalla finestra, dietro la tendina, teneva d'occhio la porta, e quando cominciava a farsi scuro, che gli vedeva quella testa china sulla macchina, si sentiva dentro lo stesso rimenìo.
Gli bastava che dicesse: - Grazie, sor Gostino.
- Non lo faccio per questo, sora Carlotta.
Sono un galantuomo e non fo le cose per secondo fine -.
Chi era andato a cercarle del cucito? Chi gli faceva prestar la macchina al bisogno? Chi andava a parlare col padron di casa se tardava la mesata?
La sora Bettina infuriava per queste condiscendenze.
Un altro po' la casa diventava un luogo pubblico! E se la pigliava anche col padrone che faceva il comodino per sbarazzarsi del marito.
Tutto a riguardo suo!
Il sor Gostino non si dava pace.
- O dunque cosa gliene importa a lei? - La Carlotta invece si lagnava: - Signore Iddio! Com'è cattivo il mondo, a pensare il male che non facciamo né voi né io! -
Il sor Gostino allora non sapeva che dire, e ruminava cosa dovesse fare onde non sembrare un minchione, o prendeva il partito di posarsi la mano aperta sul costato: - Sono un galantuomo, ve l'ho detto.
Vi voglio bene, ma sono un galantuomo! -
Però non voleva che il Bobbia tornasse a fare il moscone da quelle parti.
Glielo aveva predicato: - Adesso quella poveraccia è come se fosse vedova -.
Appunto! Bobbia ci aveva diritto lui perché era l'amore antico! Il portinaio faceva come il cane dell'ortolano per invidia e per gelosia.
Ma se adesso l'aveva lui, voleva averla anche il Bobbia, ch'era stato il primo.
Si vedeva chiaro: il sor Gostino la teneva sempre in casa pel comodo suo.
Il Bobbia dovette aspettarla dieci volte prima di vederla uscire un momento.
- Senti! Se non vieni con me oggi stesso, vi ammazzo tutti, te e il tuo amante -.
La poveretta s'era sentito un tuffo nel sangue al vederlo, e affrettava il passo, smorta come un cencio.
Egli la raggiunse in via Ciossetto, furibondo, e l'afferrò pel braccio.
- Per carità! Non mi fate male! Che amante! Ti giuro! Non ne ho! - Tanto meglio.
Allora, se non ne hai, perché non vieni? -
E ci andò per la paura.
Dopo il Bobbia, appena se ne accorse, montò in furia: - Tu vuoi sempre bene a tuo marito, dì! - Oh, quel poveretto!...
- Allora hai per amante il sor Gostino! - No, non è il mio amante.
- Ma gli vuoi bene, dì! - Ella tremava e supplicava: - Non son venuta qui? Non ho fatto quel che tu dicevi? Cosa vuoi ancora? -
Voleva...
voleva...
E prima voleva mandarla via di casa a calci, voleva! Poi col sor Gostino avrebbe fatto i conti a tu per tu, e non per gelosia della Carlotta veh...
ormai era carne vecchia! Ma il sor Gostino era un ragazzo soltanto colle donne.
Al primo pugno l`accecò mezzo, e se lo mise sotto, giusto nella corte, da pestarlo come l'uva.
La sora Bettina, di sopra, buttava acqua, porcherie e male parole, e il padrone, dietro, a strillare: - Ohè, Gostino! Gostino! -
Carlotta fu licenziata su due piedi, e dovette sgomberare in otto giorni.
La sora Bettina, il padrone lo stesso, sor Gostino, volevano un po' di pace alfine.
Il Bobbia, col muso pesto, andava dicendo: - Non me ne importa di colei.
Ma mosche sul naso non me le lascio posare! -
La Carlotta finalmente andò a vedere cosa n`era di suo marito che non moriva mai.
Lo trovò sempre nello stesso letto, cogli occhi spalancati, più sfatto, non si lamentava più, e stava immobile colla faccia color di terra.
Quegli occhi di fantasma le si ficcavano addosso come chiodi; e pareva che la sua voce uscisse dalla sepoltura: - Dove sei stata tutto questo tempo? - Di', cosa hai fatto? -
CAMERATI
- Malerba? - Presente! - Qui ci manca un bottone, dov'è? - Io non so, caporale.
- Consegnato! - Sempre così: il cappotto come un sacco, i guanti che gli davano noia, e non sapere più cosa farsi delle mani, la testa più dura di un sasso all'istruzione e in piazza d'armi.
Selvatico poi! Di tutte le belle città dove si trovava di guarnigione, non andava a vedere né le strade, né i palazzi, né le fiere, nemmeno i baracconi o le giostre di legno.
L'ora di sortita se la passava vagabondo per le vie fuori porta, colle braccia ciondoloni, o stava a guardare le donne che strappavano l'erba, accoccolate per terra in piazza Castello; oppure si piantava davanti il carrettino delle castagne, e senza spendere mai un soldo.
I camerati si divertivano alle sue spalle.
Gallorini gli faceva il ritratto sul muro col carbone, e il nome sotto.
Egli lasciava fare.
Ma quando gli rubavano per ischerzo i mozziconi che teneva nascosti nella canna del fucile, imbestialiva, e una volta andò in prigione per un pugno che accecò mezzo il Lucchese - si vedeva ancora il segno nero - e lui cocciuto come un mulo a ripetere: - Non è vero.
- O allora, chi gli ha dato il pugno al Lucchese? - Non so -.
Poi stava seduto sul tavolaccio, col mento fra le mani.
- Quando torno al mio paese! - Non diceva altro.
- Infine, conta su.
Ci hai l'amante al tuo paese? - domandava Gallorini.
Egli lo fissava, sospettoso, e dimenava il capo.
Né sì né no.
Poscia si metteva a guardare lontano.
Ogni giorno con un pezzetto di lapis faceva un segno su di un piccolo almanacco che aveva in tasca.
Gallorini invece ci aveva l'amante.
Un donnone coi baffi che gli avevano visto insieme al caffè una domenica, seduti con un bicchier di birra davanti, e aveva voluto pagar lei.
Il Lucchese se ne accorse ronzando lì intorno colla Gegia, la quale non gli costava mai nulla.
Egli trovava delle Gegie dappertutto, colla sua parlantina graziosa, e perché non si avessero a male d'esser messe tutte in fascio sin pel nome, diceva che quello era l'uso del suo paese, quando una vi vuol bene, si chiami, Teresa, Assunta o Bersabea.
In quel tempo cominciò a correre la voce che s'aveva a far la guerra coi Tedeschi.
Va e vieni di soldati, folla per le strade, e gente che veniva a vedere l'esercizio in Piazza d'Armi.
Quando il reggimento sfilava fra le bande e i battimani, il Lucchese marciava baldanzoso come se la festa fosse stata fatta a lui, e Gallorini non la finiva più di salutare amici e conoscenti, col braccio sempre in aria, che voleva tornar morto o ufficiale, diceva.
- Tu non ci vai contento alla guerra? - domandò a Malerba quando fecero i fasci d'armi alla stazione.
Malerba si strinse nelle spalle, e seguitò a guardar la gente che vociava e gridava: - Evviva! -
Il Lucchese vide pur la Gegia, curiosa, la quale stava a vedere da lontano, in mezzo alla folla, tenendosi alle costole un ragazzaccio in camiciotto che fumava la pipa.
- Questo si chiama mettere le mani avanti! - borbottava il Lucchese, che non poteva allontanarsi dalle file, e a Gallorini domandava se la sua s'era arruolata nei granatieri, per non lasciarlo.
Era come una festa dappertutto dove arrivavano.
Bandiere, luminarie, e i contadini che correvano sull'argine della strada ferrata, a veder passare il treno zeppo di chepì e di fucili.
Ma alle volte poi la sera, nell'ora in cui le trombe suonavano il silenzio, si sentivano prendere dalla melanconia della Gegia, degli amici, di tutte le cose lontane.
Appena arrivava la posta al campo correvano in folla a stendere le mani.
Malerba solo se ne stava in disparte grullo, come uno che non aspettava nulla.
Egli faceva sempre il segno nell'almanacco, giorno per giorno.
Poi stava a sentire la banda, da lontano, e pensava a chi sa cosa.
Una sera finalmente successe un gran movimento nel campo.
Ufficiali che andavano e venivano, carriaggi che sfilavano verso il fiume.
La sveglia suonò due ore dopo mezzanotte; nondimeno distribuivano già il rancio e levavano le tende.
Poscia il reggimento si mise in marcia.
La giornata voleva esser calda.
Malerba, il quale era pratico, lo sentiva alle buffate di vento che sollevavano il polverone.
Poi era piovuto a goccioloni radi.
Appena cessava l'acquata, di tratto in tratto, e lo stormire del granoturco, i grilli si mettevano a cantare forte nei campi, di qua e di là dello stradale.
Il Lucchese che marciava dietro a Malerba si divertiva alle sue spalle: - Su le zampe, camerata! Cos'hai che non dici nulla? Pensi forse al testamento? -
Malerba con una spallata s'assestò lo zaino sulle spalle, e borbottò: - Cammina! - Lascialo stare, - prese a dire Gallorini.
- Sta pensando all'innamorata, che se l'ammazzano i Tedeschi ne piglia un altro.
- Cammina tu pure! - rispose Malerba.
All'improvviso nella notte passò il trotto di un cavallo, e il tintinnìo di una sciabola, fra le due file del reggimento che marciavano dai due lati della strada.
- Buon viaggio! - disse poi il Lucchese, che era il buffo della compagnia.
- E tanti saluti ai Tedeschi, se li incontra -.
A destra, in una gran macchia scura, biancheggiava un caseggiato.
E il cane di guardia latrava furibondo, correndo lungo la siepe.
- Quello è cane tedesco, - osservò Gallorini, che voleva dire la barzelletta come il Lucchese.
- Non lo senti all'abbaiare? -
La notte era ancora profonda.
A sinistra come sopra un nugolone nero, che doveva essere collina, spuntava una stella lucente.
- O che ora sarà mai? - domandò Gallorini.
Malerba levò il naso in aria, e rispose tosto:
- Ci vorrà almeno un'ora a spuntare il sole!
- Che sugo! - brontolò il Lucchese.
- Farci far la levataccia per un bel nulla!
- Alt! - ordinò una voce breve.
Il reggimento scalpicciava ancora, come una mandra di pecore che si aggruppi.
- O chi s'aspetta? - borbottò il Lucchese dopo un pezzetto.
Passò di nuovo un gruppo di cavalieri.
Stavolta nell'alba che cominciava a rompere si videro sventolare le banderuole dei lancieri, e avanti un generale, col berretto gallonato sino in cima, e le mani ficcate nelle tasche dello spenser.
Lo stradale cominciava a biancheggiare, diritto, in mezzo ai campi ancora oscuri.
Le colline sembravano spuntare ad una ad una nel crepuscolo incerto; e in fondo si vedeva un fuoco acceso, forse di qualche boscaiuolo, o di contadini che erano scappati dinanzi a quella piena di soldati.
Gli uccelletti, al mormorio, si svegliavano a cinguettare sui rami dei gelsi che si stampavano nell'alba.
Poco dopo, a misura che il giorno andavasi schiarendo si udì un brontolìo cupo verso la sinistra, dove l'orizzonte s'allargava in un chiarore color d'oro e color di rosa, come se tuonasse, e faceva senso in quel cielo senza nuvole.
Poteva essere il mormorio del fiume o il rumore dell'artiglieria in marcia.
Ad un tratto corse una voce: - Il cannone! - E tutti si voltavano a guardare verso l'orizzonte color d'oro.
- Io sono stanco! - brontolò Gallorini.
- Ormai dovrebbe far l'alto! - appoggiò il Lucchese.
Le chiacchiere andavano morendo a misura che i soldati si avanzavano nella giornata calda, fra le strisce di terra bruna, di seminati verdi, le vigne che fiorivano sulle colline, i filari di gelsi diritti sin dove arrivava la vista.
Qua e là si vedevano dei casolari e delle cascine abbandonate.
Accostandosi ad un pozzo, per bere un sorso d'acqua, videro degli arnesi a terra, accanto all'uscio di un cascinale, e un gatto che affacciava il muso fra i battenti sconquassati, miagolando.
- Guarda! - fece osservare Malerba.
- Ci hanno il grano in spiga, povera gente!
- Vuoi scommettere che non ne mangi di quel pane? - disse il Lucchese.
- Sta' zitto, jettatore! - rispose Malerba.
- Io ci ho l'abitino della Madonna -.
E fece le corna colle dita.
In quella si udì tuonare anche a sinistra, verso il piano.
Da principio, dei colpi rari, che echeggiavano dal monte.
Poscia un crepitìo come di razzi, quasi il villaggio fosse in festa.
Al di sopra del verde che coronava la vetta si vedeva il campanile tranquillo, nel cielo azzurro.
- No, non è il fiume - disse Gallorini.
- E neppure dei carri che passano.
- Senti! senti! - esclamò Gallorini.
- Laggiù la festa è cominciata.
- Alt! - ordinarono ancora.
Il Lucchese ascoltava, colle ciglia in arco, e non diceva più nulla.
Malerba aveva vicino un paracarro, e ci s'era messo a sedere, col fucile fra le gambe.
Il cannoneggiamento doveva essere in pianura.
Si vedeva il fumo di ogni colpo, come nuvolette dense, che si levavano appena al di sopra dei filari di gelsi, e si squarciavano lentamente.
I prati scendevano quieti verso la pianura, con il canto delle quaglie fra le zolle.
Il colonnello, a cavallo, parlava con un gruppo d'ufficiali, fermi sul ciglione della strada, guardando di tratto in tratto verso la pianura col cannocchiale.
Appena si mosse al trotto, le trombe del reggimento squillarono tutte insieme: - Avanti! -
A destra e a sinistra si vedevano dei campi nudi.
Poi qualche pezza di granoturco ancora.
Poi delle vigne, poi delle gore d'acqua, infine degli alberetti nani.
Spuntavano le prime case di un villaggio; e la strada era ingombra di carriaggi e di vetture.
Un vocìo, un tramestìo da sbalordire.
Sopraggiunse di galoppo un cavalleggiero, bianco di polvere.
Il suo cavallo, un morello tozzo e tutto crini, aveva le narici rosse e fumanti.
Indi passò un ufficiale di stato maggiore, gridando come un ossesso di sgombrare la strada, picchiando colla sciabola a diritta e a manca su quei poveri muli borghesi.
Attraverso gli olmi del ciglione si videro sfilare correndo dei bersaglieri neri, colle piume al vento.
Ora si erano messi per una stradicciuola che piegava a diritta.
I soldati rompevano in mezzo al seminato, talché a Malerba gli piangeva il cuore.
Sulla china di un monticello, videro un gruppo d'ufficiali a cavallo, con la scorta di lancieri dietro, e i cappelli a punta di carabinieri.
Tre o quattro passi innanzi, a cavallo e col pugno sull'anca, c'era un pezzo grosso a cui i generali rispondevano colla mano alla visiera, e gli ufficiali passandogli dinanzi, salutavano colla sciabola.
- O chi è colui? - chiese Malerba.
- Vittorio, - rispose il Lucchese.
- Che non l'hai mai visto nei soldi, sciocco! -
I soldati si voltavano a guardare, finché potevano.
Poscia Malerba osservò fra sé: - Quello è il Re! -
Più in là c'era un torrentello asciutto.
L'altra riva coperta di macchie saliva verso il monte, sparso di olmi scapitozzati.
Il cannoneggiamento non si udiva più.
Un merlo a quella pace s'era messo a fischiare nella mattinata chiara.
Tutt'a un tratto scoppiò come un uragano.
La vetta, il campanile, ogni cosa fu avvolta nel fumo.
Dei rami d'albero che scricchiolavano, della polvere che si levava qua e là nella terra, ad ogni palla di cannone.
Una granata spazzò via un gruppo di soldati.
In cima della collina si udivano di tratto in tratto delle grida immense, come degli urrà.
- Madonna santa! - balbettò il Lucchese.
I sergenti andavano ordinando di mettere a terra i zaini.
Malerba obbedì a malincuore perché ci aveva due camicie nuove e tutta la sua roba.
- Lesti! lesti! - andavano dicendo i sergenti.
Da una stradicciuola sassosa arrivarono di galoppo alcuni pezzi d'artiglieria, con un fragore di terremoto; gli ufficiali avanti, i soldati curvi sulla criniera irta dei cavalli fumanti, frustando a tutto andare, i cannonieri aggrappati ai mozzi e alle ruote, che spingevano su per l'erta.
In mezzo al rumore furioso delle cannonate si vide rovinare fuggendo per la china un cavallo ferito, colle tirelle pendenti, nitrendo, scavezzando viti, sparando calci disperati.
Più giù, a frotte, soldati laceri, sanguinosi, senza chepì, che agitavano le braccia.
Infine dei drappelli interi che rinculavano passo passo, fermandosi a far fuoco alla spicciolata, in mezzo agli alberi.
Trombe e tamburi suonarono la carica.
Il reggimento si slanciò alla corsa su per l'erta, come un torrente d'uomini.
Al Lucchese gli parlava il cuore: - Che furia per quel che ci aspetta lassù! - Gallorini gridava: - Savoia! - E a Malerba che aveva il passo pesante: - Su le zampe, camerata! - Cammina! - ripeteva Malerba.
Appena sulla vetta, in un praticello sassoso, si trovarono di faccia ai Tedeschi che si avanzavano fitti in fila.
Corse un lungo lampo su quelle masse che formicolavano; la fucilata crepitò da un capo all'altro.
Un giovanetto ufficiale, escito allora dalla scuola, cadde in quel momento, colla sciabola in pugno.
Il Lucchese annaspò alquanto, colle braccia aperte, come se inciampasse, e cadde egli pure.
Ma dopo non si vide più nulla.
Gli uomini si azzuffavano petto a petto, col sangue agli occhi.
- Savoia! Savoia! -
Infine i Tedeschi ne ebbero abbastanza, e cominciarono a dare indietro passo passo.
I cappotti grigi li inseguivano a stormi.
Malerba nella furia del correre, pigliò come una sassata che lo fece zoppicare.
Poi si accorse che gli colava il sangue pei pantaloni.
Allora infuriato come un bue si slanciò a testa bassa, menando baionettate.
Vide un gran diavolo biondo che gli veniva addosso con la sciabola sul capo, e Gallorini che gli appuntava alla schiena la bocca del fucile.
Le trombe suonavano a raccolta.
Ora tutto quello che restava del reggimento, a stormi, a gruppi, correva verso il villaggio, che rideva al sole, in mezzo al verde.
Però alle prime case si vide la carneficina che ci era stata.
Cannoni, cavalli, bersaglieri feriti, tutto sottosopra.
Gli usci sfondati, le imposte delle finestre che pendevano come cenci al sole.
In fondo a una corte c'era un mucchio di feriti per terra, e un carro colle stanghe in aria, ancora carico di legna.
- E il Lucchese? - domandò Gallorini senza fiato.
Malerba l'aveva visto cadere.
Nondimeno si voltò indietro per istinto verso il monte che formicolava di uomini e di cavalli.
Le armi luccicavano al sole.
Si vedevano, in mezzo alla spianata, degli ufficiali a piedi, i quali guardavano lontano col cannocchiale.
Le compagnie calavano ad una ad una per la china, con dei lampi che correvano lungo le file.
Potevano essere le 10 - le 10 del mese di giugno, al sole.
Un ufficiale s'era buttato come arso sull'acqua dove lavavano gli scopoli dei cannoni.
Gallorini stava disteso bocconi contro il muro del cimitero, colla faccia sull'erba; là almeno, dalle fosse, nell'erba folta, veniva un po' di frescura.
Malerba, seduto per terra, s'ingegnava a legarsi come poteva la gamba col fazzoletto.
Pensava al Lucchese, poveretto, che era rimasto per via, a pancia in aria.
- Tornano! tornano! - si udì gridare.
La tromba chiamava all'armi.
Ah! stavolta era proprio stufo Gallorini! Nemmeno un momento di riposo! Si alzò come una bestia feroce, tutto lacero, e afferrò il fucile.
La compagnia si schierava in fretta, alle prime case del paesetto, dietro i muri, alle finestre.
Due pezzi di cannone allungavano la gola nera in mezzo alla strada.
Si vedevano venire i Tedeschi in file serrate, un battaglione dopo l'altro, che non finivano mai.
Là fu colpito Gallorini.
Una palla gli ruppe il braccio.
Malerba lo voleva aiutare.
- Che cos'hai? - Nulla, lasciami stare -.
Il tenente faceva anche lui alle fucilate come un semplice soldato, e bisognò correre a dargli una mano, Malerba dicendo ad ogni colpo: - Lasciate fare a me che è il mio mestiere! - I Tedeschi scomparvero di nuovo.
Poi fu ordinata la ritirata.
Il reggimento non ne poteva più.
Fortunati Gallorini e il Lucchese che riposavano.
Gallorini s'era seduto a terra, contro il muro, e non si voleva più muovere.
Erano circa le 4, più di otto ore che stavano in quella caldura colla bocca arsa di polvere.
Però Malerba ci aveva preso gusto e domandava: - Ora che si fa? - Ma nessuno gli dava retta.
Scendevano verso il torrentello, accompagnati sempre dalla musica che facevano le cannonate sul monte.
Poscia da lontano videro il villaggio formicolare di uniformi di tela.
Non si capiva nulla, né dove andavano, né cosa succedeva.
Alla svolta di un ciglione s'imbatterono nella siepe dietro la quale il Lucchese era caduto.
E neppure Gallorini non c'era più.
Tornavano indietro alla rinfusa, visi nuovi che non si conoscevano, granatieri e fanteria di linea, dietro agli ufficiali che zoppicavano, laceri, strascinando i passi, col fucile pesante sulle spalle.
Calava la sera tranquilla, in un gran silenzio, dappertutto.
A ogni tratto si incontravano carri, cannoni, soldati che andavano al buio, senza trombe e senza tamburi.
Quando furono di là del fiume, seppero che avevano persa la battaglia.
- O come? - diceva Malerba.
- O come? - E non sapeva capacitarsi.
Poi, terminata la ferma, tornò al suo paese, e trovò la Marta che s'era già maritata, stanca d'aspettarlo.
Anche lui non aveva tempo da perdere, e prese una vedova, con del ben di Dio.
Qualche tempo dopo, lavorante alla ferrovia lì vicino, arrivò Gallorini, con moglie e figli anche lui.
- Tò Malerba! O cosa fai tu qui? Io faccio dei lavori a cottimo.
Ho imparato il fatto mio all'estero, in Ungheria, quando m'hanno fatto prigioniero, ti rammenti? Mia moglie m'ha portato un capitaletto...
Mondo ladro, eh? Credevi fossi arricchito? Eppure il nostro dovere l'abbiamo fatto.
Ma chi va in carrozza non siamo noi.
Bisogna dare una buona sterrata, e tornare a far conto da capo -.
Coi suoi operai ripeteva pure le stesse prediche, la domenica, all'osteria.
Essi, poveretti, ascoltavano, e dicevano di sì col capo, sorseggiando il vinetto agro, ristorandosi la schiena al sole, come bruti, al pari di Malerba, il quale non sapeva far altro che seminare, raccogliere e far figliuoli.
Egli dimenava il capo per politica, quando parlava il suo camerata, ma non apriva bocca.
Gallorini invece aveva girato il mondo, sapeva il fatto suo in ogni cosa, il diritto e il torto; sopra tutto il torto che gli facevano, costringendolo a sbattezzarsi e lavorare di qua e di là pel mondo, con una covata di figliuoli e la moglie addosso, mentre tanti andavano in carrozza.
- Tu non ne sai nulla del come va il mondo! Tu, se fanno una dimostrazione, e gridano viva questo o morte a quell'altro, non sai cosa dire.
Tu non capisci nulla di quel che ci vuole! -
E Malerba rispondeva sempre col capo di sì.
- Adesso ci voleva l'acqua pei seminati.
Quest'altro inverno ci voleva il tetto nuovo nella stalla.
VIA CRUCIS
Matilde cercò cogli occhi la Santina, entrando nella bottega della sarta.
Indi le si mise accanto, e disse piano: - Sai? Poldo piglia moglie -.
Santina avvampò in viso; poi si fece smorta, e chinò la testa sul lavoro.
Non disse nulla; non ci credeva; ma il cuore le si gonfiava di certi presentimenti che adesso le tornavano dinanzi agli occhi.
Solo le tremava il labbro nel frenare le lagrime.
Appena poté inventare un pretesto per uscire corse al Municipio, e lesse coi suoi occhi: "Leopoldo Bettoni con Ernestina Mirelli, agiata".
Tornando in bottega, cogli occhi gonfi, si buscò una buona lavata di capo.
La sera volle parlargli ad ogni costo.
Da un pezzo egli le diceva: - Faccio tardi all'officina.
C'è un lavoro da terminare -.
Il Renna, che lavorava da indoratore insieme con lui, s'era messo a ridere.
- Non dia retta, sora Santina.
Le son storie da contare ai morti -.
La mamma, al vedere che tornava a uscire, stralunata, l'afferrava per le vesti.
- Dove corri? A quest'ora...
- Ella non diceva altro: - Lasciatemi andare.
Lasciatemi andare...
- cogli occhi fissi.
Chi la incontrava così tardi, al vederla correre sul marciapiedi con quella faccia, si fermava a sbirciarla sotto il naso; oppure le buttava dietro un pissi pissi.
Ma ella non vedeva e non udiva.
Finalmente scoprì Poldo in fondo al caffè delle Cinque Vie, seduto in un crocchio, che guardava pensieroso il bicchiere.
Quando uscì sulla strada seguitava a guardarsi attorno come un ladro.
Pareva che il cuore glielo dicesse.
Ella lo afferrò pel gomito, allo svolto della cantonata.
- È vero che prendi moglie? - Poldo giurava di no, colle braccia in croce.
Infine disse: - Senti, io non ho nulla.
Tu neppure non hai nulla.
Si farebbe un bel marrone tutti e due -.
Cotesto non glielo aveva detto prima, quando le stava attorno innamorato, e le sussurrava quelle parole traditrici che le facevano squagliare il cuore dentro il petto.
Con tali parole s'era lasciata prendere in quella stanza dell'osteria di Gorla, col ritratto del Re e di Garibaldi che le si erano stampati in mente.
Ora egli se ne andava passo passo per la sua strada, col dorso curvo.
Da principio sembrava che il cuore le morisse dentro il petto.
Poscia a poco a poco si rassegnò.
Matilde le diceva: - Sciocca, ne troverai cento altri, non dubitare -.
Le compagne cianciavano e ridevano tutto il giorno, e il sabato facevano dei progetti per la festa.
Dalla finestra si vedeva il sole di primavera, sui tetti rossi, nei terrazzini pieni di fiori.
Allora tornavano a gonfiarlesi in cuore piene di lagrime le parole dolci di Poldo.
La domenica per lei spuntava triste, in quella malinconia di via Armorari, e pensava, pensava, coi gomiti appoggiati al davanzale, guardando le botteghe tutte chiuse.
Il Renna, di sopra, stava alla finestra per vedere la Santina affacciata a capo chino, che scopriva la nuca bianca.
Non usciva neppur lui.
Poscia le buttava dei sassolini.
Ella si voltava, col viso in su, e rideva.
Era l'unico suo sorriso.
Una sera di luna piena, mentre arrivava sin là la canzone della strada, il Renna scese al pian disotto, e Santina uscì sul pianerottolo ad attinger l'acqua.
Il giovanotto le prese tutte e due le mani che reggevan la secchia, ed ella gliele lasciò chinando il capo, nella luna piena che allagava il balcone.
Pure non voleva, no; perché a poco a poco aveva preso a volergli bene come a quell'altro, e temeva del poi.
Ma il Renna sapeva che ella aveva avuto Poldo per amante, e glielo rinfacciava a ogni momento.
Allora Santina dovette piegare il capo anche a costui, per provargli che gli voleva bene.
Stavolta fu all'Isola Bella, dopo un desinare che si sentiva la testa pesa come il piombo.
Poscia guardava tutta sconfortata gli orti e i prati che impallidivano al tramonto, mentre il Renna fumava alla finestra, in maniche di camicia.
E le disse pure: - Abbiamo fatto un bel marrone! - Sapeva che Beppe, il fratello della ragazza, era un giovanotto schizzinoso, di quelli che non amano far ridere alle proprie spalle.
Motivo per cui a poco a poco andava raffreddandosi coll'amante.
- Tu sei troppo imprudente, cara mia! Fai le cose in modo da aprire gli occhi a un cieco -.
Santina taceva e si struggeva in silenzio.
Poi il Renna la esaminava dalla testa ai piedi con un'occhiata.
- Cos'hai? Hai un certo viso! Il marrone?...
- Allora scoprì pure che egli sgomberava adagio adagio dalla stanza di sopra.
Lo sorprese per la scala con un baule sulle spalle.
- Te ne vai? Mi pianti? - Anch'egli negava, colle braccia in croce, come quell'altro.
Infine gli scappò la pazienza.
- Ebbene, cosa vuoi? Già sai che non son stato il primo...
Ella voleva buttarsi dalla finestra, se non fosse stata la paura.
La maestra arricciava il naso appena la vedeva entrare in bottega, accasciata, col viso gonfio e disfatto, con tanto di pèsche agli occhi.
La spogliava dalla testa ai piedi al pari del Renna, con certe occhiate che le leggevano in faccia la vergogna.
Infine, quando fu certa di non ingannarsi, le diede il fatto suo, un sabato sera, dietro il banco - cinque lire e ottanta centesimi.
- A Santina le pareva di morire.
Ma la padrona con un risolino agro ripeteva: - È inutile piangere adesso.
Dovevi pensarci prima! - La mamma cacciandosi le mani nei capelli, balbettava: - Cosa hai fatto? Cosa hai fatto? disgraziata! Se lo sapesse tuo fratello!...
-
Costui appena venne in chiaro della cosa andò a prendere il Renna per il collo, in via Camminadella.
- Ti voglio mangiare il fegato, traditore! - Dopo lo portarono a casa colla testa rotta.
- Non è nulla, - diceva.
- Ma voglio lavarmi il disonore col sangue di quella sciagurata! Se non va via di casa voglio ammazzare anche lei! - La poveretta scappò come si trovava, la vigilia di Natale.
Quel giorno Beppe, contento e all'oscuro di tutto, aveva portato un panettone.
La mamma di nascosto le mandò qualche soldo nel fagottino della roba.
Le sue compagne non ne seppero più nulla.
Dopo tre mesi all'improvviso Matilde se la vide capitare in casa pelle e ossa, in cerca di lavoro.
- Del lavoro?...
è difficile, sai; la maestra...
- No! No lei! - Ma allora...
Non saprei...
Poverina, come sei ridotta! Ora che farai? - Non so.
- E lui, Poldo? - Non so.
- Fàtti animo.
Tornerai bella come prima, vedrai! - Santina non aveva altro da dire, e se ne andava a capo chino.
Matilde la richiamò sull'andito.
- Dove andrai? - Non so.
- Senti, se pigli un altro amante, apri bene gli occhi stavolta, che non sia uno spiantato -.
Invece prese un bel giovanotto, ricco come un principe, e buono come il Signore Iddio; tanto che alla poveretta non le pareva vero, e non voleva crederci ogni volta che egli l'aspettava sotto il portico di piazza Mercanti, mentre essa andava a riportare il lavoro di cucito in via Broletto, e le si attaccava alla cintola.
- Angelo! Biondina d'oro! - No! Signore Iddio! Mi lasci andare pei fatti miei! - Una sera egli la seguì per la scaletta di casa sua, in via del Pesce, innamorato sino agli occhi.
Voleva che lo mettesse alla prova se le voleva bene.
Spese per lei dei gran denari; le fece abbandonare la camiciaia di via Broletto; le prese in affitto un bel quartierino in via Manara.
Spesso la conduceva al Fossati, e in campagna.
Le belle passeggiate nel Parco di Monza, tutto di verde e d'azzurro, colle folte ombrìe dei grandi alberi dove dormivano le viole e i pan porcini, e le stelle che filavano silenziose sul loro capo al ritorno, mentre egli le posava la testa fine sulle ginocchia, cullati dalla carrozza! Le pareva di sognare.
Cercava di leggergli negli occhi cosa dovesse fare per meritarsi quel paradiso.
Anch'esso da qualche tempo sembrava che sognasse.
La fissava pensieroso.
Rispondeva: - Nulla, non ci badare; ho delle seccature -.
Un giorno le disse ridendo che suo padre era furibondo contro di lei.
Aveva il sorriso pallido.
In seguito perse anche quel sorriso.
Sovente veniva tardi, di cattivo umore.
L'abbracciava in un certo modo per dirle: - Ti voglio tanto bene, sai! - In un momento d'abbandono le confidò che era soprapensiero per certe cambiali; i creditori non volevano aspettare più.
Suo padre in collera protestava che non gli avrebbe dato un soldo se non mutava via.
Santina chinava il capo tristemente, col martello di perdere il suo amore; giacché non le passava neppure pel capo che potesse sposar lei.
Egli dovette andare a Genova per due o tre giorni onde aggiustare i suoi affari.
Al momento di partire, sotto la tettoia della stazione, le aveva detto: - Non dubitare, non dubitare! - colla voce ancora innamorata.
Le aveva promesso di scriverle ogni giorno.
Ogni giorno Santina andava alla posta a prendere le sue lettere, per tre mesi.
Infine ne arrivò un'ultima in cui egli scriveva: "Che posso farci? Mio padre vuole che pigli moglie ad ogni costo".
E le mandava un vaglia di mille lire.
Un signore che passava dovette afferrarla per il braccio onde non cadesse sotto l'omnibus di Porta Romana.
Ora ella portava i cappelloni a piume, e gli stivalini col tacco alto come la Matilde.
La videro in brum chiuso con un ufficiale di cavalleria.
Al veglione del Dal Verme prese un premio; e una volta di nascosto mandò cinquanta lire alla mamma.
Il giorno dello Statuto in piazza del Duomo le passò a lato Poldo, e la sbirciò dicendo qualche cosa all'orecchio della moglie, una grassona la quale si mise a ridere scotendo il ventre.
Però ebbe giorni di fortuna.
Un signore forestiero le pagò un mese di allegra vita e di vetture di rimessa.
Poscia fece le sue valigie anche lui, e le lasciò qualche migliaio di lire, tutte in ori e fronzoli, che le mangiò un commesso viaggiatore.
Un maestro di musica, malato di petto, che moriva di fame e credeva d'attaccarsi alla vita buttandole le braccia al collo, le promise di sposarla.
Ella, quantunque non ci credesse più, fece una vita da santa tutto il tempo che rimase con lui, in una soffitta, a cavarsi gli occhi per comprargli le medicine.
Stettero anche quarantotto ore senza mangiare né lei né il suo amante, rannicchiati su uno strapunto sotto l'abbaino.
Infine l'accompagnò al cimitero di Porta Magenta, lei sola, col cuore stretto da quella giornata trista di febbraio tutta bianca di neve.
La sera andò in una scuola di ballo per cercar da cena.
Poi scese giù nella strada; fece la dolorosa via crucis della Galleria e di Via Santa Margherita, nell'ora triste della caccia al pranzo, tremante di freddo sotto il mantello di seta, col viso pallido di cipria, sorridendo a tutti colle labbra affamate, scutrettolando coi piedi gonfi rasente agli uomini che la salutavano con un'occhiata sprezzante; senza ripugnanze, senza simpatie, senza stanchezza, senza sonno, senza lagrime, senza un briciolo della sua sciagurata bellezza che le appartenesse più.
Una notte di carnevale, in un'orgia, Poldo volle comprare da lei un bacio coi denari della moglie, ed essa glielo diede, sulla bocca avvinazzata.
La stagione era ancora rigida.
Lassù nella sua cameruccia sotto i tetti l'acqua gelava nel catino.
Se entrava in un caffè per riscaldarsi, il cameriere, in cravatta bianca, le sussurrava qualche parola all'orecchio, ed ella tornava al alzarsi a capo chino.
Di fuori, alla luce appannata delle grandi invetriate, passavano delle ombre impellicciate come lei sotto un cappellone piumato.
Dietro, i questurini, passo passo.
Gli uomini camminavano frettolosi, col bavero rialzato e il sigaro in bocca.
Ella sorrideva, colle labbra riarse.
Piazza del Duomo tutta bianca di neve, Santa Margherita colle vetrine scintillanti del Bocconi; lì delle lunghe stazioni all'alito dei sotterranei riscaldati che veniva dalle finestre a livello del marciapiede.
La gente passava sogghignando.
Indi piazza della Scala, come un camposanto, il teatro sfavillante di lumi, i caffè nella nebbia calda del gas, e di nuovo la Galleria, alta, sonora, coll'arco immenso spalancato sull'altra piazza bianca di neve; e dietro sempre il passo sonoro dei questurini che la scacciavano avanti, sempre avanti.
Un vecchietto curvo la sbirciò arricciandosi i baffi tinti.
La poveretta sorrideva sempre inutilmente, colle labbra pallide.
Infine s'avvicinò a una di quelle ombre che al par di lei passeggiavano eternamente sotto il cappellone piumato, e le disse qualche parola sottovoce.
L'altra si strinse nelle spalle.
Un signore passava senza darle retta.
Poscia tornò indietro e le mise qualcosa nella mano.
Allora, chiusa nel suo mantello di seta, colle piume del cappellone sul viso infarinato, andò a comprare del pane.
E il garzone le sghignazzava dietro, tornando a sedere dietro il banco accanto alla ragazza che leggeva il Secolo, mentre l'altra si allontanava col pane sotto il mantello di seta, come una regina.
CONFORTI
La donna dell'uovo glielo aveva predetto alla sora Arlìa: - Sarai contenta, ma prima passerai dei guai -.
Chi l'avrebbe immaginato quando sposò il Manica colla sua bella bottega di barbiere in via dei Fabbri, lei pettinatora anch'essa, giovani e sani tutti e due! Solo don Calogero, suo zio, non aveva voluto benedire quel matrimonio - per lavarsene le mani come Pilato - diceva.
Sapeva come fossero tutti tisici di padre in figlio a casa sua, ed era riescito a mettere un po' di pancia collo scegliere la vita quieta del prevosto.
- Il mondo è pieno di guai, - predicava don Calogero.
- Ed è meglio starsene alla larga -.
I guai infatti erano venuti a poco a poco.
Arlìa, sempre incinta da un anno all'altro, che le clienti stesse disertavano per la malinconia di vederla arrivare col fiato ai denti, e quel castigo di Dio della pancia grossa.
Poi le mancava il tempo di stare in giorno colla moda.
Suo marito aveva sognato una gran bottega da parrucchiere nel Corso, colle profumerie nella vetrina; ma aveva un bel radere barbe a tre soldi l'una.
I figliuoli si facevano tisici uno dopo l'altro, e prima d'andarsene al camposanto si mangiavano colla propria carne il poco guadagno dell'annata.
Angiolino, che non voleva morire così giovane, si lamentava nella febbre: - Mamma, perché m'avete messo al mondo? - Tale e quale come gli altri suoi fratelli morti prima.
La mamma, allampanata, non sapeva che rispondere, dinanzi al letticciuolo.
Avevano fatto l'impossibile; s'erano mangiato il cotto e il crudo: brodi, medicine, pillole piccine come capocchie di spilli.
Arlìa aveva speso tre lire per una messa, ed era andata ad ascoltarla ginocchioni in S.
Lorenzo, picchiandosi il petto pei suoi peccati.
La Vergine nel quadro sembrava che ammiccasse di sì cogli occhi.
Ma il Manica, più giudizioso, si metteva a ridere colla bocca storta, grattandosi la barba.
Infine la povera madre afferrò il velo come una pazza, e corse dalla donna dell'uovo.
Una contessa che voleva tagliarsi i capelli dalla disperazione dell'amante ci aveva trovata la consolazione.
- Sarai contenta, ma prima passerai dei guai, - le rispose quella dell'uovo.
Lo zio prete aveva un bel dire: - Tutte imposture di Satanasso! - Bisogna provare cosa sia avere il cuore nero d'amarezza, mentre s'aspetta la sentenza, e quella vecchia vi legge il vostro destino tutto in un bianco d'uovo! Dopo le pareva di trovare a casa il figliuolo alzato, che le dicesse allegro: - Mamma, sono guarito -.
Invece il ragazzo se ne andava a oncia a oncia, stecchito nel lettuccio, e quegli occhi se lo mangiavano.
Don Calogero, che di morti se ne intendeva, come veniva a vedere il nipote, si chiamava poi in disparte la mamma, e le diceva: - Pei funerali me ne incarico io.
Non ci pensate -.
Però la sventurata sperava sempre, accanto al capezzale.
Alle volte, quando saliva anche Manica a sentire del figliuolo, colla barba lunga di otto giorni e il dorso curvo, provava compassione di lui che non ci credeva.
Come doveva patirci il poveretto! Ella almeno aveva in cuore le parole della donna dell'uovo, come un lume acceso, sino al momento in cui lo zio prete s'assise ai piedi del letto colla stola.
Poi, quando si portarono via la sua speranza nella bara del figliuolo, le parve che si facesse un gran buio dentro il suo petto.
E balbettava dinanzi a quel lettuccio vuoto: - O dunque cosa m'aveva promesso quella dell'uovo? -.
Suo marito dal crepacuore aveva preso il vizio di bere.
Infine, adagio adagio, si fece una gran calma nel suo cuore.
Tale e quale come prima.
Ora che i guai l'erano caduti tutti sulle spalle sarebbe venuta la contentezza.
Ai poveretti accade spesso così.
Fortunata, l'ultima che le restasse di tanti figli, si alzava la mattina pallida e colle pèsche color di madreperla agli occhi, a simiglianza dei fratelli che eran morti tisici.
Le clienti stesse la lasciavano ad una ad una, i debiti crescevano, la bottega si vuotava.
Manica, suo marito, aspettava gli avventori tutto il giorno, col naso contro la vetrina appannata.
Lei chiedeva alla figliuola: - Ti dice di sì il cuore per quello che ci ha promesso la sorte?
Fortunata non diceva nulla, cogli occhi accerchiati di nero come i suoi fratelli, fissi in un punto che vedeva lei.
Un giorno sua madre la sorprese per le scale con un giovanotto che sgattajolò in fretta al veder gente, e lasciò la ragazza tutta rossa.
- Oh, poveretta me!...
Che fai tu qui? -
Fortunata chinò il capo.
- Chi era quel giovanotto? che voleva?
- Niente.
- Confidati con tua madre, col sangue tuo.
Se tuo padre sapesse!...
-
Per tutta risposta la ragazza alzò la fronte e le fissò in faccia gli occhi azzurri.
- Mamma, io non voglio morire come gli altri! -
Il maggio fioriva, ma la fanciulla s'era mutata in viso, ed era divenuta inquieta sotto gli occhi ansiosi della madre.
I vicini le cantavano: - Badi alla sua ragazza, sora Arlìa -.
Il marito istesso, colla cera lunga, un giorno l'aveva presa a quattr'occhi nella botteguccia nera, per ripeterle:
- Bada a tua figlia, intendi? Che almeno il sangue nostro sia onorato! -
La poveretta non osava interrogare la figliuola al vederla tanto stralunata.
Le fissava soltanto addosso certi occhi che passavano il cuore.
Una sera, dinanzi alla finestra aperta, mentre dalla strada saliva la canzone di primavera, la ragazza le mise il viso in seno, e confessò ogni cosa piangendo a calde lagrime.
La povera madre cadde su una seggiola, come se le avessero stroncato le gambe.
E tornava a balbettare, colle labbra smorte: - Ah! Ora come faremo? -.
Le pareva di vedere Manica nell'impeto del vino, col cuore indurito dalle disgrazie.
Ma il peggio erano gli occhi con i quali la ragazza rispondeva:
- Vedete questa finestra, mamma?...
la vedete com'è alta?...
-
Il giovane, un galantuomo, aveva mandato dallo zio prete a tastare il terreno per sapere che pesci pigliare.
- Don Calogero s'era fatto prete apposta onde non sentir parlare dei guai del mondo.
Il Manica si sapeva che non era ricco.
L'altro capì l'antifona e fece sentire che gli dispiaceva tanto di non esser ricco lui per fare a meno della dote.
Allora la Fortunata si allettò davvero, e cominciò a tossire come i suoi fratelli.
Parlava spesso all'orecchio della mamma, col viso rosso, tenendola abbracciata, e ripeteva:
- Vedete com'è alta quella finestra?...
-
E la mamma doveva correre di qua e di là a pettinare le signore pel teatro, sempre con lo spavento di quella finestra dinanzi agli occhi se non trovava la dote per la figlia, o se il marito s'accorgeva del marrone.
Di tanto in tanto le tornavano in mente le parole di quella dell'uovo, come uno spiraglio di luce.
Una sera che tornava a casa stanca e scoraggiata, passando dinanzi alla vetrina di una lotteria, le caddero sotto gli occhi i numeri stampati, e per la prima volta le venne l'ispirazione di giuocare.
Allora con quel fogliolino giallo in tasca le pareva d'avere la salute della figliuola, la ricchezza del marito, e la pace della casa.
Pensava anche come una dolcezza all'Angiolino e agli altri figliuoli da un pezzo sotterra nel cimitero di Porta Magenta.
Era un venerdì, il giorno degli afflitti, nel sereno crepuscolo di primavera.
Così ogni settimana.
Si levava di bocca i pochi soldi della giocata per vivere colla speranza di quella grande gioia che doveva capitarle all'improvviso.
L'anime sante dei suoi figliuoli ci avrebbero pensato di lassù.
Manica, un giorno che i fogliolini gialli saltarono fuori dal cassetto, mentre cercava di nascosto qualche lira da passar mattana all'osteria, montò in una collera maledetta.
- In tal modo se ne andavano dunque i denari?...
- Sua moglie non sapeva che rispondere, tutta tremante.
- Però, senti, se il Signore mandasse i numeri?...
Bisogna lasciare l'uscio aperto alla fortuna -.
E in cuor suo pensava alle parole di quella dell'uovo.
- Se non hai altra speranza - brontolò Manica con sorriso agro.
- E tu che speranza hai?
- Dammi due lire! - rispose lui bruscamente.
- Due lire! o Madonna!...
cosa vuoi farne?
- Dammi una lira sola! - ripeté Manica stravolto.
Era una giornata buia, la neve dappertutto e l'umidità che bagnava le ossa.
La sera Manica tornò a casa col viso lustro d'allegria.
Fortunata diceva invece:
- Per me sola non c'è conforto -.
Alle volte ella avrebbe voluto essere come i suoi fratelli sotto l'erba del camposanto.
Almeno quelli non tribolavano più, ed anche i genitori ci avevano fatto il callo, poveretti.
- Oh! il Signore non ci abbandonerà del tutto, - balbettava Arlìa.
- Quella dell'uovo me l'ha detto.
Ho qui un'ispirazione -.
Il giorno di Natale apparecchiarono la tavola coi fiori e la tovaglia di bucato, e quest'anno invitarono lo zio prete ch'era la sola provvidenza che restasse.
Il Manica si fregava le mani e diceva:
- Oggi si ha a stare allegri -.
Pure il lume appeso al soffitto ciondolava malinconico.
Ci fu il manzo, il tacchino arrosto, ed anche un panettone col Duomo di Milano.
Alle frutta il povero zio, vedendoli piangere, siffatta giornata, con un buon bicchiere in mano di barbera anche lui, non seppe tener duro e dovette promettere la dote alla ragazza.
L'amante tornò a galla, Silvio Liotti, commesso di negozio con buone informazioni, pronto a riparare il mal fatto.
Manica col bicchiere in mano diceva a don Calogero:
- Vedete, vossignoria; questo qui ne aggiusta tante -.
Ma era destino che dove era l'Arlìa la contentezza non durasse.
Il genero, ragazzo d'oro, si mangiò la dote della moglie, e dopo sei mesi Fortunata tornava a casa dai genitori a narrar guai e a mostrar le lividure, affamata e colle busse.
Ogni anno un figliuolo anche lei come sua madre, e tutti sani come lasche che se la mangiavan viva.
Alla nonna sembrava che tornasse a far figliuoli, ché ognuno era un altro guaio, senza morir tisico.
Divenuta vecchia, doveva correre sino a Borgo degli Ortolani, e in fondo a Porta Garibaldi, per buscarsi dalle bottegaie qualche mesata da quattro lire.
Suo marito anch'esso, che gli tremavano le mani, faceva appena dieci lire al sabato, tutti tagli e tele di ragno per stagnare il sangue.
Il resto della settimana poi o dietro la vetrina sudicia ingrugnato, o all'osteria col cappello a sghimbescio sull'orecchio.
Anch'essa ora i denari del terno li spendeva in tanta acquavite, di nascosto, sotto il grembiale, e il suo conforto era di sentirsene il cuor caldo, senza pensare a nulla, seduta di faccia alla finestra, guardando di fuori i tetti umidi che sgocciolavano.
L'ULTIMA GIORNATA
I viaggiatori che erano nelle prime carrozze del treno per Como, poco dopo Sesto, sentirono una scossa, e una vecchia marchesa, capitata per sua disgrazia fra un giovanotto e una damigella di quelle col cappellaccio grande, sgranò gli occhi e arricciò il naso.
Il signorino aveva una magnifica pelliccia, e per galanteria voleva dividerla colla sua vicina più giovane, sebbene fosse primavera avanzata.
Fra il sì e il no, stavano appunto aggiustando la partita, nel momento in cui il treno sobbalzò.
Per fortuna la marchesa era conosciuta alla stazione di Monza, e si fece dare un posto di cupé.
I giornali della sera raccontavano:
"Oggi, nelle vicinanze di Sesto, fu trovato il cadavere di uno sconosciuto fra le rotaie della ferrovia.
L'autorità informa".
I giornali non sapevano altro.
Una frotta di contadini che tornavano dalla festa di Gorla si erano trovati tutt'a un tratto quel cadavere fra i piedi, sull'argine della strada ferrata, e avevano fatto crocchio intorno curiosi per vedere com'era.
Uno della brigata disse che incontrare un morto la festa porta disgrazia; ma i più ne levano i numeri del lotto.
Il cantoniere, onde sbarazzare le rotaie, aveva adagiato il cadavere nel prato, fra le macchie, e gli aveva messa una manciata d'erbacce sulla faccia, ch'era tutta sfracellata, e faceva un brutto vedere, per chi passava.
Fra un treno e l'altro corsero il pretore, le guardie, i vicini, e com'era la festa dell'Ascensione, nei campi verdi si vedevano i pennacchi rossi dei carabinieri e i vestiti nuovi dei curiosi.
Il morto aveva i calzoni tutti stracciati, una giacchetta di fustagno logora, le scarpe tenute insieme collo spago, e una polizza del lotto in tasca.
Cogli occhi spalancati nella faccia livida, guardava il cielo azzurro.
La giustizia cercava se era il caso di un assassinio per furto, o per altro motivo.
E fecero il verbale in regola, né più né meno che se in quelle tasche ci fossero state centomila lire.
Poi volevano sapere chi fosse, e d'onde venisse; nome, patria, paternità e professione.
D'indizi non rimanevano che la barba rossa, lunga di otto giorni, e le mani sudice e patite: delle mani che non avevano fatto nulla, e avevano avuto fame da un gran pezzo.
Alcuni l'avevano riconosciuto a quei contrassegni.
Fra gli altri una brigata allegra che faceva baldoria a Loreto.
Le ragazze che ballavano, scalmanate e colle sottane al vento, avevano detto:
- Quello là non ha voglia di ballare! -
Egli andava diritto per la sua strada, colle braccia ciondoloni, le gambe fiacche, e aveva un bel da fare a strascinare quelle ciabatte, che non stavano insieme.
Un momento s'era fermato a sentir suonare l'organetto, quasi avesse voglia di ballar davvero, e guardava senza dir nulla.
Poi seguitò ad allontanarsi per il viale che si stendeva largo e polveroso sin dove arrivava l'occhio.
Camminava sulla diritta, sotto gli alberi, a capo chino.
Il tramvai era stato a un pelo di schiacciarlo, tanto che il cocchiere gli aveva buttato dietro un'imprecazione e una frustata.
Egli aveva fatto un salto disperato per scansare il pericolo.
Più tardi lo videro sul limite di un podere, seduto per terra, in attitudine sospetta.
Pareva che strologasse la pezza di granoturco, o che contasse i sassi del canale.
Il garzone della cascina accorse col randello, e gli si accostò quatto quatto.
Voleva vedere cosa stesse macchinando là quel vagabondo, mentre le pannocchie del granoturco ci voleva del tempo ad esser mature, e in tutto il campo, a farlo apposta, non vi sarebbe stato da rubare un quattrino.
Allorché gli fu addosso vide che si era cavate le scarpe, e teneva il mento fra le palme.
Il garzone, col randello dietro la schiena, gli domandò cosa stesse a far lì, nella roba altrui; e gli guardava le mani sospettoso.
L'altro balbettava senza saper rispondere, e si rimetteva le scarpe mogio mogio.
Poi si allontanò di nuovo, col dorso curvo, come un malfattore.
Andava lungo l'argine del canale, sotto i gelsi che mettevano le prime foglie.
I prati, a diritta e a sinistra, erano tutti verdi.
L'acqua, nell'ombra, scorreva nera, e di tanto in tanto luccicava al sole, un bel sole di primavera, che faceva cinguettare gli uccelli.
Il garzone aggiunse ch'era rimasto più di un'ora in agguato per vedere se tornasse quel vagabondo; e non avrebbe mai creduto che facesse tante storie per andare a finire sotto una locomotiva.
L'aveva riconosciuto da quelle scarpe che non si reggevano neppure collo spago, e gli erano saltate fuori dai piedi, di qua e di là dalle rotaie.
- Gli è che al momento in cui le ruote vi son passate di sopra quei piedi hanno dovuto sgambettare! - osservò il cameriere dell'osteria, corso sin là all'odore del morto come un corvo, in giubba nera e col tovagliuolo al braccio.
Egli aveva visto passare quello sconosciuto dall'osteria verso mezzogiorno: una di quelle facce affamate che vi rubano cogli occhi la minestra che bolle in pentola, quando passano.
Perfino i cani l'avevano odorato, e gli abbaiavano dietro quelle scarpacce che si slabbravano nella polvere.
Come il sole tramontava l'ombra del cadavere si allungava, dai piedi senza scarpe, a guisa di spaventapassere, e gli uccelli volavano via silenziosi.
Dalle osterie vicine giungevano allegri il suono delle voci e la canzone del Barbapedana.
In fondo al cortile, dietro le pianticelle magre in fila si vedevano saltare e ballare le ragazze scapigliate.
E quando il carro che portava i resti del suicida passò sotto le finestre illuminate, queste si oscurarono subito dalla folla dei curiosi che s'affacciavano per vedere.
Dentro, l'organetto continuava a suonar il valzer di Madama Angot.
Più tardi se ne seppe qualche cosa.
La affittaletti di Porta Tenaglia aveva visto arrivare quell'uomo della barba rossa una sera che pioveva, era un mese, stanco morto, e con un fardelletto sotto il braccio che non doveva dargli gran noia.
Ed essa glielo aveva pesato cogli occhi per vedere se ci erano dentro i due soldi pel letto prima di dirgli di sì.
Egli aveva domandato prima quanto si spendeva per dormire al coperto.
Poi ogni giorno che Dio mandava in terra aspettava che gli arrivasse una lettera, e si metteva in viaggio all'alba, per andar a cercare quella risposta, colle scarpe rotte, la schiena curva, stanco di già prima di muoversi.
Finalmente la lettera era venuta, col bollino da cinque.
Diceva che nell'officina non c'era posto.
La donna l'aveva trovata sul materasso, perché lui quel giorno era rimasto sino a tardi col foglio in mano, seduto sul letto, colle gambe ciondoloni.
Nessuno ne sapeva altro.
Era venuto da lontano.
Gli avevano detto: - A Milano, che è città grande, troverete -.
Egli non ci credeva più; ma s'era messo a cercare finché gli restava qualche soldo.
Aveva fatto un po' di tutti i mestieri: scalpellino, fornaciaio, e infine manovale.
Dacché si era rotto un braccio non era più quello; e i capomastri se lo rimandavano dall'uno all'altro, per levarselo di fra' piedi.
Poi quando fu stanco di cercare il pane si coricò sulle rotaie della ferrovia.
A che cosa pensava, mentre aspettava, supino guardando il cielo limpido e le cime degli alberi verdi? Il giorno innanzi, mentre tornava a casa colle gambe rotte, aveva detto: - Domani! -
Era la sera del sabato; tutte le osterie del Foro Bonaparte piene di gente fin sull'uscio, al lume chiaro del gas, dinanzi alle baracche dei saltimbanchi, affollata alle banchette dei venditori ambulanti, perdendosi nell'ombra dei viali, con un bisbiglio di voci sommesse e carezzevoli.
Una ragazza in maglia color carne suonava il tamburo sotto un cartellone dipinto.
Più in là una coppia di giovani seduti colle spalle al viale si abbracciavano.
Un venditore di mele cotte tentava lo stomaco colla sua mercanzia.
Passò dinanzi una bottega socchiusa; c'era in fondo una donna che allattava un bimbo, e un uomo, in maniche di camicia, fumava sulla porta.
Egli camminando guardava ogni cosa, ma non osava fermarsi; gli sembrava che lo scacciassero via, via, sempre via.
I cristiani pareva che sentissero già l'odor del morto, e lo evitavano.
Solo una povera donna, che andava a Sesto curva sotto una gran gerla e brontolando, si mise a sedersi sul ciglio della strada accanto a lui per riposarsi; e cominciò a chiacchierare e a lamentarsi, come fanno i vecchi, ciarlando dei suoi poveri guai: che aveva una figlia all'ospedale, e il genero la faceva lavorare come una bestia; che gli toccava andare fino a Monza con quella gerla lì, e aveva un dolore fisso nella schiena che gliela mangiavano i cani.
Poi anch'essa se ne andò per la sua strada, a far cuocere la polenta del genero che l'aspettava.
Al villaggio suonava mezzogiorno, e tutte le campane si misero in festa per l'Ascensione.
Quando esse tacevano una gran pace si faceva tutto a un colpo per la campagna.
A un tratto si udì il sibilo acuto e minaccioso del treno che passava come un lampo.
Il sole era alto e caldo.
Di là della strada, verso la ferrovia, le praterie si perdevano a tiro d'occhio sotto i filari ombrosi di gelsi, intersecate dal canale che luccicava fra i pioppi.
- Andiamo, via! è tempo di finirla! - Ma non si muoveva, col capo fra le mani.
Passò un cagnaccio randagio e affamato, il solo che non gli abbaiasse, e si fermò a guardarlo fra esitante e pauroso; poi cominciò a dimenar la coda.
Infine, vedendo che non gli davano nulla, se ne andò anch'esso; e nel silenzio si udì per un pezzetto lo scalpiccìo della povera bestia che vagabondava col ventre magro e la coda penzoloni.
Gli organetti continuarono a suonare, e la baldoria durò sino a tarda sera, nelle osterie.
Poi, quando le voci si affiocarono e le ragazze furono stanche di ballare, ricominciarono a parlare del suicidio della giornata.
Una raccontò della sua amica, bella come un angelo, che si era asfissiata per amore, e l'avevano trovata col ritratto del suo amante sulle labbra, un traditore che l'aveva piantata per andare a sposare una mercantessa.
Ella sapeva la storia con ogni particolare; erano state due anni a cucire allo stesso tavolo.
Le compagne ascoltavano mezze sdraiate sul canapè, facendosi vento, ancora rosse e scalmanate.
Un giovanotto disse che egli, se avesse avuto motivo di esser geloso, avrebbe fatta la festa a tutti e due, prima lei e poi lui, con quel trincetto che portava indosso, anche quando non era a bottega - non si sa mai! - E si posava colle mani in tasca davanti alle ragazze, che lo ascoltavano intente, bel giovane com'era, coi capelli inanellati che gli scappavano di sotto a un cappelluccio piccino piccino.
Il cameriere portò delle altre bottiglie, e tutti, coi gomiti allungati sulla tovaglia, parlavano di cose tenere, cogli occhi lustri, stringendosi le mani.
- In questo mondo cane non c'è che l'amicizia e un po' di volersi bene.
Viva l'allegria! Una bottiglia scaccia una settimana di malinconia.
Alcuni si misero in mezzo a rappattumare due pezzi di giovanotti che volevano accopparsi per gli occhi della morettina che andava dall'uno all'altro senza vergogna.
- È il vino! è il vino! - si gridava.
- Viva l'allegria! - I pacieri furono a un pelo di accapigliarsi coll'oste per alcune bottiglie che vedevano di troppo sul conto.
Poi tutti uscirono all'aria fresca, nella notte ch'era già alta.
L'oste stette un pezzetto sprangando tutte le porte e le finestre, facendo i conti sul libraccio unto.
Poi andò a raggiungere la moglie che sonnecchiava dinanzi al banco, col bimbo in grembo.
Le voci si perdevano in lontananza per la strada, con scoppi rari e improvvisi di allegria.
Tutto intorno, sotto il cielo stellato, si faceva un gran silenzio, e il grillo canterino si mise a stridere sul ciglio della ferrovia.
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DRAMMI INTIMI (1884)
I DRAMMI IGNOTI
Casa Orlandi era tutta sottosopra.
La contessina Bice si moriva di malattia di languore, dicevano gli uni: di mal sottile, dicevano gli altri.
Nella gran camera da letto, sola quasi buia in tutto il quartiere illuminato come per una festa, la madre, pallidissima, seduta accanto al letto dell'inferma, aspettava la visita serale del dottore, tenendo nella mano febbrile la mano scarna e ardente della figliuola, parlandole con quell'accento carezzevole e quel falso sorriso con cui si cerca di rispondere allo sguardo inquieto e scrutatore dei gravemente infermi.
Tristi colloqui che celavano sotto l'apparenza della calma la preoccupazione di un morbo fatale da cui era stata colpita la madre della contessa, e che aveva minacciata lei stessa dopo la nascita di Bice - il ricordo delle cure inquiete e trepide di cui era stata circondata l'infanzia di quella bambina - delle prescrizioni severe della scienza che aveva soffocato quasi la sua maternità, e scusato i primi traviamenti del marito, morto giovane di un male da decrepiti, dopo aver agonizzato degli anni su di una poltrona.
- Poi un altro sentimento che aveva fatto rifiorire la sua giovinezza, appassita anzitempo fra quella culla minacciata e quel marito di già cadavere prima di scendere nella tomba.
Un affetto profondo ed occulto, inquieto, geloso, che si mischiava a tutte le sue gioie mondane, e sembrava fatto di quelle, e le raffinava, le rendeva più sottili, più penetranti, come una delicata voluttà che animava ogni cosa, un abbigliamento, un monile, una festa, un trionfo di donna elegante.
- Persino quell'altra nube sórta a un tratto minacciosa in quel cielo azzurro, la malattia della figlia, come una ombra nera che dilatavasi da quei cortinaggi pesanti ed inerti, e ingigantiva, sino a scontrarsi con degli altri giorni neri - la morte di sua madre, l'agonia del marito, la faccia grave e preoccupata di quel medico che era venuto un'altra volta, il tic-tac di quella stessa pendola che riempiva tutta la stanza, tutta la casa, di una aspettativa lugubre.
Le parole della madre e della figlia, che volevano sembrar gaie e spensierate, morivano nella semioscurità di quella vòlta altissima.
Ad un tratto i campanelli elettrici squillarono nella lunga infilata di sale sfavillanti e deserte.
I servitori silenziosi si affrettavano senza far rumore dinanzi al dottore, il quale giungeva calmo, col sorriso mentito in quell'attesa angosciosa.
La contessa si rizzò senza poter dissimulare un tremito nervoso.
- Buona sera! Un po' tardi! Finisco adesso il mio giro.
E questa cara ammalata come è stata? -
S'era assiso di contro al letto; aveva fatto togliere la ventola alla lampada ed esaminava l'inferma, tenendo fra le dita bianche e grassocce il polso delicato e pallido della fanciulla; ripeteva le solite domande.
La contessa rispondeva con un lieve tremito nervoso nella voce; Bice con monosillabi tronchi, sempre con quegli occhi lucenti e inquieti.
Nelle sale accanto si succedevano i colpi di campanello discreti, e la cameriera entrava in punta di piedi per sussurrare all'orecchio della signora il nome degli intimi che venivano a chieder notizie dell'inferma.
Ad un tratto il dottore rizzò il capo.
- Chi è arrivato adesso? - domandò con vivacità strana.
- Il marchese Danei - rispose la contessa.
- La solita pozione per questa notte - continuò il medico, come se avesse dimenticato la sua domanda.
- Osservare a che ora cadrà la febbre.
Del resto nulla di nuovo.
Bisogna dar tempo alla cura -.
Ma non lasciava il polso dell'inferma; fissando uno sguardo penetrante su la fanciulla che aveva chinato gli occhi.
La madre aspettava ansiosa.
Un istante gli occhi ardenti della figlia s'incontrarono con quelli di lei, e avvampò subitamente in viso.
- Per carità, dottore! per carità! - supplicava la contessa, accompagnando il medico sino all'anticamera, senza badare agli amici e ai parenti che aspettavano in un angolo del salone, chiacchierando sottovoce.
- Come ha trovata oggi la Bice? Mi dica la verità!
- Nulla di nuovo - rispondeva lui.
- La solita febbriciattola, il solito squilibrio nervoso...
-
Ma quando furono in un salottino appartato, si piantò ritto dinanzi alla contessa, e disse bruscamente:
- La ragazza è innamorata di questo signor Danei -.
La contessa non rispose sillaba.
Solo impallidì orribilmente, e per istinto si portò le mani al petto.
- Bisogna pensarci! - ribatté il medico con una certa rude franchezza.
- Ora ne son certo.
Il caso è grave.
- Lui! - fu la prima parola che scappò alla madre, senza sapere quel che si dicesse.
- Sì; il polso me l'ha detto.
Lei non ha avuto alcun indizio? Non ha mai sospettato qualche cosa?
- Mai!...
Bice è così timida...
così...
- Il marchese viene spesso in casa? -
La poveretta, sotto gli occhietti grigi di quell'uomo che assumeva l'importanza d'un giudice, balbettò: - Sì.
- Noi altri medici alle volte abbiamo cura d'anime - aggiunse il dottore sorridendo.
- Forse è stato un bene che quel signore sia arrivato nel momento della mia visita.
- Ma ogni speranza non è perduta, dottore? Per l'amor di Dio!...
- No...
secondo i casi.
Buona sera -.
La contessa rimase un momento in quella stanza, quasi al buio, asciugandosi col fazzoletto un lieve sudore che le umettava le tempie.
Quando ripassò dal salone, rapidamente, guardò Danei in un canto, nel crocchio degl'intimi, e salutò tutti con un cenno del capo.
- Bice, figlia mia! il dottore t'ha trovata meglio oggi, sai!
- Sì, mamma - rispose la fanciulla dolcemente, con quella amara indifferenza degli ammalati gravi che stringe il cuore.
- Ci è di là delle visite per te.
Vuoi vederli?
- Chi c'è?
- Ma tutti.
La tua zia, Augusta, il signor Danei...
Vuoi vederli? -
Bice chiuse gli occhi, come fosse stanca; e nell'ombra, così pallida com'era, si vide un lieve rossore montarle alle guance.
- No, mamma.
Non voglio veder nessuno.
-
Attraverso quelle palpebre chiuse, delicate come foglie di rosa, sentiva fisso su di lei lo sguardo angoscioso ed intenso della madre.
All'improvviso riaprì gli occhi, e le buttò al collo quelle povere braccia magre e tremanti sotto la batista, con un moto indefinibile di confusione, di tenerezza e di sconforto.
Madre e figlia si strinsero teneramente, a lungo, senza dir parola, piangendo entrambe delle lagrime che avrebbero voluto nascondersi.
Ai parenti e agli amici che domandavano premurosi notizie dell'inferma, la contessa rispondeva come l'altre volte, ritta in mezzo al salone, senza poter dissimulare uno spasimo interno che di quando in quando le mozzava il respiro.
Allorché tutti se ne furono andati, rimasero faccia a faccia, Danei e lei.
Tante volte erano rimasti soli alcuni minuti, come allora, vicino a quel tavolo, a scambiare qualche parola di conforto e di speranza, o assorti in un silenzio che accomunava il loro pensiero e le loro anime nella stessa preoccupazione dolorosa; momenti tristi e cari, nei quali ella attingeva la forza e il coraggio di rientrare nell'atmosfera cupa e lugubre di quelle stanze d'inferma con un sorriso di incoraggiamento.
Stettero alquanto senza aprir bocca, con la fronte sulla mano.
La contessa aveva tale espressione in tutta la sua persona, che Roberto non sapeva cosa dirle.
Finalmente le stese la destra.
Ella ritirò la sua.
- Sentite, Roberto...
Ho da dirvi una cosa...
una cosa da cui dipende tutta la sua vita -.
Egli aspettava, serio, un po' inquieto.
- Mia figlia vi ama! -
Danei rimase sbalordito, guardando la contessa che si era nascosta il viso tra le mani e piangeva dirottamente.
- Ella!...
È impossibile!...
Guardate bene!...
- No! Me l'ha detto il medico.
Ed ora ne son certa.
Vi ama da morirne...
- Vi giuro!...
Vi giuro che...
- Lo so.
Vi credo.
Non ho bisogno di cercare perché Bice vi ami, Roberto!...
-
E si abbandonò sul divano.
Roberto era commosso anche lui.
Tentò di pigliarle la mano un'altra volta.
Ella lo respinse dolcemente.
- Anna!
- No! - esclamò la madre con vivacità.
E quelle lagrime silenziose pareva che le solcassero le guance delicate come degli anni, degli anni di dolore e di castigo che sopravvenivano tutto a un tratto nella sua esistenza spensierata.
Il silenzio sembrava insormontabile.
Infine Roberto mormorò:
- Cosa volete che faccia?...
dite...
-
Ella lo guardò smarrita, con un'angoscia indicibile.
E balbettò:
- Non so!...
non so!...
Lasciatemi tornar da lei...
Lasciatemi sola stasera...
-
Come rientrava nella camera dell'inferma, dall'ombra del cortinaggio gli occhi della figlia luccicavano ardenti, fissi su di lei, con un lampo inconsciente che l'agghiacciò sulla soglia.
- Mamma - chiese Bice - chi c'è ancora?
- Nessuno, figlia mia.
- Ah!...
Statti con me allora.
Non mi lasciare -.
E le teneva le mani, tremante.
- Povera bimba mia! Povero amore! Guarirai presto, sai! L'ha detto il medico.
- Sì mamma.
- E...
e...
sarai felice -.
La figlia le fissava sempre in viso quello sguardo.
- Sì, mamma -.
Poi chiuse gli occhi, che sembravano neri, nelle orbite incavate.
Successe un mortale silenzio.
La madre scrutava quel viso pallido e impenetrabile con uno sguardo ardente, arrossendo e impallidendo a vicenda.
Ad un tratto si fece smorta come lei, e la chiamò con un'altra voce.
- Bice! -
Il petto della madre si contraeva spasmodicamente, come se qualche cosa vi agonizzasse dentro.
Poi si chinò sulla figliuola, posando la guancia febbrile su quell'altra guancia scarna, e le mormorò nell'orecchio, con un soffio appena intellegibile:
- Ami qualcheduno, figlia mia? -
Bice spalancò gli occhi all'improvviso, tutta una fiamma in volto.
Poi, con quegli occhi sbarrati e quasi paurosi, fissi negli occhi pieni di lagrime della madre, balbettò con un accento ineffabile d'amarezza e quasi di rimprovero:
- Oh mamma!...
-
Allora la sventurata, sentendosi penetrare quella voce e quelle parole sino all'intimo del cuore, ebbe il coraggio d'aggiungere:
- Il signor Danei ha chiesto la tua mano.
- Oh mamma! Oh mamma! - ripeteva la fanciulla con lo stesso accento supplichevole e dolente, stringendosi nelle coperte con un movimento intraducibile.
- Oh mamma!...
-
La contessa, che sembrava anche lei nello smarrimento di un'agonia, biascicava:
- Però...
se tu non l'ami...
se tu non l'ami...
Di'!...
-
L'inferma ascoltava palpitante, ansiosa, agitando le labbra senza proferir parola, con gli occhi spalancati, enormi sul volto rifinito, fissi negli occhi della madre.
Tutt'a un tratto, come quella si chinava verso di lei, l'avvinse al collo con le braccia tremanti, stringendola con una forza che diceva tutto.
La madre, in un impeto d'amore disperato, singhiozzava:
- Guarirai! guarirai! -
E tremava convulsivamente.
Il giorno dopo, la contessa aspettava Danei nel suo gabinettino, seduta accanto al caminetto, stendendo verso il fuoco le mani così bianche che sembravano non avesse più una goccia di sangue nelle vene, con gli occhi fissi sulla fiamma.
Quanti pensieri, quante visioni, quanti ricordi, passavano dinanzi a quegli occhi! Il primo turbamento che l'aveva sorpresa al sentire annunziare la solita visita di lui, - il silenzio che era caduto all'improvviso fra loro due, e la parola che egli le aveva sussurrato all'orecchio, abbassando la voce ed il capo, - il batticuore delizioso che le aveva imporporato le gote ed il seno quando egli l'aveva aspettata nel vestibolo dell'Apollo per vederla passare, bionda, nella mantellina di raso bianco.
- Poi le lunghe fantasticherie color di rosa, a quel medesimo posto, le gioie trepide e intense, le attese febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la sua lezione di musica o di disegno.
Ora, allo squillare del campanello si rizzò con un tremito nervoso.
Tornò a sedere, calma, con le mani in croce sulle ginocchia.
Il marchese si fermò esitante sull'uscio.
Ella gli stese la mano che ardeva, evitando di guardarlo.
Siccome Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, rispose dopo un breve silenzio:
- La sua vita è nelle vostre mani.
- Per l'amor di Dio, Anna!..
Voi v'ingannate!...
- esclamò egli - Bice s'inganna!...
Non può essere! non può essere!...
-
La contessa scosse il capo tristamente.
- No, non m'inganno! Me l'ha confessato ella stessa...
il dottore dice che la sua guarigione dipende...
da ciò!...
- Da che cosa?...
-
Per tutta risposta ella gli fissò in volto gli occhi arsi di febbre.
Allora, sotto quello sguardo, la prima parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu:
- Oh!...
no!...
-
Ella giunse le mani.
- No, Anna; pensateci bene...
Non può essere!...
Voi v'ingannate! - ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente.
Le lagrime le soffocarono la voce in gola.
Poi stese le mani a Danei, senza dir nulla, come nei bei tempi trascorsi.
Soltanto quegli occhi che lo fissavano con un'espressione di preghiera e d'angoscia straziante erano diventati tutt'altri in ventiquattr'ore.
Roberto chinò il capo al pari di lei.
Entrambi erano due cuori onesti e leali, nel significato mondano della parola, nel senso di poter sempre affrontare a fronte aperta qualsiasi conseguenza di ogni loro azione.
Perché la fatalità facesse abbassare quelle teste alte e fiere, bisognava che le avesse messe per la prima volta di fronte a un fatto che rovesciava bruscamente tutta la loro logica e ne mostrava la falsità.
La rivelazione della contessa aveva sbalordito Danei; ora ripensandoci ne era spaventato; e in quel contrasto d'affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, si trovava imbarazzato.
Parlò di loro due, del passato, dell'avvenire che gli faceva paura, cercando le frasi e le parole per scivolare fra tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi.
- Pensateci bene, Anna! Questo matrimonio è impossibile! -
Ella non sapeva che dire.
Balbettava solo: - Mia figlia! mia figlia!
- Ebbene...
Volete che parta?...
che mi allontani per sempre?...
Sapete qual sacrifizio io farei!...
Ebbene, lo volete?
- Ella ne morrebbe -.
Roberto esitò, prima d'affrontare l'ultimo argomento.
Poi mormorò, abbassando la voce:
- Allora...
allora non resta che confessarle ogni cosa...
-
La madre s'irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona.
E rispose con voce sorda, chinando il capo:
- Lo sa!...
Lo sospetta!...
- E nondimeno?...
- riprese Danei dopo un breve silenzio.
- Ne sarebbe morta...
Le ho fatto credere che s'ingannava.
- E lo ha creduto?
- Oh! - esclamò la contessa con un triste sorriso.
- L'amore è credulo...
Lo ha creduto!
- E voi? - chiese Roberto con un tremito che non poté dissimulare nella voce.
- Io ho già tutto sacrificato a mia figlia -.
Poi gli stese la mano, e soggiunse:
- Sentite com'è calma?
- Siete certa che sarà sempre così calma? -
Ella rispose:
- Sempre! -
E sentì freddo sulla nuca, alla radice dei capelli.
Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto.
- Ascoltate, Roberto, ora è vostra madre che vi abbraccia! Anna è morta.
Pensate a mia figlia! Amatela per me e per lei.
Ella è pura e bella come un angelo.
La felicità la farà rifiorire.
Voi l'amerete come non avete mai amato...
Dimenticherete ogni cosa...
siate tranquillo!...
-
Roberto era pallido.
Il matrimonio della contessina Bice fu annunciato ufficialmente pochi giorni dopo che ella entrò in convalescenza.
Amici e parenti venivano a congratularsi dei due fortunati avvenimenti in una volta.
Il marchese Danei era un partito convenientissimo; e se un qualche indiscreto arrischiò delle osservazioni sulla disparità degli anni, o altro, fu messo subito a tacere dal coro unanime delle signore che si sollevava scandalizzato.
La fanciulla risanava davvero, raggiante di una vita nuova, colla cecità, colla credulità, coll'oblio, coll'egoismo della felicità che espandeva nel seno della madre, la quale sorrideva.
Il dottore si fregava le mani, borbottando:
- Io non ci ho alcun merito.
Io faccio come Pilato.
Questa benedetta gioventù se ne ride della scienza.
Io non ci ho altro da prescrivere qui: Recipe.
- L'inverno a San Remo o a Napoli.
L'estate a Pegli o a Livorno.
Una scappata a Roma pei balli del carnevale, e un bel maschiotto alla fine della cura -.
La contessa, alla figlia che avrebbe voluto condurla seco rispondeva:
- No.
Io e il dottore non ci abbiamo più nulla a fare in questo viaggio.
Tutta la mia pretesa è che siate felici! -
E sorrideva agli sposi, del suo sorriso un po' stanco.
La figlia alle volte aveva inconsciamente degli sguardi acuti che correvano come un lampo dal fidanzato alla madre.
A quelle parole, senza saper perché l'abbracciò stretta, nascondendole il viso in seno.
La contessa diceva che quella era l'ultima sua festa; e le sue spalle bianche e delicate si mostrarono un'ultima volta alla cerimonia dello sposalizio, nelle sale scintillanti di lumi, e affollate di amici e parenti come nei giorni più tristi in cui venivano a chieder notizie della Bice.
Roberto le baciò la mano senza poter dissimulare un certo turbamento.
Poi, quando l'ultima carrozza fu partita e non rimase a piè dello scalone che il piccolo coupé del marchese, e la carretta inglese che portava il bagaglio degli sposi, mentre Bice era andata a cambiarsi d'abito, rimasero soli un momento, Roberto e lei.
- Fatela felice, Roberto -.
Danei era nervoso, abbottonava macchinalmente il suo ulster da viaggio, si cavava e tornava a infilarsi i guanti.
Non disse una parola.
Madre e figlia si abbracciarono strette, strette, lungamente.
Poi la contessa respinse quasi bruscamente la figliuola, dicendo:
- È tardi.
Perdete il treno.
Andate! andate! -
La contessa Orlandi aveva tossito un poco quell'inverno, e di tanto in tanto aveva avuto bisogno del medico.
Costui, onde non spaventarla, la sgridava perché passava le mattinate in chiesa a salvarsi l'anima e perdere il corpo.
Parlava di semplici raffreddori.
In realtà entrambi pensavano ad altro, ad una minaccia più grave, e sapevano d'ingannarsi a vicenda.
Bice scriveva che stava bene, che era contenta, che era felice, e più tardi accennò anche velatamente a un altro avvenimento che avrebbe affrettato il loro ritorno prima dell'anno.
La contessa telegrafò di non farne nulla, di aspettare l'avvenimento là dove si trovavano.
Ella era inquieta; temeva lo strapazzo del viaggio.
Piuttosto sarebbe corsa lei a raggiungerli, all'ultimo momento.
Però tardava sempre.
I telegrammi si succedevano.
Infine Roberto ebbe un dispaccio.
- Arrivo stasera -.
Il viaggio le parve eterno.
Ma allorché udì il fischio dell'arrivo si sentì mancare; ebbe quasi paura.
La prima persona che vide sul marciapiede della stazione, in mezzo alla folla, fu Roberto, che l'aspettava, solo.
Ella si strinse con forza il manicotto sul cuore, quasi le mancasse il respiro.
Roberto le baciò la mano, sul guanto, e passarono insieme pel cancello.
Intanto balbettava:
- Bice? come sta? -
Fuori era fermo il piccolo coupé del marchese, col servitore accanto allo sportello aperto.
Doveva montare insieme a lui! Ella si stringeva nel suo cantuccio, chiusa nella sua pelliccia, col velo sul viso.
- Bice sarà tanto contenta! - mormorava lui - tanto contenta! - Ripeteva sempre la stessa cosa, col viso rivolto allo sportello, impaziente d'arrivare.
Sfilavano le case e le botteghe illuminate.
Ad un tratto successe l'oscurità, nell'attraversare una piazza.
Tutti e due istintivamente si scostarono, e tacquero.
Poi si udì rimbombare il rumore della carrozza sotto la vòlta dell'androne.
Bice era corsa a piedi della scala; si buttò al collo della mamma con un diluvio di carezze e di parole sconnesse.
Era sofferente, e Roberto le diede il braccio per salire le scale.
La madre veniva dopo, un po' stanca anch'essa e soffocata dalla sua gran pelliccia.
Quando furono nel salone, in piena luce, ella fu colpita dall'aspetto di Bice, dalla veste da camera discinta, dalle mani venate d'azzurro posate sui bracciuoli, dal viso sbattuto ma raggiante di una felicità serena.
Roberto si chinava per parlarle all'orecchio.
Senza avvedersene s'erano appartati alquanto, vicino al parafuoco che li colorava di un'aureola rosata.
Allora alla donna lasciata in disparte sfuggì un'occhiata rapida e scintillante come una saetta.
Un momento rimasero sole madre e figlia.
Dopo avere esitato alquanto, la madre chiese:
- Sei felice?
- Sì, mamma!...
Tanto felice! -
Anna sola sembrava calma.
Allorché rimasero faccia a faccia con Roberto, ed egli parlava, parlava, quasi avesse paura del silenzio, - ella ascoltava col sorriso distratto, sprofondata nella poltrona accanto al fuoco che lumeggiava d'azzurro i capelli neri, col fine profilo opaco inquadrato nella luce al pari di un cammeo.
Una sera che Bice si era ritirata prima del solito, e Roberto era restato con la contessa nel salone a farle compagnia, il silenzio piombò all'improvviso fra di loro.
La contessa si alzò, e gli diede la buona notte semplicemente, accusando un po' di stanchezza anche lei.
Roberto era turbato parimente.
In questa apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo accappatoio bianco.
Madre e figlia si guardarono: e la prima rimase senza parola, quasi senza fiato.
Roberto, il meno imbarazzato di tutti e tre, disse:
- Che hai, Bice?
- Nulla...
Non potevo dormire...
che ora è?
- Non è tardi.
Tua madre voleva ritirarsi perché è stanca...
- Miei cari - disse questa con un mesto sorriso.
- Alla mia età...
Pensateci bene...
-
E come Roberto, per abitudine, faceva un gesto...
essa rialzò alquanto i capelli sulle tempie, per mostrare quelli di sotto, tutti bianchi.
- Oh, è un pezzo! - rispose all'atto di sorpresa di Bice.
Questa, con uno slancio affettuoso, le buttò le braccia al collo, e le cacciò la testa in seno, senza dir nulla.
Però le mani della madre sentivano che tremava tutta.
Roberto era presso il camino, in silenzio, col capo un po' curvo, come gli pesasse qualche cosa sull'anima, e sentisse di essere di troppo fra quelle due donne, in tal momento.
Quando i suoi occhi s'incontrarono con quelli di Anna arrossì; e fu quella l'unica volta che fra di loro divampasse un ricordo del passato!
- Ora son nonna! - osservò sorridendo la contessa, ritta di faccia allo specchio, e lisciandosi i capelli con le mani bianche.
E rivolgendosi verso di loro, stese semplicemente le mani a tutti e due.
Roberto gliele baciò, chinando profondamente il capo.
Bice di tanto in tanto le stringeva la destra nervosamente; ed ella sentiva quella stretta penetrarle sino al cuore, come una fitta.
Allorquando fu sola nella sua stanza, si buttò ginocchioni davanti al crocifisso, col capo fra le braccia, e la luce della candela solitaria le baciò a lungo la nuca bianca e delicata.
Passò due settimane in casa della figlia, dove si sentiva estranea, accanto a Bice, accanto a lui! Com'erano mutati! quando egli le dava il braccio per andare a tavola; quando Bice diceva, - Mamma! - senza guardarla, e arrossiva se parlava di suo marito! - Dimenticherete, siate tranquillo! - ella avea detto a Roberto.
E per dimenticare era bastato!...
Ahi! Ella chiudeva gli occhi rabbrividendo a quel pensiero.
Qualche volta, all'improvviso, sentiva degli impeti di collera, quasi di gelosia pazza.
Gli aveva tolto persino il cuore di sua figlia! Tutto gli aveva tolto quell'uomo!
Una sera avvenne un gran trambusto nella casa; cocchieri e servitori spediti in furia; medici che arrivavano frettolosi, ed entravano difilato nella camera di Bice.
Ad intervalli succedeva un gran silenzio.
C'era una bugia sola che rischiarava il salone.
Tutt'a un tratto si udì un grido: un grido straziante che risonò dentro di lei come uno schianto.
E non poteva pregare nemmeno.
La sua ragione se ne andava dietro quei passi che si udivano frettolosi, in anticamera, pel corridoio, per le scale.
Più tardi, Roberto bussò discretamente all'uscio di lei, ella proferì: - Entrate! - con voce rauca.
Era commosso e raggiante insieme.
Non l'avea mai visto così.
Volevano che venisse a vedere il neonato; che fosse la madrina; che so io...
- No! - rispose, con la febbre negli occhi.
Poscia accorse nella camera della figlia, convulsa.
Bice era supina sul letto, bianca, estenuata, con gli occhi socchiusi e ancora umidi, e i denti stretti dall'angoscia.
La madre si sentiva dentro di sé questo ruggito:
- Voi me l'avete uccisa voi! -
Venne il giorno del battesimo, nella chiesa tutta scintillante di lumi.
La contessa aveva poi consentito a fare da madrina.
Se alle volte usciva in qualche stranezza, dovevano accusarne lo stato di salute della povera nonna; diceva sorridendo: - Anche le nonne hanno dei nervi! - Quando le tolsero di dosso la pelliccia, sotto i merletti e i diamanti dell'abito di gala, parve di vedere uno spettro.
Gli omeri aguzzi mal dissimulati, e gli occhi arsi di febbre, in fondo alle occhiaie livide, sul volto solcato.
La bambina fu battezzata Carlotta Danei.
Bice andava rimettendosi lentamente.
Era un organismo delicato che vibrava al minimo urto.
Nei lunghi giorni di convalescenza le venivano dei pensieri neri, degli impeti di irritazione sorda ed ingiusta, degli scoramenti improvvisi, come se tutti l'abbandonassero.
Allora guardava muta, cogli occhi neri, e diceva al marito con un accento indefinibile:
- Perché esci? Dove vai? Perché mi lasci sola? -
La sera del battesimo, al vedere i pizzi e i diamanti della mamma, aveva mormorato, stringendosi nelle coperte, aggrottando le ciglia, con uno strano accento di rancore quasi selvaggio:
- Come sei bella! -
E poi, una volta, nella febbre, con gli occhi accesi: - Quando partirai? -
Roberto abbassava il capo, e la contessa si sentiva soffocare.
Alcuni istanti dopo, dietro alle cortine del letto, si portò il fazzoletto alle labbra, e lo nascose in fretta macchiato di sangue.
Poscia Bice tornava in sé, e pareva chiedere perdono a tutti con le sue parole e le carezze affettuose.
Appena cominciò a lasciare il letto, sua madre fissò il giorno della partenza.
Bice le rivolse uno sguardo scrutatore e impallidì chinando tosto gli occhi.
Quando fu l'ultimo momento, alla stazione, erano commosse tutte e due, abbracciandosi senza dire una parola, come si lasciassero per sempre.
La contessa arrivò tardi, la sera, affranta, intirizzita dal freddo.
La casa vasta e deserta era fredda anch'essa, col gran fuoco acceso, con le lumiere solitarie, per tutta l'infilata delle sale.
Anna s'era ammalata.
Prima accusò la stanchezza del viaggio, poi le commozioni, o un colpo d'aria.
Stette circa tre mesi fra letto e lettuccio, il medico tornò a venire tutti i giorni.
- Non è nulla - ripeteva lei - oggi mi sento meglio.
Domani mi alzerò -.
Alla figlia scriveva regolarmente, e non aveva voluto che il dottore la informasse della malattia.
Verso il principio dell'autunno parve migliorare davvero.
Ad un tratto ricadde, e in due giorni peggiorò in guisa che il dottore si credette in debito di telegrafare al genero.
Roberto arrivò il giorno dopo, agitatissimo.
- Bice è in stato interessante - disse al dottore, che vide per il primo - e ho temuto che questa notizia...
- Ha fatto bene.
Anche la salute della marchesa ha bisogno di molti riguardi....
È una malattia gentilizia...
Io stesso non avrei preso su di me questa responsabilità se non fosse stata...
la gravità del caso...
- Molto grave? - balbettò Roberto.
Il dottore scosse il capo.
- Le hanno portato oggi il viatico -.
Per tutte le stanze infatti vagava un odore di incenso.
- Odore di morte - diceva il medico, vinto nella camera della moribonda da un odore più forte di etere, acuto, penetrante, che sembrava andare al cuore.
Il letto bianco impallidiva in fondo alla vasta alcova oscura spalancata.
Roberto si arrestò su quella soglia, sconvolto, e fece un passo indietro.
- Non vuol vederla? - chiese la vecchia cameriera.
- No...
Non so...
Bisognerebbe avvertirla...
-
La cameriera si accostò al letto, e si chinò sulla moribonda.
Poi le fece un segno con la mano.
Anna era immobile, con gli occhi spalancati, delle ombre livide sulle guance e alle tempie.
Ai piedi del letto stava una suora vestita di color bruno.
La cameriera ritta dall'altro lato, piangendo.
- Bice...
- balbettava Roberto - Bice...
-
E non poteva aggiunger altro, soffocato.
Ella non rispondeva, non fiatava nemmeno, sempre con gli occhi aperti, fissi, immobili.
Roberto si volse al dottore, con un'interrogazione d'angoscia repressa negli occhi.
Questi scosse il capo.
Roberto lentamente cadde sui ginocchi, quasi gli fossero mancate le gambe.
Tutt'a un tratto la pendola sonò la mezza; egli tornò a rizzarsi in piedi con un sussulto.
La suora si era alzata, e la cameriera si accostava al letto, col fazzoletto agli occhi.
Ma la moribonda non si era mossa.
Il medico le teneva il polso con gli occhi fissi su di lei.
Da lì a poco come un'ombra le passò sul viso.
Roberto sentì una mano che lo prendeva per il braccio, e lo conduceva via dolcemente.
LA BARBERINA DI MARCANTONIO
Anni sono, quando Barbara, orfanella, sposò Marcantonio, mugnaio, parve che chiappasse un terno a secco.
Pazienza i 40 anni dello sposo, ma la prima moglie di lui gli aveva lasciato il mulino, e un orticello, che si affacciava dentro le finestre, un mese ogni anno, col verde delle piante, e altro ben di Dio.
Marcantonio aveva sposata l'orfanella per fare una buona azione, dopo la morte della buon'anima, e scacciare la malinconia, che sembrava fissa in casa col rumore di quella ruota che girava sempre, notte e giorno, nel torrentello chiuso in mezzo a una forra scura, e non si udiva altro, in quella solitudine.
Amici e parenti furono invitati alle nozze, si fece festa sul praticello davanti al mulino, e brindisi a tutto andare, alla sposa che era fina e bianca come la farina di prima qualità, al mugnaio ch'era ancora in gamba - costò cinquanta svanziche quell'allegria - ché allora nel Veneto correvano ancora le svanziche e gli Austriaci.
Solo il Moccia che aveva il vino cattivo badava a predicare: - Andate là che ve ne pentirete! -
In seguito venne la processione dei figliuoli, che non finivano più.
Barberina allampanava a quel mestiere di far la chioccia, smunta e pallida, nella tristezza di quella buca senza verde e senza sole.
Tuttavia non si smarriva d'animo, ed era il braccio destro del mulino, diceva suo marito.
Correva la voce che dalla mamma avesse preso il malsottile.
Il fatto era che i figliuoli, quanti ne faceva, gli morivano presto, quasi mancasse l'aria in quel fosso.
Il medico predicava che era umido e malsano.
- Cosa potevano farci? Quella era la loro casa e ogni loro bene -.
Poi in maggio i rami rinverdivano, e su per l'erta, di faccia alle finestre, spuntavano dei fiorellini gialli e rossi.
La Barbara ci portava i bimbi in collo, a godersi il bel sole.
Ma morivano egualmente.
Ella sola non moriva, e continuava a far figliuoli, come un castigo di Dio, invecchiata e ischeletrita quasi fosse la morte che partoriva.
Il dottore aveva un bel chiamarsi in disparte Marcantonio e dirgli il fatto suo.
L'altro rispondeva, mordendosi le mani: - Cosa posso farci? Questa è la volontà di Dio! -
Finalmente quando Dio volle, la Barbara finì col dare alla luce un'ultima bambina, come non avesse avuto più sangue nelle vene, e lo avesse dato tutto alla figliuola.
Pareva che si fosse addormentata; e quella notte erano soli nel mulino, mentre il vento e la pioggia volevano portarselo via.
La bimba crebbe fine e delicata, e la chiamarono Barberina come la madre.
- Tutta lei, buon'anima! - esclamava Marcantonio.
A sedici anni era già una donnina, magra e pallida al pari della mamma, ma brava massaia come lei.
Al babbo che andava innanzi negli anni, gli metteva la vecchiaia nella bambagia.
Il signore si vedeva che gliela aveva lasciata per supplire la buon'anima che era in paradiso, e con quel tesoro in casa Marcantonio non aveva bisogno di ammogliarsi la terza volta.
Però la Barberina della mamma aveva anche la vita corta.
Al principio dell'inverno cominciò a tossire, e a sputar sangue di nascosto.
Il medico, che li conosceva di madre in figlia, conchiuse: - Non ve l'avevo detto? Ha il male di sua madre -.
E Marcantonio quel giorno pianse di nascosto anche lui.
Nondimeno, siccome la malattia procedeva lentamente, a poco a poco si abituarono entrambi, e non ci pensavano più.
Quando le tornava la febbre, alla ragazza, o tossiva più del solito, cercavano se aveva preso freddo, se si era bagnate le mani, o altri motivi simili, e non chiamavano neppure il medico.
Nel finire della state, una sera che diluviava come in marzo, arrivò il Moccia, vecchio anche lui adesso, che passava di tanto in tanto dal mulino, quand'era da quelle parti.
E raccontò che la campagna, al basso, era tutta allagata.
La Barberina, che non lasciava il letto da qualche tempo e non dormiva più, esclamò:
- Poveretti!
- Voi altri - finì il Moccia - se continua a piovere e a crescere la piena del fiume, fareste bene ad andarvene anche voi -.
Marcantonio, col cuore serrato per la figlia che non si poteva muovere, rispose che il fiume era lontano, e non c'era pericolo.
Poi il Moccia se ne andò, ed egli lo accompagnò col lume.
- Sapete - gli disse il Moccia.
- La Barberina mi par che stia proprio male stasera.
- O babbo - chiese la Barberina.
- Che ha detto il Moccia?
- Dice che la piena è grande; ma non ci badare.
Tutt'al più, se il torrente ingrossa anch'esso, smonterò la ruota -.
Sul tardi la ruota si fermò da sé; e Barberina, che aveva il sonno leggero dei malati, chiamò il babbo.
Marcantonio prese il lume e scese per la bodola.
Laggiù l'acqua nera gorgogliava, luccicava dove batteva il lume.
La Barberina, al veder risalire il babbo pallido e turbato, tornò a chiedere.
- Che c'è babbo?
- La piena - rispose stavolta Marcantonio.
- O poveretti noi! E tutto quel grano ch'è laggiù! E la casa? Ed io non posso aiutarvi! -.
Marcantonio pensava appunto a lei, che non poteva muoversi.
- Ora mi vesto, - diceva la ragazza.
- Ora vengo ad aiutarvi -
Ma le forze le mancavano, per quanto si affannasse, con quelle povere braccia stecchite, e quegli omeri aguzzi che volevano bucare la camicia.
Per fortuna tornò il Moccia, che non era potuto andare più avanti, a motivo della piena, ed altre anime pietose, le quali si erano ricordate di Marcantonio e della figliuola moribonda che affogavano nel mulino.
All'udir picchiare alla finestra, il vecchio prese animo.
- O Vergine santa! Ch'è mai successo? - esclamava Barberina con quegli occhi spaventati dentro le occhiaie nere.
L'avvolsero nelle coperte, e la fecero uscire dalla finestra, che Dio sa come ci arrivò la poveretta.
Al di fuori tutta la forra dove scorreva il torrentello era nera e spumosa.
Dappertutto, dove passavano col carretto di Barberina, gente in fuga, e masserizie per aria.
Pure, al veder lei, si fermavano a compassionarla.
All'alba si vide il fiume che si allargava dappertutto, come un mare.
Le avevano fatto un po' di riparo, come meglio potevano, lì nell'argine affollato di gente e di bestiame, con del fieno e delle coperte, e lei badava a ripetere:
- Oh Vergine Maria, cos'è successo?
- È successo - rispose il Moccia - che abbiamo addosso il castigo di Dio.
Non avete inteso che verrà la cometa? -
Ella, vedendo piovere su quei rifugiati, stretti sull'argine, andava dicendo, senza pensare a lei, che poco poteva starci:
- E quei poveretti? E se si sfascia l'argine? E il grano? E la casa? E il mulino? E come farete, babbo, senza di me?
- Una cosa da far compassione alle pietre - conchiuse il Moccia, a vederla andarsene così, in mezzo a quella rovina.
TENTAZIONE!
Ecco come fu.
- Vero com'è vero Iddio! Erano in tre: Ambrogio, Carlo e il Pigna, sellaio.
Questi che li avevano tirati pei capelli a far baldoria: - Andiamo a Vaprio col tramvai -.
E senza condursi dietro uno straccio di donna! Tanto è vero che volevano godersi la festa in santa pace.
Giocarono alle bocce, fecero una bella passeggiata sino al fiume, si regalarono il bicchierino e infine desinarono al Merlo bianco, sotto il pergolato.
C'era lì una gran folla, e quel dell'organetto, e quel della chitarra, e ragazze che strillavano sull'altalena, e innamorati che cercavano l'ombrìa; una vera festa.
Tanto che il Pigna s'era messo a far l'asino con una della tavolata accanto, civettuola, con la mano nei capelli, e il gomito sulla tovaglia.
E Ambrogio, che era un ragazzo quieto, lo tirava per la giacchetta, dicendogli all'orecchio:
- Andiamo via, se no si attacca lite -.
Dopo, al cellulare, quando ripensava al come era successo quel precipizio, gli pareva d'impazzire.
Per acchiappare il tramvai, verso sera, fecero un bel tratto di strada a piedi.
Carlo, che era stato soldato, pretendeva conoscere le scorciatoje, e li aveva fatto prendere per una viottola che tagliava i prati a zig zag.
Fu quella la rovina!
Potevano essere le sette, una bella sera d'autunno, coi campi ancora verdi che non ci era anima viva.
Andavano cantando, allegri della scampagnata, tutti giovani e senza fastidi pel capo.
Se fossero loro mancati i soldi, pure il lavoro, o avessero avuto altri guai, forse sarebbe stato meglio.
E il Pigna andava dicendo che avevano spesi bene i loro quattrini quella domenica.
Come accade, parlavano di donne, e dell'innamorata, ciascuno la sua.
E lo stesso Ambrogio, che sembrava una gatta morta, raccontava per filo e per segno quel che succedeva con la Filippina, quando si trovavano ogni sera dietro il muro della fabbrica.
- Sta a vedere - borbottava infine, ché gli dolevano le scarpe.
- Sta a vedere che Carlino ci fa sbagliare la strada! -
L'altro, invece, no.
Il tramvai era là di certo, dietro quella fila d'olmi scapitozzati, che non si vedeva ancora per la nebbiolina della sera.
"L'è sott'il pont, l'è sott'il pont a fà la legnaaa..." Ambrogio dietro faceva il basso, zoppicando.
Dopo un po' raggiunsero una contadina, con un paniere infilato al braccio, che andava per la stessa via.
- Sorte! - esclamò il Pigna.
- Ora ci facciamo insegnar la strada -.
Altro! Era un bel tocco di ragazza, di quelle che fan venire la tentazione a incontrarle sole.
- Sposa, è questa la strada per andare dove andiamo? - chiese il Pigna ridendo.
L'altra, ragazza onesta, chinò il capo, e affrettò il passo senza dargli retta.
- Che gamba, neh! - borbottò Carlino.
- Se va di questo passo a trovar l'innamorato, felice lui!-
La ragazza, vedendo che le si attaccavano alle gonnelle, si fermò su due piedi, col paniere in mano, e si mise a strillare:
- Lasciatemi andare per la mia strada, e badate ai fatti vostri.
- Eh! che non ce la vogliamo mangiare! - rispose il Pigna.
- Che diavolo! -
Ella riprese per la sua via, a testa bassa, da contadina cocciuta che era.
Carlo, a fine di rompere il ghiaccio, domandò:
- O dove va, bella ragazza...
come si chiama lei?
- Mi chiamo come mi chiamo, e vado dove vado -.
Ambrogio volle intromettersi lui: - Non abbia paura, che non vogliamo farle male.
Siamo buoni figliuoli, andiamo al tramvai pei fatti nostri -.
Come egli aveva la faccia d'uomo dabbene la giovane si lasciò persuadere, anche perché annottava, e andava a rischio di perdere la corsa.
Ambrogio voleva sapere se quella era la strada giusta pel tramvai.
- M'hanno detto di sì - rispose lei.
- Però io non son pratica di queste parti -.
E narrò che veniva in città per cercare di allogarsi.
Il Pigna, allegro di sua natura, fingeva di credere che cercasse di allogarsi a balia, e se non sapeva dove andare, un posto buono glielo trovava lui la stessa sera, caldo caldo.
E come aveva le mani lunghe, ella gli appuntò una gomitata che gli sfondò mezzo le costole.
- Cristo! - borbottò.
- Cristo, che pugno! E gli altri sghignazzavano.
- Io non ho paura di voi né di nessuno! - rispose lei.
- Né di me? - E neppure di me? - E di tutti e tre insieme? - E se vi pigliassimo per forza? - Allora si guardarono intorno per la campagna, dove non si vedeva anima viva.
- O il suo amoroso - disse il Pigna per mutar discorso - o il suo amoroso come va che l'ha lasciata partire?
- Io non ne ho - rispose lei.
- Davvero? Così bella!
- No, che non son bella.
- Andiamo, via! E il Pigna si mise in galanteria, coi pollici nel giro del panciotto.
- Perdio! se era bella! Con quegli occhi, e quella bocca, e con questo, e con quest'altro! - Lasciatemi passare - diceva ella ridendo sottonaso, con gli occhi bassi.
- Un bacio almeno, cos'è un bacio? Un bacio almeno poteva lasciarselo dare, per suggellare l'amicizia.
Tanto, cominciava a farsi buio, e nessuno li vedeva.
- Ella si schermiva, col gomito alto.
- Corpo! che prospettiva - Il Pigna se la mangiava con gli occhi, di sotto il braccio alzato.
Allora ella gli si piantò in faccia, minacciandolo di sbattergli il paniere sul muso.
- Fate pure! picchiate sinché volete.
Da voi mi farà piacere! - Lasciatemi andare, o chiamo gente! - Egli balbettava, con la faccia accesa: - Lasciatevelo dare, che nessun ci sente -.
Gli altri due si scompisciavano dalle risa.
Infine la ragazza, come le si stringevano addosso, si mise a picchiare sul sodo, metà seria metà ridendo, su questo e su quello, come cadeva.
Poi si diede a correre con le sottane alte.
- Ah! lo vuoi per forza! lo vuoi per forza! - gridava il Pigna ansante, correndole dietro.
E la raggiunse col fiato grosso, cacciandole una manaccia sulla bocca.
Così si acciuffarono e andavano sbatacchiandosi qua e là.
La ragazza furibonda mordeva, graffiava, sparava calci.
Carlo si trovò preso in mezzo per tentare di dividerli.
Ambrogio l'aveva afferrata per le gambe onde non azzoppisse qualcheduno.
Infine il Pigna, pallido, ansante, se la cacciò sotto, con un ginocchio sul petto.
E allora tutti e tre, l'uno dopo l'altro, al contatto di quelle carni calde, come fossero invasati a un tratto da una pazzia furiosa, ubbriachi di donna...
Dio ce ne scampi e liberi!
Ella si rialzò come una bestia feroce, senza dire una parola, ricomponendo gli strappi del vestito e raccattando il paniere.
Gli altri si guardavano fra di loro con un risolino strano.
Com'ella si muoveva per andarsene, Carlo le si piantò in faccia col viso scuro: - Tu non dirai nulla! - No! non dirò nulla! - promise la ragazza con voce sorda.
Il Pigna a quelle parole l'afferrò per la gonnella.
Ella si mise a gridare.
- Aiuto!
- Taci!
- Ajuto, all'assassino!
- Sta zitta, ti dico! -
Carlino l'afferrò alla gola.
- Ah! vuoi rovinarci tutti, maledetta! - Ella non poteva più gridare, sotto quella stretta, ma li minacciava sempre con quegli occhi spalancati dove c'erano i carabinieri e la forca.
Diventava livida, con la lingua tutta fuori, nera, enorme, una lingua che non poteva capire più nella sua bocca; e a quella vista persero la testa tutti e tre dalla paura.
Carlo le stringeva la gola sempre più a misura che la donna rallentava le braccia, e si abbandonava, inerte, con la testa arrovesciata sui sassi, gli occhi che mostravano il bianco.
Infine la lasciarono ad uno ad uno, lentamente, atterriti.
Ella rimaneva immobile stesa supina sul ciglione del sentiero, col viso in su e gli occhi spalancati e bianchi.
Il Pigna abbrancò per l'omero Ambrogio che non si era mosso, torvo, senza dire una parola, e Carlino balbettò:
- Tutti e tre, veh! Siamo stati tutti e tre!...
O sangue della Madonna!...
-
Era venuto buio.
Quanto tempo era trascorso? Attraverso la viottola bianchiccia si vedeva sempre per terra quella cosa nera, immobile.
Per fortuna non passava nessuno di là.
Dietro la pezza di granoturco c'era un lungo filare di gelsi.
Un cane s'era messo ad abbaiare in lontananza.
E ai tre amici pareva di sognare quando si udì il fischio del tramvai, che andavano a raggiungere mezz'ora prima, come se fosse passato un secolo.
Il Pigna disse che bisognava scavare una buca profonda, per nascondere quel ch'era accaduto, e costrinsero Ambrogio per forza a strascinare la morta nel prato, com'erano stati tutti e tre a fare il marrone.
Quel cadavere pareva di piombo.
Poi nella fossa non c'entrava.
Carlino gli recise il capo, col coltelluccio che per caso aveva il Pigna.
Poi quand'ebbero calcata la terra pigiandola coi piedi, si sentirono più tranquilli e si avviarono per la stradicciuola.
Ambrogio sospettoso teneva d'occhio il Pigna che aveva il coltello in tasca.
Morivano dalla sete, ma fecero un lungo giro per evitare un'osteria di campagna che spuntava nell'alba; un gallo che cantava nella mattinata fresca li fece trasalire.
Andavano guardinghi e senza dire una parola, ma non volevano lasciarsi, quasi fossero legati insieme.
I carabinieri li arrestarono alla spicciolata dopo alcuni giorni; Ambrogio in una casa di mal affare, dove stava da mattina a sera; Carlo vicino a Bergamo, che gli avevano messo gli occhi addosso al vagabondare che faceva, e il Pigna alla fabbrica, là in mezzo al via vai dei lavoranti e al brontolare della macchina; ma al vedere i carabinieri si fece pallido e gli s'imbrogliò subito la lingua.
Alle Assise, nel gabbione, volevano mangiarsi con gli occhi l'un l'altro, che si davano del Giuda.
Ma quando ripensavano poi al cellulare com'era stato il guaio, gli pareva d'impazzire, una cosa dopo l'altra, e come si può arrivare ad avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare.
LA CHIAVE D'ORO
A Santa Margherita, nella casina del Canonico stavano recitando il Santo Rosario, dopo cena, quando all'improvviso si udì una schioppettata nella notte.
Il canonico allibì, colla coroncina tuttora in mano, e le donne si fecero la croce, tendendo le orecchie, mentre i cani nel cortile abbaiavano furiosamente.
Quasi subito rimbombò un'altra schioppettata di risposta nel vallone sotto la Rocca.
- Gesù e Maria, che sarà mai? - esclamò la fantesca sull'uscio della cucina.
- Zitti tutti! - esclamò il Canonico, pallido come il berretto da notte.
- Lasciatemi sentire -.
E si mise dietro l'imposta della finestra.
I cani si erano chetati, e fuori si udiva il vento nel vallone.
A un tratto riprese l'abbaiare più forte di prima, e in mezzo, a brevi intervalli, si udì bussare al portone con un sasso.
- Non aprite, non aprite a nessuno! - gridava il Canonico, correndo a prendere la carabina al capezzale del letto, sotto il crocifisso.
Le mani gli tremavano.
Poi, in mezzo al baccano, si udì gridare dietro al portone: - Aprite, signor Canonico; son io, Surfareddu! - E come finalmente il fattore del pianterreno escì a chetare i cani e a tirare le spranghe del portone, entrò il camparo, Surfareddu, scuro in viso e con lo schioppo ancora caldo in mano.
- Che c'è Grippino? cos'è successo? - chiese il Canonico spaventato.
- C'è, vossignoria, che mentre voi dormite e riposate, io arrischio la pelle per guardarvi la roba - rispose Surfareddu.
E raccontò cos'era successo, in piedi, sull'uscio, dondolandosi alla sua maniera.
Non poteva pigliar sonno, dal gran caldo, e s'era messo un momento sull'uscio della capanna, di là, sul poggetto, quando aveva udito rumore, nel vallone, dove era il frutteto, un rumore come le sue orecchie sole lo conoscevano, e la Bellina, una cagnaccia spelata e macilenta che gli stava alle calcagna.
Bacchiavano nel frutteto arance e altre frutta; un fruscìo che non fa il vento; e poi ad intervalli silenzio, mentre empivano i sacchi.
Allora aveva preso lo schioppo d'accanto all'uscio della capanna, quel vecchio schioppo a pietra con la canna lunga e i pezzi d'ottone che aveva in mano.
Quando si dice il destino! Perché quella era l'ultima notte che doveva stare a Santa Margherita.
S'era licenziato a Pasqua dal Canonico, d'amore e di accordo, e l'1 settembre doveva andare dal padrone nuovo, in quel di Vizzini.
Giusto il giorno avanti s'era fatta la consegna di ogni cosa col Canonico.
Ed era l'ultimo di agosto: una notte buia e senza stelle.
Bellina andava avanti, col naso al vento, zitta, come l'aveva insegnata lui.
Egli camminava adagio adagio, levando i piedi alti nel fieno perché non si udisse il fruscìo.
E la cagna si voltava ad ogni dieci passi per vedere se la seguiva.
Quando furono al vallone, disse piano a Bellina: - Dietro! - E si mise al riparo di un noce grosso.
Poi diede la voce: - Ehi!...-
Una voce, Dio liberi! - diceva il Canonico - che faceva accapponar la pelle quando si udiva da Surfareddu, un uomo che nella sua professione di camparo aveva fatto più di un omicidio.
- Allora - rispose Surfareddu - allora mi spararono addosso a bruciapelo - panf! - Per fortuna che risposi al lampo della fucilata.
Erano in tre, e udii gridare.
Andate a vedere nel frutteto, che il mio uomo dev'esserci rimasto.
- Ah! cos'hai fatto scellerato! - esclamava il Canonico, mentre le donne strillavano fra di loro.
- Ora verranno il giudice e gli sbirri, e mi lasci nell'imbroglio!
- Questo è il ringraziamento che mi fate, vossignoria? - rispose brusco Surfareddu.
- Se aspettavano a rubarvi sinché io me ne fossi andato dal vostro servizio, era meglio anche per me, che non ci avrei avuto quest'altro che dire con la giustizia.
- Ora vattene ai Grilli, e di' al fattore che ti mando io.
Domani poi ci avrai il tuo bisogno.
Ma che nessuno ti veda, per l'amor di Dio, ora ch'è tempo di fichidindia, e la gente è tutta per quelle balze.
Chissà quanto mi costerà questa faccenda; che sarebbe stato meglio tu avessi chiuso gli occhi.
- Ah no, signor Canonico! Finché sto al vostro servizio, sfregi di questa fatta non ne soffre Surfareddu! Loro lo sapevano che fino al 31 agosto il custode del vostro podere ero io.
Tanto peggio per loro! La mia polvere non la butto via, no! -
E se ne andò con lo schioppo in spalla e la Bellina dietro, ch'era ancor buio.
Nella casina di Santa Margherita non si chiuse più occhio quella notte, pel timore dei ladri e il pensiero di quell'uomo steso a terra lì nel frutteto.
A giorno chiaro, quando cominciarono a vedersi dei viandanti sulla viottola dirimpetto, nella Rocca, il Canonico, armato sino ai denti e con tutti i contadini dietro, si arrischiò ad andare a vedere quel ch'era stato.
Le donne strillavano:
- Non andate, vossignoria! -
Ma appena fuori del cortile si trovarono fra i piedi Luigino, che era sgattajolato fra la gente.
- Portate via questo ragazzo - gridò lo zio canonico.
- No! voglio andare a vedere anche io! - strillava costui.
E dopo, finché visse, gli rimase impresso in mente lo spettacolo che aveva avuto sotto gli occhi così piccolo.
Era nel frutteto, fatti pochi passi, sotto un vecchio ulivo malato, steso a terra, e col naso color fuligine dei moribondi.
S'era trascinato carponi su di un mucchio di sacchi vuoti ed era rimasto lì tutta la notte.
I suoi compagni nel fuggire s'erano portati via i sacchi pieni.
Lì presso c'era un tratto di terra smossa colle unghie e tutta nera di sangue.
- Ah! signor canonico - biascicò il moribondo.
- Per quattro ulive m'hanno ammazzato! -
Il canonico diede l'assoluzione.
Poscia, verso mezzogiorno, arrivò il Giudice con la forza, e voleva prendersela col Canonico, e legarlo come un mascalzone.
Per fortuna che c'erano tutti i contadini e il fattore con la famiglia testimoni.
Nondimeno il Giudice si sfogò contro quel servo di Dio che era una specie di barone antico per le prepotenze, e teneva al suo servizio degli uomini come Surfareddu per campari, e faceva ammazzar la gente per quattro ulive.
Voleva consegnato l'assassino morto o vivo, e il Canonico giurava e spergiurava che non ne capiva nulla.
Tanto che un altro po' il Giudice lo dichiarava complice e mandante, e lo faceva legare ugualmente dagli sbirri.
Così gridavano e andavano e venivano sotto gli aranci del frutteto, mentre il medico e il cancelliere facevano il loro ufficio dinanzi al morto steso sui sacchi vuoti.
Poi misero la tavola all'ombra del frutteto, pel caldo che faceva, e le donne indussero il signor Giudice a prendere un boccone perché cominciava a farsi tardi.
La fantesca si sbracciò: maccheroni, intingoli d'ogni sorta, e le signore stesse si misero in quattro perché la tavola non sfigurasse in quell'occasione.
Il signor Giudice se ne leccò le dita.
Dopo, il cancelliere rimosse un po' la tovaglia da una punta, e stese in fretta dieci righe di verbale, con la firma dei testimoni e ogni cosa, mentre il Giudice pigliava il caffè fatto apposta con la macchina, e i contadini guardavano da lontano, mezzo nascosti fra gli aranci.
Infine il Canonico andò a prendere con le sue mani una bottiglia di moscadello vecchio che avrebbe risuscitato un morto.
Quell'altro intanto l'avevano sotterrato alla meglio sotto il vecchio ulivo malato.
Nell'andarsene il Giudice gradì un fascio di fiori dalle signore, che fecero mettere nelle bisacce della mula del cancelliere due bei panieri di frutta scelte; e il Canonico li accompagnò sino al limite del podere.
Il giorno dopo venne un messo del Mandamento a dire che il signor Giudice avea persa nel frutteto la chiavetta dell'orologio, e che la cercassero bene che doveva esserci di certo.
- Datemi due giorni di tempo, che la troveremo - fece rispondere il Canonico.
E scrisse subito ad un amico di Caltagirone perché gli comprasse una chiavetta d'orologio.
Una bella chiave d'oro che gli costò due onze, e la mandò al signor Giudice dicendo:
- È questa la chiavetta che ha smarrito il signor Giudice?
- È questa, sissignore - rispose lui: e il processo andò liscio per la sua strada, tantoché sopravvenne il 60, e Surfareddu tornò a fare il camparo dopo l'indulto di Garibaldi, sin che si fece ammazzare a sassate in una rissa con dei campari per certa quistione di pascolo.
E il Canonico, quando tornava a parlare di tutti i casi di quella notte che gli aveva dato tanto da fare, diceva a proposito del Giudice d'allora:
- Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l'orologio e la catena -.
Nel frutteto, sotto l'albero vecchio dove è sepolto il ladro delle ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini.
L'ULTIMA VISITA
Nel palazzo Dolfini tutt'a un tratto era calata una nube di tristezza.
La malattia di donna Vittoria, che durava da circa una settimana, s'era aggravata nella notte.
Il medico, prima d'andarsene, aveva scritto un'ultima ordinazione sul tavolino dell'anticamera, volgendo le spalle all'uscio, dinanzi al servitore serio e grave, di già in cravatta bianca sino dalle dieci di mattina.
I parenti e gli amici intimi arrivavano, uno dopo l'altro, col viso lungo; attraversavano in punta di piedi tutta l'infilata delle stanze oscure sino al salotto dove era il marito dell'inferma, in piedi, fra un crocchio di intimi che scambiavano qualche parola a bassa voce, e li accoglieva con una stretta di mano silenziosa che rispondeva alle mute interrogazioni.
Di tanto in tanto un domestico in fretta; una cameriera socchiudeva discretamente l'uscio della camera buia del tutto.
Là dentro a intervalli si udiva come un soffio di parole mormorate da voci che sembravano di un altro mondo; e il fruscìo dei vestiti dava l'immagine di un battere d'ali.
Era una pleurite che donna Vittoria aveva presa all'uscire da una festa, in mezzo al suo drappello di eleganti che si affrettavano a metterle la pelliccia su le spalle, a darle il braccio, ad aprirle lo sportello del legno tiepido e profumato come un nido.
Ella aveva sentito in quel momento un brivido scenderle per le belle spalle nude, ancora ansanti per il valzer, sotto la lontra del mantello.
Poi s'era messa a letto e non s'era più levata.
Il suo medico, il medico della società, era venuto da principio a far quattro chiacchiere, sprofondato nella gran poltrona ai piedi del letto, buttando giù svogliatamente, prima d'andarsene, senza togliersi i guanti, due o tre righi della sua bella scrittura di signora su di un foglietto medioevo con la corona a cinque foglie.
Però dopo due o tre giorni s'era fatto serio, e il marito l'accompagnava nel salotto, fermandosi a parlare tutti e due un momento nel vano della finestra.
Alla porta era una vera processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea, che lasciavano una parola, un nome, una carta di visita, delle quali il portinaio ogni sera recava un vassoio tutto pieno in anticamera, colla lista fitta di condoglianze e d'augùri, insieme col bollettino del giorno accomodato in guisa da poter passare sotto gli occhi dell'inferma, la quale voleva leggere tutti i giorni i nomi di coloro che erano venuti a domandare della sua salute; e alle volte gli occhi ardenti di febbre si fermavano su di una firma, e si velavano di lagrime.
Ogni sera miss Florence lasciava il romanzo che stava leggendo, e scendeva con la bimba nella camera di donna Vittoria, la quale le accoglieva con un sorriso pallido.
La figliuola, una ragazzina bianca e delicata, con lunghe trecce color d'oro pendenti giù per le spalle, e le attaccature fini di già, quasi fosse una donnina, andava a baciare la mamma in punta di piedi, col passo discreto di ragazzina bene educata.
Poi le augurava la buona notte in inglese o in tedesco, secondo la giornata, e se ne andava dietro all'istitutrice, diritta ed impettita.
Infine, la vigilia, donna Vittoria aveva trattenuto la ragazzina per mano, e le aveva parlato, nella sua lingua nativa, due o tre parole che accusavano la febbre, col sorriso triste nel viso color di cera.
La bimba ascoltava seria e zitta, coi grand'occhi azzurri spalancati.
Più tardi il medico era venuto due volte e aveva chiesto un consulto.
Nel salotto, il vai e vieni degli intimi era stato più affaccendato ed ansioso.
Nella sala accanto, dietro la tenda dell'uscio, si udivano i medici a consulto, la conversazione era di tratto in tratto interrotta da qualche parola misteriosa seguìta da brevi silenzi.
Nel cortile, il frastuono degli staffieri e delle carrozze contrastava col silenzio solenne degli altri giorni, come qualcosa fosse mutato in quella casa.
Sino a notte avanzata lo stesso coupé che aveva ricondotto la signora dal ballo aspettò attaccato nel cortile, co' suoi due fanali accesi che si riverberavano sull'acqua della fontana.
Il giorno dopo arrivò la visita insolita di una lontana parente, mezza beghina, che il legno era andata a prendere; e dinanzi al suo vestito quasi umile, gli usci dorati si spalancarono premurosi.
Ella andò ad assidersi al capezzale dell'inferma, con un'aria d'intimità quasi materna, chiedendole della salute, chiacchierando di mille cose con la voce pacata della donna che vive nella pace della chiesa.
Parlò di se stessa, de' suoi piccoli guai di tutti i giorni, del solo conforto che si trova nella religione.
Giusto cominciava allora la Quaresima, l'epoca della penitenza dopo i peccati del Carnevale.
Alle volte le malattie sono avvertimenti che il Signore ci dà perché ci si rammenti di lui.
Per questo i buoni cristiani antichi usavano far venire il Viatico appena fossero malati da più di otto giorni; non è giusto aspettare all'ultimo momento per riconciliarsi con Dio.
Si era visto tante volte, con tanti malati gravi, che già il miglior rimedio è una buona confessione.
- Quando? - chiese soltanto donna Vittoria, bianca come il merletto del suo guanciale.
- Ma...
più presto è, meglio è! Dio non si fa aspettare.
- Va bene! - mormorò l'inferma.
E non aggiunse altro; e seguitava a fissare il volto scialbo della vecchietta con gli occhi immobili, ardenti.
Appena questa se ne fu andata, fece chiamare suo marito.
Aveva un altro viso; un viso in cui ad un tratto fossero passati vent'anni di malattia e fosse discesa una calma di morte.
La voce le si era fatta profonda e rauca, come qualcosa cominciasse a mancare in lei.
- Vorrei vedere i miei amici...
tutti i miei amici...
- mormorò.
E la sfilata incominciò: tutti quelli che erano passati a chieder notizie di lei; tutti quelli che poterono essere informati del desiderio dell'inferma; così, come si incontravano, amici e conoscenti, in visita, dal confettiere, fra una pasta e un bicchierino di madera, al Corso, con una parola buttata là fra tante altre di chi veniva a dare il buon giorno allo sportello della carrozza.
Nella sala tornarono a sfilare dei lunghi strascichi di seta, dei passi che facevano scricchiolare gli stivalini verniciati, delle ondate di profumi leggeri e delicati nell'atmosfera grave, delle osservazioni brevi scambiate a bassa voce nell'uscire con un segno del capo, stringendo il manicotto sul petto, e con la mazzettina in mano.
Calava la sera, una sera tiepida e dorata di primavera.
Per la via si udiva il rumore non interrotto delle file delle carrozze che tornavano dal passeggio.
Solo la camera dell'inferma, che dava sul giardino, rimaneva in gran pace.
Un domestico portò una lampada accesa.
Giungeva ancora qualcheduno in ritardo, col viso interrogativo, che il marito introduceva, uno per volta, con un cenno del capo e qualche parola lenta.
Poi lui si lasciava cadere nella gran poltrona del medico ai piedi del letto, come vinto dalla stanchezza; e stava a guardare l'inferma, di già coi segni della morte sul viso all'ombra della ventola ricamata.
Ella salutava gli amici con una occhiata, con un sorriso triste, con qualche parola breve e dolce che sembrava una carezza, e ad ogni nuovo arrivo le si rischiarava il viso, quasi girassero il paralume dall'altra parte.
Indi tornava ad oscurarsi, come si riaffacciasse a lei il sentimento del suo stato.
Ad ogni momento voleva sapere che ora fosse.
- E il signor Ginoli non si fa vedere? - chiese infine.
Il marito non rispose; si guardarono un istante.
Ella non distolse gli occhi, col viso immobile e pallido.
E con quegli occhi in un istante si dissero tutto.
Il marito, quando passò nelle altre stanze e la lasciò sola un momento, aveva le spalle curve come gli pesassero addosso cent'anni.
Allora l'inferma, fra una visita e l'altra, chiamò la cameriera, e le disse due o tre parole che la ragazza sola poté udire, tanto le era mancata la voce.
La cameriera ascoltava, impassibile, ai piedi del letto, stecchita nel suo grembiulino di seta nera che le serrava il petto magro.
Poi, al momento di andare, si chinò all'improvviso, e baciò la mano della padrona scoppiando in lacrime.
- Va! - disse donna Vittoria, accarezzandole i capelli.
- Va.
Non piangere -.
Si udì il rumore di un legno che usciva dal portone.
Poscia, ad intervalli, una specie di silenzio d'attesa.
In quel silenzio le poche parole che si scambiavano due o tre persone lì presenti, facevano quasi trasalire.
L'inferma allora fissava l'uscio con gli occhi lucenti, gli occhi che soli sembravano vivi in quell'ombra.
Ad un tratto si udì il legno che tornava, poi un passo leggero sul tappeto, ed entrò un giovanotto sulla trentina, biondissimo, bianco tanto che sembrava pallido, con un soprabito scuro abbottonato fin sotto il mento, e la lente pendente sul petto a un filo che non si vedeva, come un bottone d'acciaio piantato lì.
Nell'anticamera egli aveva domandato al domestico:
- Come sta?...
- Male, male assai - rispose questi.
Il giovanotto entrò col passo incerto e l'occhio smarrito.
Nelle altre stanze non incontrò nessuno.
- Oh, Ginoli! - disse l'inferma, con un sorriso.
Egli non rispose, aspirando fortemente, quasi gli fosse mancato il fiato nel salire la scala in fretta.
Infine balbettò:
- Va meglio, non è vero? giacché mi hanno lasciato passare...
- Ella accennò di sì col capo, due o tre volte, poscia balbettò:
- Stasera mi sento un po' male...
ma ho visto tanta gente...
e sono stanca.
Però fa piacere rivedere gli amici...
-
La contessa Bruni, che era rimasta sino a quel momento, si alzò per accomiatarsi.
- Addio, - disse donna Vittoria, come essa si fermava a stringerle la mano a lungo.
Rimasero una signora attempata, amica di casa, che si era offerta di vegliare la notte, e due altri, marito e moglie, zii per parte di madre di donna Vittoria.
La zia parlava di cure portentose, di guarigioni insperate.
Gli altri tacevano, senza ascoltare.
- Verrete domani? - disse lei, voltando il capo verso Ginoli.
Egli balbettò di sì.
Ella stette a guardarlo, quasi colpita da quelle parole istesse.
E ad un tratto due lagrime le scesero lentamente sulle guance.
- Quando sarà giorno? - riprese.
E voltò la testa dall'altra parte, senza aspettare la risposta.
Di tanto in tanto la cameriera attraversava la camera, senza far rumore, o si udiva il passo leggero di un servitore nella sala accanto.
Allora levavano il capo tutti insieme, senza sapere perché.
Soltanto l'inferma mormorava a lunghi intervalli:
- Mi sento male, mi sento male assai -.
Una volta Ginoli, come fuori di sé, si alzò per congedarsi.
Ma ella se ne avvide, e gli disse, con gli occhi sempre rivolti al cielo del letto:
- Ve ne andate di già...
-
Si udì un campanello per la strada, e uno scalpiccìo che si avvicinava.
Poi fu aperto bruscamente l'uscio della camera, quasi dicessero a Ginoli:
- Ora andatevene -.
L'inferma volse il capo ottenebrato dall'agonia, e gli stese la mano agitando le labbra come per mormorare parole inintelligibili.
Egli la strinse: era fredda.
E se ne andò barcollando come un ubbriaco.
Nel salotto s'imbatté nel marito, e si guardarono un istante, immobili.
In quel momento si udì in anticamera il campanello del viatico; il marito chinò il capo, pallidissimo.
L'altro si dileguò rapidamente.
Attraverso la lunga fila di stanze deserte e silenziose, passava solo il suono di quel campanello squillante.
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VAGABONDAGGIO (1887)
VAGABONDAGGIO
Nanni Lasca, da ragazzo, non si rammentava altro: suo padre, compare Cosimo, che tirava la fune della chiatta, sul Simeto, con Mangialerba, Ventura e l'Orbo; e lui a stendere la mano per riscuotere il pedaggio.
Passavano carri, passavano vetturali, passava gente a piedi e a cavallo d'ogni paese, e se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume.
Prima compare Cosimo aveva fatto il lettighiere.
E Nanni aveva accompagnato il babbo nei suoi viaggi, per strade e sentieri, sempre coll'allegro scampanellìo delle mule negli orecchi.
Ma una volta, la vigilia di Natale - giorno segnalato - tornato a Licodia colla lettiga vuota, compare Cosimo trovò al Biviere la notizia che sua moglie stava per partorire.
- Comare Menica stavolta vi fa una bella bambina, - gli dicevano tutti all'osteria.
E lui, contento come una Pasqua, si affrettava ad attaccare i muli per arrivare a casa prima di sera.
Il baio, birbante, che lo guardava di mal'occhio, per certe perticate che se l'era legate al dito, come lo vide spensierato, che si chinava ad affibiargli il sottopancia canterellando, affilò le orecchie a tradimento - jjj! - e gli assestò un calcio secco.
Nanni era rimasto nella stalla, a scopare quel po' d'orzo rimasto in fondo alla mangiatoia.
Al vedere il babbo lungo disteso nell'aia, che si teneva il ginocchio colle due mani, e aveva la faccia bianca come un morto, volle mettersi a strillare.
Ma compare Cosimo balbettava: - Va' a pigliare dell'acqua fresca, piuttosto.
Va' a chiamare lo zio Carmine, che mi aiuti -.
Accorse il ragazzo dell'osteria col fiato ai denti.
- O ch'è stato, compare Cosimo? - Niente, Misciu.
Ho paura di aver la gamba rotta.
Va' a chiamare il tuo padrone piuttosto, che mi aiuti -.
Lo zio Carmine andava in bestia ogni volta che lo chiamavano: - Che c'è? Cos'è successo? Non mi lasciano stare un momento, santo diavolone! - Finalmente comparve sulla porta, sbadigliando, col cappuccio sino agli occhi.- Cos'è stato? Ora che volete? Lasciate fare a me, compare Cosimo -.
Il poveraccio lasciava fare, colla gamba ciondoloni, come se non fosse stata più roba sua.
- Questa è roba della Gagliana, - conchiuse lo zio Carmine, posandolo di nuovo in terra adagio adagio.
Allora compare Cosimo sbigottì, e si abbandonò sul ciglione, stralunato.
- Sta' zitto, malannaggia! che gli fai la jettatura, a tuo padre! - esclamò lo zio Carmine, seccato dal piagnucolare che faceva Nanni, seduto sulle calcagna.
Cadeva la sera, smorta, in un gran silenzio.
Poi si udirono lontano le chiese di Francofonte, che scampanavano.
- La bella vigilia di Natale che mi mandò Domeneddio! - balbettò compare Cosimo, colla lingua grossa dallo spasimo.
- Sentite, amico mio, - disse infine lo zio Carmine, che sentiva l'umidità del Biviere penetrargli nelle ossa.
- Qui non possiamo farvi nulla.
Per muovervi di come siete adesso, ci vorrebbe un paio di buoi.
- Che mi lasciate così, in mezzo alla strada? - si mise a lamentarsi compare Cosimo.
- No, no, siamo cristiani, compare Cosimo.
Bisogna aspettare lo zio Mommu per darci una mano.
Intanto vi manderò un fascio di fieno, e anche la coperta della mula, se volete.
Il fresco della sera è traditore, qui nel lago, amico mio.
Tredici anni che compro medicine!
- Ha la malaria nella testa il padrone, - disse poi Misciu, il ragazzo della stalla, tornando col fieno e la coperta.
- Non fa altro che dormire, tutto il giorno -.
Intanto sopra i monti spuntava la prima stella; poi un'altra, poi un'altra.
Compare Cosimo, sudando freddo, col naso in aria, le contava ad una ad una, e tornava a lamentarsi:
- Che non giunge mai compare Mommu? Che mi lasciate qui stanotte, cristiani?
- Tornerà, tornerà, non dubitate, - rispondeva Misciu accoccolato su di un sasso, col mento nelle mani.
- È andato a caccia pel Biviere.
Alle volte passano mesi e settimane senza che lo veda anima viva.
Ma ora ch'è Natale deve venire per prendere la sua roba -.
E il ragazzo, mentre ciaramellava, s'andava appisolando anche lui, col mento sulle mani, raggomitolato nei suoi cenci.
- Viene di notte, viene di giorno, secondo va la caccia.
Quando si mette alla posta delle anatre, lo zio Carmine gli lascia la chiave sotto l'uscio.
Poi dorme di giorno, o va a vendere la selvaggina di qua e di là; ma la sua roba l'ha sempre qui, nella stalla, appesa al capezzale: il cavicchio pel fucile, il cavicchio per la carniera, ogni cosa al suo posto.
Tanti anni che sta qui.
Lo zio Carmine dice ch'era ancora giovane...
-
Quando compare Cosimo tornava a lamentarsi, il ragazzo trasaliva, quasi lo svegliassero, e poi tornava a borbottare, come in sogno.
Nanni, stanco di singhiozzare, sbarrava gli occhi nel buio.
Tutt'a un tratto scappò una gallinella, schiamazzando.
- O zio Mommu! - si mise a chiamare Nanni ad alta voce.
Dopo si spandeva un gran silenzio, nella notte.
- Sono io! - disse infine Misciu.
- Non risponde per non spaventar le anatre.
Poi ci ha fatta l'abitudine, a quella vita, e non parla mai -.
Però si udiva già il fruscìo dei giunchi secchi, e il tonfo degli scarponi dello zio Mommu, che sfangava nel greto.
- Qua, zio Mommu! C'è compare Cosimo che gli è successo un accidente -.
Lo zio Mommu stava a guardare, al barlume che faceva la lanterna di compare Carmine, tutto intirizzito e battendo le palpebre, con quel naso a becco di jettatore.
Poi sollevarono il lettighiere al modo che diceva lo zio Carmine, uno sotto le ascelle e l'altro pei piedi.
- Cristo! come vi pesano le ossa, compare Cosimo! - sbuffava l'oste, per fargli animo con qualche barzelletta.
E lo zio Mommu, mingherlino, barellava davvero come un ubbriaco, sotto quel peso.
- Ah, che vigilia di Natale mi ha mandato Domeneddio! - tornava a dire compare Cosimo, steso alfine nello strapunto come un morto.
- Non ci pensate, compare Cosimo, che ora la Gagliana vi guarisce in un batter d'occhio.
Bisogna andare a chiamarla, compare Mommu, nel tempo stesso che andate a Lentini per vendere la vostra roba -.
Il vecchietto acconsentì con un cenno del capo, e mentre si preparava a partire, legandosi in testa il fazzoletto, e assettandosi la bisaccia in spalla, l'oste continuava:
- È meglio di un cerusico la Gagliana! Vedrete che vi guarirà in meno di dire un'avemaria.
State allegro, compare Cosimo; e se non avete bisogno d'altro, vado a far la vigilia di Natale anch'io con quei quattro maccheroni.
- E tu che non vuoi mangiare un boccone? - chiese il lettighiere, voltandosi al suo ragazzo che non si moveva di lì, smorto, colle mani in tasca, e il viso sudicio dal piangere che aveva fatto.
- No, - rispose Nanni.
- No, non ho più fame -.
- Povero figlio mio! che vigilia di Natale è venuta anche per te! -.
La Gagliana venne a giorno fatto, che lo zio Cosimo aveva il viso acceso e la gamba gonfia come un otre, talché bisognò tagliargli le brache per cavargliele, mentre la Gagliana, per modestia, si voltava dall'altra parte, cogli occhi bassi, preparando intanto ogni cosa lesta lesta: bende, stecche, empiastri, con certe erbe miracolose che sapeva lei.
Poi si mise a tirare la gamba come un boia.
Da principio compare Cosimo non diceva nulla, sudando a grosse gocce, e ansimando quasi facesse una gran fatica.
Ma poi, tutt'un tratto, gli scappò un grande urlo, che fece drizzare a tutti i capelli in testa.
- Lasciatelo gridare, che gli fa bene! -
Compare Cosimo faceva proprio come una bestia quando le si dà il fuoco.
Talché lo zio Carmine s'era alzato per vedere anche lui coi suoi occhioni assonnati.
E Nanni strillava che pareva l'ammazzassero.
- Sembrate un ragazzo, compare Cosimo, - gli diceva l'oste.
- Non vi hanno detto di star tranquillo? Foste in mano di qualche cerusico, pazienza!
- Stava fresco, Dio liberi! - saltò su la vecchia, come se l'avessero punta.
- Per lo meno gli avrebbero tagliata la gamba a questo poveretto.
Io non ho mai tagliato neppure un pelo in vita mia, grazie a Dio! Tutta grazia che mi dà il Signore! Ora state tranquillo, compare Cosimo, che non avete più bisogno di nulla -.
Ella sputava sul ginocchio enfiato l'empiastro che andava masticando; metteva le stecche e stringeva forte le bende, senza badare agli - ohi! - ciarlando sempre come una gazza.
E quand'ebbe terminato si nettò le mani nella criniera ispida e grigia, che le faceva come una cuffia sporca sulla testa.
- Sembra un diavolo quella strega! - ammiccava l'oste allo zio Mommu, il quale stava a guardare col naso malinconico, seduto sullo strapunto, le gambe penzoloni, e sgretolando a poco a poco il suo pane nero.
Lo zio Cosimo s'era lasciato andare di nuovo supino, col viso stralunato e lucente di sudore, accarezzando colla mano il suo ragazzo, e balbettando che non era nulla.
- Ora chi mi paga? - domandò infine la Gagliana.
- Non dubitate, che sarete pagata, - rispose il poveraccio più morto che vivo.
- Venderò il mulo, se così vorrà Dio, e vi pagherò, sorella mia! -
Com'era un bel giorno di Natale, col sole che veniva fin dentro la stalla, e le galline pure, a beccare qualche briciola di pane, la gente che era stata a sentir messa a Primosole si fermava a bere un sorso a metà strada, vedendo compare Cosimo sul pagliericcio dello stallatico, volevano sapere il come ed il perché.
Poi davano un'occhiata ai muli in fondo alla stalla.
L'oste li faceva vedere, fiutando la senseria:
- Belle e buone bestie! Quiete come il pane! Un affare d'oro per chi le compra, se compare Cosimo, Dio liberi, rimane storpio -.
Il baio voltava indietro il capo come se capisse, colla sua boccata di fieno in aria.
- No, no, ancora non sono in questo stato! - lagnavasi compare Cosimo dal fondo del suo giaciglio.
- Diciamo così per dire, compare Cosimo, state tranquillo.
Nessuno vi vuol toccare la roba vostra, se non volete voi.
Qui c'è paglia e fieno per i vostri muli, e potete tenerceli cent'anni -.
Lo sventurato pensava a quello che si sarebbero mangiati i muli, di fieno e di stallaggio, e lamentavasi:
- Stavolta non gliela faccio più la dote per la mia bambina che mi è nata adesso!
- Ora gli si manda la notizia, a vostra moglie.
La prima volta che lo zio Mommu andrà a Licodia per vendere la sua roba -.
Così lo zio Mommu portò la brutta notizia alla moglie di compare Cosimo, masticando le parole, e dondolandosi ora su di una gamba e ora sull'altra, che alla prima non si capiva nulla, nella casa piena di vicine, mentre si aspettava il marito pel battesimo.
Comare Menica, poveretta, nella prima furia voleva balzare dal letto, in camicia com'era, e correre al Biviere, se non era il medico che si mise a sgridarla:
- Come le bestie, voialtri villani! Non sapete cosa vuol dire una febbre puerperale!
- Signore don Battista! Come posso fare a lasciare quel poveretto fuorivia, in mano altrui, ora ch'è in quello stato?...
- E voi non vi movete! - appoggiava comare Stefana.
- Vostro marito andrete a trovarlo poi.
Temete che scappi?
- Date retta al medico, - aggiunse la Cilona.
- Compare Cosimo è in mano di cristiani.
Lo vedete qui, questo poveretto, che è venuto apposta? -
E lo zio Mommu accennava di sì con il capo, ritto dinanzi al letto, battendo gli occhi, non sapendo come fare per voltare le spalle ed andarsene per le sue faccende.
Indi la convalescenza, il baliatico, il bisogno dei figliuoli; e il tempo era passato.
Compare Cosimo, quando infine la Gagliana gli aveva detto di alzarsi, era rimasto su di una sedia, alla porta dello stallatico, con una gamba più corta dell'altra.
- Così com'è non ve la lasciavano neppure, se eravate in mano del cerusico! - gli disse la Gagliana per consolarlo.
I muli stessi se li mangiò metà lei e metà la stalla.
Quando il povero zoppo, alla porta dell'osteria, vide Nunzio della Rossa che si portava via la sua lettiga, si mise a sospirare: - Queste campanelle non le udrò più! -
E lo zio Carmine anche lui disse:
- Che diavolo rimpiangete! Quel baio birbante che vi azzoppò a quel modo? -
Intanto bisognava pensare a buscarsi da vivere, lui e il suo ragazzo; e adesso ch'era conciato a quel modo per le feste, voleva essere un mestiere facile, di quelli poco pane e poca fatica.
"Se hai un guaio, dillo a tutti".
Lo zio Carmine, ch'era un buon diavolaccio, ne parlava con questo e con quello, e come seppe che uno della chiatta, lì vicino, era morto di malaria, disse subito a compare Cosimo:
- Questo è quello che fa per voi -.
E tanto disse e tanto fece, per mezzo anche dello zio Antonio, l'oste di Primosole, lì accanto al Simeto, che il capoccia della chiatta chinò il capo e disse di sì anche lui.
D'allora in poi compare Cosimo rimase a tirar la fune, su e giù pel fiume; e con ogni conoscente che passava, mandava sempre a dire a sua moglie che sarebbe andato a vederla, un giorno o l'altro, e la bambina pure.
- Verrò a Pasqua.
Verrò a Natale -.
Mandava sempre a dire la stessa cosa; tanto che comare Menica ormai non ci credeva più; e Nanni, ogni volta, guardava il babbo negli occhi, per vedere se dicesse davvero.
Ma succedeva che a Pasqua e a Natale s'aveva sempre una gran folla da tragittare; talché quando il fiume era grosso c'erano più di cinquanta vetture che aspettavano all'osteria di Primosole.
Il capoccia della chiatta bestemmiava contro lo scirocco e levante che gli toglieva il pan di bocca, e la sua gente si riposava: Mangialerba, bocconi, dormendo sulle braccia in croce; Ventura, all'osteria; e l'Orbo cantava tutto il giorno, ritto sull'uscio della capanna, a veder piovere, guardando il cielo cogli occhi bianchi.
Comare Menica avrebbe voluto andarvi lei, a Primosole, almeno per vedere suo marito e portargli la bambina, ché il padre non la conosceva neppure, quasi non l'avesse fatta lui.
- Andrò appena avrò presi i denari del filato, - diceva essa pure.
- Andrò dopo la raccolta delle ulive, se mi avanza qualche soldo -.
Così passava il tempo.
Intanto comare Menica fece una malattia mortale, di quelle che don Battista, il medico, se ne lavava le mani come Pilato.
- Vostra moglie è malata malatissima, - venivano a dirgli lo zio Cheli, compare Lanzare, tutti quelli che arrivavano da Licodia; e compare Cosimo stavolta voleva correre davvero, a piedi, come poteva.
- Prestatemi due lire per la spesa del viaggio, padron Mariano -.
Ma il capoccia rispondeva:
- Aspettate prima se vi portano un buona notizia.
Alle volte, intanto che voi siete per via, vostra moglie guarisce, e voi ci perdete la spesa del viaggio -.
L'Orbo invece consigliava di far dire una messa alla Madonna di Primosole, ch'è miracolosa.
Finché giunse la notizia che da comare Menica c'era il prete.
- Vedete se avevo ragione? - esclamò padron Mariano.
- Cosa andavate a fare, se non c'era più aiuto? -
La bambina se l'era tolta in casa comare Stefana, per carità; e compare Cosimo era rimasto a Primosole col sul ragazzo.
Tanto, l'Orbo gli diceva che, coll'aiuto di Dio, poteva vivere e morire alla chiatta al pari di lui, che vi mangiava pane da cinquant'anni.
E ne aveva vista passare tanta della gente! Passavano conoscenti, passavano viandanti che nessuno sapeva donde venissero, a piedi, a cavallo, d'ogni nazione, se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume.
- Come l'acqua del fiume stesso che se ne andava al mare, ma lì pareva sempre la medesima, fra le due ripe sgretolate: a destra le collinette nude di Valsavoia, a sinistra il tetto rosso di Primosole; e allorché pioveva, per giorni e settimane, non si vedeva altro che quel tetto tristo nella nebbia.
Poi tornava il bel tempo, e spuntava del verde qua e là, fra le rocce di Valsavoia, sul ciglio delle viottole, nella pianura, fin dove arrivava l'occhio.
Infine veniva l'estate, e si mangiava ogni cosa, il verde dei seminati, i fiori dei campi, l'acqua del fiume, gli oleandri che intristivano sulle rive, coperti di polvere.
La domenica, cambiava.
Lo zio Antonio, che teneva l'osteria di Primosole, faceva venire il prete per la messa, e mandava Filomena, la sua figliuola, a scopare la chiesetta, e a raccattare i soldi che i devoti vi buttavano dentro dal finestrino, per le anime del Purgatorio.
Accorrevano dai dintorni, a piedi, a cavallo, e l'osteria si riempiva di gente.
Alle volte arrivava anche il Zanno, che guariva di ogni male, colle sue scarabattole; o don Tinu, il merciaiuolo, con un grande ombrellone rosso, e schierava la sua mercanzia sugli scalini della chiesa, forbici, temperini, nastri e refe d'ogni colore.
Nanni si affollava insieme agli altri ragazzi per vedere.
Ma suo padre gli diceva sempre: - No, figliuolo mio, questa roba è per chi ha denari da spendere -.
Gli altri invece comperavano: bottoni, tabacchiere di legno, pettini di osso, e Filomena frugava dappertutto colle mani sudice, senza che nessuno le dicesse nulla, perché era la figliuola dell'oste.
Anzi un giorno don Tinu le regalò un bel fazzoletto giallo e rosso, che passò di mano in mano.
- Sfacciata! - dicevano le comari.
- Fa l'occhio a questo e a quello per amor dei regali! - Un giorno Nanni li vide tutti e due dietro il pollaio, che si tenevano abbracciati.
Filomena, che stava all'erta per timore del babbo, si accorse subito di quegli occhietti che si ficcavano nella siepe, e gli saltò addosso colla ciabatta in mano.
- Cosa vieni a fare qui, spione? se stai a raccontare quel che hai visto, guai a te, veh! - Ma don Tinu la calmava con belle maniere: - Non lo strapazzate quel ragazzo, comare Mena, ché gli fate pensare al male -.
Però Nanni non poteva levarsi dagli occhi il viso rosso di Filomena, e le manacce di don Tinu che brancicavano.
Quando lo mandavano a comperare il vino all'osteria, si piantava dinanzi al banco della ragazza, che glielo mesceva colla faccia tosta, e lo sgridava: - Guardate qua, cristiani! Non gli spuntano ancora i peli al mento, quel moccioso, e ha già negli occhi la malizia! -
Nanni voleva far lo stesso colla Grazia, la servetta dell'osteria, quando andavano insieme a raccoglier l'erbe per la minestra, lungo il fiume.
Ma la fanciulla rispondeva:
- No.
Tu non mi dai mai niente -.
Essa invece gli portava, nascoste in seno, delle croste di formaggio, che gli avventori avevano lasciato cadere sotto la tavola, o un pezzetto di pane duro rubato alle galline.
Accendevano un focherello fra due sassi, e giocavano a far la merenda.
Ma Nanni finiva sempre il giuoco col buttar le mani sulla roba, e darsela a gambe.
La ragazzetta allora rimaneva a bocca aperta, grattandosi il capo.
E alla sera si buscava pure gli scapaccioni di Filomena, che la vedeva tornare spesso colle mani vuote.
Nanni, per risparmiarsi la fatica, le arraffava anche la sua parte di cicoria o di finocchi selvatici.
Poi, il giorno dopo, giurava colle mani in croce che non l'avrebbe fatto più.
E la poverina ci tornava sempre, appena lo vedeva da lontano, coi capelli rossi in mezzo alle stoppie gialle; si accostava quatta quatta, e gli si metteva alle calcagna come un cane.
Quand'essa arrivava piagnucolando ancora per le busse che s'era buscate all'osteria, Nanni per consolarla le diceva:
- E tu perché non scappi, e te ne vai a casa tua? -
Egli raccontava che aveva la sua casa anche lui, laggiù al paese, e i parenti e ogni cosa: di là da quelle montagne turchine; ci voleva una giornata buona di cammino, e un giorno o l'altro ci sarebbe andato.
- Pianta i tuoi padroni e l'osteria, e te ne scappi a casa tua -.
La ragazzetta ascoltava a bocca aperta, colle gambe penzoloni sul greto asciutto, guardando attonita là dove Nanni le faceva vedere tante belle cose, oltre i monti turchini.
Infine si grattava il capo, e rispondeva:
- Non so.
Io non ci ho nessuno -.
Egli intanto si divertiva a tirar sassi sull'acqua; o cercava di far scivolare Grazia giù dalla sponda, facendole il solletico.
Poi si metteva a correre, ed egli la inseguiva a zollate.
Andavano pure a scovare i grilli dalle tane, con uno sterpolino; o a caccia di lucertole.
Nanni sapeva coglierle con un nodo scorsoio fatto in cima a un filo di giunco sottile; dentro al cerchietto che formava il nodo spuntava una bella campanella lucente, e le povere bestioline, assetate in quell'arsura, si lasciavano adescare.
In mezzo alla gran pianura riarsa il fiume s'insaccava come un burrone enorme, fra le rive slabbrate.
- Mostrava le ossa, - brontolavano quelli della chiatta.
Talché anche i poveri diavoli ci si arrischiavano a guado, qualche miglio più in su.
Tanti baiocchi levati di bocca a quegli altri poveri diavoli che stavano colla fune in mano tutto il giorno, sotto il solleone.
E litigavano fra di loro, a digiuno.
Nanni allora per un nulla si buscava delle pedate anche da suo padre, sciancato com'era.
Di tanto in tanto passava una frotta di mietitori, che tornavano al mare, bianchi di polvere, e si calavano nel greto, uomini e donne, colle gambe nude, raccomandandosi ai loro santi, nel dialetto forestiero.
Poi nell'afa della strada, diritta diritta, si vedeva venire da lontano il polverone che accompagnava qualche carro, o spuntava dall'altra parte la sonagliera mezza addormentata di un mulattiere.
L'Orbo, che non aveva nessuno al mondo, e se l'era girato tutto, diceva: - Quello lì viene da Catania, quest'altro da Siracusa -.
E sempre cuor contento, lui, raccontava agli uomini stesi bocconi le meraviglie che aveva visto laggiù, lontano lontano.
E Nanni ascoltava intento, come aveva fatto la Grazia ai racconti che lui sballava, con delle allucinazioni di vagabondaggio negli occhi stanchi di vedere eternamente l'osteria dello zio Antonio, che fumava tutta sola, nella tristezza del tramonto.
Ma chi gli mise davvero la pulce nell'orecchio fu il Zanno, una volta che lo chiamarono per lo zio Carmine al Biviere.
Fin da Pasqua di Rose, i viandanti che venivano a passar la notte allo stallatico, e non lo vedevano, come al solito, a portar la paglia dal fienile o a riscuotere lo stallaggio, dicevano: - E compare Carmine? - Zio Mommu lo mostrava con un cenno del capo, lungo disteso nel pagliericcio, sotto un mucchio di bisacce; e Misciu, col cappuccio in capo, mangiato dalle febbri anche lui soggiungeva: - Ha la terzana -.
Alle volte, quando alla voce riconosceva un conoscente, lo zio Carmine rispondeva con un grugnito: - Son qua.
Sono ancora qua -.
Erano quasi sempre le stesse facce stanche che si vedevano passare, dinanzi al lumicino moribondo appeso al travicello, e tiravano fuori dalla bisaccia la scarsa merenda, accoccolati su di un basto, masticando adagio adagio.
Lo zio Carmine non brontolava più, non si moveva più dalla sua cuccia, zitto e cheto.
Soltanto quando udiva fermarsi alla porta una vettura, rizzava il capo come poteva, per amor del guadagno, e chiamava:
- O Misciu! -
Però non potevano lasciarlo morire a quel modo, come un cane.
Ventura, Mangialerba, e spesso anche compare Cosimo, tirandosi dietro la gamba storpia, venivano apposta da Primosole, e stavano a guardare compare Carmine lungo disteso, con la faccia color di terra, come un morto addirittura.
Infine risolvettero di chiamargli la Gagliana, quella vecchietta che faceva miracoli, a venti miglia in giro.
- Vedrete che la Gagliana vi guarirà in un batter d'occhio, - andavano dicendo a lui pure.
- È meglio di un dottore quel diavolo di donna.
Cosa ne dite, compare Carmine? -
Compare Carmine non diceva né sì né no, pensando al denaro che si sarebbe mangiato la Gagliana.
Però nel forte della febbre tornava a piagnucolare:
- Chiamatemi pure la Gagliana, senza badare a spesa.
Non mi lasciate morire senza aiuto, signori miei! -
La Gagliana la battezzò febbre pericolosa, di quelle che è meglio mandare pel prete addirittura.
Giusto era sabato, e passava gente che tornava al paese.
Tutto ciò gli rimase fitto in mente, a Nanni ch'era andato a vedere anche lui: i curiosi che dall'uscio allungavano il collo verso il moribondo; la Gagliana che cercava nelle tasche il rimedio fatto apposta, brontolando; e il malato che guardava tutti ad uno ad uno, cogli occhi spaventati.
L'Orbo, a canzonare la Gagliana che non sapeva trovare il rimedio, le domandava:
- Cosa ci vuole per farmi tornare la vista? -
Lo zio Carmine morì la notte istessa.
Peccato! perché la domenica poi si trovò a passare il Zanno, il quale ci aveva il tocca e sana per ogni male! nelle sue scarabattole.
Lo menarono appunto a vedere il morto.
Ei gli toccò il ventre, il polso, la lingua, e conchiuse: - Se c'ero io, lo zio Carmine non moriva! -
Raccontava pure molte cose dei miracoli che aveva fatto, tale e quale come la Gagliana, dei paesi che aveva visti, e come Nanni ascoltava a bocca aperta, gli piacque quel ragazzetto, e gli disse, accarezzandogli i capelli rossi:
- Vuoi venire con me? Mi porterai la balla e ti farai uomo.
- Egli ha tutt'altra balla da portare! - sospirò compare Cosimo; e pensava nel tempo stesso che se gli succedeva una disgrazia, come quella di compare Carmine, il suo ragazzo restava in mezzo a una strada.
C'era anche l'oste di Primosole, il quale maritava Filomena con Lanzise, uomo dabbene che non sapeva nulla, e tornavano tutti da Lentini pel contratto, gli sposi, compare Antonio ed altra gente.
Lanzise era uno che ci aveva il fatto suo, terra, buoi, e un pezzo di vigna lì vicino alla Savona, dicevano.
Il matrimonio fece chiasso.
Talché venne anche don Tinu a vender roba pel corredo.
La sera mangiava all'osteria come al solito.
Non si sa come, a motivo di un conto sbagliato, attaccarono lite collo zio Antonio, e don Tinu gli disse: - becco! -
Compare Antonio era un omettino cieco d'un occhio, che al vederlo non l'avreste pagato un soldo.
Però si diceva che avesse più di un omicidio sulla sua coscienza, e a venti miglia in giro gli portavano rispetto.
Al sentirsi dire quella mala parola sul mostaccio da don Tinu, il quale aveva una faccia di minchione, andò a staccare lo schioppo dal capezzale, per spifferar le sue ragioni anche lui, mentre la moglie, che la malaria inchiodava in fondo a un letto da anni ed anni, rizzatasi a sedere in camicia, strillava:
- Aiuto che s'ammazzano, santi cristiani! -
E Filomena, per dividerli, buttava piatti e bicchieri addosso a don Tinu, gridando:
- Birbante! ladro! scomunicato!
- Che vi pare azione d'uomo cotesta, compare Antonio? - rispose don Tinu più giallo del solito.
- Io non ho altro addosso che questo po' di temperino.
- Avete ragione, - disse lo zio Antonio.
- Vi risponderò colla stessa lingua che avete in bocca voi -.
E andò a posare lo schioppo senza aggiunger altro.
Più tardi Nanni andava all'osteria per il vino, quando vide venirsi incontro don Tinu tutto stralunato, che si guardava attorno sospettoso.
- Te' due soldi, - gli fece, - e và a dire a compare Antonio che l'aspetto qui, per quella faccenda che sa lui.
Ma che nessuno ti veda, veh! -
La sera trovarono compar Antonio lungo disteso dietro una macchia di fichidindia, col suo cane accanto che gli leccava la ferita.
- Che è stato, compare Antonio? Chi vi ha dato la coltellata? -
Compare Antonio non volle dirlo.
- Portatemi sul mio letto, per ora.
Se poi campo ci penso io; se muoio ci pensa Dio.
- Questo fu don Tino che me l'ammazzò! - strillava la moglie.
- L'ha mandato a chiamare con Nanni dello zoppo! -
E Filomena badava a ripetere:
- Birbante! ladro! scomunicato! -
Compare Cosimo, che aveva una gran paura della giustizia, se la prese anche lui col suo ragazzo, il quale si ficcava in quegli imbrogli.
- Se ti metto le mani addosso voglio romperti le ossa! - andava gridando.
E Nanni perciò se ne stava alla larga, dall'altra parte del fiume, col ventre vuoto, come una bestia inselvatichita.
Grazia lo vide da lontano, coi capelli rossi, dietro l'abbeveratoio a secco, e corse a raggiungerlo.
- Ora me ne vado col Zanno, - disse lui, - e alla chiatta non ci torno più -.
Poscia, rassicurato a poco a poco, vedendo che dietro il muro non spuntava lo zio Cosimo col bastone, si mise a sgretolare la sponda dell'abbeveratoio, tutta fessa e scalcinata, un sasso dopo l'altro, e dopo li tirava lontano; mentre la ragazzetta stava a guardare.
Tutt'a un tratto s'accorsero che il sole era tramontato, e la nebbia sorgeva tutt'intorno, dal fiume e dalla pianura.
- Senti! - disse Grazia.
- Lo zio Cosimo che chiama! -
Nanni se la diede a gambe senza rispondere, e lei s'affannava a corrergli dietro, colla vesticciuola tutta sbrindellata che svolazzava sulle gambette nude.
Camminarono un bel pezzo, e infine si trovarono soli, nella campagna buia, col cuore che batteva forte, lontano lontano dalla capanna delle chiatte, dove si udiva ancora cantare l'Orbo.
Era una bella notte piena di stelle, e dappertutto i grilli facevano cri-cri nelle stoppie.
Come Nanni si fermò, vide Grazia che gli veniva dietro.
- E tu dove vai? - le disse.
Essa non rispose.
E tornarono a udirsi i grilli tutt'intorno.
Non si udiva altro.
Solo il fruscìo del grano in spiga al loro passaggio; e appena si fermavano ad ascoltare cadeva un gran silenzio, quasi il buio si stringesse loro ai panni.
Di tanto in tanto correva una folata di ponente caldo, come un'ombra, sull'onda del seminato.
Allora Grazia si mise a piangere.
Passava un vetturale coi suoi muli; e la piccina a piagnucolare:
- Portateci al paese, vossignoria, per carità! -
Il mulattiere, ciondoloni sul basto, borbottò qualche parola mezzo addormentato, e tirò di lungo.
E i due fanciulli dietro.
Arrivarono a uno stallatico, e si accoccolarono dietro il muro ad aspettare il giorno.
Quando Dio volle spuntò l'alba, e un gallo si mise a cantare d'allegria sul mucchio di concime.
Da un sentierolo fra due siepi sbucò un vecchietto, con una bisaccia piena in spalla.
Aveva la faccia buona, e Grazia gli domandò:
- Per andare al paese, vossignoria, da che parte si va? -
Lo zio Mommu accennò di sì col capo, e seguitò per la sua via, col naso a terra.
Si misero dietro a lui, che andava a vendere la sua roba al paese, e arrivarono sulla piazza che era giorno chiaro.
C'era già una donnicciuola imbacuccata in una mantellina bianca, la quale vendeva verdura e fichidindia.
Delle altre donne entravano in chiesa.
Davanti lo stallatico salassavano un mulo; e dei contadini freddolosi stavano a guardare, col fazzoletto in testa e le mani in tasca.
In alto, nel campanile già tutto pieno di sole, la campana sonava a messa.
Essi andarono a sedere tristamente sul marciapiede, accanto al vecchietto con cui erano venuti, e che s'era messo a vender anatre e gallinelle che nessuno comprava, aspettando il Zanno che non veniva neppur lui.
Il tempo passava, e passava anche della gente che veniva a comprare la verdura dalla donnicciuola colla mantellina, pesandola colle mani.
Da una stradicciuola spuntarono due signori, col cappello alto, passeggiando adagio adagio, e si fermarono a contrattare lungamente, toccando la roba colla punta del bastone, senza comprar nulla.
Poi venne la serva della locanda a prendere una grembialata di pomodori.
Sulla piazza facevano passeggiare innanzi e indietro il mulo salassato.
Infine lo speziale chiuse la bottega, mentre sonava mezzogiorno.
Allora lo zio Mommu tirò dalla bisaccia un pane nero, e si mise a mangiarlo adagio adagio con un pezzo di cipolla.
Vedendo i due ragazzi che guardavano affamati, gliene tagliò una gran fetta per ciascuno, senza dir nulla.
Infine raccolse la sua mercanzia, e se ne andò a capo chino, com'era venuto.
Ora rimanevano soli e sconsolati.
Si presero per mano e arrivarono sino alla fontana ch'era in fondo al paesetto.
Per la strada che scendeva a zig zag nella pianura arrivava gente a ogni momento.
Donne che venivano ad attinger acqua, vetturali che abbeveravano i muli, e coppie di contadini che tornavano dai campi, chiacchierando a voce alta, colle bisacce vuote avvolte al manico della zappa.
Poi una mandra di pecore, in mezzo a un nuvolo di polvere.
Un frate cappuccino, che tornava dalla cerca, saltò a terra da una bella mula baia, schiacciata sotto il carico, e si chinò a bere alla cannella, tutto rosso, sguazzando nell'acqua la barbona polverosa.
Quando non passava alcuno, venivano delle cutrettole a saltellare sui sassi, in mezzo alla fanghiglia, battendo la coda.
Lontano si udiva la cantilena dei trebbiatori nell'aia, perduta in mezzo alla pianura che non finiva mai, e cominciava a velarsi nelle caligini della sera.
E in fondo, come un pezzetto di specchio appannato, il Biviere.
- Guarda com'è lontano! - disse Nanni col cuore stretto.
Il sole era già tramontato; ma non sapevano dove andare, e rimanevano aspettando, l'uno accanto all'altra seduti sul muricciuolo, nel buio.
Infine si presero per mano e tornarono verso l'abitato.
Nelle case luccicava ancora qualche finestra; però i cani si mettevano a latrare, appena i due ragazzi si fermavano presso a un uscio, e il padrone minaccioso gridava: - Chi è là? -
La fanciulletta scoraggiata buttò le braccia al collo di Nanni.
- No! No! - piagnucolava lui, - lasciami stare -.
Trovarono una tettoia addossata a un casolare, e vi passarono la notte, tenendosi abbracciati per scaldarsi.
Li svegliò lo scampanìo del paese in festa, che il sole era già alto.
Mentre andavano per via, guardando la gente che usciva vestita in gala, scorsero in piazza don Tinu il merciaiuolo, colle sue scarabattole di già in mostra, sotto l'ombrellone rosso.
- Signore don Tinu, - gli disse Grazia tutta contenta.
- Benvenuto a vossignoria! -
Don Tinu si accigliò e rispose:
- O tu chi sei? Io non ti conosco -.
La fanciulletta si allontanò mogia mogia.
Ma don Tinu vide il ragazzetto, che guardava da lontano timoroso, e gli disse:
- Tu sei quello dell'osteria del Pantano, lo so.
- Sissignore, don Tinu, - rispose Nanni col sorriso d'accattone.
E tutto il giorno gli ronzò intorno, affannato, sul marciapiede.
Quando vide che don Tinu raccoglieva la sua mercanzia, e stava per andarsene, si fece animo, e gli disse:
- Se mi volete con voi, vossignoria, io vi porterò la roba.
- Va bene, - rispose don Tinu.
- Ma la tua compagna lasciala stare pei fatti suoi, ché non ho pane per tutti e due -.
Grazia scorata, si allontanò passo passo, colle mani sotto il grembiule, e poi si mise a guardare tristamente dall'altra cantonata, mentre Nanni se ne andava dietro al merciaiuolo, curvo sotto il carico.
Un buon diavolaccio, quel don Tinu.
Sempre allegro, anche quando gli lasciava andare una pedata o uno scapaccione.
In viaggio gli raccontava delle barzellette per smaliziarlo e ingannare la noia della strada a piedi.
Oppure gli insegnava a tirar di coltello, in qualche prato fuori mano.
- Così ti farai uomo, - gli diceva.
Giravano pei villaggi, da per tutto dov'era la fiera.
Schieravano in piazza la mercanzia, su di una panchetta, e vociavano nella folla.
C'erano trecconi, bestiame, gente vestita da festa; e il Zanno che faceva veder l'Ecceomo, e si sbracciava a vendere empiastri e medaglie benedette, a strappare denti, e a dire la buona ventura, ritto su un trespolo, in un mare di sudore.
I curiosi facevano ressa intorno, a bocca aperta, sotto il sole cocente.
Poi veniva il santo colla banda, e lo portavano in processione.
Dopo, tutta la giornata, le donne stavano sugli usci, cariche d'ori, sbadigliando.
La sera accendevano la luminaria e facevano il passaggio.
Don Tinu ripeteva:
- Se restavi alla chiatta, con tuo padre, le vedevi tutte queste cose, di'? -
Capitarono anche una volta al paese di Nanni, il quale non ci si raccapezzava più, dopo tanto tempo, e passando davanti alla sua casa vide un ballatoio che non ci era prima, e della gente che non conosceva, e vi stava pei fatti suoi.
Cercò anche dei parenti.
Il fratello, Pierantonio, era lontano, camparo alle Madonìe, laggiù verso la marina; e la sorella, Benedetta, s'era maritata, un buon partito che le aveva procurato comare Stefana, dotandola coi suoi denari, e facevano tutti una famiglia, in una bella casa nuova, col terrazzino e il letto col cortinaggio, che quasi non volevano lasciarvi entrare quel vagabondo.
Pure donna Stefana, per politica, come seppe chi era e donde veniva, gli fece dar da colazione, pane vino e companatico, in un angolo della tavola, che egli subito disse grazie, perché le due donne sembrava che gli contassero i bocconi, sua sorella ritta sull'uscio colle mani sul ventre e l'orecchio teso per sentire se capitava il marito, guardando di sottocchio donna Stefana come fosse sulle spine.
- No e sì - sì e no.
- Le parole cascavano di bocca, e il pane e il companatico pure.
Toccarono appena del babbo e del fratello che erano lontani, uno di qua e l'altro di là, e tacquero subito perché poco avevano da dire, dopo tanto che non si erano visti.
Benedetta anzi non aveva neppure conosciuto il babbo, come fosse figlia del peccato.
- Questa povera orfanella, - disse forte donna Stefana, - non ha avuto nessuno al mondo, né amici né parenti.
Dillo tu stessa, figliuola mia.
Se non ero io, come ti trovavi? -
Benedetta disse di sì, con un'occhiata riconoscente.
Poi guardò il fratello, e chinò gli occhi.
Infine gli chiese se contava di fermarsi molto, in paese, dandogli del voi, sempre cogli occhi bassi.
Donna Stefana invece gli ficcava addosso i suoi, quasi volesse frugarlo sotto i panni, con certe occhiate sospettose che covavano le posate.
Appena fuori dell'uscio si sentì dar tanto di catenaccio dietro le spalle.
- Queste son cose che succedono, - disse poi don Tinu, quando seppe com'era andata la visita alla sorella.
- Il mondo è grande, e ciascuno pei fatti suoi -.
Andavano pel mondo, di qua e di là, per fiere e per villaggi, sempre colla roba in collo, sicché infine una volta capitarono a Primosole, dopo tanto tempo.
- Ora ti faccio vedere tuo padre, s'è ancora al mondo, - disse don Tinu.
Nanni non voleva, fra la vergogna e la paura; ma il merciaio soggiunse:
- Lascia fare a me, che le cose le so fare -.
E andò avanti a prevenire compare Cosimo ch'era sempre lì, alla chiatta, su di un piede come le gru.
- Ecco vostro figlio Nanni, compar Cosimo, che è venuto apposta per baciarvi le mani -.
Lo zio Cosimo aveva la terzana, e stava lì, al sole, appoggiato alla fune, col fazzoletto in testa, aspettando la febbre.
- Che il Signore t'accompagni, figliuol mio, e ti aiuti sempre -.
Adesso ch'era stremo di forza, gli venivano i lucciconi agli occhi, vedendo che bel pezzo di ragazzo s'era fatto il suo Nanni.
Costui narrava pure di Benedetta e del fratello, ch'era stato a cercarli; e il padre, tutto contento, scrollava, tentennava il capo, colla faccia sciocca.
Una miseria, in quella chiatta: Ventura partito per cercar fortuna altrove; Mangialerba più che mai sotto i piedi della sua donnaccia, becco e bastonato, e l'Orbo sempre lo stesso, attaccato alla fune come un'ostrica e allegro come un uccello, che cantava nel silenzio della malaria, guardando il cielo cogli occhi bianchi.
- Con me vostro figlio girerà il mondo, e si farà uomo.
- ripeteva don Tinu.
Anche lo zio Antonio, poveretto, non era più quello di prima, e stava lì, sull'uscio dell'osteria, inchiodato dalla paralisi sulla scranna, a salutar la gente che passava, colla faccia da minchione, per tirare gli avventori.
- Benedicite, vossignoria.
Che non mi riconoscete più, zio Antonio? - gli disse il merciaiuolo fermandosi a salutarlo.
Lo zio Antonio accennava di sì col capo, come pulcinella.
Allora don Tinu trasse fuori un bel sigaro e glielo mise nelle mani che tremavano continuamente, posate sulle ginocchia.
Ma l'altro scosse il capo, accennando di no, che non poteva.
Don Tinu, per cortesia, gli chiese infine di sua moglie, e di comare Filomena, che non si vedevano, nell'osteria deserta; e il vecchio, colle mani tremanti, accennò di qua e di là, lontano, verso il camposanto e verso la città.
Per bere un sorso, dovettero sgolarsi a chiamare un ragazzaccio che compare Antonio s'era tirato in casa, onde fare andare l'osteria, e arrivò dall'orticello abbandonato, tutto sonnacchioso, fregandosi gli occhi, insaccato in un giubbone vecchio dello zio Antonio che gli arrivava alle calcagna.
- Abbiamo fatto un'opera di carità, - osservò don Tinu nel pagare il vino bevuto.
- Statevi bene, compare Antonio -.
Così era fatto don Tinu, colle mani sempre aperte, quando ne aveva, e il cuore più aperto ancora.
Gli piaceva ridere e divertirsi, e aveva amici e conoscenti in ogni luogo.
Spesso lasciava Nanni al negozio, diceva lui, e correva a godersi la festa di qua e di là colle comari (aveva comari da per tutto).
Appena arrivava in un paese lo mandavano a chiamare di nascosto, e gli facevano trovare il desco apparecchiato dietro l'uscio, mentre il marito era alla processione colla testa nel sacco.
Finché une volta, per la festa del Cristo, a Spaccaforno, portarono don Tinu a casa su di una scala, come un Ecceomo davvero.
Era stata Grazia che era venuta a chiamarlo: - Signore don Tinu, vi aspettano dove sapete vossignoria -.
Don Tinu esitava, grattandosi la barba.
Non che avesse paura, no.
Ma quella ragazza allampanata gli portava la jettatura, c'era da scommettere.
Lei intanto rimaneva sull'uscio della bottega, sorridendo timidamente, col viso nella mantellina rattoppata.
Nanni che da un pezzo non la vedeva, le disse:
- O tu come sei qui?
- Son venuta a piedi, - rispose Grazia, tutta contenta che le avesse parlato.
- Son venuta a piedi da Scordia e Carlentini, perché laggiù morivo di fame.
Ora fo i servizi a chi mi chiama -.
S'era fatta grande, tanto che la vesticciuola sbrindellata non arrivava a coprirle del tutto le gambe magre; colla faccia seria e pallida di donna fatta che ha provato la fame: e due pèsche fonde e nere sotto gli occhi.
Nanni che stava leccando col pane il piatto di don Tinu le disse:
- Te'; ne vuoi? - Ma Grazia si vergognava a dir di sì.
- Io sto con don Tinu, e faccio il merciaiuolo, - aggiunse Nanni.
Ad un tratto egli si fece serio, guardandola fiso.
- Entra! -
La ragazza esitava, intimidita da quegli occhi.
Nanni ripeté:
- Entra, ti dico! sciocca! -
E la tirò pel braccio chiudendo l'uscio.
Ella obbediva tutta tremante.
Poi gli buttò le braccia al collo.
- Tanto tempo che ti volevo bene! -
E ricominciò a narrar la storia del suo misero vagabondaggio: la fame, il freddo, le notti senza ricovero, gli stenti e le brutalità che aveva sofferto; seduta sulla balla della mercanzia, colla schiena curva, le braccia abbandonate sulle ginocchia, ma gli occhi lucenti di contentezza adesso, e una gran gioia che le si spandeva infine sul viso sbattuto e scarno.
- Sai, tanto tempo che ti volevo bene! Ti rammenti? quando s'andava tu ed io per l'erbe della minestra a Primosole? e l'isolotto che lasciava il fiume quando era magra? e quella notte che abbiamo dormito insieme dietro un muro, sulla strada di Francofonte? Poi, quando tu te ne sei andato con don Tinu, e non sapevo che fare, né dove andare...
Quella donna che vendeva i fichidindia, vedendomi ogni giorno a frugare nel mondezzaio, fra le bucce e i torsi di lattuga, mi dava ora una crosta di pane ed ora qualche cucchiaiata di minestra.
Ma essa pure dovette andarsene, quando finì il tempo dei fichidindia, ed io partii con quello che faceva gente per la raccolta delle ulive, laggiù al Leone.
Presi le febbri e mi mandarono all'ospedale.
Dopo non mi vollero più perché dicevano che mi mangiavo il pane a tradimento.
Sono stata anche a dissodare, dov'hanno fatto quella gran piantagione di vigne, al Boschitello; e ho lavorato allo stradone, e ci sarei tuttora a mangiar pane, se non fosse stato pel soprastante...
-
S'interruppe, facendosi rossa, e guardò Nanni timorosa.
Ma a costui non gliene importava nulla.
Le disse solo:
- Vattene ora, ché sta per tornare il mio padrone -.
La poveretta si lasciava spingere verso l'uscio, col capo chino sotto la mantellina rattoppata, balbettando:
- Non ci ho colpa, ti giuro, per la Madonna Addolorata! Cosa potevo fare? Egli era il soprastante...
Tu non c'eri più!...
Non sapevo dov'eri nemmeno...
- Sì, sì, va bene.
Adesso vattene, ché sta per venire don Tinu, - ripeteva lui allungando il collo fuori dell'uscio, di qua e di là della straduccia, come un ladro.
Infine la ragazza se ne andò adagio adagio, rasente al muro.
Poco dopo portarono a casa il merciaiuolo colle ossa rotte; ché lo zio Cheli, per combinazione, tornando prima del solito, aveva trovato don Tinu che gli faceva il pulcinella in casa.
Il Zanno nel medicare il merciaiuolo andava predicando:
- Coi villani ci vuole prudenza, don Tinu caro! ché son peggio delle bestie.
Vetturali poi, Dio liberi!...
-
Ogni volta, quando gli capitava male, don Tinu si sfogava dopo col ragazzo, a calci e scapaccioni; tanto che agli strilli accorrevano l'oste e i viandanti, e il Zanno gli diceva:
- Non gli dar retta, figliuol mio, perché il tuo padrone dev'essere ubriaco -.
Il Zanno invece se voleva ubriacarsi si chiudeva nella sua stanzetta, faccia a faccia colla bottiglia.
Non gridava, non picchiava nessuno, sempre con quel risolino furbo sulla faccia magra; e le donne venivano a cercarlo a casa sua di soppiatto, verso sera, imbacuccate sino al naso, e chiudeva a catenaccio.
Tutto il giorno sempre allegro, a strappar denti senza dolore, vendere empiastri e intascar soldi.
Nanni, allorché lo incontrava per le piazze, nelle bettole, andando di qua e di là per fiere e per paesi, gli ripeteva:
- Vi rammentate, vossignoria, quando mi diceste se volevo venire con voi a fare il Zanno, quella volta che morì lo zio Carmine, allo stallatico del Biviere? -
Il Zanno fingeva di non capire, perché non voleva aver questioni con don Tinu; ma infine, messo alle strette, si lasciò scappare:
- Be', se il tuo padrone ti manda via, io non ci ho difficoltà a pigliarti con me -.
Nanni se la legò al dito, e la prima volta che il merciaio si sciolse la cinghia per menargli la solfa addosso, gli disse brusco:
- Don Tinu, lasciamo stare la cinghia, vossignoria, ché se no stavolta finisce male.
- Ah, carogna! e rispondi anche! Ti farò vedere io come finisce!...
- Lasciate stare la cinghia, don Tinu, o finisce male, vi ho detto -.
E mise la mano in tasca.
Don Tinu ch'era stato il suo maestro e gli vide la faccia pallida, mutò subito registro:
- Ah, così rispondi al tuo padrone? Ora ti lascio morir di fame.
Pigliati la tua roba, e via di qua -.
Nanni raccolse i quattro cenci nel fazzoletto e conchiuse:
- Benedicite a vossignoria -.
E se ne andò a trovare il Zanno.
- Bada che qui si guarda e non si vede: si ode e non si sente: si ha bocca e non si parla - gli disse il Zanno per prima cosa.
- Se hai giudizio starai bene; se hai la lingua lunga andrai a darla ai cani, come quel re che aveva le orecchie lunghe e non poteva tenere una cosa sullo stomaco.
Io non faccio chiacchiere né chiassi come don Tinu, bada! Marcia, torna e sparisci! E bravo chi ti trova! -
Menavano una vita allegra, ma sempre coll'orecchio teso e un piede in aria.
Di notte, se picchiavano all'uscio, era un lungo tramestìo, un ciangottare dietro l'uscio, un andare e venire prima di tirare il catenaccio.
Poi Nanni udiva il suo padrone che parlava con qualcuno sottovoce nell'altra stanza, e pestare nel mortaio; oppure erano strilli e pianti soffocati.
Una notte, che non poteva chiudere occhio, vide dal buco della serratura il Zanno che intascava dei soldi, e una che gli parve Grazia, bianca come la cera vergine, la quale se ne andava barcollando.
Ma il Zanno, appena gli chiese se era davvero Grazia, montò in furia come una bestia.
- Tu sei troppo curioso, figliuol mio, e un giorno o l'altro ti finisce male -.
E gli finì male davvero, per un altro motivo.
Un giorno, per la festa dell'Immacolata, appena rizzarono il trespolo sulla piazza di Spaccaforno, vennero gli sbirri e li acciuffarono tutti e due, cogli unguenti e gli elisiri, e li portarono al Criminale, accusati d'infanticidio.
Ma allorché il Zanno vide Grazia sullo scanno, accusata insieme a loro, si mise a giurare e spergiurare colle mani in croce che non l'aveva mai vista né conosciuta, com'è vero Iddio!
Ma c'erano testimoni che avevano visto quella ragazza con Nanni tempo fa, quando egli era passato un'altra volta da Spaccaforno con don Tinu il merciaio, nella settimana santa, anzi egli aveva chiuso l'uscio.
Grazia, più morta che viva, balbettava:
- Signor giudice, fatemi tagliare la testa, ché sono una scellerata! Prima feci il peccato e poi non seppi far la penitenza -.
Era stato per la disperazione, dacché tutti la scacciavano come un cane malato...
e per la vergogna anche...
Sì, perché no? dopo che Nanni l'aveva mandata via, e cominciava a capire il male che aveva fatto...
Fu una notte, nel casolare abbandonato dietro il ponticello, che prima serviva pei lavoranti della strada...
Una notte che pioveva...
e le pareva di morire, lì, sola e abbandonata...
E non sapeva come fare, con quella creaturina abbandonata al par di lei...
Poi, quando non l'udì più vagire, e la vide tutta bianca, si strascinò sino al burrone, là, nella cava delle pietre, e l'avvolse nel grembiule, prima, povere carni tenere d'innocente! Ma Nanni non sapeva nulla, com'è vero Dio.
Non s'erano più visti...
Potevano andare loro stessi, a vedere lì nella cava delle pietre, vicino al casolare, giù dal ponticello...
Così Grazia andò in galera, ma loro se la cavarono colla sola paura della forca, il Zanno e l'aiutante.
Però il Zanno fece voto a Dio e al Cristo di Spaccaforno che giovani non ne voleva più alla cintola, com'è vero Gesù Sacramentato!
Nanni girò ancora un po' di qua e di là, finché spinto dalla fame tornò a Primosole, dove almeno ci aveva qualcuno.
Trovò che suo padre era sotto terra, e l'Orbo guidava lui la chiatta, asciutto come un osso.
Giusto c'era Filomena, che cominciava a farsi vecchia, e nessuno la voleva per quella storia di don Tinu e gli altri sdruccioloni che si erano scoperti dopo; la Filomena adesso gli diceva ogni volta:
- Io ci ho la mia roba, grazie a Dio, e il marito che volessi prendere starebbe come un principe -.
L'Orbo, che faceva da mezzano per un bicchier di vino, aiutava:
- L'ho vista io con questi occhi.
- Per me, - rispose alfine Nanni, - se voi siete contenta, sono contento io pure -.
E si fece il nido come un gufo.
Di correre il mondo ne aveva abbastanza ora, e badava a mangiare e bere colla moglie e gli avventori, che tenevano allegra la casa e lasciavano dei soldi nel cassetto.
Ogni tanto gli portavano la notizia:
- Sapete, zio Giovanni? vostro fratello gli è successo un accidente -.
Oppure:
- Gnà Benedetta, vostra sorella, ha avuto un altro maschio -.
Tale e quale come suo padre, che aveva messo radici a Primosole, dopo che era rimasto zoppo, e venivano a dirgli sin lì quel che succedeva al mondo di qua e di là.
Un giorno, dopo anni e anni, in mezzo a una torma di mietitori, vide passare anche una vecchia che neppure il diavolo l'avrebbe più riconosciuta, mangiata com'era dalla fame e dagli strapazzi, la quale gli disse:
- Che non mi riconoscete più, compare Nanni? Sono Grazia, vi rammentate? -
Ma egli la mandò subito via per paura di Filomena che ascoltava dal letto, come aveva fatto l'altra volta per paura del padrone che stava per venire.
Ora voleva godersi tranquillamente la sua pace e la provvidenza che il Cielo mandava, insieme alla moglie che gli aveva dato Dio.
E se si trovavano a passare il Zanno oppure don Tinu, che ora gli portavano rispetto, e lasciavano anche loro bei soldi all'osteria, soleva dire con la moglie, o con chi c'era:
- Poveri diavoli! Costoro vanno ancora pel mondo a buscarsi il pane! -
IL MAESTRO DEI RAGAZZI
La mattina, prima delle sette, si vedeva passare il maestro dei ragazzi, mentre andava raccogliendo la scolaresca di casa in casa: con la mazzettina in una mano, un bimbo restìo appeso all'altra, e dietro una nidiata di marmocchi, che ad ogni fermata si buttava sul marciapiede, come pecore stracche.
Donna Mena, la merciaia, gli faceva trovare il suo Aloardo, già bell'e ripulito, a furia di scapaccioni, e il maestro, amorevole e paziente, si trascinava via il monello, che strillava e tirava calci.
Più tardi, prima del desinare, tornava rimorchiando Aloardino tutto inzaccherato, lo lasciava sull'uscio del negozio, e ripigliava per mano il bimbo con cui era venuto la mattina.
Così passava e ripassava quattro volte al giorno, prima e dopo il mezzodì, sempre con un ragazzetto svogliato per mano, gli altri sbandati dietro, d'ogni ceto, d'ogni colore, col vestitino attillato alla moda, oppure strascicando delle scarpacce sfondate; però tenendosi accosto invariabilmente le scolare che stava più vicino di casa, sicché ogni mamma poteva credere che il suo figliuolo fosse il preferito.
Le mamme lo conoscevano tutte; dacché erano al mondo l'avevano visto passare mattina e sera, col cappelluccio stinto sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti come le scarpe, il sorriso paziente e inalterabile nel viso disfatto di libro vecchio; senza altro di stanco che il vestito mangiato dal sole e dalla spazzola, sulle spalle un po' curve.
Sapevano pure che era un gran cacciatore di donne; da circa quarant'anni, dacché andava su e giù per le strade mattina e sera, al pari di una chioccia coi suoi pulcini, era sempre col naso in aria, agitando la mazzettina a guisa di uno zimbello, come un vero uccellatore, in cerca di un'innamorata - senza ombra di male - una che lo guardasse ogni volta che passava, e tirasse fuori il fazzoletto quando egli si soffiava il naso - niente di più; gli sarebbe bastato di sapere che in qualche luogo, vicina o lontana, aveva un'anima sorella.
Talché lungo la perenne via crucis di tutti i giorni, egli aveva delle immaginarie stazioni consolatrici, delle invetriate che soleva sbirciare dacché svoltava la cantonata, e che avevano senso e parole soltanto per lui, alle quali aveva visto invecchiare dei visi amati - o scomparirne per andare a maritarsi - egli solo sempre lo stesso, portando una instancabile giovinezza dentro di sé, dedicando alle figliuole il sentimento che aveva provato per le madri, mulinando avventure da Don Giovanni nella sua vita da anacoreta.
Era come la conseguenza della sua professione, l'incarnazione degli estri poetici che gli occupavano le ore d'ozio, la sera, dinanzi al lume a petrolio, coi piedi indolenziti nelle ciabatte di cimosa, ben coperto dal pastrano, mentre sua sorella Carolina rattoppava le calze, dall'altro lato del tavolinetto, anch'essa con un libro aperto dinanzi agli occhi.
Faceva il maestro di scuola per vivere, ma il suo vero stato erano le lettere, sonetti, odi, anacreontiche, acrostici soprattutto, con tutte le sante del calendario a capoverso.
Portava, sotto il paletò spelato, da un capo all'altro della città, strascinandosi dietro la scolaresca, la sacra fiamma dei versi, quella che fa cantare le giovinette al chiaro di luna sul veroncello - e doveva farle pensare a lui.
Sapeva già, come se gliela avessero confidata, tutta la curiosità che doveva suscitare la sua persona, i palpiti che destava una sua occhiata, le fantasie che si lasciava dietro il suo passaggio.
Troppo scrupoloso però per abusarne!
Un giorno, lo rammentava sempre con una dolce confusione interna, una giovinetta alla quale andava a dare lezioni di bello scrivere a domicilio, volle regalargli per la sua festa un bel fiore ch'era in un vasetto della scrivania - rosa o garofano, non si rammentava pel turbamento che gli aveva fatto velo alla vista - glielo presentava con un atto gentile, e gli diceva, al vederlo timido e imbarazzato:
- L'ho tenuto lì per lei, signor maestro.
- No...
la prego...
Mi risparmi...
- Come? non lo vuole?
- Seguitiamo la lezione, di grazia!...
Queste non son cose...
- Ma perché? Che c'è di male...
- Tradire la fiducia dei suoi parenti...
sotto la veste di istitutore...
-
Allora la ragazza era scoppiata in una risata così matta, così impertinente, che gli squillava ancora nelle orecchie al ripensarci, e ancora, dopo tanto tempo, gli metteva in capo un dubbio, uno di quei lampi di luce che fanno cacciare il capo sotto il guanciale, per non vederli, la notte.
Ah, quelle benedette ragazze, chi arrivava a capirle, per quanto gli anni passassero! Esse gli ridevano dietro le spalle.
- Poi, dopo molto tempo, quand'egli passava a prendere i loro bimbi, tirando in su i baffetti ostinatamente neri, si sentivano intenerire da una certa commozione ripensando al passato, alle rosee fantasie della prima giovinezza, che evocava la figura melanconica di quell'eterno cercatore di amore.
- Entrate, don Peppino, il ragazzo sta vestendosi.
- No, grazie, non importa.
- Volete aspettare al sole?
- Ho qui i ragazzi.
Non posso lasciarli.
- Quanti ne avete, santa pazienza! Ce ne vorrà, da mattina a sera, tanto tempo che fate quel mestiere!
- Sì, un pezzo che ci conosciamo, di vista almeno.
Quando lei stava in via del Carmine, il terrazzino col basilico.
Si rammenta?
- Si diventa vecchi, don Peppino! Ora abbiamo i capelli bianchi.
Parlo per me, che ho già una figliuola da marito.
- Giusto, avevo portato qui una cosuccia per donna Lucietta.
Oggi è la sua festa, mi pare.
- Cos'è? l'immagine di santa Lucia? No, una poesia! Lucia, Lucia, vien qui, guarda cosa t'ha portato il signor maestro.
- Piccolezze, donna Lucietta, scuserà l'ardire.
- Bello, bello, grazie tante.
Guarda che bel foglio, mamma.
Sembra un merletto.
- Son cose leggiere.
Proprio un ricamino in versi, come ci vogliono per una bella ragazza qual è lei.
Piccolezze, sa!
- Grazie, grazie.
Ecco Bartolino.
È mezz'ora che il signor maestro t'aspetta, maleducato!
- Guarda mamma; ritagliando il bordo della carta tutto in giro se ne può cavare un bel portamazzi, se oggi mi vengono dei fiori -.
La scuola era un grande stanzone imbiancato a calce, chiuso in fondo da un tramezzo che arrivava a metà dell'altezza, e al di sopra lasciava un gran vano semicircolare e misterioso, il quale dava lume a un bugigattolo che vi era dietro.
Accanto all'uscio vedevasi il tavolinetto del maestro, coperto da un tappetino ricamato a mano, e sopra tanti altri lavori fatti di ritagli: nettapenne, sottolume, e un mandarino di lana arancione, colle sue brave foglioline verdi, causa d'infinite distrazioni agli scolari.
L'altro ornamento della scuola, sulla larga parete nuda dietro il tavolino, era una cornicetta di carta traforata, opera industre della stessa mano, che conteneva due piccole fotografie ingiallite, i ritratti del maestro e di sua sorella, somiglianti come due gocce d'acqua, malgrado i baffetti incerati dell'uno, e la pettinatura grottesca dell'altra: gli stessi pomelli scarni che sembravano sporgere fuori della cornice, la stessa linea sottile delle labbra smunte, gli stessi occhi appannati, quasi stanchi di guardare perennemente, dal fondo dell'orbita incavata, lo sbaraglio delle seggiole scompagnate per la scuola; e tutt'in giro la tristezza delle pareti bianche, macchiate in un canto dalla luce scialba della finestra polverosa che dava nel cortiletto.
Di buon mattino, appena il falegname accanto principiava a martellare, udivasi bispigliare due voci sonnolente nel bugigattolo oscuro, e poi s'illuminava il vano al di sopra del tramezzo.
Il maestro andava a prendere una manata di trucioli, strascicando le ciabatte, tutto raggomitolato in un pastrano spelato, e accendeva il fuoco per fare il caffè.
Allora, dietro la finestra appannata, vedevasi salire la fiamma del focolare annidato sotto quattro tegole sporgenti dal muro, e il fumo denso che stagnava nel cortiletto cieco.
In fondo allo stanzino la sorella del maestro intanto cominciava a tossire, dall'alba.
Egli andava a prendere le scarpe appoggiate allo stipite dell'uscio, l'una accanto all'altra, coi tacchi in alto, e si metteva a lustrarle amorosamente, mentre faceva bollire il caffè, ritto innanzi al fuoco, col bavero del pastrano sino alle orecchie.
In seguito toglieva dal fuoco la caffettiera, sempre colla mano sinistra, per pigliare colla destra la chicchera senza manico dall'asse inchiodata accanto al fornello, la risciacquava nel catino fesso incastrato fra due sassi accanto al pozzo, e portava finalmente il lume nel bugigattolo, diviso in due da una vecchia tenda da finestra appesa a una funicella.
La sorella si alzava a sedere sul letto in fondo, stentatamente, tossendo, soffiandosi il naso, gemendo sempre, colle trecce arruffate, il viso consunto, gli occhi già stanchi, salutando il fratello con un sorriso triste d'incurabile.
- Come ti senti oggi, Carolina? - le chiedeva il fratello.
- Meglio, - rispondeva lei invariabilmente.
Intanto il sole sormontava il tetto di faccia alla finestra, come una polvere d'oro, in mezzo a cui balenava il volo dei passeri schiamazzanti.
Dietro l'uscio passava lo scampanellare delle capre.
- Vado pel latte -, diceva don Peppino.
- Sì, - rispondeva lei collo stesso moto stracco del capo.
E cominciava a vestirsi lentamente, mentre il maestro, accoccolato col bicchiere in mano, leticava col capraio che gli misurava il latte come fosse oro colato.
Carolina andava a rifare il lettuccio piatto del fratello, dall'altra parte della cortina, rialzandola tutta sulla funicella per dare aria alla stanza, come era solita dire; e si dava a strascicare la scopa per la scuola, adagio adagio, movendo le seggiole una dopo l'altra, appoggiandosi al bastone della scopa per tossire, in mezzo al polverìo.
Il fratello tornava coi due soldi di latte in fondo al bicchiere, e due panetti nelle tasche del pastrano.
Ripiegavano un lembo del tappetino, per non insudiciarlo, e sedevano a far colazione in silenzio, l'uno di qua e l'altra di là del tavolino, tagliando ad una ad una delle fette di pane sottili, masticando adagio, e come soprapensieri.
Soltanto, ogni volta che lei tossiva, il fratello rizzava il capo a fissarla in aria inquieta, e tornava a chinare gli occhi sul piatto.
Alfine egli se ne andava colla mazzettina sotto l'ascella, il cappelluccio sull'orecchio, i baffetti incerati, tirando in su il colletto della camicia, infilandosi con precauzione i guanti neri che puzzavano d'inchiostro, seguito passo passo dalla sorella che si ostinava a passargli straccamente la spazzola addosso, covandolo con uno sguardo quasi materno, accompagnandolo dalla soglia con un sorriso rassegnato di zitellona, che credeva tutte le donne innamorate di suo fratello.
Anch'essa aveva avuto la sua primavera scolorita di ragazza senza dote e senza bellezza, quando rimodernava, ogni festa principale, lo stesso vestitino di lana e seta, e architettava pettinature fantastiche dinanzi allo specchietto incrinato.
Oh, le rosee visioni che passarono su quella vesticciuola, mentre essa agucchiava le intere notti! e gli sconforti amari che la tormentarono dinanzi a quello specchio, al quale si affacciavano ogni volta inesorabilmente i pomelli ossuti ed il naso troppo lungo! In mezzo al crocchio allegro e civettuolo delle altre ragazze ella portava sempre come la visione dolorosa della sua figura grottesca, e se ne stava in disparte - per vergogna, dicevano le une, - per orgoglio, dicevano le altre.
- Giacché passava anche lei per letterata.
Nello squallore della loro miseria decente le lettere avevano messo un conforto, una lusinga, come un lusso delicato che li compensava della commiserazione mal dissimulata dei vicini.
Essa teneva gelosamente custoditi, in belle copie tutte a svolazzi e maiuscole ornate, i versi del fratello; e quando egli si era lasciato vincere alfine dall'indifferenza generale, dalla stanchezza dell'umile e faticoso impiego che doveva fare delle lettere per guadagnarsi il pane, essa sola era rimasta una gran leggitrice di romanzi e di versi: avventure epiche di cappa e di spada, casi complicati e straordinari, amori eroici, delitti misteriosi, epistolari di quattrocento pagine tutte piene di una sola parola, nenie belate al chiaro di luna, dolori di anime in lutto prima di nascere, che piangevano delusioni future.
Tutta la sua giovinezza squallida s'era consunta in quelle fantasie ardenti, che le popolavano le notti insonni di cavalieri piumati, di poeti tisici e biondi, di avvenimenti bizzarri e romanzeschi, in mezzo ai quali sognava di vivere anche mentre scopava la scuola o faceva cuocere il magro desinare, nel cortiletto cieco che serviva da cucina.
E sotto l'influenza di tutto quel medio evo, la preoccupazione dolorosa della sua disavvenenza e della sua povertà manifestavasi in modo grottesco, con ricciolini artificiosi sulla fronte, trecce spioventi sulle spalle, sgonfi medioevali ai gomiti del vestito e gorgiere inamidate.
- Che è l'ultimo figurino quello? - avevale chiesto un giorno la più elegante e la più crudele delle sue compagne.
Lui solo - tanto tempo addietro! - adesso era impiegato alla Pretura Urbana - quanti palpiti! quanta dolcezza! quanti sogni! Ed ora più nulla, allorché lo incontrava per caso, carico di moglie e di figliuoli! Allora era un giovinetto smunto, con grandi occhi pensosi che stavano a guardare i "vortici delle danze" dal vano di un uscio, come dall'alto, da cento miglia lontano.
Le ragazze lo canzonavano anche un po' perché non ballava mai; lo chiamavano "il poeta".
Egli da lontano inchiodava uno sguardo fatale su quella ragazza, sola e dimenticata in un cantuccio al par di lui.
Una domenica infine le si fece presentare; le disse con una lunga frase ingarbugliata che aveva ambito l'onore di far la sua conoscenza perché "nella festa" era l'unica persona con cui si potesse scambiare due parole: lo sentiva, gliel'avevano detto: sapeva anche che era una distinta cultrice delle lettere...
"Le danze" giravano giravano "vorticose" in un gran polverìo, sotto la lumiera a petrolio, ed essi sembrano cento miglia lontani, proprio come nei romanzi, mezzo nascosti dietro la tenda all'uncinetto, lui col cappello sull'anca, e l'arco della mente teso per ogni parola che gli usciva di bocca; lei irradiata da quella prima lusinga che le veniva da un uomo, con una nuova dolcezza negli occhi, attraverso i ricciolini.
- È un poema?
- No, un romanzo.
- Storico?
- Oibò signorina! Per chi mi piglia? Sa il detto di quel tale: "Chi ci libererà dai Greci e dai Romani?..."
- Genere Manzoni allora?
- No, più moderno; stavo per dire più fine; certo più nervoso...
tutta la nervosità del secolo in cui viviamo...
- E il titolo? si può sapere almeno?
- Lei sì! - Amore e morte!
- Bello! bello! bello! Ci ha lavorato molto?
- Saran quattr'anni circa.
- Perché non lo fa stampare? -
Il giovanotto alzò le spalle con un sorriso sdegnoso.
- Peccato!
Egli ebbe un lampo negli occhi, per la risposta che gli balenava in mente pronta e azzeccata; un lampo che illuse la poveretta:
- Mi basta questa parola sua, guardi! -
La Carolina avvampò di gioia; e chinò il capo, col petto che le scoppiava.
- Che dice?...
Io!...
Che dice mai?...
-
L'altro gonfiandosi nel soprabito anche lui a quella prima lusinga che gli veniva da una donna, le lasciava cadere sul capo chino, dall'alto del suo colletto inamidato, la confidenza che il trionfo più ambito per uno scrittore è quello di una parola...
una parola sola...
d'encomio...
d'incoraggiamento...
che venga da una persona...
- Pardon! - s'interruppe a un tratto tirandosi bruscamente indietro.
- Gli è arrivata? - chiese scusandosi il padrone di casa che girava coll'annaffiatoio.
- Mi dispiace, sa...
Facevo perché si soffoca dalla polvere.
Non le pare? -
Il poeta continuava dicendo che era proprio una fortuna d'incontrarsi...
in mezzo a tanta volgarità invadente...
- Lei non balla? - domandò infine.
- Io...
- Stia tranquilla.
Non ballo neppur io.
Sa il detto di quel tale: "Non capisco perché cotesto lavoro non lo facciano fare dai domestici!" Ed è vero infatti.
Provi a tapparsi le orecchie, per vedere l'impressione grottesca...
- È vero, è vero.
- Sentisse poi che discorsi! - Il caldo, la folla, i lumi...
Quando si arriva a parlar delle acconciature è già un gran progresso.
A proposito, lei è messa divinamente...
No, no, mi lasci dire, è diversa dalle altre; un buon gusto, un'originalità...
-
Tese l'arco delle sopracciglia, e le scoccò l'ultima frecciata:
- Insomma l'abito non fa il monaco; ma il buon gusto dice la persona...
-
Com'era bello il valzer che sonavano in quel punto! come l'era rimasto in cuore tutta la notte! e come lo canticchiava poi a mezzavoce, cogli occhi gonfi di lagrime deliziose, cucendo nel cortiletto oscuro! Sul pilastrino del pozzo i garofani, che allungavano dal vaso slabbrato gli steli tisici, s'agitavano lieve lieve al sole, e parevano rinascere.
Che pace ora con se stessa, quando si guardava nello specchio! che dolcezza in certi toni della sua voce! che soavità nel raggio della luna che baciava, in alto, il muro dirimpetto! e nell'oro del tramonto che scappava dal comignolo del tetto, e scintillava sui vetri di quella finestra dove si vedeva alle volte un fanciulletto biondo in una scranna a bracciuoli, immobile per delle ore! Vivere, vivere, anche in quel cortiletto triste, fra quelle quattro mura che avevano una melanconia intima e quasi affettuosa, nelle umili occupazioni divenute care, con quell'altro mondo fantastico che le aprivano i libri, sotto la carezza di quella voce fraterna, amorevole e protettrice; e in fondo al cuore poi come un punto luminoso, come una fibra delicata che trasaliva al menomo tocco, come una gran gioia che aveva bisogno di nascondersi e le balzava alla gola ogni momento, come una fede, come una tenerezza nuova per ogni cosa e ogni persona nota - e l'attesa di quella domenica, di quel ballonzolo periodico in mezzo alla polvere e al puzzo di petrolio, dove sapeva di rivedere colui che da otto giorni aveva preso tanta parte nel suo cuore e nella sua vita!
Stavolta le venne incontro appena la vide, con una stretta di mano che riannodava a un tratto la loro intimità spirituale, e le si mise al fianco, dietro la tenda all'uncinetto, colla destra nello sparato della sottoveste, parlandole sempre di sé, delle sue inclinazioni, dei suoi gusti, delle sue ammirazioni, che erano poche e calde, della sua ambizione, che toccava il cielo.
Di tratto in tratto, quando gli pareva che la ragazza chinasse il capo stanco sotto tutto quell'io implacabile, le accoccava un complimento, come un cocchiere fa schioccare la frusta nelle salite.
La giovinetta però chinava il capo per la commozione, col cuore tutto aperto a quelle confidenze che cercavano avidamente la simpatia di lei.
Egli pure, trascinato dalla sua foga, eccitato dalle sue frasi medesime, si abbandonava, cominciava a sbottonarsi, a scendere fino ai suoi piccoli guai: suo padre che lo contrariava nelle sue inclinazioni, nelle tendenze più spiccate del suo ingegno...
Nei due anni d'Università non aveva imparato nulla.
Aveva scritto soltanto dei versi sulle panche della cattedra di Diritto Civile.
- Un vero parricidio! - osservò Carolina sorridendo.
Egli per la prima volta la baciò con un'occhiata d'ineffabile tenerezza.
- Carolina! Carolina! - chiamava il fratello.
E sottovoce le disse all'orecchio: - Bada che tutti ti guardano; sei sempre con colui.
Chi è? -
Qua e là, dietro i ventagli, e nei crocchi delle ragazze, balenavano infatti dei sorrisi mal dissimulati.
Ma Carolina, fiera, lo presentò al fratello:
- Il signor Angelo Monaco, distinto poeta, l'autore di Amore e morte!
- So che anche il signore è un chiaro cultore delle lettere! - disse il Monaco tendendogli la mano regalmente.
Il romanziere aveva "sollecitato l'onore" di leggere il manoscritto del suo romanzo in casa del maestro "per averne un giudizio illuminato e sincero".
Una sera, dopo la scuola, lo installarono dinanzi al tavolinetto dal tappetino ricamato, con due candele accese dinanzi, come un giocatore di bussolotti, don Peppino col capo fra le mani, tutto raccolto nel disegno di appioppargli alla sua volta la lettura dei propri versi, che si sentiva rifiorire in petto gelosi a quell'avvenimento; la sorella digià commossa dalla solennità dei preparativi, la porta chiusa, le seggiole dei ragazzi schierate in fila, come per una folla di ascoltatori invisibili.
Il manoscritto era voluminoso, circa mezza risma di carta a mano, raccolta in una custodia di marocchino col titolo in oro sul dorso, e legata con nastri tricolori.
L'autore leggeva con convinzione, sottolineando ogni parola col gesto, colla voce, con certe occhiate che andavano a ricercare l'ammirazione in volto alla Carolina, pallidissima, e al fratello di lei, impenetrabile dietro il palmo delle mani; si animava alle sue frasi istesse come un bàrbero allo scrosciare delle vesciche che porta attaccate alla coda; senza un minuto di stanchezza, quasi senza bisogno di voltar pagina.
Le pagine volavano, volavano, con un fruscìo quasi di foglie secche d'autunno, nel gran silenzio della notte.
Tutti i rumori della via erano cessati uno dopo l'altro.
La luna alta si affacciava al finestrino.
C'era un punto in cui il protagonista del romanzo, disperato, forzava la consegna di uno stuolo di domestici in gran livrea, schierati in anticamera, e andava a bere la morte nell'alcova della sua bella appena tornata dal ballo, ancora in una nuvola di merletti e di pizzi.
Egli la bollava con parole di fuoco, voleva offrirle, dea implacabile, l'olocausto del suo sangue, dei suoi sensi, del suo amore immensurabile, lì ai piedi dell'altare istesso, su quel tappeto di Persia, dinanzi a quel letto immacolato.
E all'occhiata trionfante che faceva punto, l'autore vide con gioia crudele la sua ascoltatrice che piangeva cheta cheta, colla mano dinanzi agli occhi.
Ei le prese quella mano, e se la tenne sulle labbra a lungo per godere del suo trionfo.
- Perdonatemi! - mormorò poscia.
Ella scosse il capo dolcemente, e rispose con un filo di voce:
- No.
Sono tanto felice! -
La luna dal finestrino baciava la parete dirimpetto, tacita.
Al silenzio improvviso il maestro si destò.
Angelo Monaco prese a frequentare la casa del maestro, attratto dalla simpatia che vi trovava, lusingato da quell'ammirazione fervida, da quell'amore timido e profondo di cui la sua vanità era riconoscente in modo da simulare alle volte un ricambio dello stesso sentimento.
Carolina aspettava, felice, tutta piena di una vita nuova in mezzo alle solite modeste occupazioni, sorpresa da batticuori improvvisi, da dolcezze inesplicabili, per un nulla, per taluni avvenimenti consueti che prima non le avevano detto cosa alcuna, beandosi di uno sguardo, di un sorriso, di una parola, di una stretta di mano di lui, trepidante all'ora in cui egli soleva venire, commossa da una tenerezza ineffabile quando vedeva il raggio della luna sul finestrino, ogni quintadecima, al sentire la campana dell'avemaria, l'organetto che passava, la voce del fratello che pronunziava il suo nome, turbata solo da un imbarazzo insolito e da una nuova tenerezza per lui.
Anch'egli le sembrava cambiato.
Da qualche tempo la trattava con una dolcezza affettuosa e quasi triste, con un riserbo discreto e pietoso.
Un giorno finalmente, al momento di uscire insieme ai ragazzi, col cappelluccio in testa e la mazzettina in mano, la chiamò in disparte, dietro la cortina rossa:
- ...
Sai, Carolina...
Sta per ammogliarsi...
No! senti! Coraggio, coraggio!...
Guarda che io ho lì i ragazzi...
Perdonami se ti ho fatto dispiacere!...
Toccava a me a dirtelo...
Sono tuo fratello, il tuo Peppino!...
-
Ella uscì nello stanzone, barcollante, come si sentisse soffocare, e balbettò dopo un momento:
- Come lo sai? Chi te l'ha detto?
- Masino, quel ragazzo, il figlio del caffettiere.
Oggi, come l'incontrammo per caso, e vide che lo salutavo, mi ha detto che sposa sua sorella.
- Vai, vai, - disse la poveretta respingendolo colle mani tremanti.
- I ragazzi aspettano -.
E fu tutto.
Ella non aggiunse una parola, non gli mosse un lamento.
L'ultima volta che la vide, Angelo la trovò così afflitta, così chiusa nel suo dolore, che ne indovinò il motivo.
Sull'uscio del cortiletto, cogli occhi rivolti a quello spicchio di cielo e una lagrima vera negli occhi, egli le disse addio, commosso dall'accento suo stesso.
Il giorno dopo le scrisse una lettera tutta fremente da un rigo all'altro d'amore e di disperazione, la prima in cui le parlasse d'amore, per dirle che il suo era fatale e doveva immolarlo sull'altare dell'obbedienza filiale.
"Siate felice! siate felice! lontana o vicina, in vita e in morte!..." Fu la sola "missiva" d'amore che ella ricevesse, e la custodì gelosamente fra i fiori secchi ch'ei le aveva donati, e i nastri scolorati che portava il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta.
Poi, stanca, aveva riversato sul fratello le sue illusioni giovanili, rifacendo per lui i castelli in aria in cui s'erano passati i sogni ardenti della sua vita claustrale, subendo, sotto altra forma, le stesse calde allucinazioni che le erano rimaste di tante bizzarre letture, nelle quali si era consunta la sua giovinezza, dietro il tramezzo della scuola, com'era morto il geranio che aveva agonizzato dieci anni nel cortiletto senza sole.
Una volta era stata una rosa che essa aveva sorpreso nel portapenne della scrivania, e s'era sfogliata senza che lei osasse toccarla, lasciandole un grande sconforto a misura che le foglioline si sperdevano nella polvere.
Un'altra volta un bigliettino profumato, visto alla sfuggita sul tappetino della scrivania, scomparso subito misteriosamente, che l'aveva fatta almanaccare un mese, turbandola anche, mentre stava chiuso nel cassetto, col suo odore sottile, finché le era caduto un'altra volta sotto gli occhi, fra le cartacce inutili da buttare via nel cortiletto - la stessa corona dorata in cima al foglio profumato, lo stesso carattere elegante con cui un ragazzo si faceva scusare dalla mamma non so quale mancanza.
Un giorno infine il romanzo sembrò disegnarsi, al giungere di una superba bionda che era venuta a prendere un ragazzetto pallido in una carrozza signorile, riempiendo tutta la scuola del fruscìo della sua veste, del profumo del suo fazzoletto, del suono armonioso della sua voce fresca e ridente come un raggio di sole che avesse abbarbagliato maestro e discepoli.
La povera zitellona per molti giorni ancora, alla stessa ora, aveva aspettata la bella seduttrice, nascosta dietro la tenda del tramezzo, col cuore che le batteva forte, sconvolta sino alle viscere e come violentata da un delizioso segreto, da un turbamento strano, in cui si mescevano una tenerezza nuova pel fratello, un senso di vaga gelosia, e una contentezza, un orgoglio segreto.
Erano reticenze discrete, silenzi pudichi, imbarazzi scambievoli, per un cenno, per una parola, per un'allusione lontana che cadesse nel discorso, mentre sedevano a tavola, l'uno di qua e l'altra di là di un lembo del tappetino ripiegato, mentre rifacevano tutti i giorni la stessa conversazione vuota e insignificante del giorno innanzi, ripetendo le stesse frasi monotone che compendiavano la loro esistenza scolorita ed uniforme, a voce bassa, con una certa timidezza vergognosa.
Egli chinava il capo arrossendo, come sorpreso sul fatto; e giurava di no, facendo una scrollatina di spalle, gongolando dentro di sé, con un sorrisetto di vanagloria che gli tremolava sulle labbra.
Alle volte, in un'effusione improvvisa di tenerezza riconoscente, le posava la destra sul capo, con quello stesso sorrisetto discreto che pareva dicesse:
- Stai tranquilla, scioccherella! -
Però, nella rettitudine istintiva della sua coscienza, la zitellona sentiva nascere una ripugnanza, un'inquietudine dolorosa per tutto ciò che doveva esserci di losco e di pericoloso in quel romanzo clandestino.
Allora correva a buttarsi ai piedi del confessore, nel nuovo fervore religioso in cui si era rifugiata quando aveva provato il più gran dolore della sua giovinezza, lo sconforto e l'abbandono d'ogni lusinga terrena, e domandava perdono per la dolce colpa che lei non aveva commesso, faceva la penitenza del peccato immaginario che era nella sua casa.
E calda ancora di quel fervore vi attingeva il coraggio per esortare il fratello a rientrare nel retto sentiero con delle allusioni velate, delle insinuazioni discrete, un'effusione di tenerezza timida e quasi materna.
- Peppino! - gli disse infine, - dovresti darmi una gran consolazione.
Dovresti risolverti a prender moglie -.
Egli rizzò il capo, sorpreso prima, e poscia lusingato dalla proposta che gli toglieva vent'anni d'addosso, obbiettando col medesimo ingenuo entusiasmo della sua prima giovinezza che "il matrimonio è la tomba dell'amore" per farsi pregare ancora.
- Dammi retta, Peppino!...
Poi quando non sarai più in tempo te ne pentirai!...
-
Egli si ostinava a scrollare il capo, lusingato internamente di poter rifiutare per la prima volta; senza notare l'espressione dolorosa che c'era nell'accento della povera zitellona.
- No, non mi lascio pescare.
Stai tranquilla.
Amo troppo la mia libertà! -
Ella provava un senso strano di simpatia, di commiserazione, e di rancore per quel fanciulletto esile e pallido che la dama bionda era venuta a cercare, e che supponeva fosse il complice innocente della loro tresca.
Lo covava cogli occhi da lontano, nascosta dietro la tenda, quasi egli portasse alla scuola, nei sereni lineamenti infantili, un riflesso delle seduzioni tentatrici della mamma, inquieta se lo scolaretto mancava qualche volta, almanaccando tutto un romanzo domestico dai menomi atti del ragazzo inconsapevole.
Se lo chiamava vicino, quando poteva farlo da solo a solo, lo accarezzava, lo interrogava, gli faceva qualche regaluccio insignificante, attratta e ripugnante nello stesso tempo della sua grazia infantile.
Un giorno il fanciulletto, tutto contento, le disse:
- Dopo le vacanze non vengo più a scuola -.
Ella gli chiese il perché, balbettando.
- La mamma dice che ora son grande.
Andrò in collegio -.
Così terminò anche quel romanzo.
Ella ne sentì prima un gran sollievo; ma nello stesso tempo un dubbio, uno sconforto amaro, vedendo dileguarsi anche le ultime illusioni, che aveva collocate sul fratello.
Il male che la rodeva da anni e anni la inchiodò infine nel letto.
Il povero maestro non ebbe più un'ora di pace: sempre in faccende anche nei brevi istanti che la scuola gli lasciava liberi, scopando, accendendo il fuoco, rifacendo i letti, correndo dal medico e dallo speziale, coi baffi stinti, le scarpe infangate, il viso più incartapecorito ancora.
Le vicine, mosse a compassione, venivano a dare una mano: ora l'una ed ora l'altra: donna Mena, la vedova del merciaio, con tutti gli ori addosso, come se andasse a nozze; e l'Agatina del falegname, lesta di mano e sempre allegra, che riempiva della sua gaia giovinezza la povera casa triste; talché il vecchio scapolo era tutto scombussolato da quelle gonnelle che gli si aggiravano per casa, tentato, anche in mezzo alle sue angustie, quasi da un ritorno di giovinezza, da sottili punture nel sangue e al cuore, che gli cocevano come un rimorso, nelle ore nere.
- Meglio, meglio.
Ha riposato -.
Il poveraccio, al trovare quella buona notizia sulla soglia, le afferrò la mano tremante e la baciò.
- Oh, donna Mena.
Che consolazione! -
Essa gli fece segno di tacere e lo condusse in punta di piedi a veder l'inferma, che riposava con una gran dolcezza sul viso, già lambito da ombre funebri.
E come se la dolcezza di quell'istante di tregua gli si fosse comunicata, affranto dall'angoscia che aveva trascinato insieme ai suoi ragazzi da un capo all'altro della città, egli cadde a sedere sulla seggiola dietro la cortina, senza lasciare la mano di donna Mena, che la svincolò adagio adagio.
La stanza era già oscura, con un senso di intimità misterioso e triste.
Ad un tratto la sorella svegliandosi lo chiamò, indovinando ch'era lì, e per la prima volta egli accendendo il lume si trovò imbarazzato dinanzi a lei insieme a un'altra donna.
Era stata una crisi terribile: la prima lotta colla morte che già abbrancava la preda.
L'inferma, tornata in sé, guardava il lume, le pareti, il viso del fratello con certi occhi attoniti in cui durava ancora la visione di terrori arcani, e lo accarezzava col sorriso, col soffio della voce, colla mano tremante, in un ritorno di tenerezza ineffabile, che si attaccava a lui come alla vita.
E allorché furono soli, gli disse pure con quell'accento e quello sguardo singolari:
- No quella!...
Quella no, Peppino! -
Verso l'agosto sembrò che cominciasse a stare alquanto meglio.
Il sole giungeva fino al letto, dall'uscio del cortile, e la sera entravano a far compagnia tutti i rumori del vicinato, il chiacchierìo delle comari, lo stridere delle carrucole, nei pozzi tutto intorno, la canzone nuova che passava, l'accordo della chitarra con cui il barbiere dirimpetto ingannava l'attesa.
La ragazza del falegname entrava con un fiore nei capelli, con un sorriso allegro che portava la gioventù e la salute.
- No, no, non ve ne andate ancora! Vedete il bene che fa a quella poveretta soltanto a vedervi!
- Si fa tardi, signor maestro.
È un'ora che son qui.
- No, non è tardi.
A casa vostra lo sanno che siete qui.
Piuttosto dite che vi aspettano le compagne, lì sull'uscio.
- No, no.
- O l'innamorato, eh? Sarà l'ora in cui suole passare col sigaro in bocca...
- Oh...
che dite mai, vossignoria!...
- Sì, sì, una bella ragazza come siete...
è naturale.
Chi non si innamorerebbe, al vedere quegli occhi...
e quel sorriso...
e quel visetto furbo.
- Ma cosa gli salta in mente adesso?...
-
E un giorno s'arrischiò anche a dirle, nel vano dell'uscio tutto illuminato dalla luna:
- Ah! foss'io quel tale!
- Lei, signor maestro!...
Che dice mai! -
L'emozione lo prendeva alla gola, mentre la ragazza, per rispetto, non osava ritirare la mano che le aveva afferrata.
E traboccarono frasi sconnesse: L'amore che eguaglia: la poesia ch'è profumo dell'anima: i tesori d'affetto che si cristallizzano nelle anime timide: la divina voluttà di cercare il pensiero e il volto dell'amata nel raggio della luna, a un'ora data.
- La ragazza lo guardava quasi impaurita, con grand'occhi spalancati, e tutta bianca nel raggio della luna.
- Non dimenticherò mai quest'ora che mi avete concesso, Agata! Né questo nome! mai! Divisi, lontani...
ma ricorderemo...
entrambi...
- Mi lasci andare, mi lasci andare.
Buona sera -.
L'inferma, appoggiata a un mucchio di guanciali, chiacchierava sottovoce col fratello, seduto accanto al letto, ancora col cappello in testa e la mazzettina fra le gambe.
Pareva che avesse a dirgli una cosa importante, dai silenzi improvvisi che le soffocavano la parola in gola, dalle occhiate lunghe che posava su lui, dai rossori fugaci che passavano sul pallore del viso disfatto.
Infine, chinando il capo, gli disse:
- Perché non ci pensi ad accasarti?
- No, no! - rispose lui, scrollando il capo.
- Sì, ora che sei in tempo...
Devi pensarci finché sei giovane...
Poi, quando sarai vecchio...
e solo...
come farai? -
Il fratello, sentendosi vincere dalle lagrime, conchiuse, per tagliar corto:
- Non è tempo di parlarne adesso! -
Però essa ritornava spesso sullo stesso argomento.
- Se trovassi una bella giovinetta, ricca, istruita, di buona famiglia, che facesse per te...
-
E una sera che si sentiva peggio torno a parlargliene ancora, coll'inquieto cicaleccio proprio del suo stato.
- No, lasciami dire, ora che ho un po' di fiato.
Non posso permettere che ti sacrifichi per tenermi compagnia...
tutta la tua giovinezza...
Una buona dote non può mancarti.
E se lasci la scuola, tanto meglio.
Vivremo tutti insieme; faremo una casa sola.
Uno stanzino mi basterà, purché sia molto arioso.
Vorrei che fosse verso il giardino.
Della strada non so che farmene, oramai...
Ho sempre desiderato di vedere il cielo, stando in letto...
e del verde, degli alberi...
come, per esempio, averci una finestra là dove c'è ora la cortina, una finestra che guardasse nei campi...
-
Si udiva la pioggia che scrosciava nel cortiletto, una di quelle piogge che annunziano l'autunno, e la pentola di latta, lasciata fuori, che risonava sotto la grondaia.
Un gatto, nella bufera, chiamava ai quattro venti, con voce umana.
Il maestro, che aveva seguìto il vaneggiare della sorella verso il verde ed il sole, coll'allucinazione perenne che era in lui, le chiese affettuosamente:
- Ora che viene l'autunno saresti contenta d'andare in campagna?
- E la scuola? - ribatté lei con un sorriso malinconico.
- Se tu pigliassi una buona dote invece...
con dei poderi...
- Benedette donne! quando si ficcano un chiodo in testa!...
- rispose lui con un sorrisetto malizioso.
E pareva esitare a decidersi.
Ma dopo averci pensato su, finì col dire:
- Non mi vendo, no! -
E abbottonò il soprabito con dignità.
- Se ho da fare una scelta...
Se mai...
È inutile! - conchiuse finalmente.
- Amo troppo la mia libertà! -.
Ella insisteva a dire che queste cose si fanno finché uno è giovane, che se no si finisce in mano della serva o di qualche intrigante.
Poi, siccome il fratello non voleva arrendersi, la zitellona si lasciò scappare in un impeto di gelosia, alludendo alle vicine:
- Vedi che già ti si ficcano in casa, e cominciano a fare dei disegni su di te? -
E la poveretta morì col crepacuore di lasciare il fratello esposto alle insidie di quelle intriganti.
Com'ella aveva fatto un gran vuoto in quel bugigattolo, per quanto poco spazio vi avesse occupato in vita, e il fratello vi si sentiva come perduto in una gran solitudine, in una gran desolazione, nelle ore che i ragazzi gli lasciavano libere, prese ad andare dal falegname, tutte le sere, attratto da una gratitudine dolce e malinconica verso la ragazzona che aveva avuta tanta carità per la sua povera morta.
Ma il falegname, che certe cose non le intendeva, gli fece capire che in bottega del maestro di scuola non sapeva che farsene, e gli facesse invece il piacere di levarsi di quei trucioli.
Anche donna Mena, qualche tempo dopo, quando vide che le visite del maestro si facevano troppo frequenti, col pretesto dell'Aloardino, e non finiva mai di ringraziarla dell'assistenza che aveva fatta alla sua povera sorella, per stringerle la mano e farle gli occhi di triglia, gli disse sul mostaccio:
- Orsù, signor maestro, facciamo a parlarci chiaro, ché il vicinato comincia a mormorare dei fatti nostri -.
Il poveraccio, colto alla sprovvista, si confuse.
Ma infine prese il suo coraggio a due mani:
- Or bene, donna Mena! Anche quella poveretta l'aveva previsto.
Non ho voluto decidermi mai a fare questo passo, perché amavo troppo la mia libertà...
Ma ora che vi ho conosciuta meglio...
se volete...
- Eh, non li avevate fatti male i vostri conti, caro mio, poiché siete stanco d'andare attorno coi ragazzi! Ma il fatto mio ce lo siamo lavorato io e la buon'anima di mio marito...
E non per farcelo mangiare a tradimento -.
Ogni giorno, mattina e sera, tornava a passare il maestro dei ragazzi, con un fanciulletto restìo per mano, gli altri sbandati dietro, il cappelluccio stinto sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti color caffè, la faccia rimminchionita di uno ch'è invecchiato insegnando il b-a-ba, e cercando sempre l'innamorata, col naso in aria.
Soltanto, tornando a casa serrava a chiave l'uscio, per scopare la scuola, rifare il letto, e tutte le altre piccole faccenduole per le quali non aveva più nessuno che l'aiutasse.
La mattina, prima di giorno, accendeva il fuoco, si lustrava le scarpe, spazzolava il vestito, sempre quello, e andava a bere il caffè nel cortiletto, seduto sulla sponda del pozzo, tutto solo e malinconico, col bavero del pastrano sino alle orecchie.
Ed ora che la povera morta non ne aveva più bisogno, risparmiava anche quei due soldi di latte.
UN PROCESSO
All'Assise discutevasi una causa capitale.
Si trattava di un facchino che per gelosia aveva ucciso il suo rivale, giovane dabbene e padre di famiglia.
La folla inferocita voleva far giustizia sommaria dell'assassino, pallido e lacero dalla lotta, che i carabinieri menavano in prigione.
La vedova dell'ucciso era venuta, come Maria Maddalena, per chiedere giustizia a Dio e agli uomini, in lutto, scarmigliata, coi suoi orfani attaccati alla gonnella, mentre l'usciere andava mostrando ai signori giurati l'arma con cui era stato commesso l'omicidio: un coltelluccio da tasca, poco più grande di un temperino, di quelli che servono a sbucciare i fichidindia, ancora nero di sangue sino al manico.
Il presidente domandò:
- Con questo avete ucciso Rosario Testa? -
Tutti gli occhi si volsero alla gabbia dov'era rinchiuso l'imputato, un vecchio alto e magro, dal viso color di cenere, coi capelli irti e bianchi sulla fronte rugosa.
Egli ascoltava l'accusa senza dir verbo, col dorso curvo; e seguiva cogli occhi l'usciere, il quale passava dinanzi al banco dei giurati col coltello in mano.
Soltanto batteva le palpebre, quasi la poca luce che lasciavano entrare le persiane chiuse fosse ancora troppo viva per lui.
Alla domanda del presidente si rizzò in piedi, diritto, col berretto ciondoloni fra le mani, e rispose:
- Sissignore, con quello -.
Corse un mormorio nell'uditorio.
Era una giornata calda di luglio, e i signori giurati si facevano vento col giornale, accasciati dall'afa e dal brontolio sonnolento delle formule criminali.
Nell'aula c'era poca gente, amici e parenti dell'ucciso, venuti per curiosità.
La vedova, stralunata, si teneva sul viso il fazzoletto orlato di nero, e faceva frequentemente un gesto macchinale, come per ravviare le folte trecce allentate, colle mani bianche, levando in aria le braccia rotonde, con un moto che sollevava il seno materno, orgoglio della sua bella giovinezza vedovata.
E fissava sitibonda sull'uccisore gli occhi arsi di lagrime.
Costui non sapeva risponder altro che: - sissignore - a tutte le domande del presidente che gli stringevano il capestro alla gola, guardando inquieto i movimenti d'indignazione dei giurati, non avvezzi alla severa impassibilità della toga, con un'aria di bestia sospettosa.
Incominciò la sfilata dei testimoni, tutti a carico.
- Gli amici del morto, un buon diavolaccio, incapace di far male ad una mosca, - la vedova piangeva.
- I vicini che l'avevano visto barcollare, come preso dal vino, e cadere balbettando: - Mamma mia! - Quelli che avevano gridato: - All'assassino! - Il coraggioso che aveva afferrato pel petto l'omicida, prima che giungessero le guardie, nella brusca e feroce lotta per lo scampo.
- Giustizia! giustizia! - gridava nella folla la vedova, colla voce del sangue che chiedeva sangue, accompagnata dal piagnisteo degli orfani, inteneriti dalla solennità.
Infine fu introdotto un testimonio sinistro, l'amante che quei due uomini si erano disputata a colpi di coltello: una creatura senza nome, senza età, quasi senza sesso, alta, nera, magra, mangiata dagli stenti e dal vizio, che solo le era rimasto vivo negli occhi arditi.
- Destò un senso di ripugnanza al solo vederla.
- Il pubblico accusatore l'aveva fatta venire appunto per ciò.
Ella si piantò tranquillamente in faccia al Cristo, alla legge, a tutti quei visi arcigni, colla sicurezza di chi ha visto in maniche di camicia gli sbirri e i doganieri, e giurò, levando la mano sudicia e nera verso il crocifisso d'avorio, come avrebbe fatto una vergine dinanzi all'altare, baciando lo scapolare bisunto che trasse dal seno cascante.
- Come vi chiamate?
- La Malerba -.
E siccome l'uditorio, nell'attesa tragica, s'era messo a ridere, quasi per ripigliar fiato, ella soggiunse:
- Anche lui, gli dicevano Malannata -.
E indicò l'imputato nel banco.
- Di chi siete figlia?
- Di nessuno.
- Quanti anni avete?
- Non lo so.
- Che professione fate? -
"Essa parve cercare la parola."
- Donna di mondo, - disse infine.
Scoppiò un'altra risata nell'uditorio.
Il presidente impose silenzio scampanellando.
- Sì, donna di mondo, - ribatté lei per spiegarsi meglio.
- Ora con questo, e ora con quell'altro.
- Basta, abbiamo capito, - interruppe il presidente.
- Conoscete da molto tempo l'imputato?
- Sissignore.
Questo qui me l'ha fatto lui, tre anni sono -.
E indicò fieramente uno sfregio che le segnava la guancia, dall'orecchio sinistro al labbro superiore.
- E non ve ne querelaste?
- No.
Era segno che mi voleva bene.
- Foste presente all'uccisione di Rosario Testa?
- Sissignore.
Fu alla Marina: il giorno di tutti i Santi.
- E ne sapete il motivo?
- Il motivo fu che Malannata era geloso...
- Geloso di Testa?
- Sissignore.
- E a ragione?
- Sissignore -.
Allora la vedova si celò il viso fra le mani.
- Com'è possibile che Rosario Testa, giovane, marito di una bella donna, gli desse ragione d'essere geloso...
per voi?
- Com'è vero Dio, questa è la verità, - rispose la Malerba.
- Va bene, continuate.
- Avevo conosciuto quel poveretto...
il morto, prima di quest'altro cristiano, molto tempo prima, prima ancora che si maritasse.
Allora mi chiamavano la Mora dei Canali, Rosario Testa faceva il fruttaiuolo, lì alla Peschiera.
Era un libertino, buon'anima.
Le lavandaie dei Canali, le serve che venivano a far la spesa, con quella sua galanteria di far regali, se le pigliava tutte.
Ma per me specialmente ci aveva il debole, ché una volta alla festa dell'Ognina gli ruppero la testa per via di un marinaio ubriaco che mi voleva.
Poi seppi che si maritava e mutava vita.
Andò a stare a San Placido col suo banchetto.
Né visto né salutato.
Io mi misi con Malannata, sì, ch'erano i giorni del colèra.
Buon uomo anche lui, buono come il pane, e se lo levava di bocca, quel poco che guadagnava, per darlo a me.
Ma geloso come il Gran Turco: "Dove sei stata? Cosa hai fatto?" E poi si picchiava la testa con un sasso, pentito delle botte che mi dava.
Quell'annata del colèra, che tutti scappavano via e si moriva di fame davvero, egli voleva anche mettersi a beccamorto, per non farmi fare la mala vita, col castigo di Dio che si aveva addosso.
Si lasciava morire di fame piuttosto che mangiare del mio guadagno.
Sì, glielo dico in faccia, ora che l'avete a condannare, perché questa è la verità dinanzi a Dio.
Mi diceva, poveretto: "No, non me ne importa.
È che penso al come lo guadagni, questo pane, e non posso mandarlo giù".
Ma io che potevo farci? Poi lui lo sapeva che cosa io ero.
"Non importa", tornava a dire: "almeno non ci voglio pensare".
Ma aveva i suoi capricci anche lui, come una donna, e certuni non me li voleva attorno.
Allora diventava come un pazzo; si strappava i capelli e si rosicava le mani, perché non era più giovane.
Quando mi vedeva insieme al doganiere del molo, che era un bell'uomo, colla montura lucida, mi diceva: "Vedi questo quattrino arrotato, che io tengo in tasca apposta? con questo ti taglierò la faccia, e dopo m'ammazzo io".
E lo fece davvero.
Io gli dissi: "Che serve? Ora che m'avete sfregiata nessuno mi vorrà, e non sarete più geloso" -.
S'interruppe, con un orribile sorriso di trionfo, guardando sfrontatamente in giro il presidente, i giurati, i carabinieri, cinghiati di bianco, incrociando sul petto il vecchio scialle, con un gesto vago.
- Ma non fu così, signor presidente.
Mi volevano ancora, per sua bontà.
Già gli uomini, sono come i gatti...
- E anche Rosario Testa? -
Ella chinò il capo, assentendo, due o tre volte, con quel sorriso.
- Sissignore, anche lui! -
La vedova adesso la guardava cogli occhi ardenti e feroci, le labbra pallide come le guance.
- V'ho detto ch'era un discolo, buon'anima.
E anch'io, al rivederlo, mi sentivo tutta fiacca, come m'avesse fatto bere.
Dicevo di no, perché Malannata era lì vicino, a scaricar zolfo nel magazzino dietro la Villa, e tante volte mi aveva detto lui pure: "Bada che se torni con Rosario, vi faccio la festa a tutti e due".
Ma l'amore antico non si scorda più, vossignoria!
- Basta.
Dite come avvenne l'omicidio.
- Così, come ve lo dico adesso, signor presidente, col coltello dei fichidindia, quello lì.
- Testa era armato?
- Lui? povero ragazzo! Mi aveva invitato a' fichidindia, una galanteria delle sue, lì, al banco di Pocaroba, che ce li ha di quelli di Paternò, sino a Natale.
Pocaroba dice: "Badate che Malannata è in sospetto.
L'ho visto che si affaccia ogni momento alla porta del magazzino, e tien d'occhio compare Rosario".
E Testa: "Lasciatelo guardare, compare Pocaroba, che me ne rido di Malannata e del suo santo".
Allora lasciai stare i fichidindia, e cercavo di condurmi via l'altro; quand'ecco quel cristiano lì correre dall'arco della ferrovia, tutto bianco di zolfo, e cogli occhi come uno che ha bevuto, e in due salti ci fu addosso; afferrò il coltello, dal banco dei fichidindia, prima di dire Gesù e Maria...
- Accusato, avete qualche cosa da aggiungere?
- Nulla, signor presidente.
Questa è la verità sacrosanta -.
Allora sorse il pubblico accusatore, togato e solenne, a malgrado della nota mondana dell'alto colletto inamidato che gli usciva dal nero della toga; e fulminò il reo colla sua implacabile requisitoria, facendo inorridire i giurati col quadro del vizio abbietto che vive nel fango dei bassi strati sociali, per dar l'orrido fiore del delitto, senza neppure la febbre della giovinezza, della passione o dell'onore, senza nemmeno la scusa della tentazione o della gelosia.
- Il vizio che vive del disonore ed osa ribellarvisi col delitto -.
E stendeva verso quel grigio capo avvilito l'indice minaccioso, dall'unghia rosea e lucente.
Le signore, che dovevano alla sua galanteria i posti riservati dell'aula, rianimavano la loro indignazione col profumo della boccetta di sale inglese, soffocate dall'afa; e i larghi ventagli si agitavano vivamente a scacciare il lezzo immondo della colpa, come farfalle gigantesche.
Poscia il magistrato si assise tranquillamente, ringraziando, con un impercettibile sorriso, all'applauso discreto di quei ventagli che s'inchinavano, ponendosi sul viso il fazzoletto di battista.
Solo l'imputato non aveva caldo, seduto sulla sua panchetta, col dorso curvo, il viso color di terra rivolto verso tutte quelle infamie che gli rinfacciavano.
A sua volta prese a parlare l'avvocato.
Era un giovane di belle speranze, delegato d'ufficio dal presidente a quella difesa senza compenso.
Egli sfoderò gratuitamente tutte le sue brillanti qualità oratorie.
Esaminò lo stato psicologico e morale degli attori del lugubre dramma; sciorinò le teorie più nove sul grado di responsabilità umana; argomentò sottilmente intorno alle circostanze di fatto, per farne risultare tutto ciò che occorreva a dimostrare la provocazione grave e l'ingiuria.
Qui veniva a taglio una pittura commoventissima di quella morbosa gelosia senile, che doveva avere tutti gli strazi e le collere furibonde dell'umiliazione e dell'abbandono.
Sì, egli lo sapeva, non erano le coscienze di uomini onesti, vissuti nel culto della famiglia, resi più sensibili dagli agi, che avrebbero potuto scendere negli abissi di quei cuori tenebrosi e di quelle infime esistenze per scoprire il movente di certe delittuose follie.
Forse soltanto il sentimento più delicato e immaginoso di quelle dame eleganti, avrebbe potuto sorprendere il tenue filo per cui si legano i fatti più mostruosi al sentimento più nobile in quegli animi rozzi.
Egli seguì cotesta fatale concatenazione che c'è fra tutti i sentimenti e le azioni umane con una analisi così acuta, che più di un onesto padre di famiglia sentì turbata la sua digestione dallo smarrimento della colpa, mentre era lì, seduto a giudicare, pensando al ricolto del podere, o al fresco del terrazzino dove lo stava aspettando la famigliuola.
Per poco non si udirono degli applausi alla perorazione dell'avvocato.
Lo stesso presidente gli fece velatamente i mirallegro.
- Accusato, avete nulla da dire a vostra discolpa? - conchiuse il presidente.
L'accusato si alzò di nuovo, colle braccia penzoloni, lungo la sua stecchita persona, e un gesto vago dell'indice, come d'uomo persuaso di quel che dice.
- Signor presidente, ho ucciso Rosario Testa, devo andare a morte anch'io, com'è scritto nella legge, e va bene.
La Malerba, poveretta, è quella che è, e anche ciò va bene.
Ma quando me la lasciavano sulla panchina del molo come una scarpa vecchia, chi andava a dirle una buona parola ero io; e a chi ella diceva una buona parola quando aveva il cuore grosso, ero io pure.
Gli altri, pazienza, oggi questo, domani quell'altro; le buttavano dei soldi e delle male parole, ed essa non ci pensava più.
Ma Testa, nossignore! Essa quando era stata con lui, mi ritornava a casa tutta sossopra, cogli occhi che pareva ci avesse la luminaria dentro.
Io glielo aveva detto a Testa: "Guarda che a te non te ne importa.
Tu ci hai moglie e figliuoli; ma io non ho che questa qui, Testa!" -
Poi tornò a sedersi, accennando ancora del capo, mentre la Corte si ritirava per deliberare.
E rimase immobile, nell'ombra, aspettando il suo destino.
Era venuta la sera.
La folla s'era diradata, e nella sala accendevano il gas.
Infine squillò di nuovo un campanello, e comparvero di nuovo le stesse toghe nere, le stesse facce pallide e stanche che guardavano l'imputato.
Egli non capiva nulla delle frasi che borbottavano in mezzo a quella folla, nell'ombra.
Intese solo il presidente che pronunziava la condanna: - A vita! -
E si alzò un'ultima volta, barcollando sulle gambe, accennando sempre coll'indice quel gesto vago ch'era tutta la sua eloquenza, e balbettò:
- Io glielo avevo detto a colui, signor presidente -.
LA FESTA DEI MORTI
Nella collina solitaria, irta di croci sull'occidente imporporato, dove non odesi mai canto di vendemmia, né belato d'armenti, c'è un'ora di festa, quando l'autunno muore sulle aiuole infiorate, e i funebri rintocchi che commemorano i defunti dileguano verso il sole che tramonta.
Allora la folla si riversa chiassosa nei viali ombreggiati di cipressi, e gli amanti si cercano dietro le tombe.
Ma laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c'era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori.
Solo un istante i vetri della sua finestra s'accendevano al tramonto, quasi un faro pei naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca nell'azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a picco sino al mare.
Ai suoi piedi, nell'abisso già nero, sprofondavasi una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre.
Narrava la leggenda che la caverna sotterranea, per un passaggio misterioso, fosse in comunicazione colla sepoltura della chiesetta soprastante; e che ogni anno, il dì dei Morti - nell'ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti - un prete sepolto da cent'anni nella chiesuola abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima sepoltura, colle mani pallide in croce, e scendessero a convito nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò "la Camera del Prete".
Dal largo, verso Agnone, i naviganti s'additavano l'illuminazione paurosa del festino, come una luna rossa sorgente dalla tetra riviera.
Tutto l'anno, i pescatori che stavano di giorno al sole sugli scogli circostanti, colla lenza in mano, non vedevano altro che lo spumeggiare della marea, quando s'internava muggendo nella "Camera del Prete", e il chiarore verdognolo che ne usciva colla risacca; ma non osavano gettarvi l'amo.
Un palombaro che s'era arrischiato a penetrarvi, nuotando sott'acqua, uno che non badava né a Dio né al diavolo, pel bisogno che lo stringeva alla gola, e i figliuoli che aspettavano il pane, aveva visto il chiarore ch'era lì dentro, azzurro e ondeggiante al pari di quei fuochi che s'accendono da sé nei cimiteri, il pietrone liscio e piatto, come una gigantesca tavola da pranzo, e i sedili di sasso tutt'intorno, rosi dall'acqua, e bianchi quali ossa al sole.
L'onda che s'ingolfava gorgogliando nella caverna, scorreva lenta e livida nell'ombra, e non tornava mai indietro; come non tornò più quel poveretto che s'era strascinato via.
L'estate, nell'ora in cui ogni piccola insenatura della riva risonava della gazzarra dei bagnanti, l'onda calma scintillava, rotta dalle braccia di qualche ragazzo che nuotava verso le sottane bianche, formicolanti come fantasmi sulla spiaggia.
- Così quel prete, un sant'uomo, aveva perso l'anima e la ragione dietro i fantasmi delle terrene voluttà, il giorno in cui Lei - la tentazione - era venuta a confessargli il suo peccato, nella chiesetta solitaria ridente al sole di Pasqua, col seno ansante e il capo chino, su cui il riflesso dei vetri scintillanti accendeva delle fiamme impure.
Da cent'anni le sue ossa, consunte dal peccato, posavano nella fossa, stringendosi sul petto la stola maculata.
Ivi non giungevano gli strilli provocanti delle ragazze sorprese nel bagno, né il canto bramoso dei giovani, né le querele delle lavandaie, né il pianto dei fanciulli abbandonati.
La luna vi entrava tacita dallo spiraglio aperto nella roccia, e andava a posarsi, uno dopo l'altro, su tutti quei cadaveri stesi in fila nei cataletti, sino in fondo al sotterraneo tenebroso, dove faceva apparire per un istante delle figure strane.
L'alba vi cresceva in un chiarore smorto, che al fuggire delle ombre sembrava far correre un ghigno sinistro sulle mascelle sdentate.
Il giorno lungo della canicola indugiava sotto le arcate verdognole, con un brulichìo furtivo di esseri immondi in mezzo all'immobilità di quei cadaveri.
Erano defunti d'ogni età e d'ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l'ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre.
Dallo spiraglio aperto nell'azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello scirocco, e i gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi le trine polverose e i riccioloni cadenti dai crani gialli.
I fiori, già secchi di lagrime, si agitavano pel sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su altre labbra rose dal tempo; e appena il vento sollevava i funebri lenzuoli, stesi da mani smarrite d'angoscia su caste membra amate, occhi inquieti di rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.
Poscia, nell'ore in cui il sole moriva sull'orlo frastagliato dello spiraglio, il ghigno schernitore di tutte le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le occhiaie vuote farsi più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato fino alla sorgente delle lagrime.
Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci recitate all'altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento della chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della lapide.
Le raffiche delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei morti, senza lasciarvi un pensiero per coloro che in quell'ora erravano laggiù, pel mare tempestoso, coi capelli irti d'orrore al sibilo del vento nel sartiame; né un senso di pietà per le povere donne che aspettavano sulla riva, sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle lagrime che videro forse, nell'ora torbida dell'agonia, e che bagnarono quegli stessi fiori che adesso vanno da una bara all'altra, come li porta il vento.
- Così le lagrime si asciugarono dietro il loro funebre convoglio; e le mani convulse che composero nella bara le loro spoglie, si stesero ad altre carezze; e le bocche che pareva non dovessero accostarsi ad altri baci, insegnano ora sorridendo a balbettare i loro nomi ai bimbi inginocchiati ai piedi dello stesso letto, colle piccole mani in croce, perché i buoni morti lascino dei buoni regali ai loro piccoli parenti che non conobbero.
- Tanto tempo è passato, insieme alle bufere della notte, e al soffio d'aprile, colle ore che suonano uniformi e impassibili anch'esse sul campanile della chiesuola, sino a quella del convito!
A quell'ora tutti gli scheletri si levano ad uno ad uno dalle bare tarlate, coi legacci cascanti sulle tibie spolpate, colla polvere del sepolcro nelle orbite vuote, e scendono in silenzio nella "Camera del Prete", recando nelle falangi scricchiolanti le ghirlande avvizzite, col ghigno beffardo di tutte le cose umane nelle bocche sdentate.
Più nulla! più nulla! - Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo.
- Né i tuoi occhi bramosi, pei quali egli sfidò il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ha più.
Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni? - E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in mano a quell'altro l'arma omicida.
- Né le lagrime che si piangevano attorno a quel letto, e quel morente voleva stamparsi negli occhi dilatati dall'agonia.
- Né le ansie delle notti vegliate in quella stanza già funebre, in quell'attesa già disperata.
- Né le carezze con cui il caro bimbo pagava il latte di quel seno e i dolori di quella maternità.
- E neppure le lotte in cui l'uno si è logorato.
- Né le speranze che hanno accompagnato l'altro sin là.
- Né i fiori del campo per cui si è tanto sudato.
- Né i libri sui quali si è vissuto tanta e tanta vita.
- Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alghe secche nelle falangi contratte.
- Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli umani.
- E non l'azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio.
- L'onda che s'ingolfa gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla "Tavola del Prete" si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa.
Ora nel costruire la diga del molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e scoperchiano la sepoltura.
La macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e l'argano vi geme in mezzo al baccano degli operai.
Quando rimossero l'enorme pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo, un gran numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda, andarono narrando che avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto dall'incantesimo.
Il mare spumeggiante sotto la catena dell'argano tornò a distendersi calmo e color del cielo, e scancellò per sempre la leggenda della "Camera del Prete".
Nel raccogliere le ossa del sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga processione di curiosi, perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che parlava di denari, e molti pretendevano di essere gli eredi.
Infine, non potendo altro, ne cavarono tre numeri pel lotto.
Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo.
ARTISTI DA STRAPAZZO
Su tutte le cantonate immensi cartelloni a tre colori annunziavano:
CAFFÈ-CONCERTO NAZIONALE
QUESTA SERA
DEBUTTO DI MADAMIGELLA EDVIGE
GRAN SUCCESSO DEL GIORNO
SENZA AUMENTO SUL PREZZO DELLE CONSUMAZIONI
I pochi avventori mattutini del "Caffè-Concerto Nazionale", già avvezzi ai grandi successi, non degnavano neppure di un'occhiata il lenzuolo bianco, verde e rosso, sciorinato dietro il banco, sul capo della padrona, la quale stava discutendo con una ragazza alta e magra, che la supplicava a voce bassa, in atteggiamento umile, infagottata nella cappa lisa.
In un canto il lavapiatti sbracciato scopava un tavolone che la sera faceva da palco, parato a drappelloni bianchi, verdi e rossi; ornato di corone d'alloro di carta, che pendevano malinconiche.
La padrona scrollava il capo ostinatamente, stringendosi nelle spalle.
L'altra insisteva sempre a mani giunte, facendosi rossa, quasi piangendo.
Infine, come entrò un forestiero stracco a bere un moka da venti centesimi, col naso sul giornale del giorno innanzi, la ragazza si rassegnò ad intascare i pochi soldi che la padrona le contava ad uno ad uno sul marmo, con un fare d'elemosina.
Alle otto in punto di sera, accesi i lumi del pianoforte, il maestro, un giovanotto allampanato sotto una gran barba e uno zazzerone che se lo mangiavano, dopo un grande inchino alla sala quasi vuota, incominciò timidamente una ouverture di propria fabbrica, mentre il "Caffè-Concerto Nazionale" andavasi popolando a poco a poco.
Dopo montò sul tavolone un pezzo d'uomo, vestito tutto di rosso come un gambero cotto, con due enormi sopracciglia alla chinese, per darsi un'aria satanica, e dei cornetti inargentati.
Egli si mise ad urlare "la canzone dell'oro" come un ossesso, allargando le gambe sul tavolato, stendendo gli artigli minacciosi verso l'uditorio, con certi occhi terribili e certe boccacce sardoniche che volevano incutere terrore.
Al "dio dell'oro" mescolavasi l'acciottolìo dei piattini, lo sbattere dell'usciale e la voce dei tavoleggianti, i quali gridavano: - Panna e cioccolata! - oppure: - Tazza Vienna! - Mefistofele salutò lo scarso pubblico, che non gli badava, e scese adagio adagio la scaletta col mantelletto ad ali di pipistrello che gli sventolava dietro.
- Stasera avremo il gran debutto, - osservò un avventore che centellava da tre quarti d'ora una chicchera di levante.
- Il successo del giorno! - grugnì il vicino, ch'era sempre lì a quell'ora, colla coppa di Vienna vuota dinanzi, un mucchio di giornali sotto la mano, e la moglie addormentata accanto.
Infatti, dopo il pezzo con variazioni per pianoforte sulla Stella confidente venne il duetto dell'Ernani, e comparve un'altra volta dalla cucina il baritono vestito alla spagnuola, con un medaglione d'ottone che gli ballava sul ventre, e un cappello piumato in testa, facendo largo a madamigella Edvige, tutta di bianco come un fantasma, sotto la polvere d'amido e la veste di raso del rigattiere.
- Che braccia magre! - osservò un dilettante, fiutandole quasi sotto i guanti lunghi e duri di benzina.
Carlo V offrì cavallerescamente la mano ad Elvira per montare sul palco malfermo, e lì, nella gran sala piena di fumo, il duetto incominciò.
Ahimé! una vera delusione pel pubblico e pel Caffettiere.
Madamigella Edvige aveva una voce stridente che faceva voltare arrabbiati anche i tranquilli lettori di giornali; e la poveretta, pallida come una morta, aveva un bell'annaspare colle mani, e dimenare i fianchi, rizzandosi sulla punta delle scarpette di raso troppo larghe, per acchiappare le note.
Una voce, dal fondo della sala gridò: - Presto! un bicchier d'acqua! - E tutto l'uditorio scoppiò a ridere.
Carlo V invece se la cavava magnificamente, avendo le signore dalla sua, pei suoi effetti di polpa, sotto le maglie di colore incerto, e le sue note alte che assordavano perfino i camerieri, e facevano tintinnare le gocciole delle lumiere.
La debuttante scese dal palco più morta che viva, incespicando, colle sottane in mano, fra gli spintoni dei tavoleggianti che correvano di qua e di là, portando i vassoi in aria.
Il dilettante di prima osservò pure:
- Che piedi! -
Seduta in un cantuccio della cucina, fra i lazzi degli sguatteri, e il fumo delle casseruole, la debuttante aspettava scorata la sua sentenza, ed anche la cena, ch'era compresa nell'onorario, alla tavola comune, insieme al cuoco, il baritono, i camerieri ed il maestro, ancora in cravatta bianca.
Quest'ultimo, un gran buon diavolo, malgrado la sua barbona, cercava di confortarla come poteva: - La sala era tanto sorda! Chissà, una seconda volta, quando fosse stata più sicura dei suoi mezzi...
- La poveretta rispondeva di tanto in tanto con un'occhiata umile e riconoscente a quelle buone parole.
Il baritono intanto, con un pastrano peloso gettato sul giustacuore di Carlo V, e un tovagliuolo al collo, divorava in silenzio.
- Artisti bisogna nascere! - osservò infine a bocca piena.
La padrona, chiuso il libro e spenti i lumi del Caffè, era scesa in cucina a dare un'occhiata.
Alla povera ragazza, che aspettava col viso ansioso, disse bruscamente:
- Cara mia, me ne dispiace, ma non ne facciamo nulla.
Avete visto che fiasco? -
L'altra rimaneva a capo chino, coi fiori di carta nei capelli, e le spalle infarinate.
- Mangiate, mangiate pure! - ripigliava la padrona, una buona donna.
- Che diamine! Non voglio che la gente vada via a pancia vuota da casa mia -.
Il maestro, che pensava al poi, le spingeva il piatto sotto il naso.
Ma la poveretta non aveva più fame; si sentiva la gola come stretta dai singhiozzi; andava riponendo adagio adagio nella borsetta i guanti lavati, i fiori di carta, e le scarpette di raso; senza però potersi risolvere ad andarsene.
Due ragazzacci, che parlavano forse di tutt'altro, si misero a sghignazzare.
Allora essa salutò umilmente tutti, e s'avviò.
Sulla porta un cameriere in giubba stava spengendo i lumi, e staccava il cartellone del Concerto, canticchiando: - Gran successo del giorno! -
Per la via buia e deserta da stringere il cuore, correvano le prime raffiche d'autunno.
Il maestro, mosso a compassione, le era corso dietro.
- Vuol essere accompagnata a casa?...
Senza complimenti.
- No, grazie, sto lontano assai.
- Diamine! diamine! Anch'io sono aspettato a casa...
Ma non posso lasciarla andare sola come un cane...
Vuol dire che affretteremo il passo.
- Davvero...
Non vorrei abusare.
- No, no, spicciamoci piuttosto! Anche per me è tardi...
Ci ha qualcuno che l'aspetti?
- Nossignore, nessuno.
- Almeno ci avrà qualche conoscente qui?
- Neppure, signore; sono arrivata la settimana scorsa, con una lettera pel Caffè Nazionale: una corista, mia compagna che vi era stata questa primavera, mi disse che ci avrei trovato qualche cosa, non molto, è vero, ma nella stagione morta, sa bene...
Laggiù, alla piazza, erano rimaste cinquanta persone sulla strada, dopo la fuga dell'impresario.
Dicono che anche lui, poveraccio, ci abbia perso tutto il suo...
-
Il maestro pensava intanto a quei giorni terribili in cui una notizia simile era arrivata come un fulmine al Caffè, sulla faccia stravolta di un artista, e s'erano trovati tutti, raccolti dallo stesso terrore, davanti alla porta chiusa del teatro.
Poi erano corsi in folla all'agenzia, come pazzi, in paese straniero, in mezzo a gente di cui non conoscevano la lingua, e che si fermava sorridendo al passaggio di quella turba affamata.
E le lunghe ore dei giorni interminabili, passate al Caffè, il solo rifugio, con una tazza di birra dinanzi, le notti terribili d'inverno, le camicie portate tre settimane, il mozzicone di sigaro raccattato di nascosto.
Sentiva perciò una grande simpatia per quell'altra derelitta, e le andava dicendo:
- Coraggio! coraggio! Bisogna farsi animo! L'aiuterò anch'io, come posso...
È vero che non posso far molto...
Son forestiero come lei...
E non sono stato sempre fortunato...
Ma vedrà che il buon tempo giungerà anche per lei...
Diavolo! diavolo! Dov'è andata a scovarlo quest'albergo, così lontano?
- Me lo indicarono laggiù...
perché spendessi meno...
Mi rincresce per lei!...
- No, no...
È che m'aspettano a casa...
Sanno l'ora, press'a poco...
Mi toccherà inventare qualche storiella...
Ma lei non pensi a questo...
Deve aver altro in testa, lei, poveretta! Ci dorma su, si faccia animo, che quanto potrò lo farò ben volentieri per lei.
- Oh, signore!...
Com'è buono!...
- Niente, niente, una mano lava l'altra.
Se non ci aiutiamo fra di noi! Il male è che non posso far molto!...
Infine ella disse:
- È qui -.
Picchiò all'uscio di un albergaccio d'infima classe, e gli strinse la mano colle lagrime agli occhi.
Aveva la faccia tanto buona, colla barba lunga, e il misero paletò che il vento gli incollava addosso come fosse di lustrino.
Dalla finestra una vociaccia assonnata rispose brontolando:
- Vengo! vengo! Bell'ora di tornare a casa! -
Anche lui, in quel momento, la guardò negli occhi, le strinse forte la mano due o tre volte, mosse le labbra, per dire qualche cosa, infine proruppe: - Me ne vado, sono aspettato.
Buona notte! Buona notte! - E partì correndo.
La stanzuccia, che pigliava lume da un finestruolo sulla scala, costava cinquantacinque centesimi al giorno, tre soldi di pane e latte la mattina, trentacinque centesimi il desinare.
La sera poi doveva spendere altri sei soldi per andare al Caffè Nazionale, dove era quasi certa di vedere il maestro, la sola persona che conoscesse nella città.
Negli intermezzi, quando poteva, egli andava a salutarla; da lontano, prima di parlare, gli si vedeva in viso la stessa notizia scoraggiante: - Nulla ancora! - Poi, al vederla così triste e rassegnata, colla chicchera di Caffè vuota sul tavolino, voleva pagar lui.
Ma essa non permetteva, arrossendo fino ai capelli.
- No, signore, un'altra volta! - Egli non osava insistere, ma avrebbe voluto che lei lo considerasse come un vero amico, come un fratello.
Le confidava i suoi piccoli guai, anche lui, per incoraggiarla.
Le narrò a poco a poco tutta la sua vita, proprio come a una sorella, oggi una cosa, domani l'altra: il fallimento dello zio che s'era preso cura di lui orfano, la vocazione strozzata dal bisogno, il pane trovato con mille stenti qua e là, tutta la sua giovinezza scolorita, scoraggiata, senza gioie, senza fede, senza amore.
Essa allora sorrideva, scotendo il capo con una grazia giovanile che la faceva tornar bella.
- No, no! Ve lo giuro! Mai! - Allora chinavano il viso, malinconici.
Una volta i loro occhi s'incontrarono, e si fecero rossi tutti e due.
Ma spesso egli giungeva accompagnato da un donnone coi baffi come un uomo d'arme, la quale aveva il colorito acceso, con un gran cappellone di felpa ornato di piume rosse, ed era serrata in una veste di seta grigia che pareva dovesse scoppiare a ogni momento.
Quelle volte il maestro non osava muoversi neppure; il donnone, dal suo posto, non lo perdeva di vista un momento, sotto le piume rosse del cappellone.
- È la mia padrona di casa, una buona donna, - le aveva detto lui.
- Ma quando ci vede insieme faccia finta di niente, per carità! -
Fu come una fitta al cuore.
Il baritono che l'incontrò per la strada, tutta sottosopra, le propose di accompagnarla.
- Permettereste voi, mia bella damigella, d'offrirvi il braccio mio, per far la strada insieme? - Ella ricusava.
Andava molto lontano...
Non voleva abusare...
- Ma che! ma che! Bagattelle! D'altronde son ben coperto.
Con questa pelliccia qui, potrei andare sino al Polo! Senta! senta! Un regalo dei miei amici di Odessa.
Tutta volpe di Siberia; una bestia che vende cara la sua pelle a quello che dicono!...
Eh! eh! Comincia presto l'inverno quest'anno! Non c'è male, n'è vero?...
Buona notte, maestro! -
Questi passava rattrappito nel suo paletò, dando il braccio alla sua compagna, di cui la veste grigia luccicava come un'armatura sotto il lampione.
- È la fiamma del maestro, - aggiunse il baritono.
- Una pira, come vede! Però un buon diavolaccio anche lui! Un po' timido, un po' bagnato, come diciam noi, ma il mestiere lo conosce, ve lo dico io! Quando vi siete mangiate quelle note della cabaletta, la sera del vostro debutto, vi rammentate? do, sol, do, nessuno se n'è accorto.
Peccato che non riempiano lo stomaco le note che si mangiano, eh! eh! eh! Capisco, capisco, l'emozione, la paura...
Ma bisogna aver la faccia tosta, mia cara; e sputar fuori le vostre note pensando che quanti stanno ad ascoltarvi sono tutti una manica di cretini, se no non si fa nulla! Però vorrei sapere chi è quel boia che vi ha messo in questo mestiere, senza voce come siete!
- La voce ce l'avevo.
Fui ammalata tanto tempo e d'allora in poi, in principio dell'inverno ci ho sempre come una spina qui...
- Ah! ah! Peccato! Alle volte, vedete, succedono di queste cose che si farebbe scendere gli dei del cielo!...
-
In fondo, del cuore ce ne aveva anche lui, sotto la pelliccia, e sapendo che era a spasso cercava di consolarla come poteva.
- Bisogna farsi animo, mia cara amica.
Cent'anni di malinconia non ci danno una sola giornata buona.
E poi son cose che abbiamo passate tutti quanti.
La va così, per noi altri artisti.
Oggi fame, domani fama! Non parlo per me, ché non posso lagnarmi, grazie a Dio! M'hanno sempre voluto bene da per tutto! Guardate questo anello di brillanti! E queste catenelle d'oro, oro di ventiquattro carati, garantito! Ma ogni santo ha la sua festa.
Vedrete che verrà la vostra festa, anche per voi! -
Chiacchierava, chiacchierava, con una certa bonomia che gli veniva in quel momento dallo stomaco pieno, dalla pelliccia calda, dal bicchierino di cognac, e anche dalla vicinanza di quella giovane simpatica, che sentiva tremare di freddo sotto il suo braccio, nella via deserta.
- Vedrete che verrà la vostra festa.
Bisogna tentare un'altra volta; in un'altra piazza, ben inteso! Peccato che non abbiate voce! Avete provato se vi vanno le canzonette allegre? Per quelle si fa anche a meno della voce.
Ma occorrono altri requisiti: del tupé, l'occhio ardito, i fianchi sciolti...
e un po' più di polpa, che diavolo! È vero che questa può venire...
siete giovane!...
-
Così dicendo l'esaminava dalla testa ai piedi, ogni volta che passavano sotto un lampione, col fare allegro e senza cerimonie di buon camerata.
- E non bisogna fare tante smorfie, cara mia.
Colle smorfie non si mangia.
E non aver neppure dei grilli in capo.
Io, come mi vedete, ho fatto i primi teatri del mondo; potete dimandare a chi volete di Arturo Gennaroni; eppure quando vennero ad offrirmi la scrittura pel Concerto del Caffè Nazionale non mi feci tirar le orecchi.
Si piglia quel che capita.
Oggi qui, domani là.
Come? ci siamo di già? Avrei fatto altri due passi, per avere il piacere di stare con voi ancora.
Il tempo passa presto.
Che bella serata, in così buona compagnia eh? Un freddo secco che fa bene allo stomaco.
È quello il vostro albergo? Hum! hum! Quasi quasi v'offrivo ospitalità in casa mia! -
E com'essa si stringeva all'uscio: - Eh, non abbiate paura! Che non voglio mica mangiarvi per forza.
Non volete? Buona notte! -
Il maestro le aveva procurato due o tre indirizzi d'agenti teatrali ai quali l'aveva raccomandata.
La presentò ad un impresario che montava un'operetta.
Tutti rispondevano: - Pel momento non c'è nulla -.
L'impresario soggiunge: - Bisogna vedere se vi è rimasta qualche altra cosa di bello, figliuola mia, perché la voce se n'è andata.
Be', be', se avete di questi scrupoli non ne parliamo più! -
Ella tornava indietro così avvilita che il maestro si fece animo per dirle: - Sentite...
È un pezzo che volevo dirvelo...
Se avete bisogno di denaro...
forestiera come siete...
senza amici...
senza aver altri conoscenti...
Non son ricco, è vero...
Ma quel poco che ho.
No! no! non vi offendete.
In imprestito, vedete! Come tra fratello e sorella!...
-
Ella scoppiò a piangere.
- Dio mio! Vi ho forse offesa? Non intendevo offendervi, vi giuro.
Se mi volete un po' di bene anche voi!...
Io ve ne voglio tanto!...
Basta, basta, perdonatemi! Sia per non detto! Ma promettetemi almeno che se mai...
il giorno in cui...
Pensate che vi voglio bene...
come un fratello...
E vorrei che anche voi...
-
Ella gli stringeva le mani, colle lagrime agli occhi, per dirgli di sì...
che anche lei...
che gli prometteva...
Ma piuttosto sarebbe morta.
Da tutti, da tutti, prima che da lui! Glien'era riconoscente, sì! Avrebbe voluto anzi dirgli tante cose, per provarglielo, che non ci aveva più nessun altro in cuore...
che quell'altro a poco a poco se n'era andato via, com'era andato lontano; e domandargli della donna che spesso veniva con lui al Caffè, e le dava una stretta al cuore...
Delle sciocchezze, via! ma non sapeva da che parte incominciare.
Egli sembrava sulle spine, ogni volta che erano insieme, guardava intorno, con aria inquieta; evitando d'incontrarla, nelle vie frequentate, scappando subito con un pretesto se c'era gente.
Uno dopo l'altro aveva prima impegnato i pochi oggetti che avessero qualche valore: gli orecchini, il braccialetto d'argento dorato, la poca roba d'estate, fino il baule dove la teneva.
Tanto non poteva più andarsene.
Poscia vendette le polizze dei pegni.
Alla posta, l'ultima speranza degli sventurati in paese straniero, le rispondevano invariabilmente, due volte al giorno:
- Nulla! -
Una sera che ne usciva barcollante, incontrò il baritono, Arturo Gennaroni, sempre impellicciato, che le fece un gran saluto cerimonioso, levando in alto il cappello come se volesse dire evviva! Giusto voleva presentarle l'amico che era con lui - Temistocle Marangoni, il primo basso del mondo! - un uomo di mezza età, tutto capelli e barba, con un cappellone a cono, drappeggiato in un mantello grigio, e che sembrava che parlasse di sottoterra.
- E dove corre, signora Edvige? Voleva sfuggirmi? Non è mica in collera con me, spero! -
Ella si scusava di non aver udito perché credeva che non dicesse a lei: - Io mi chiamo Assunta.
Ma sul cartellone la padrona del Caffè pretendeva che quel nome non facesse...
- È vero, è vero.
Anche il mio è un nome di guerra, per riguardi di famiglia, sa bene.
Mio padre è il primo negoziante di Napoli.
Laggiù hanno ancora dei pregiudizi...
Sa bene...
Veniamo con lei, se non le dispiace -.
Strada facendo aggiunse che era libero quella sera, perché la padrona del Caffè Nazionale l'aveva licenziato - una cabala che gli avevano inventato contro per gelosia di donne.
Temistocle, lì, poteva dirlo.
- Il basso agitava il barbone per attestarlo.
Anche a lui avevano rubato la scrittura, quell'animale di Gigi Lotti, una scrittura di seimila franchi, viaggio intero pagato, col pretesto che la conferma al telegramma non era venuta.
Ma gli voleva rompere il muso, la prima volta che l'incontrava alla birreria! Gennaroni, intanto che il suo amico si sfogava, chiedeva ad Assunta cosa avrebbe fatto della sua serata.
- Si voleva andare al Concerto del Caffè Nazionale? Sentirebbero che porcherie! Lui se le sarebbe godute mezzo mondo, e si sarebbe fregate le mani magari se quella carogna della padrona fosse venuta ginocchioni a supplicarlo e ad offrirgli doppia paga.
- Andiamo, andiamo.
Pago io, Temistocle! Dei soldi, grazie a Dio, ce n'è sempre qui.
Veniteci anche voi, bella Assuntina.
Chissà che non troverete il fatto vostro? -
Sul tavolato, in mezzo al gran fumo della sala, una donna cogli occhi neri come avesse il colèra, e i pomelli color cinabro, nuda fino allo stomaco, strillava con voce rauca delle canzonette che facevano andare in visibilio l'uditorio, schioccando le dita, e con una mossa dei fianchi che faceva svolazzare la sua gonnella corta sino ai legaccioli.
Un vecchiotto, seduto in prima fila, col mento sul pomo dell'ombrello, si crogiolava dal piacere, ammiccando ai vicini, ridendo nella bazza, applaudendo anche col cranio calvo sino alle orecchie.
Una modesta famigliuola, padre, madre e figliuoli in abbondanza, era venuta a solennizzare la festa al Caffè, ridendo saporitamente; solo la maggiore, una ragazzina magra e nera come un tizzone, dimenticava persino il sorbetto per ascoltare la cantatrice, sgranando degli occhi enormi, seria seria.
Altri, nella sala, vociavano, picchiavano colle mazze ed i pugni sui tavolini, facevano un chiasso indiavolato, accompagnando il ritornello, interrompendolo con esclamazioni da trivio.
Gennaroni ripeteva: - Ditemi poi se questa è arte! Ditemi se non è vera porcheria! - Tutt'a un tratto si vide la gente affollarsi davanti al palco, intorno a un omettino in tuba il quale gesticolava colle mani in aria.
La donna invece si ostinava, col viso sfacciato, cercando cogli occhi nella folla i suoi protettori.
Un tale, vestito da operaio, coi baffi grossi e la faccia dura, si arrampicò sul tavolato in mezzo ai fischi che assordavano, e prese la cantante per le spalle, spingendola verso due questurini in uniforme che s'erano fatti largo a furia di spintoni, e agitavano le braccia.
Il gruppo scomparve nella folla, verso la cucina, fra un uragano di fischi, d'urli e di risate.
Il baritono si dimenava come un ossesso, smanacciando, gridando: - Bravo! bis! - poi corse a stringere la mano al maestro, ancora sbalordito dinanzi al pianoforte.
- Che cagnara, eh! Ma la colpa non è tua, poveretto! Ci ho gusto per quella carogna della padrona, la quale pretendeva di averne le tasche piene di musica seria, lei e il suo pubblico.
Come se non glielo avessimo fatto noi questo pubblico.
E non le avessi fatto guadagnare più quattrini che non abbia capelli nella parrucca, quella strega! -
Intanto si sbracciava per farsi scorgere, gesticolando, gridando forte, calcandosi ogni momento la tuba sull'orecchio, posando di tre quarti, col bavero della pelliccia rialzato sino alle orecchie, malgrado il gran caldo, e un fazzoletto di seta al collo, come avesse avuto un tesoro da custodirvi.
- Dovresti farle intendere ragione, a quella stupida.
Dovresti metterti in mezzo.
S'è quistione di soldi, si può aggiustarsi.
Non ho mai fatto questione di quattrini per l'arte.
Ma bisogna concludere subito.
Sì o no! Ho delle offerte magnifiche per l'estero.
Domattina devo dare una risposta -.
Poi tornò al suo posto trionfante, facendosi largo nella folla.
- Ah! ah! ve lo dicevo io! Ora tornano a pregarmi! Mi hanno offerto carta bianca.
Hanno bisogno di me per fare andare la baracca! -
Il basso gongolava, come se si fosse trattato di lui, picchiava sul tavolino per ordinare altra birra.
- Ogni conoscente che entrava nel Caffè lo invitava a prendere qualche cosa, facendo segno coll'ombrello, chiamando ad alta voce.
- Tienti sulla tua, sai, Gennaroni! Fatti tirar le orecchie, prima di dir di sì! - L'altro scrollava il capo, minaccioso, come a dire: - Vedrete! vedrete! - Poi si alzava in piedi e faceva le presentazioni in regola: - Romolo Silvani, primo ballerino.
- Augusto Baracconi, primo tenore assoluto, e suo fratello.
- Ernesto Lupi, distinto pittore.
- Fiasco completo, amici miei! Peccato che siate venuti tardi! - Essi, per cortesia, tornavano a pregarlo che narrasse.
Ma Baracconi fratello stava col naso nel bicchiere, tutto intento a godersi il trattamento; Lupi disegnava delle caricature sul marmo del tavolino; il tenore diceva roba da chiodi di un collega sottovoce con Marangoni, e Silvani, dall'altro lato, domandava se quella bella giovane appartenesse all'amico Gennaroni, lisciandosi i baffettini neri come la pece, accarezzando la chioma inanellata, componendo la faccetta incartapecorita a un risolino seduttore.
Tutti quanti però, a ogni pezzo nuovo, quando Gennaroni atteggiava il viso a una boccaccia di disgusto, facevano coro per sdebitarsi coll'amico, battendo in terra coi tacchi e coi bastoni, vociando - basta! basta! - mettendosi a sghignazzare.
Il baritono infine, vedendo che il maestro non osava prendere le sue parti, quasi fosse inchiodato al pianoforte, andò a salutare la padrona del caffè, colla scappellata alta, tutto gentilezze, mentre essa cambiava i gettoni e teneva d'occhio i garzoni che uscivano dalla cucina.
In quella entrò il donnone del maestro, più accesa in viso che mai.
Aveva udito il baccano dalla strada, mentre veniva a prendere Bebè.
- No, no, lui non ci ha colpa, - le dicevano gli amici.
Gennaroni, che tornava dal banco fuori di sé, aggiunse ch'era proprio un bebè, un pulcino bagnato, uno che non era capace di dir due parole per un amico.
Le domandava ridendo se le capitava di dargli le sculacciate, qualche volta.
L'altra continuava a ridere, scrollando le piume del cappello.
- No, no, era così buono il poveretto! proprio come un fanciullo! A lasciarlo fare se lo sarebbero mangiato vivo, certe sgualdrinelle che sapeva lei! - Infine se lo prese sotto il braccio, e se lo portò via.
Gli altri se n'erano andati pure ad uno ad uno.
Il basso protestò che correva a vedere se era giunto il telegramma, e piantò lì il bicchierone vuoto su di una pila di piattelli.
Assunta rimaneva sbalordita, colla tazza a metà piena, il cappellino di paglia e la eterna cappa grigia che la facevano sembrare più misera.
Nell'uscire barcollava perché non aveva preso altro tutto il giorno, quasi il chiasso le avesse dato alla testa.
- Che avete? - chiese Gennaroni.
- Eh, la birra! Non ci sarete avvezza! - Essa invece pensava a quella disgraziata che l'avevano mandata via coi questurini.
- Non temete, no; che il pane non gli manca a quella lì...
e il letto neppure! - conchiuse il baritono.
Tirava vento, e cominciavano a cadere i primi goccioloni della pioggia.
- Sentite, cara Assunta.
Adesso dovreste fare una bella cosa: venirvene a casa mia a scacciare insieme la malinconia! Avete visto come fanno gli altri? Ciascuno colla sua ciascuna! Ci avete il vostro ciascuno voi? -
Ella non rispondeva, colla testa sconvolta, il cuore stretto da un'angoscia vaga, un senso di sconcerto nello stomaco, davanti agli occhi una visione confusa dell'albergatrice arcigna che voleva esser pagata, dell'impiegato postale che le rispondeva - nulla! -, dei visi sconosciuti in mezzo ai quali andava e veniva tutto il giorno, della donna enorme che si era portato il maestro sotto il braccio - intirizzita dalla tramontana, coi ginocchi che le si piegavano sotto.
L'altro seguitava a stordirla chiacchierando, soffiandole sul viso le sue parole calde e il fumo del sigaro, stringendole forte il braccio sotto la pelliccia.
Allo svoltare di un'altra via essa alzava gli occhi, e si guardava intorno, balbettando: - Dove andiamo? Dove andiamo? - come fuori di sé.
Gennaroni le diceva adesso delle parole dolci e sonore che la stordivano: - vieni meco! Sol di rose, intrecciar ti vo' la vita...
- colla chiave che s'era levata di tasca aveva aperto un usciolino sgangherato.
Nell'androne buio, prima d'accendere un fiammifero, se la strinse sul costato come nel melodramma, di tre quarti, un braccio sulla spalla e l'altro sotto l'ascella.
Là nel lettuccio magro e cencioso della cameraccia nuda che prendeva lume da un cortiletto puzzolente, ella gli narrò il povero romanzo della sua vita, per quel bisogno d'abbandono con cui gli si era data, mentre egli sbadigliava, cogli occhi gonfi, e l'alba insudiciava le pareti untuose, da cui pendevano appesi ai chiodi i costumi stinti da teatro.
- Aveva amato un giovane che usciva dal Conservatorio, con due o tre spartiti pronti, e intanto s'era messo a dozzina in casa loro, per sessanta lire al mese, tutto compreso.
Gli altri pigionali erano un professore, un impiegato al dazio, e due studenti.
Sua sorella lavorava in un magazzino di guanti; il babbo era guardia municipale; lei gli avevano consigliato d'imparare il canto, che sarebbe stata una fortuna per tutti, e le avevano fatto lasciare anche il mestiere d'orlatrice, col quale si sciupava le mani, per novanta centesimi al giorno.
Finché giungevano le vacanze, nove mesi dell'anno, si stava piuttosto bene.
Poi quando gli studenti se ne partivano, il professore andava a fare i bagni, e l'impiegato desinava in un'osteria fuori porta per risparmiare i soldi dell'omnibus, si restringevano un po' nelle spese, e il giovane del Conservatorio s'adattava con loro, proprio come uno della famiglia.
Le domeniche andavano a spasso insieme; qualche volta egli portava un bel cocomero, e si faceva festa, nel terrazzino.
Soleva dire scherzando: - Ce ne ricorderemo poi, quando saremo ricchi, sora Assunta! - Era così buono! aveva negli occhi un non so che, come vedesse lontano tante cose, e diceva che l'arte gli spingeva delle nuvole d'oro sconfinate nel pezzettino di cielo che si vedeva al di sopra del vicoletto, allungando il collo.
La sera si metteva a sonare al buio, pratico com'era della tastiera, ed essa stava ad ascoltare più che poteva, dietro l'uscio, quella bella musica che le penetrava al cuore come una dolcezza.
Egli che se n'era accorto infine, le diceva di tanto in tanto: - Le piace? dice davvero? - Voleva pure che Assunta gli cantasse la sua musica.
Un giorno che la sua voce gli era piaciuta tanto, tanto che a lei stessa le sembrava fosse un'altra che cantasse, egli si alzò all'improvviso dal pianoforte, e la strinse fra le braccia, tutta tremante anche lei, senza sapere quel che si facessero.
La mamma, povera e santa donna, non ne seppe nulla.
Allorché fu impossibile nascondere quello che era avvenuto, il giovane scappò al suo paese, per paura del babbo municipale.
Ella ne fece una malattia mortale, durante la quale la mamma sola veniva a trovarla di nascosto.
Un giorno le disse piangendo che lui se n'era andato via lontano, in Grecia, in Turchia, molto lontano insomma! Era svanita l'ultima speranza.
All'ospedale, appena fu guarita, non vollero lasciarla.
Il babbo aveva giurato che non l'avrebbe più ricevuta in casa sua.
Un avventore della guantaia dove lavorava sua sorella le aveva procurato una scrittura di corista al Politeama.
D'allora aveva girato il mondo, da un teatro all'altro, viaggiando in terza classe, dormendo in alberghi dove la notte venivano a bussarle all'uscio e a minacciarla, digiunando spesso per mantenersi onesta, passando lunghe ore nell'anticamera di un'agenzia, assediando il camerino dell'impresa per essere pagata, impegnando la roba d'estate per coprirsi l'inverno.
A Mantova s'era ammalata d'angina, mentre provavano il Ruy Blas, e aveva perso la voce.
La mamma era morta giusto mentre era all'ospedale.
Il babbo s'era rimaritato.
La sorella era andata via di casa per non stare colla matrigna.
- Un bel porco, quel tuo allievo del Conservatorio! te lo dico io! - conchiuse Gennaroni, stirandosi le braccia.
Ora pur troppo gli era cascata addosso quella tegola sul capo! per un momento di debolezza, per aver troppo cuore, e non trovare il verso di dirle: - Cara mia, ogni bel giuoco vuol durar poco! - Ella non se ne dava per intesa, aveva fatto lì il nido come una rondine.
Una che non era neanche buona a stirargli i solini, o a fargli uno stufatino con patate.
Giusto in quel momento poi che si trovava a spasso, e i soldi volavano come avessero le ali! Vero che la poveretta non si lagnava mai, fossero carezze o schiaffi, mangiava poco, e non chiedeva neppure un paio di scarpe.
Ma, tanto, era un altro peso.
Agli amici, che le facevano l'occhietto, Gennaroni, fra burbero e scherzoso, soleva dire: - Da cedere con ribasso, per liquidazione! -
Avevano preso a frequentare un caffeuzzo oscuro annesso al teatro, una specie di succursale dell'agenzia, dove bazzicavano soltanto gli artisti a spasso, che vi facevano un gran consumo di virginia ai ferri e d'acqua fresca, sparlando dei colleghi assenti, portandovi le prime notizie dei fiaschi, sempre a caccia di cinque lire, e giocando alle carte sulla parola.
Gennaroni vi conduceva la sua amante di prima sera, per risparmiare il lume; la faceva sedere nel suo cantuccio, lì vicino alla stufa, dove nessuno andava a disturbarla, giacché il garzone del caffè era avvezzo a non seccar la gente se prima non lo chiamavano, e si metteva a giocare a scopone, oppure se ne andava pei suoi affari.
Spesso le diceva: - Sai, mia cara, io non sono geloso! - Ma il primo ballerino si limitava a strizzarle l'occhio da lontano, col gomito appoggiato al banco, e il busto inarcato sotto la giacchetta bisunta.
Marangoni, all'ombra del suo enorme cappellaccio, facendole il solletico colla barbona nel parlarle all'orecchio, le chiedeva, colla sua bella voce che sembrava venire di sotto il tavolino: - Quando verrà il mio quarto d'ora? - E Lupi diceva che voleva farle il ritratto, "se era tutt'oro quello che riluceva".
- Oro di coppella, com'è vero iddio! - sghignazzava Gennaroni.
Il tenore invece non parlava d'altro che di scritture e di telegrammi che aspettava; di cabale che gli montavano contro tutti i giorni; di gente a cui voleva rompere il muso.
Dell'amore, lui, non sapeva che farne: era buono da mettere in musica soltanto; più d'una volta cogli amici aveva detto chiaro e tondo quel che pensava di Gennaroni, lui stupido che si era appiccicato quel cerotto, una che tossiva sempre, come se gli fossero mancate altre donne, a quel macaco!
Una sera capitò anche il maestro, il quale aveva fatto san Michele lui pure, ora che al Caffè Nazionale c'era un giocatore di bussolotti.
Gennaroni si fregava le mani sbraitando: - Vedrete che chiuderanno fra due mesi! Ve lo dico io! - Assunta si sentì come un tuffo nel sangue appena vide entrare il maestro, e avrebbe desiderato che egli non si accorgesse di lei, nel suo cantuccio presso la stufa.
Il poveraccio era così disfatto e scombussolato che non sapeva nemmeno come rispondere a tutti coloro che gli facevano ressa intorno.
Poi, come la scorse, cogli occhi addosso a lui, andò a salutarla, domandandole come stava, se aveva trovato qualche cosa, nel tempo che non s'erano più visti.
Pur troppo, anche lui non aveva trovato nulla!...
se no glielo avrebbe fatto subito sapere!...
Dopo che il maestro ebbe voltate le spalle, incominciarono le osservazione sul conto di lui.
- Quello lì se ne rideva! - Era ben appoggiato! - Appoggiato a un vero pilastro! - Baracconi disse una parolaccia.
Verso la fine di dicembre gli avventori del Caffè del teatro sembravano ammattiti, formando dei crocchi animati, disputandosi fra di loro, cavando ogni momento dal portafogli lettere e telegrammi sudici, correndo sull'uscio, ogni volta che s'apriva, per vedere se giungeva un fattorino del telegrafo.
Il domani di san Stefano erano tutti lì dalle sette, davanti la porta del Caffè, sotto la pioggia, coll'ombrello aperto, ansiosi, guardandosi in cagnesco fra di loro - delle facce nuove che si vedevano soltanto nelle grandi occasioni, pastrani senza pelo e stivaloni infangati, scialli messi a guisa di pled, cappelloni di donna e sottane che sgocciolavano sul marciapiedi.
Alcuni dei vecchi mancavano: il tenore, un basso, rimorchiatovi da poco dal Silvani, e due o tre altri, di cui i rimasti dicevano corna.
Attraverso l'usciale si udiva come un brontolìo sordo di rivoluzione nello stanzone vuoto, dove il Lupi beveva a piccoli sorsi un Caffè caldo, schizzando la testata di un giornale davanti al garzone in maniche di camicia che gli si buttava addosso per vedere, col ventre sul tavolino.
Assunta, rimasta a casa, stava facendo cuocere due uova in una caffettiera posata sullo scaldino, quando udì picchiare all'uscio, e le comparve dinanzi il maestro all'improvviso - così in camiciuola com'era e ancor spettinata.
Egli pure era sossopra, talché non si avvide nemmeno dell'imbarazzo di lei.
- Lei!...
Lei qui! Come ha saputo?...
- Gennaroni stesso.
Siamo stati insieme -.
Ella avvampò in viso, cercando macchinalmente i bottoni della camiciuola.
- Venivo a portarle una buona notizia...
Un mio amico che è incaricato di formare una compagnia pel Cairo...
m'ha promesso di scritturarla.
- Ma...
Non saprei...
così lontano...
- No, no, bisogna risolversi piuttosto...
Bisogna accettare.
- È che...
dovrei parlarne prima a un'altra persona...
Non potrei risolvermi da sola...
così su due piedi...
-
Il maestro le afferrò le mani, quasi per forza:
- Bisogna accettare! Dica di sì...
È pel suo meglio! -
Essa non l'aveva mai visto a quel mondo.
Allora, colla gola stretta da un'angoscia vaga, si fece animo per interrogarlo...
Voleva sapere...
- Gennaroni partirà stasera col diretto.
Deve imbarcarsi a Genova domani, - disse infine il maestro.
- Chi gliel'ha detto? - Lui stesso; lo sanno tutti -.
La poveretta cercò una seggiola brancolando.
- No! no!...
Non può essere! Non mi ha detto nulla!...
Stamattina ancora!...
- Glielo dirà poi, quand'è il momento di partire...
A che scopo tormentarla avanti tempo? - È vero! è vero!...
-
Allora si mise a piangere cheta cheta nel grembiule.
Poscia, quando fu un po' più calma, si asciugò gli occhi, senza dir nulla, e si mise a preparargli la valigia, un bauletto di cuoio nero tutto strappi e scontrini di ferrovia: le camicie di flanella, la scatola dei polsini, le pantofole slabbrate, la pipa nella quale egli soleva fumare, il berretto di pelo che teneva in casa, i costumi da teatro appesi ai chiodi - ogni oggetto che toglieva dal solito posto si sentiva staccare pure dal seno qualche cosa, dinanzi a quelle pareti nude.
Il maestro l'aiutava.
Gennaroni, tornando a casa, li trovò in quelle faccende.
- Bravi! Bravi! Gliel'hai detto? - In fondo era davvero un buon diavolaccio, penetrato sino al cuore dalla dolcezza con cui Assunta s'era rassegnata.
- Così buona! così giudiziosa, povera ragazza! Tutto l'opposto del tuo carabiniere, eh! -
Egli voleva anche abbracciarla dinanzi al maestro, strizzava l'occhio a costui perché li lasciasse soli.
Ma Assunta gli faceva segno di non andarsene, cogli occhi gonfi di lagrime.
- Non l'avrebbe dimenticata, no, finch'era al mondo! Del resto le montagne sole non s'incontrano.
Intanto dava una mano anche lui per aiutarla, correndole dietro dal cassettone al letto, su cui era il baule, colle braccia piene di roba; voleva che andassero tutti e tre insieme a desinare al Caffè, l'ultima volta, e finir la giornata bene.
Il maestro si scusò.
- Ah! ah! il carabiniere! - Però promise di trovarsi alla stazione.
- Sì, sì, benone! le farai un po' di compagnia.
Poi mi affido a te per trovarle la scrittura.
È un pulcino bagnato questa poverina, se non c'è chi l'aiuti! - Voleva lasciarle anche una ventina di lire, caso mai le abbisognassero...
Ma essa si ribellò, per la prima volta.
- Scusa! scusa! Dicevo caso mai non firmassi subito la scrittura...
Ma non c'è bisogno d'andare in collera.
L'ho fatto a fin di bene -.
Ella si intenerì piuttosto.
Per lei aveva fatto anche troppo! per tanto tempo! Al Caffè poi non le riescì di mandar giù un solo boccone, mentre egli mangiava per due e cercava di tenerla allegra.
Le offerse anche di farle una sigaretta per scioglierle quel gruppo alla gola - roba d'isterismo.
Alla stazione c'era tutta la compagnia che partiva con lui.
Dei poveri diavoli che litigavano coi facchini, due o tre prime parti che pigliavano i posti di seconda, colla borsetta ad armacollo, e le mamme dietro, cariche di fagotti e di scatole di cartone.
Gennaroni disse alla sua amica:
- Tienti un po' in disparte, come tu fossi col maestro -.
Così lo vide per l'ultima volta, col biglietto nel nastro del cappello, allegro e chiassone come al solito, salutando questo e quello.
- Addio! Ciao! Buona fortuna! -
S'era preso anche in mano la gabbia del pappagallo di una compagna di viaggio.
Dalla cancellata fuori la stazione lo videro sbracciarsi a collocare tutto il loro arsenale di scatole e cappellini mentre il treno fuggiva.
Di lui le rimase un bel ritratto in fotografia, formato gabinetto, in posa di tre quarti, colla bocca sorridente, la pelliccia sbottonata, un mazzetto di ciondoli sul ventre - e la sua brava dedica sotto: "Ricordo imperituro!".
In quanto alla scrittura non se ne fece nulla.
L'impresario anzitutto, voleva belle ragazze e non dei cerotti come quella lì.
- Le pare, caro maestro? - Il poveraccio non si diede vinto ancora; continuò ad arrabattarsi come un disperato per lei, correndo di qua e di là, raccomandandola a quanti conosceva.
Ma ciascuno pensava ai propri casi in quel momento.
Ora che Gennaroni aveva piantata la ragazza senza voce e senza quattrini, doveva essere un affar serio levarsi da quella pece, uno che vi si lasciasse prendere, per buon cuore o per altro.
Gli amici, quando essa capitava al Caffè per aspettare il maestro che doveva portare la risposta, se la battevano uno dopo l'altro, primo di tutti il Silvani, colla giacchetta più stretta che mai.
Il garzone stesso, così prudente di solito, veniva ogni momento a strofinare il marmo del tavolino con un cencio, vedendo che non ordinava nulla.
Fino il maestro, a poco a poco, scoraggiato di portarle sempre la stessa cattiva nuova, non si era fatto più vedere.
Però essa gli aveva detto: - Non si affanni tanto, poveretto, ché qualcosa ho già trovato -.
E quando egli, facendosi rosso, era tornato sull'offerta di denaro, essa gli aveva risposto che non occorreva.
A lui glielo avrebbe detto, davvero, di tutto cuore!
Una domenica, verso la fine di luglio, il maestro incontrò Assunta che usciva dalla bottega di un calzolaio.
Essa avrebbe voluto evitarlo, ma l'altro già le si accostava col cappelluccio di paglia ritinto in mano.
- Come va? Tanto tempo che non ci siamo più visti! - Assunta balbettava, cercando di nascondere un fagottino che portava, fattasi di brace in viso.
Il maestro cercava le parole anche lui: - Almeno un vermuttino.
Qui a due passi, al solito Caffè!...
- Essa non voleva, vestita a quel modo!...
Infine si lasciò condurre a un tavolinetto fuori dell'uscio, all'ombra del tendone.
Dapprincipio stettero un po' in silenzio, guardandosi in viso.
Ella sembrava più grassa, disfatta, bianca come cera, con due enormi pèsche sotto gli occhi, e le mani pallide colle vene gonfie.
Il giovanotto aveva la barba lunga, la biancheria sudicia, i calzoni sfrangiati che cercava di nascondere sotto il tavolino.
A poco a poco Assunta gli narrò che s'era acconciata colla padrona stessa della casa; pensava alle spese, riguardava la biancheria, teneva d'occhio la pensione, e ci aveva in compenso vitto e alloggio.
Il tempo che avanzava poi s'era rimessa al suo mestiere d'orlatrice.
- Con lei non mi vergogno, guardi! - Anche lui fece delle vaghe confidenze: le cose non gli erano andate sempre bene; la stagione morta si portava via quelle poche lezioni...
- Accennò pure di aver cambiato alloggio...
- Del resto i suoi abiti parlavano per lui.
Assunta non volle altro che un caffè di quattro soldi.
Egli invece ordinò un giornale, un giornale qualunque, tanto, seguitavano a discorrere con un senso invincibile di malinconia, che pure aveva la sua dolcezza.
Di tratto in tratto si guardavano negli occhi, e ripetevano con un sorriso triste: - Guarda che piacere! -
Si udiva parlare a voce alta nel Caffè; e degli scoppi di risa, delle discussioni tempestose, accompagnate dalla stessa nota bassa del Marangoni che trinciava da caporione.
Assunta, allungando il collo dentro l'usciale, lo vide seduto in mezzo a un crocchio di sfaccendati, dinanzi ad un vassoio di bicchieri vuoti e una bottiglia d'acqua di seltz, con un vestito nuovo del Bocconi e la barba tagliata a punta come un damerino.
Da lì a un po' se ne uscì fuori, seguìto dagli amici che gli facevano codazzo.
Silvani persino lo tirò in disparte sul marciapiede opposto, supplicandolo sottovoce con tutta la persona umile.
Il basso scrollava le spalle e il capo, colla barba dura come una spazzola.
Infine volse un'occhiata sprezzante verso il maestro, il quale s'era fatto pallido al vederlo, e non l'aveva salutato, e cavò fuori il borsellino, scantonando seguìto dal ballerino piegato in due.
Passava della gente in abito da festa; delle famigliuole intere che andavano a sentir la musica al giardino pubblico.
Poscia, di tratto in tratto, succedeva il silenzio grave delle ore calde della domenica.
Infine Assunta e il maestro lasciarono il Caffè, e si avviarono ai Boschetti, rasente al muro, nella striscia d'ombra che orlava il marciapiedi.
Assunta aveva detto ch'era libera fino a sera, e anch'esso non temeva più di farsi vedere insieme a lei.
Il largo viale ombroso era deserto.
Di tanto in tanto solo qualche coppia d'innamorati che passeggiavano sotto i platani, cercando i sedili più remoti.
Anch'essi...
Le ore scorrevano e non sapevano risolversi a lasciarsi.
- Ah! se ci fossimo conosciuti prima! - esclamò infine il maestro.
Ella alzò gli occhi su di lui, si fece rossa, e li chinò di nuovo.
Il maestro giocherellava col fagottino che Assunta teneva sulle ginocchia.
- O piuttosto se avessi fatto il calzolaio!...
No...
dico così...
Son delle giornate nere...
Passeranno! - Chiamò uno che andava vendendo dell'acqua fresca, in un barilotto attorniato di bicchieri, e offrì da bere anche a lei.
L'uomo andò a mettersi in fondo al viale, col barilotto posato a terra, come una macchietta nera nel verde.
Sembrava di essere a cento miglia dalla città, nell'ombra e nel silenzio.
Poco per volta il maestro le disse che l'aveva amata, sì, proprio! tante volte quel segreto gli era spirato sulle labbra! Essa lo sapeva, accennando col capo che teneva chino in aria di rassegnazione dolorosa, la quale scorgevasi anche dall'abbandono di tutta la persona, dalla treccia allentata che le si allungava sul collo.
- Allora perché...
perché ci siamo taciuti?...
- La poveretta lo guardò in tal modo, attraverso le lagrime che le scendevano chete chete per le gote, ch'egli abbassò gli occhi.
- Sì, è vero, fu il destino! Quell'altra non sa neppur il sacrificio che le ho fatto...
per debolezza, per bontà di cuore...
e c'è chi dice per un tozzo di pane! Me lo merito.
Ora essa m'ha piantato pel Marangoni che la batte e fa lo strozzino coi suoi denari.
Come ho dovuto sembrarle spregevole, dica!...
- No...
no...
Era destino!...
Anch'io!...
Però sentivano entrambi una gran dolcezza nel dirsi tutto ciò, seduti accanto sullo stesso banco.
Egli aprì la bocca due o tre volte per farle una domanda che non osava.
Poi strappò un ramoscello che pendeva, e si mise a sminuzzarlo in silenzio.
Assunta più di una volta s'era mossa per andarsene, senza averne la forza.
La sera era venuta prima che se ne fossero accorti, una sera tepida e dolce.
Assunta stava col capo chino, col seno gonfio, le mani pallide e venate d'azzurro sulle ginocchia, come ascoltando le parole che lui non osava pronunziare.
Infine egli le prese in silenzio una di quelle mani, in un modo eloquente.
Per tutta risposta ella aprì le braccia che si teneva sulle ginocchia, con un gesto desolato, e scotendo il capo: - No, guardi...
non posso! -
A quell'atto, per la prima volta, il maestro la fissò in un certo modo che diceva d'aver capito ogni cosa, e glielo disse nell'occhiata ingenua e desolata che le posò in grembo.
- Almeno le ha scritto? - balbettò infine.
Ella rispose di no chinando il capo rassegnato.
Gennaroni ricomparve al Caffè verso il principio dell'inverno, masticando delle pastiglie, col fez come un turco, e le tasche piene di bottigline di marsala, per le quali ebbe a dire agli amici che volevano fargli festa:
- Adagio! adagio, miei cari! Questi qui sono campioni! Voialtri non mi darete certo delle commissioni, eh!...
- To'! il maestro! Ben trovato! So, so, briccone! So che me l'hai portata via, traditore! Dico per scherzo, sai! Non sono in collera con te, tutt'altro! Non siamo mica dei piccioni per far sempre lo stesso paio! Specie uno come me che ha da girare il mondo, ora che mi son dato al commercio.
Non c'è altro per guadagnar quattrini, te lo dico io! Tutto il resto...
roba da pezzenti! Tanti saluti ad Assunta.
Oppure, no, non le dir nulla.
A buon rendere -.
IL SEGNO D'AMORE
- Algio pelsooo...
o cara Nici,
Lo riposùuuu...
Lo riposu di la noootti.
Tostu dunami...
tostu dunami la mooolti,
Tostu dunami la molti, quannu sugnu allatu to!...
-
cantava il Resca strimpellando sulla chitarra, colorendo la canzone con gran boccacce, e aggrottar di sopracciglia.
Cessato appena il fron-fron dell'accompagnamento, scoppiò una lunga smanacciata sul canto del Piano dell'Orbo.
Gli amici si passarono le chitarre ad armacollo, e si raccolsero intorno al Resca, chiacchierando sottovoce, dietro l'uscio di donna Concettina la fruttivendola.
Come lo sportellino dell'uscio non s'apriva, il Resca disse:
- Vuol dire che la vecchia non è ancora addormentata.
Buona notte, signori miei -.
Allora dal voltone sotto il convento del Carmine si staccò un'ombra, piano piano, e si accostò per attaccar discorso con una gentilezza:
- Bravi, signori miei! Bella la voce, e belli gli strumenti! -
Il Resca squadrò lo sconosciuto, un ometto sparuto e colla barba di otto giorni, il quale portava un cappelluccio a cencio sull'orecchio; si passò il nastro della chitarra sulla spalla, e rispose secco secco:
- Grazie tante!
- Ora m'avete a fare un piacere, signori miei, - rispose l'altro.
- Dovete venire a cantare un'altra canzone alla mia innamorata, che sta qui vicino -.
Gli amici, al vedere la piega che pigliava il discorso, tornarono ad accostarsi, seri seri.
Il Resca, che non aveva proprio voglia di attaccar briga lì, a quell'ora, guardò lo sconosciuto nel bianco degli occhi, sotto il lampione, e disse, masticando adagio le parole:
- Scusate amico.
È tardi, e dobbiamo andarcene pei fatti nostri -.
L'altro però, senza darsi vinto:
- Una canzonetta breve; qui, a due passi -.
Il Resca si calcò il berretto sugli occhi, e chiese sottovoce, una voce singolare:
- Cos'è? per soperchieria?
- Siete in cinque...
bella soperchieria!
- Dunque lasciateci andare in pace.
- Allora vi dico che non avete educazione -.
Il Resca fece un passo indietro, e afferrò vivamente la chitarra pel manico.
Ma si frenò; e tornò a ripetere:
- Vi dico di lasciarmi andare pei fatti miei.
- Allora vi dico che non avete educazione! - ribatté l'altro, freddo freddo, e colle mani in tasca.
- Sangue di...! -
Il gruppo si scompose bruscamente, con un luccicare improvviso di coltelli.
L'ometto ch'era saltato indietro, mettendosi colle spalle al muro, esclamò:
- Ssss! Sangue di...! La questura! -
Lì accanto c'era l'impalcatura di una casa in costruzione e in un batter d'occhio i coltelli sparirono dietro l'assito.
La pattuglia accostandosi, col passo cadenzato, addocchiò il crocchio.
- Siamo amici, - disse l'ometto, - che si faceva una serenata alle nostre innamorate, qui vicino.
- Il permesso ce l'avete?
- Il permesso eccolo qua, - rispose il Resca.
In quel momento batteva il tocco, e da lontano si udiva venire una canzonaccia d'ubbriaco, con un'ombra che andava a zig-zag, lungo la fila dei lampioni.
- Quello lì canta senza permesso! - osservò uno della comitiva per ischerzo.
- Finiamola! - intimò il brigadiere, - o se no, vi faccio visitare! -
L'ometto che voleva la canzone per l'innamorata lo stette a guardar zitto, mentre si allontanava colla pattuglia; poi dietro gli sputò: - Sbirro!
- Sentite, amico, - riprese quindi il Resca, - qui non mi piace far del chiasso, perché ci ho il mio motivo.
Ma se volete venire sotto il voltone laggiù, vi servo subito.
- No.
Ho visto or ora che siete un uomo, e mi basta.
Di me, se conosco il mio dovere, potete domandarne a chi vi piace: Vanni Mendola.
- Ed io, don Giovanni, quand'è così, voglio cantarvi la canzone; dovessimo venire all'Ognigna oppure a Cibali.
- Grazie tante! - disse il Mendola.
- Ma la canzone adesso non la voglio più.
Mi basta d'aver visto il vostro buon cuore -.
E come ciascuno se ne andava per la sua strada, dopo molte strette di mano, e - Buona sera! Scusate, se mai, qualche parola...
- Mendola tirò in disparte il Resca, e gli disse:
- Volevo mostrare soltanto...
Come vi chiamate?
- Giuseppe Resca, per servirvi, - rispose l'altro.
- Ma mi dicono anche il Biondo.
- Volevo mostrare a donna Concettina, che è ora la vostra innamorata, e sta dietro l'uscio ad ascoltare...
Volevo mostrarle, don Giuseppe, che gli uomini non si misurano a palmo...
E che se sono piccolo di statura ho il cuore grande quanto questa piazza qui...
Ma vedo che siete un galantuomo, e non voglio che a casa vostra o a casa mia abbiano a piangere per quella donnaccia lì...
che, guardate! non val niente più di questo qui! -
E abbrancatosi il cappelluccio lo buttò a terra con disprezzo e vi sputò sopra.
Allora si spalancò di botto il finestrino della fruttivendola, e ne schizzò fuori un getto d'improperi.
- Il molto che valete voi! brutto nano pezzente che siete! e mi fate stomaco!
- Lasciatela dire, don Giuseppe, - rispose calmo il Mendola, fermando pel braccio il Resca che non si moveva neppure.
- Lasciate parlare donna Concettina che è in collera, e non si rammenta più che allora non mi diceva tutte queste parolacce, quando mi faceva venire qui di notte, al tempo di suo marito il Grosso, buon'anima! qui, dove posiamo i piedi adesso!
- A te? bugiardo infame!
- Sì, a me.
E il tuo innamorato qui presente, adesso, lo vedi? crede più alle mie parole anziché ai tuoi giuramenti.
- Finiamola! - interruppe il Resca.
- Sangue di...
finiamola!
- Avete ragione; è tempo di finirla, - disse il Mendola.
E senza dar retta a donna Concettina che lo colmava di villanie, soggiunse:
- Buona sera, e arrivederci, don Giuseppe.
Tanto piacere della vostra conoscenza.
E scusate qualche parola, se mai.
- Aspettate, vengo con voi.
- Ah, capisco! Anch'io, ai miei tempi, mi sarei fatto ammazzare per colei, s'ella mi avesse detto che adesso c'è il sole fuori.
Ma le chiacchiere non servono.
Sono ai vostri comandi, don Giuseppe.
Quando volete voi.
- Domani.
- Va bene, domani.
Ditemi a che ora, e dove vi farebbe comodo.
- Conoscete il Pizzolato, quello che fa negozio di cenci al Vico Stretto?
- Chi non lo conosce? il magazzino grande, dentro il cortile del Sole?
- Bravo! Il magazzino grande dentro il cortile del Sole.
Trovatevi lì a mezzogiorno, che ci sarò anch'io, don Giovanni -.
Questi se ne andò per la sua strada, dondolandosi, e il Biondo ripassò dinanzi alla bottega della vedova.
Buio da per tutto, e l'uscio chiuso che gli teneva il broncio.
Ritornò il giorno dopo, prima di mezzogiorno, e trovò donna Concettina la quale stava pettinandosi, in fondo alla bottega, con quei bei capelli lunghi che facevano l'onda, ed essa vi metteva apposta un'ora a distrigarli innanzi a lui, senza levar gli occhi dallo specchietto.
- O cos'è donna Concettina? Non vogliono lasciarsi fare oggi quei bei capelli? - cominciò infine il Resca.
- Questo è il grande amore che mi portate...
che andate a bazzicare con tutti quelli che mi vogliono male? - rispose essa senza voltarsi neppure.
- Quel tale l'ho incontrato iersera per caso, e non fui io che lo feci parlare.
Ma conosco il dover mio, e non ho bisogno che nessuno me lo insegni.
Ora son venuto per sentire se avevi qualche cosa da dirmi anche tu, mentre sei sola nella bottega.
- Cosa volete che vi dica? Quel cristiano io non lo conosco, e gli faccio lo scongiuro, a lui e a tutte le bugie che ha avuto il coraggio di inventare, pel Signore delle Quarant'Ore ch'è alla parrocchia!
- Va bene, - disse il Resca alzandosi dallo sgabello.
- Va bene, vi saluto -.
Mendola l'aspettava nel cortile del Sole, discorrendo sottovoce col Pizzolato, un omaccione senza un pelo di barba, e che parlava come un ventriloquo.
Si strinsero la mano, e il Pizzolato li lasciò a discorrere insieme, per correre a dare un'occhiata nel magazzino, e disporre l'occorrente.
Vanni Mendola s'era fatto radere, e aveva messo il vestito nuovo della domenica.
Di giorno, così camuffato, sembrava più piccolo e sparuto ancora, con una faccia da pulcino, e un certo ammiccar dell'occhio, che sembrava dicesse delle barzellette a ogni parola, e quando parlava colle donne doveva far loro come il solletico.
- Sentite, - disse al Biondo, - com'è vero Dio, me ne dispiace! Alle volte, lo sapete, una parola tira l'altra, e non si sa dove si va a finire.
Avrei fatto meglio a tacere, giacché ve la pigliate calda per donna Concettina.
Tanto più che non val la pena di ammazzarsi per colei.
- Lo so.
Son venuto soltanto per fare il mio dovere.
- Donne! - conchiuse il Mendola, - pazzo chi ci si mette! -
Il Pizzolato s'affacciò di nuovo all'uscio, e disse che era pronto.
- Sentite quest'altra cosa, don Giuseppe.
Se volete chiuderle la bocca una volta per tutte, e levarvela di torno, ditele che sapete di un certo segno che le ha lasciato il Mendola.
E ho finito.
- Zitto! - interruppe il Pizzolato.
- Non bisogna scaldarsi il sangue adesso! -
I giovani del magazzino, occupati a spartire i cenci, sgattaiolarono uno dopo l'altro, dinanzi a un randello che aveva ghermito il padrone.
Intanto che Mendola, il Biondo e due altri amici entravano nel magazzino, il Pizzolato affacciò il capo fra i battenti e disse:
- Li ci avete tutto -.
E chiuse l'uscio.
Successero alcuni minuti di silenzio.
Poi uno scalpiccìo dentro il magazzino, dei salti sul battuto, delle esclamazioni brevi e secche.
Infine uno degli amici fece capolino.
- Tutti e due, - rispose alla domanda ch'era negli occhi del Pizzolato.
- Badate ai fatti vostri, voialtri! - minacciò costui, rivolto ai ragazzacci che levavano il capo curiosi.
Primo uscì Mendola, piegato in due, colla faccia più incartapecorita ancora; e dopo venne il Biondo, smorto in viso, sorretto per le ascelle da due amici.
- Gli avete fatto quello che occorreva? - domandò loro il Pizzolato.
- Sissignore, a tutti e due.
Pericolo non ce n'è.
- Voialtri tornate dentro a lavorare! - ordinò il Pizzolato colla voce di cappone ai giovani del magazzino.
- E se mai, non avete visto niente! -
All'ospedale volevano sapere dal Biondo un mondo di cose: chi era stato, come, e quando.
Il Mendola, appunto per evitare tutte quelle noie, si faceva curare di nascosto dagli amici, in un bugigattolo.
Ma anche il Biondo "aveva dello stomaco", e se ne stava apposta col naso contro il muro, per non essere seccato.
- È stato un accidente, lavorando da sellaio.
Avevo il punteruolo in mano, così...
Va bene; fatemi mettere in prigione, ma non posso dir altro -.
Giudice e carabinieri rimasero a denti asciutti.
Quando donna Concettina mandò la vecchia, per vedere come stava, il Biondo tornò a dire le stesse cose, senza nemmeno voltare il capo:
- Bene, bene, sto benone.
È stato un accidente, roba da nulla.
Salutatemi vostra figlia -.
Però appena ebbe lasciato l'ospedale, un po' debole ancora e bianco in viso, andò a trovar la fruttivendola.
- O santo cristiano! che mi avete fatto morire di spavento! - gli disse lei.
- Ora come state?
- Io sto bene, - rispose lui.
- E son venuto apposta, ora che non c'è nessuno, per parlarti da solo a sola.
- O Gesù mio! Tornate un'altra volta con quei discorsi vecchi? Che cosa vi hanno detto contro di me? Parlate chiaro.
- E se parlo chiaro, tu chiaro mi rispondi?
- Sì, per la Madonna Immacolata!
- Guarda che hai gli occhi falsi, Concettina! Con don Giovanni Mendola cosa ci hai avuto?
- Ci ho avuto? Niente ci ho avuto! Veniva a comprar noci e mele.
Viene tanta gente! La bottega è un porto di mare...
In coscienza mia, Peppino, non mi guardare a quel modo! Te lo farò dire dai vicini, se non mi credi...
Vado a chiamarli...
- No! Lascia stare i vicini.
Dimmi cosa c'è stato fra voialtri.
E se dicesti di sì a lui, quand'era vivo il Grosso tuo marito, perché m'hai detto sempre di no, a me, ora che sei vedova?
- Ah, siete venuto ad insultarmi? Per questo siete venuto? Ebbene, giacché credete piuttosto a quel galantuomo, e sospettate ancora di me...
Ebbene, non voglio più saperne di voi, né per marito né per nulla!...
Lasciatemi andare...
- No, non te ne andare! Dimmi perché mi hai detto sempre di no, a me che ti volevo tanto bene, mentre a quell'altro gli hai detto di sì!...
- Aiuto! aiuto!
- No, non gridare! Tu gli hai fatto vedere il segno che ci avevi dalla nascita, a quell'altro, perché l'amavi.
Io voglio lasciartene uno sulla faccia, perché tutti lo vedano, che ti ho voluto bene anch'io! -
Aveva nel taschino del panciotto una moneta sottile come una lama, e arrotata da una parte, una monetina da due centesimi che teneva fra l'indice e il pollice come un confetto, e lasciava il segno dove toccava, per tutta la vita.
- Aiuto! all'assassino! - urlò la donna avventandoglisi contro colle unghie, accecata dal sangue che gli rigava la guancia.
Il Biondo, pallido come un cencio, in mezzo alla folla dei vicini, che lo scrollavano tenendolo pel petto, balbettava:
- Ora vado in galera contento -.
L'AGONIA DI UN VILLAGGIO
"Bollettino dell'eruzione! Il fuoco a Nicolosi!" La folla accorreva dai dintorni, a piedi, a cavallo, in carrozza, come poteva.
Lungo la salita, fra il verde delle vigne, un denso polverone disegnava il zig-zag della strada.
Ad ogni passo s'incontravano carri che scendevano dal villaggio minacciato, carichi di masserizie, di derrate, di legnami, perfino d'imposte e di ringhiere di balconi, tutto lo sgombero di un villaggio che sta per scomparire.
E colla roba, sui carri, a piedi, uomini e donne taciturni, recandosi in collo dei bambini sonnolenti, coi volti accesi dalla caldura e dall'ambascia.
Pei casolari, nelle borgate, lungo la via, gli abitanti affacciati per vedere, colle mani sul ventre; qualche vecchierella che attaccava un'immagine miracolosa allo stipite della porta o al cancello dell'orto; i monelli che ruzzavano per terra festanti; e sulle porte spalancate delle chiesuole, la statua del santo patrono, luccicante sotto il baldacchino, come un fantasma atterrito, colle candele spente, e i fiori di carta dinanzi.
A Torre del Grifo scaricavano carrate intere di assi e di tavole sulla piazzetta, per le baracche dei fuggiaschi.
Le pompe d'incendio tornavano indietro di gran trotto, col fracasso di carri d'artiglieria; e in alto, dirimpetto, il vulcano tenebroso, dietro un gran tendone di cenere, lanciava in aria, con un rombo sotterraneo, getti di fiamme alti cinquecento metri.
All'ingresso del paesetto era un ingombro straordinario di carri, cavalli, gente che gridava, e soldati col fucile ad armacollo, quasi l'avanguardia di un esercito in rotta.
Si camminava su di una sabbia nera, fra due file di case smantellate, irregolari, cogli usci e le finestre divelte.
La gente ancora affaccendata a portare via roba.
Dal balcone di una casa nuova calavano gridando - Largo! - un armadio monumentale.
Una vecchierella stava a custodia di alcune galline, seduta su di un cesto, in un cortile ingombro di doghe e cerchi di botte.
E qua e là, sulle porte senza uscio, vedevasi qualche povero diavolo che voltava le spalle alle stanzucce nude, aspettando colle mani in mano e il viso lungo, in silenzio, come nell'anticamera di un moribondo.
Sul marciapiede del casino di compagnia erano schierate su due file di sedie alcune signore venute a vedere lo spettacolo, che si facevano vento, degli uomini che fumavano, un sorbettiere portava in giro dell'acqua fresca, il baldacchino del Santissimo appoggiato al muro, colle aste in fascio, e di faccia la chiesa spalancata, senza lumi, solo un luccichìo di santi dorati in fondo all'altare in lutto.
- Lassù dal campanile, sul chiacchierìo, sul frastuono, sui boati del vulcano, la campana che sonava a processione, senza cessare un istante.
Al Nord, verso l'Etna, lo stradone si allungava in mezzo a due file di ginestre arboree, formicolante di curiosi che andavano a vedere, ridendo, schiamazzando, chiamandosi da lontano, e gli strilli soffocati delle signore barcollanti sul basto malfermo delle mule, e il vociare di quelli che vendevano gasosa, birra, uova e limoni, sotto le baracche improvvisate.
Via via che i più lontani giungevano sull'erta udivasi gridare: - Ecco! ecco! - con un grido quasi giulivo; di faccia, a destra e a sinistra, fin dove arrivava l'occhio, come il ciglione alto di una ripa scoscesa, nera, fumante, solcata qua e là da screpolature incandescenti, dalle quali la corrente di lava rovinava con un acciottolìo secco di mucchi immensi di cocci che franassero.
A due passi le ginestre in fiore si agitavano ancora alla brezza della sera; delle signore si stringevano al braccio del loro compagno di viaggio, con un fremito delizioso; altri si sbandavano per le vigne, lungo la linea della corrente minacciosa, scavalcando muricciuoli, saltando fossatelli, le donne colle sottane in mano, con un ondeggiare infinito di veli e d'ombrellini, mentre il crepuscolo moriva nell'occidente, e la marina in fondo dileguava lontana, nel tempo istesso che l'immensa fiumana di lava sembrava accendersi nell'orizzonte tetro.
Dal paesetto perduto nell'oscurità giungeva sempre il suono delle campane, e un mormorìo confuso e lamentevole, un formicolìo di lumi che si avvicinavano, quasi delle lucciole in viaggio.
Poi, dalle tenebre della via, sbucò una processione strana, uomini e donne scalzi, picchiandosi il petto, salmodiando sottovoce, con una nota insistente e lamentosa della quale non si sentiva altro che: - Misericordia! misericordia! -
E sul brulicame nero e indistinto di quei penitenti, fra quattro torce a vento fumose, un Cristo di legno, affumicato, rigido, quasi sinistro, barcollante sulle spalle degli uomini che affondavano nella sabbia.
...E CHI VIVE SI DÀ PACE
Come la batteria partiva a mezzanotte, Lajn in Primo aveva invitato la sua ragazza a desinare - una gentilezza per mostrarle il dispiacere che provava nel lasciarla.
- Sapevano giusto un'osteria di campagna, appena fuori la porta, bel sito e vino buono, quattro ciuffetti di verde al sole, l'altalena e il gioco delle bocce, i tavolinetti sotto il pergolato, da starci bene in due soli, senza soggezione; e subito dopo la campagna larga e quieta, grandi fabbriche in costruzione, tutte irte di antenne, un folto d'alberi a diritta, e in fondo la linea dei monti, che digradavano.
Anna Maria s'era messa il vestitino nuovo, colla giacchetta attillata, le scarpette di pelle lucida e le calze rosse.
Sentiva una gran contentezza, stando insieme al suo bel militare, coi gomiti sulla tovaglia, i mezzi litri che andavano e venivano, Lajn Primo di faccia a lei, col naso nel piatto, dandole delle ginocchiate di tanto in tanto.
Però al vedergli il chepì coll'incerato, e la striscia gialla della giberna che gli fasciava il petto, si sentiva gonfiare il cuore nel seno, grosso grosso, da mozzarle il fiato.
- Mi scriverai? Dì: mi scriverai? - Egli accennava di sì, a bocca piena, guardandola negli occhi lucenti che l'accarezzavano tutto, il panno grosso dell'uniforme e la faccia lentigginosa di biondo.
C'erano nel piatto dei mandarini colle foglioline verdi.
Essa ne strappò una, e volle mettergliela alla bottoniera.
Lì accanto si udiva l'urtarsi delle bocce fra di loro.
Alcune ragazze schiamazzavano attorno l'altalena, colle gonnelle in aria.
Passavano dei carri per la strada, cigolando, delle nuvole grigie di estate che lasciavano piovere una gran tristezza.
Lajn Primo chiacchierava sempre lui, col sigaro in bocca, la testa già lontana, nei paesi dove andava la batteria, cercando di tanto in tanto la mano di Anna Maria attraverso la tavola, quando in bocca gli venivano le parole buone.
Poi, siccome aveva il vino allegro, si mise a canticchiare:
Morettina di la stacioni.
Ecco il trenno che già parti.
Mi rincresse di lasciarti,
Il soldato mi tocc'affar
E tutt'a un tratto la ragazza scoppiò a piangere, col viso nel tovagliuolo.
- Via! via! I morti soli non si rivedono!...
- Stavolta però gli tremavano i baffi rossi anche a lui, e le mani, nell'affibbiarsi il cinturone.
Vollero fare quattro passi sino al fiume, come le altre volte.
C'era un sentieruolo fangoso a sinistra, fra i campi, sotto dei grandi olmi.
Anna Maria si lasciava condurre a braccetto, colle sottane in mano, gli occhi socchiusi che non vedevano, un gran sbalordimento dentro, una dolcezza infinita e malinconica, al tintinnìo di quella sciabola e di quegli sproni e al contatto di quell'uniforme contro cui tutta la sua persona le sembrava che volesse fondersi.
Egli le aveva passato il braccio attorno alla vita, mormorandole ne' capelli tante paroline affettuose che essa udiva confusamente, l'orecchio però sempre teso verso la tromba della caserma, da buon soldato.
A un certo punto Anna Maria gli sfuggì di mano, e corse a inginocchiarsi sul ciglione del fossatello, senza badare al vestito nuovo, per cogliere delle foglioline verdi che spuntavano dal muricciuolo.
- Per te! Le ho colte per te! -
Egli non sapeva più dove metterle; le diceva scherzando che lo caricava d'erba come un asino, così, per farla ridere.
La ragazza però non rispondeva; stava segnando delle grandi lettere storte sulla corteccia di un olmo, con un sasso, due cuori uniti e una croce sopra.
Lajn non voleva, per via del malaugurio; però l'aveva presa fra le braccia, intenerito anche lui, tanto non passava nessuno nella stradicciuola fangosa di là dall'argine.
Essa diceva di no, diceva di no, col cuore gonfio.
Guardava piuttosto un gran muraglione nerastro ch'era dirimpetto, quasi volesse stamparselo negli occhi.
Gli diceva: - Guarda anche tu! anche tu! - Aveva il viso triste, poveretta! Calava la sera desolata, con una squilla mesta e lontana dell'avemaria che picchiava sul cuore.
Quanto piangere fece Anna Maria cheta cheta nel fazzolettino ricamato!
Prima di lasciarla, sull'angolo della via, egli le aveva detto: - Verrò a salutarti un'altra volta, prima di partire; fatti portare sulla porta -.
E si tenevano per mano, non si risolvevano a staccarsi l'uno dall'altro.
Lajn Primo tornò infatti a salutarla un'altra volta, prima di partire, come passasse per caso, nell'andare in quartiere.
Anna Maria teneva per mano la figlioletta del portinaio - un pretesto per star lì sulla porta - e gli fece segno che c'era gente dietro l'uscio.
Allora scambiarono ancora quattro parole per dirsi addio, senza guardarsi, parlando del più e del meno - lui che gli tremavano i baffi rossi un'altra volta.
- Passerete di qua, per andare alla stazione? - Sì, sì, di qua! - Ogni momento della gente che andava e veniva, Ghita nel cortile ad accendere il gas.
Lajn Primo accese anche un sigaro, e se ne andò colle spalle grosse.
Anna Maria lo guardava allontanarsi.
La gente si affollava per la via, a veder passare i soldati che partivano pel campo: tutti gli inquilini della casa, sotto il lampione della porta; Ghita che teneva abbracciata Anna Maria; suo padre, il portinaio, e i padroni anche loro, alle finestre, coi lumi.
Così la povera ragazza vide passare la batteria dov'era il suo artigliere, in mezzo alla calca e ai battimani; i cavalli neri che sfilavano a due a due, scotendo la testa, dei cassoni enormi che facevano tremare le case, e sopra, sui cappelli e i fazzoletti che sventolavano, i chepì degli artiglieri coll'incerato, dondolando.
Non vide altro: tutti quei chepì si somigliavano.
Il suo Lajn però la scorse, alle folte trecce nere, in mezzo alle comari, la mamma di Ghita che stava contandole delle frottole - la vide che lo cercava, povera figliuola, con gli occhi smarriti e il viso pallido, senza poterlo scorgere, seduto basso com'era sul sediolo accanto al pezzo, il guanto sulla coscia, al suono triste della marcia d'ordinanza, che si allontanava.
Passarono città, passarono villaggi; dovunque, sulle porte, uomini e donne che s'affacciavano a veder passare i soldati.
Alle volte, nella folla, un musetto pallido che somigliava ad Anna Maria - "Morettina di la stacioni..." - Alle volte, lungo lo stradone polveroso, un'osteria di campagna coll'altalena e il pergolato verde, come quella dov'erano stati a desinare insieme.
Alle volte un fossatello con due filari d'olmi, o un muraglione nerastro che rompeva il verde.
Oppure una cascina coi panni stesi al sole, una vecchierella che filava, un sentieruolo come quello per cui era disceso dai suoi monti, col fagottino sulle spalle larghe e robuste che lo avevano fatto prendere artigliere.
Poscia la via bianca e polverosa, rotta, sfondata dal passaggio della truppa formicolante di uniformi - e di tanto in tanto uno squillo di tromba, che sonava alto nel brusìo.
Di qua del fiume una gran folla: soldati di tutte le armi, un luccichìo, tende di cantiniere che sventolavano, e cavalli che nitrivano; delle canzoni dolci e malinconiche, in tutti i dialetti, come un'eco lontana del paese, in mezzo alle risate e al rullo dei tamburi: - "Morettina di la stacioni...
mi rincresse di lasciarti!..." - Sull'altra sponda la campagna calma e silenziosa, coi casolari tranquilli affacciati nel verde delle colline, e sulla linea scura che traversava il fiume, luccicante qua e là, l'ondeggiare delle banderuole turchine, una lunga fila di lancieri polverosi che sfilavano sul ponte.
Le quattro trombe della batteria tutte insieme sonarono - Avanti -.
Poscia, di là del ponte - A trotto! - in mezzo a un nugolo di polvere, alberi e casolari che fuggivano, pennacchi di bersaglieri ondeggianti fra i seminati.
Di tanto in tanto, in mezzo al frastuono, si udiva un rombo sordo, dietro le colline.
E fra gli scossoni dell'affusto, la canzone della partenza che ribatteva: - "Ecco il treno che già parti..." - A galoppo, Marche! - Addio, Morettina! Addio!
Su, su, per l'erta, sfondando le siepi, sradicando i tralci, saltando i fossati, i cavalli fumanti e colle schiene ad arco, gli uomini a piedi, spingendo le ruote, frustando a tutto andare.
Poi, sulla cima del colle, due carabinieri di scorta immobili, a cavallo, dietro un gruppo di ufficiali che accennavano lontano, alle vette coronate di fumo, e dei soldati sparsi per la china, fra i solchi, come punti neri.
Qua e là, dei lampi che partivano dalla terra bruna, e il rombo continuo nelle colline dirimpetto, delle nuvolette dense che spuntavano in fila sulla cresta.
Detto fatto, i pezzi in batteria, e musica anche da questa parte.
Allora, dopo cinque minuti, attorno alla batteria cominciò a tirare un vento del diavolo - la terra che volava in aria, gli alberi dimezzati, solchi che si aprivano all'improvviso, dei sibili acuti che passavano sui chepì.
Però attenti al comando e nient'altro per il capo - né capelli bianchi, né capelli neri.
- Abbracci'avant! - Alt! - Caricat! Prima il povero Renacchi che stava per compir la ferma.
- Mamma mia! Mamma mia - Numero due, manca! - Attenti! - Si udiva il comando secco e risoluto del biondo ufficialetto che stava impettito fra i due pezzi, ammiccando nel fumo, cogli occhi azzurri di ragazza, i quali vedevano forse ancora il piccolo coupé nero che aspettava in piazza d'armi, e la mano bianca allo sportello.
- Abbracci'avant! - Alt! - Caricat! - Tutt'a un tratto giù in un gomitolo anche lui, fra un nugolo di polvere, gemendo sottovoce e mordendo il cuoio del sottogola.
Solo il comandante rimaneva in piedi, ritto sul ciglione, in mezzo al vento furioso che spazzava via tutto, guardando col cannocchiale, come un gran diavolo nero.
Lajn Primo in quel momento stava chino sul pezzo, a puntare, strizzando l'occhio turchino, come soleva fare per dire ad Anna Maria quanto gli piacesse il suo musetto, e facendo segno colla destra al numero tre di spostare a sinistra la manovella di mira, quando venne la sua volta anche per lui.
- Ah! Mamma mia! - Colle mani tentò di aggrapparsi ancora all'affusto, delle mani che vi stampavano il sangue - cinque dita rosse.
- Numero quattro, manca! - Attenti! -
Il telegrafo portava le notizie, una dopo l'altra: tanti morti, tanti feriti.
- Ciascun bollettino cinque centesimi.
- Anna Maria ne aveva raccolto un fascio, lì sul cassettone.
E poi, due volte al giorno, all'andare e venire dalla fabbrica, passava dalla posta.
- Nulla - nulla -.
Che gruppo allora nella gola! che peso sul cuore e dinanzi agli occhi! La sera soprattutto, quando sonava la ritirata! La notte che se lo sognava, e lo vedeva sotto il pergolato, canticchiando - "Mi rincresse di lasciarti", - e le stringeva la mano sulla tovaglia! Avesse avuta la mamma almeno, per sfogarsi! Il babbo, poveretto, cosa poteva farci? notte e giorno sulla macchina, a correre pel mondo.
La sua amica Ghita, che non aveva fastidi, lei, e non se la prendeva di nulla, faceva spallucce, ripetendole:
- Gli uomini, mia cara, son tutti così.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! - Quanto piangere fece in quel fazzolettino!
Tornavano i soldati, lunghe file di cavalli, battaglioni interi.
Dinanzi al castello, in piazza d'armi, erano pure tornati i carretti colle arance, e quelli del sorbetto a due soldi, e le bambinaie coi ragazzi, e le coppie che si allontanavano sotto gli alberi.
Artiglieri che andavano e venivano, coll'incerato sul chepì, tale e quale come Lajn Primo.
- n.
7, n.
9.
- Solo mancava il numero del suo Lajn.
Nella fabbrica aveva sentito dire che molta truppa era stata mandata in Sicilia - laggiù, lontano.
- Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! - Neppure un rigo in tre mesi! Quante gite alla posta! quante volte ad aspettare il portalettere dal portinaio! Tanto che Cesare, il servitore dirimpetto, il quale veniva a pigliare le lettere della contessa, le diceva anche lui, ridendo:
- Nulla, eh? Ha male alla penna il suo artigliere? -
Una vera persecuzione quell'antipatico, colla faccia di donna, e i capelli lucenti di pomata! Aveva un bello sbattergli la finestra sul muso! Tutto il giorno lì, di faccia, in anticamera, a farle dei segni colle manacce sempre infilate nei guanti bianchi, scappando solo un momento appena sonavano il campanello, e tornando subito a montare la sentinella.
Sempre, sempre, quasi si cocesse anch'esso a poco a poco, al vedersela ogni giorno lì di faccia.
Sicché una volta la fermò per le scale, e le disse: - Cosa le ho fatto, infine? Almeno me lo dica! - E come si vedeva che le parole gli venivan dal cuore, essa non ebbe animo di mandarlo a quel paese.
Pensava sempre a quell'altro, però, lavorando alla finestra.
Chissà, chissà dov'era? di là da quelle case, dove andavano quelle nuvole scure? Che tristezza quando giungeva la sera! La campana di Sant'Angelo, lì vicino, che le picchiava sulla testa, e in cuore la tromba della ritirata, che piangeva.
Il servitore accendeva i lumi, dirimpetto, e poi rimaneva ancora lì, nell'ombra delle cortine, si scorgeva dai bottoni che luccicavano.
Quanto piangere in quel fazzolettino ricamato! Tanto che il cuore era stanco e s'era vuotato intieramente.
Il giorno di san Luca, ch'era anche la festa del portinaio, andarono tutti a Monte Tabor.
Ghita era venuta a prenderla per forza, e anche Cesare, il quale s'era fatto dare il permesso quel giorno dalla padrona, e le aveva detto, stringendole le mani: - Venga, venga con noi! Così, a star sempre chiusa, piglierà qualche malanno! - Una gran tavolata all'aria aperta, l'altalena e il giuoco delle bocce -.
Cesare, che pensava sempre ad una cosa, le rispose: - M'importa assai delle bocce adesso! Mi lasci stare vicino a lei piuttosto, ché non la mangio mica! - La sera poi, al ritorno, le diede il braccio; tutta la brigata a piedi pel bastione, sotto i platani che lasciavano cadere le foglie.
Una bella sera fresca e stellata.
Delle ombre a due a due che si parlavano all'orecchio, sui sedili, voltando le spalle alla strada.
Anna Maria chiacchierava di questo e di quello, per non lasciar cadere il discorso.
L'altro zitto, a capo chino.
- Buona sera, buona sera.
- Aspetti, aspetti.
L'accompagno sino all'uscio, di sopra.
Non voglio che salga le scale così al buio e tutta sola.
Ora accendo un cerino.
- No, no, ci son le stelle -.
Delle stelle lucenti che scintillavano sui tetti, attraverso i finestroni ad arco, ogni ramo di scala - sei rami.
Anna Maria, di già stanca, s'era appoggiata al muro, proprio accanto al finestrone, col fiato ai denti.
- Ah! le mie povere gambe! - Egli sempre zitto, guardandola nella poca luce che lasciava vedere soltanto il musetto pallido e gli occhi lucenti.
- Che fatica! Una giornata intera! Dev'essere molto tardi.
Guardi quante stelle! - Batteva un po' la campagna anche lei, poveretta, per sfuggire a quel silenzio.
Ma lui non rispondeva ancora.
- Bella sera! Non è vero? - Allora egli le prese la mano e balbettò con voce mutata: - Se crede che abbia capito quel che m'ha detto, sa!...
- E anche lei fu vinta da una gran dolcezza, da un grande abbandono.
Gli lasciò la mano nella mano e chinò il capo sul petto.
Quest'altro aveva le mani bianche e pulite di uno che non fa nulla, i capelli lisci, la pelle fine, certe garbatezze d'anticamera che l'accarezzavano.
Lo vedeva ogni giorno, l'aspettava alla porta, si lasciava condurre la domenica a desinare in campagna, alla stessa tavola, sotto il pergolato, colle ragazze che schiamazzavano sull'altalena, e gli avventori che giocavano alle bocce.
Avevano passeggiato insieme per quella stradicciuola fangosa, sotto i pioppi, stringendosi l'uno all'altro, nella sera che li celava.
Poi egli voleva sapere questo e quello; voleva frugare come un furetto nel presente e nel passato.
La faceva ritornare, passo passo, verso quelle memorie che le rifiorivano in cuore come una carezza e una puntura.
Era geloso della stradicciuola dove era stata a passeggiare con quell'altro, geloso della campagna che avevano vista insieme, della tavola alla quale s'erano seduti e del vino che avevano bevuto nello stesso bicchiere.
Diventava a poco a poco ingiusto e cattivo.
Un vero ragazzo, ecco.
Un ragazzo bizzoso da mangiarserlo coi baci.
Che dolcezza per Anna Maria allora! Che dolcezza triste ed amara! Tutte le lacrime che egli le faceva versare le restavano in cuore, e glielo rendevano più caro.
Le bruciava le labbra! ma infine...
infine glielo disse: - Non ci penso più, ti giuro! Non ci penso più a quell'altro!...
- Cesare non voleva crederle! Anzi, a ogni cosa che ella facesse per provarglielo, ogni bacio, ogni carezza, ogni parola, era come se quell'altro si mettesse fra loro due.
Allora Anna Maria un sabato sera gli fece segno dalla finestra, con tutte e due le braccia, col viso illuminato.
- Domani! Domani! - E all'ora solita si vestì in fretta, colle mani tremanti, tutta radiosa, le calze rosse, le scarpe lucide, la giacchetta attillata, tale quale come quel giorno ch'era andata l'ultima volta coll'artigliere, e volle condurlo proprio là, nel sentieruolo sotto i pioppi.
- Perché? cosa vuoi fare? - domandava Cesare.
- Vedrai! Vedrai! -
Erano cresciute delle altre fronde all'olmo, nel maggio che fioriva, del verde che celava i due cuori color di ruggine, legati insieme dalla croce.
Essa però li rinvenne subito, e con un sasso, gli occhi lucenti, il seno che le scoppiava, le mani febbrili, si mise a raschiare da per tutto, sulla corteccia dell'olmo, le iniziali, i due cuori, la croce, tutto.
Poi gli buttò le braccia al collo, a lui che stava a guardare con tanto di muso, e se la strinse al petto, furiosamente.
- Mi credi ora? Mi credi ora? -
Egli le credette allora, con quelle braccia annodate al collo, e quel seno che si gonfiava contro il suo petto.
Ma dopo fu la stessa storia: ogni cosa gli dava ombra: se era allegra, se era malinconica, se cantava, se taceva, se si pettinava in un certo modo, e se non voleva confessare che quegli orecchini fossero un ricordo di quell'altro, se la vedeva dal portinaio, o se la incontrava vicino alla posta.
Ogni carezza, ogni parola - delle parolacce amare, dei musi lunghi, delle risate ironiche, degli impeti di collera, dei voltafaccia bruschi di servitore che sputi villanie dietro le spalle dei padroni.
- Con lui non dicevi così! Con quell'altro era un altro par di maniche! - No! no! te lo giuro! Non ci penso più! Tu solo adesso! Tu solo! - Poi gli arrivò a dire: - Non gli ho mai voluto bene!...
- O allora? - rispose il servitore.
E infine un giorno essa gli mostrò una carta; una carta che gli aveva portata nel petto, come una reliquia.
- Guarda! Guarda! - Era il certificato di morte del suo artigliere, come glielo buttava in faccia a ogni momento Cesare.
Il certificato di morte di Lajn Primo, soldato del V artiglieria, c'era il bollo e tutto, non vi mancava nulla; la povera donna glielo portava come un regalo, come un regalo del bene che aveva voluto e delle lacrime che aveva versate, come un regalo di tutta se stessa, della donna innamorata e sottomessa.
L'altro, il maschio, per tutta risposta fece una spallata.
IL BELL'ARMANDO
Ecco quel che gli toccò passare al Crippa, parrucchiere, detto anche il bell'Armando, Dio ce ne scampi e liberi!
Fu un giovedì grasso, nel bel mezzo della mascherata, che la Mora gli venne incontro sulla piazza, vestita da uomo - già non aveva più nulla da perdere colei! - e gli disse, cogli occhi fuori della testa:
- Dì, Mando.
È vero che non vuoi saperne più di me?
- No, no! quante volte te l'ho a dire?
- Pensaci, Mando! Pensa che è impossibile finirla del tutto a questo modo!
- Lasciami in pace.
Ora sono ammogliato.
Non voglio aver storie con mia moglie, intendi?
- Ah, tua moglie? Essa però lo sapeva quello che siamo stati, prima di sposarti.
E oggi, quando t'ho incontrato a braccetto con lei, mi ha riso in faccia, là, in mezzo alla gente.
E tu, che l'hai lasciata fare, vuol dire che non ci hai né cuore, né nulla, lì!
- Be', lasciamo andare.
Buona sera!
- Dì, Mando? È proprio così?
- No, ti dico! Non voglio più!
- Ah, non vuoi più? No? -
E il Crippa, colpito lì dove la Mora diceva che non ci aveva né cuore né nulla, andò annaspando dietro a lei, come un ubbriaco, e gridando: - Chiappatela! chiappatela! - Poi cadde come un masso, davanti alla bottega del farmacista.
Le guardie e la folla a inseguirla, strillando anche loro: - Piglia! piglia! - Finché un giovane di caffè la fece stramazzare con un colpo di sedia sul capo; e tutti quanti l'accerchiarono, stralunata e grondante di sangue, col seno che gli faceva scoppiare il gilè dall'ansimare, balbettando:
- Lasciatemi! lasciatemi! -
Appena la riconobbero, così rabbuffata, a quel po' di luce del lampione, scoppiarono improperi e parolacce:
- È la Mora! quella donnaccia! l'amante del Crippa! -
Come se gli avesse parlato il cuore, al disgraziato! Giusto in quei giorni, era stato dal maresciallo a denunziargli la sua amante, che voleva giocargli qualche brutto tiro: - La Mora non vuole lasciarmi tranquillo, ora che ho preso moglie, signor maresciallo -.
E il maresciallo aveva risposto: - Va bene - al solito, senza pensare a ciò che potesse covare dentro di sé una donna come quella.
Ora le guardie arrivavano dopo che la frittata era fatta, sbracciandosi a gridare: - Largo! Largo! -
In quel momento si udì un urlo straziante, e si vide correre verso la bottega del farmacista, dove stavano medicando il ferito, una donna colle mani nei capelli.
Era l'altra, la moglie vera, che piangeva e si disperava, gridando: - Giustizia! Giustizia, signori miei! Me l'ha ucciso, quell'infame, vedete! - Il Crippa, abbandonato su di una seggiola, tutto rosso di sangue, col viso bianco e stravolto, la guardava senza vederla, come stesse per lasciarla dopo soli due mesi di matrimonio, poveretta! La folla voleva far giustizia sommaria della Mora, ch'era rimasta accasciata sul marciapiedi, in mezzo agli urli e alle minacce della folla, come una lupa.
Arrivarono sino a darle delle pedate nel ventre; tanto che le guardie dovettero sguainare le daghe per menarla in prigione, in mezzo ai fischi, che sembrava una frotta di maschere.
Dopo, al cospetto dei giudici, quando le mostrarono i panni insanguinati della sua vittima, non seppe che cosa rispondere.
- Questa donna ch'è stata di tutti, - tonava il pubblico accusatore, coll'indice appuntato verso di lei, come la spada della giustizia; - questa donna che, per ogni trivio, fece infame mercato della propria abbiezione, e della cecità, voglio anche concedere alla difesa, della acquiescenza del suo amante, questa donna, o signori, osò arrogarsi il diritto delle affezioni pure e delle anime più oneste; osò esser gelosa, il giorno in cui il suo complice apriva gli occhi sulla propria vergogna, e si sottraeva al turpe vincolo, per rientrare nel consorzio dei buoni, ritemprandosi colla santità del matrimonio! -
Ella udì pronunziare la sua condanna, disfatta, cogli occhi sbarrati e fissi, senza dir verbo.
Si alzò traballando, come ubbriaca, e nell'uscire dalla gabbia di ferro, batté il viso contro la grata.
Prima l'aveva fatta cadere il signorino - se ne rammentava ancora come un bel sogno lontano, svanito.
- Aveva pianto e supplicato.
Indi, a poco a poco, vinta dal rispetto, dalla lusinga di quella tenerezza prepotente, dalla collera di quel ragazzo abituato a fare il suo volere in casa, s'era abbandonata timorosa e felice.
Era stato un bel sogno, ch'era durato un mese.
Egli saliva furtivo nella cameretta di lei, colle scarpe in mano, e si abbracciavano tremanti, al buio.
Il giorno in cui il giovanetto dovette far ritorno all'Università, pioveva a dirotto; essa si rammentava pure dello scrosciare malinconico e continuo di quella grondaia.
L'avevano sentito tutta la notte, colle braccia al collo l'una dell'altro, cogli occhi sbarrati nelle tenebre, contando le ore che sfilavano lente sui tetti.
Poi lo vide partire coll'ombrello sotto l'ascella e la cappelliera in mano, senza dirle una parola davanti ai suoi.
La signora però, coll'istinto della gelosia materna, indovinò le lacrime che doveva soffocare la ragazza in quel momento, e si diede a sorvegliarla.
Un giorno, dopo averla mandata fuori con un pretesto, salì nella cameretta di lei, si chiuse dentro, e quando la Lena fu di ritorno colla spesa, trovò la padrona seria e accigliata, che le aggiustò il conto su due piedi, le ordinò di far fagotto, e la mise alla porta con una brutta parola.
La povera Lena, non sapendo che fare, schiacciata sotto la vergogna, prese la diligenza per la città, e andò a trovare il suo amante.
Egli non era in casa.
L'aspettò sulla porta, seduta sul marciapiede, col fagottino accanto.
Dopo la mezzanotte lo vide che rientrava insieme a un'altra.
Allora si alzò, colle gambe rotte dal viaggio, e si allontanò rasente al muro zitta zitta.
Il giovane non ne seppe mai nulla.
Era sopravvenuto un altro guaio, il suo fallo che era visibile a tutti.
Cercò inutilmente di collocarsi.
Spese quei pochi quattrini che le avanzavano, e infine, per vivere, fu costretta a prendere alloggio in un albergaccio dove la Questura veniva, di tanto in tanto, a far le sue retate.
Lì ebbe a fare la prima volta con quella gente.
Padrona e avventori ridevano delle paure sciocche di lei, quando le guardie entravano all'improvviso di notte, e frugavano sotto i letti.
Uno di quegli avventori, detto il Bulo, uomo sulla cinquantina, colla faccia dura, il quale arrivava ogni quindici o venti giorni, senza bagaglio, ed era sempre in moto di qua e di là, s'innamorò di lei.
Ella disse di no.
Allora egli le offerse di sposarla.
Lena disse ancor di no, sbigottita da quella faccia, e vergognosa di dover confessare il suo passato.
Poscia, quando fu all'ospedale, e che lui soltanto venne a trovarla, colle mani piene d'arance, vinta da una gran debolezza, chinò il capo piangendo, e gli confessò il suo fallo.
Il Bulo protestava che non gliene importava nulla - acqua passata - purché non si ricominciasse da capo - e così si accordarono.
Il Bulo non era affatto geloso; la lasciava sola per mesi e settimane, e continuava ad andare sempre in giro pel suo mestiere, che non si sapeva quale fosse.
Il Crippa, suo compagno, bazzicava solo in casa, aiutandolo nei negozi ai quali ei solo aveva mano, aspettandolo quando non c'era, avendo sempre qualche cosa da dirgli sottovoce, prima che il Bulo si mettesse in viaggio.
Nel medesimo tempo faceva l'asino alla comare, s'irritava alla resistenza di lei, abituato a fare il gallo della Checca, sempre vestito come un figurino, coi capelli arricciati e lucenti.
Le portava dei vasetti di pomata, delle boccette di profumeria.
Ella ribatteva che suo marito non se lo meritava.
- Era stato tanto buono con lei! - Il Crippa, che certe storie non le capiva, badava a ripetere: - Or bene, giacché vostro marito ha chiuso gli occhi una prima volta...
-
Fu un giorno che il marito tardava a venire, e il Crippa la colse nella stanza di sopra, col pretesto di cercare un pacchettino che il compare gli aveva scritto di mandargli.
La Lena, china sul cassetto del mobile, cercava insieme a lui, col seno gonfio, quando il bell'Armando tutt'a un tratto l'afferrò pei fianchi e le accoccò un bacio alla nuca.
- No! no! - balbettava essa tutta tremante, bianca come cera; ma il sangue le avvampò all'improvviso in faccia; arrovesciò il capo, cogli occhi chiusi, le labbra convulse, che scoprivano i denti.
Dopo rimase tutta sottosopra, tenendosi la testa fra le mani, quasi fuori di sé.
- Cosa ho fatto, Dio mio! Cosa m'avete fatto fare! -
Il Crippa, contento come una Pasqua, cercava di chetarla.
Oramai...
suo marito non ne avrebbe saputo mai nulla, parola di galantuomo, se avesse avuto giudizio anche lei.
Il Bulo però lo seppe o lo indovinò, al vedere l'aria smarrita della Lena, che ancora non aveva fatto il callo a certe cose.
Crippa, il bell'Armando, più sfacciato, gli faceva le solite accoglienze da fratello, buttandogli le braccia al collo, dandogli conto dei loro negozi per filo e per segno.
Il Bulo lo guardò colla faccia dura, e gli rispose secco secco:
- Vi ringrazio, compare, di tutto quello che avete fatto per me, e un giorno o l'altro ve lo renderò -.
La Lena sentì gelarsi il sangue a quelle parole.
Ma il Crippa, che aveva mangiato la foglia anche lui, le disse all'orecchio, mentre il compare era andato di sopra un momento, a mutarsi i panni:
- Stai tranquilla, che ci penso io! -
La notte stessa vennero le guardie ad arrestare il Bulo, e misero sottosopra tutta la casa, rimovendo perfino i mattoni del pavimento per vedere quel che c'era sotto.
Il Bulo, mentre lo menavano via ammanettato, le lasciò detto per ultimo addio:
- Salutami il compare, e digli che ci rivedremo al mio ritorno -.
Il giorno dopo arrivò il Crippa, fresco come una rosa.
La Lena, che aveva qualche sospetto, non seppe nascondergli la brutta impressione.
Però egli si scolpò subito giurando colle braccia in croce.
Due giorni dopo arrestarono anche lui, come complice del Bulo, mettendoli a confronto l'uno con l'altro.
Ma prove non ce n'erano; il Crippa dimostrò ch'era innocente come Dio, e per ribattere l'accusa spiattellò innanzi ai giudici la storia della comare, un tiro che cercava di giocargli il marito per gelosia.
- Pelle per pelle, cara mia!...
- disse poi alla Lena.
- Da mio compare non me l'aspettavo questo servizio!...
Quante ne ho passate, vedi, per causa tua!...
-
Ormai non c'era più rimedio.
Tutto il paese lo sapeva.
Perciò ella si mise col Crippa apertamente.
E si rammentava anche di questo - che un giorno, dopo che gli si era data tutta, anima e corpo, dopo che per amor suo aveva sofferto ogni cosa, la fame, gli strapazzi, la vergogna del suo stato, dopo che per lui era arrivata a vendere sin la lana delle materasse, il bell'Armando l'aveva piantata per correre dietro a una stracciona che gli spillava quei pochi soldi strappati a lei.
E quando, pazza di dolore e di gelosia, cercava di trattenerlo, cogli occhi arsi di lagrime, dicendogli: - Guarda, Mando!...
Guarda che ti rendo la pariglia!...
- egli si stringeva nelle spalle, per tutta risposta.
Poi, allorché s'incontrarono di nuovo, era passato tanto tempo! tanto tempo! e tante vicende! Anch'essa era mutata, tanto mutata! Ma quell'uomo non se l'era potuto levare mai dal cuore, e adesso, la sciagurata, chinava il capo e si sentiva venir rossa come una volta.
Fu una sera tardi, che ella tornava a casa tutta sola, per combinazione.
Egli la chiamò per nome, guardandola negli occhi con un certo fare, con un risolino che la rimescolava tutta.
Lei voleva scusarsi balbettando, tentando di giustificarsi umilmente, mentre sentiva che il cuore le balzava verso quell'uomo.
Lui le tappò la confessione in bocca con un bel bacio, un bacio che la fece impallidire, e le passò il cuore come un ferro.
Avrebbe preferito una coltellata addirittura.
Ma egli non era geloso, no.
Ormai!...
Un giorno le capitò dinanzi tutto rabbuffato.
Aveva bisogno di denari; ma si fece pregare un bel pezzo prima di confidarglielo.
Lena glieli diede il giorno dopo.
D'allora in poi tornò spesso a domandargliene, senza farsi più pregare.
E infine quando la poveretta, colla nausea alla gola, come una costretta a mandar giù delle porcherie, si arrischiò a dirgli: - Ma dove vuoi che li pigli questi denari? - per tutta risposta Mando le voltò le spalle.
- Senti, - esclamò la Lena con un impeto di tenerezza selvaggia, buttandoglisi al collo; - se li vuoi...
se li vuoi proprio questi denari...
Ma dimmi almeno che mi vorrai bene lo stesso...
-
Egli si lasciò abbracciare, ancora accigliato, brontolando fra i denti.
Lena glielo diceva spesso:
- Vedi, lo so che tu non mi vuoi bene.
Ma non me ne importa; perché te ne voglio tanto io; tutto il male che ho fatto, l'ho fatto per te, intendi? -
E il giorno in cui venne a sapere che egli prendeva moglie, l'ultima volta che ebbe ancora il coraggio di comparirle dinanzi col sorrisetto ironico e la giacchetta nuova, gli disse:
- Lo so che la sposi pei quattrini.
Ma ora tu devi fare quel che io ho fatto per te -.
Il bell'Armando fingeva di non capire.
Allora Lena lo afferrò pei capelli profumati, colle labbra bianche, e gli disse:
- Guarda, Mando! Guardami bene negli occhi! E dimmi s'è possibile finirla così, del tutto, dopo quel che abbiamo fatto tutti e due! Dimmi se potresti dormire senza rimorsi nel letto di tua moglie...
-
Il Crippa campò, per sua fortuna; mise giudizio, ed ebbe figliuoli e sonni tranquilli, in quel buon letto morbido e caldo, mentre la Mora scontava la pena sul tavolaccio dell'ergastolo.
NANNI VOLPE
Nanni Volpe, nei suoi begli anni, aveva pensato soltanto a far la roba.
- Testa fine di villano, e spalle grosse - grosse per portarci trent'anni la zappa, e le bisacce, e il sole, e la pioggia.
Quando gli altri giovani della sua età correvano dietro le gonnelle, oppure all'osteria, egli portava paglia al nido, come diceva lui: oggi un pezzetto di chiusa, domani quattro tegole al sole: tutto pane che si levava di bocca, sangue del suo sangue, che si mutava in terra e sassi.
Allorché il nido fu pronto, finalmente, Nanni Volpe aveva cinquant'anni, la schiena rotta, la faccia lavorata come un campo; ma ci aveva pure belle tenute al piano, una vigna in collina, la casa col solaio, e ogni ben di Dio.
La domenica, quando scendeva in piazza, col vestito di panno blu, tutti gli facevano largo, persino le donne, vedove o zitelle, sapendo che ora, fatta la casa, ci voleva la padrona.
Egli non diceva di no, anzi, ci stava pensando.
Però faceva le cose adagio, da uomo uso ad allungare il passo secondo la gamba.
Vedova non la voleva, ché vi buttano ogni momento in faccia il primo marito; giovinetta di primo pelo neppure, per non entrare subito nella confraternita, diceva lui.
Aveva messo gli occhi sulla figliuola di comare Sènzia la Nana, una ragazza quieta del vicinato, cucita sempre al telaio, che non si vedeva alla finestra neppure la domenica, e sino ai ventott'anni non aveva avuto un cane che le abbaiasse dietro.
Quanto alla dote, pazienza! Vuol dire che aveva lavorato egli per due.
La Nana era contenta; la ragazza non diceva né si né no, ma doveva esser contenta anche lei.
Soltanto qualche mala lingua, dietro le sue spalle, andava dicendo: - Acqua cheta rovina mulino -.
Oppure: - Questa è volpe che se la mangia il lupo, stavolta! -
A Pasqua finalmente giunse il momento della spiegazione.
I seminati erano alti così, gli ulivi carichi, Nanni Volpe aveva terminato allora di pagare l'ultima rata del mulino.
- Ogni cosa proprio opportuna.
- Infilò il vestito blu, e andò a parlare a comare Sènzia.
La ragazza era dietro l'uscio della cucina ad ascoltare.
Quando poi sua madre la chiamò, comparve tutta rossa, lisciata di fresco, colla calzetta in mano, e il mento inchiodato al petto.
- Raffaela, qui c'è massaro Nanni che ti vuole per sposa, - disse la madre.
La giovane rimase a capo chino, seguitando a infilare i punti della calza, col seno che le si gonfiava.
Massaro Nanni aggiunse:
- Ora si aspetta che diciate anche voi la vostra -.
La mamma allora venne in aiuto della sua creatura.
- Io, per me, sono contenta -.
E Raffaela levò gli occhi dolci di pecora, e rispose:
- Se siete contenta voi, mamma...
-
Le nozze si fecero senza tanto chiasso, perché compare Nanni Volpe non aveva fumi pel capo, e sapeva che a fare un tarì ci vogliono venti grani.
Pure non si dimenticarono i parenti più stretti ed i vicini; ci furono dolci del Monastero, e vino bianco.
Fra gli invitati c'erano anche quelli che sarebbero stati gli eredi di Nanni Volpe, poveri diavoli che s'empivano di roba, e si sarebbero mangiata cogli occhi anche la sposa.
Questa, impalata nel vestito di lana e seta, cogli ori al collo, badava già ai suoi interessi, l'occhio al trattamento, il sorrisetto della festa e una buona parola per tutti, amici e nemici.
Nanni Volpe, tutto contento, si fregava le mani, e diceva fra sé e sé:
- Se non riesce bene una moglie come questa vuol dire che non c'è più né santi né paradiso! -
E Carmine, suo cugino alla lontana, che lo chiamava zio per amor della roba, ed ora gli toccava anche mostrarsi amabile con lei che gli rubava il fatto suo, diceva alla zia, ogni manciata di confetti che abbrancava:
- Avessi saputo la bella zia che mi toccava!...
Vorrei pigliarmi gli anni e i malanni di mio zio, stanotte! -
Chiusa la porta, quando tutti se ne furono andati, compare Nanni condusse la sposa a visitare le stanze, il granaio, sin la stalla, e tutto il ben di Dio.
Dopo posò il lume sul canterano, accanto al letto, e le disse:
- Ora tu sei la padrona -.
Raffaela, che sapeva dove metter le mani, tanto gliene aveva parlato sua madre, chiuse gli ori nel cassetto, la veste di lana e seta nell'armadio; legò le chiavi in mazzo, così in sottanina com'era, e le ficcò sotto il guanciale.
Suo marito approvò con un cenno del capo, e conchiuse:
- Brava! Così mi piaci! -
Tutto andava pel suo verso.
Nanni Volpe badava alla campagna, duro come la terra, e sua moglie poi gli faceva trovare la camicia di bucato bella e pronta sul letto, quando tornava il sabato sera, la minestra sul tagliere, il pane a lievitare per l'altra settimana.
Teneva conto della roba che il marito mandava a casa: tanti tumoli di grano, tanti quintali di sommacco, tutto segnato nelle taglie, appese in mazzo a pié del crocifisso; buona massaia e col timor di Dio, a messa col marito la domenica e le feste, confessarsi due volte al mese, e il resto del tempo poi tutta per la casa, sino a far la predica al marito, se Carmine, il nipote povero, veniva a ronzargli intorno.
- Non gli date nulla, a quel disutilaccio, o se no, non ve lo levate più di dosso.
A lasciarli fare, i vostri parenti, vi mangerebbero vivo -.
E compare Nanni si fregava le mani, e rispondeva:
- Brava! Così mi piaci! -
Carmine alla fine aveva odorato da che parte soffiasse il vento, e s'era attaccato alla gonnella della zia per strapparle di mano qualche misura di fave, o qualche fascio di sarmenti, nell'inverno rigido che spaccava le pietre.
- Che ci avete un sasso lì nel cuore, per lasciar morire di fame il sangue vostro? Con tanto ben di Dio che ci avete in casa! Se voi volete, lo zio Nanni non dice di no.
- Io che posso farci? Lo sai che è lui il padrone -.
Poi un'altra volta:
- Almeno aveste dei figliuoli, pazienza! Ma cosa volete farne di tutta quella roba, quando sarete morti, marito e moglie?
- Se non abbiamo figliuoli, vuol dire che non c'è la volontà di Dio -.
Il giovinastro allora si grattava il capo, guardando la zia cogli occhi di gatto.
Un giorno, per toccarle il cuore, arrivò a dirle:
- Così bella e giovane come siete, è un vero peccato che non ci sia la volontà di Dio!
- O a te che te ne importa? -
Carmine ci pensò su un momento, e poi rispose, fregandosi le mani:
- Vorrei essere nella camicia dello zio Nanni, e vi farei vedere se me ne importa!
- Zitto, scomunicato! O lo dico a tuo zio, i discorsi che vieni a farmi, sai!
- Me lo date dunque cotesto fiasco di vino?
- Sì, per levarmiti dai piedi.
Non dir nulla a compare Nanni però -.
Carmine, finalmente, trovato ora il tasto che bisognava toccare, quando aveva bisogno di qualcosa, tornava a dire alla zia:
- Siete bella come il sole.
Siete grassa come una quaglia.
Il Signore non fa le cose bene, a dare il biscotto a chi non ha più denti -.
La zia Raffaela si faceva rossa dalla bile, lo sgridava come un ragazzaccio che era, e perché gli si levasse dinanzi gli metteva in mano qualche cosuccia.
Una volta gli lasciò andare anche un ceffone.
- Fate, fate, - disse Carmine, - ché dalle vostre mani ogni cosa mi è dolce.
- Non venirci più qui! Non mi far peccare a causa tua! Ogni volta, poi, mi tocca dirlo al confessore.
- Che male c'è? Son vostro nipote, sangue vostro.
- No, no, non voglio.
La gente parlerebbe, vedendoti sempre qui.
Poi, no, non voglio!
- Io ci vengo soltanto per vedervi.
Non vi domando più nulla, ecco.
Mi avete affatturato; è colpa mia? -
Un giorno, durante la raccolta, mentre Carmine aiutava a scaricare l'orzo nel granaio - Raffaela, che faceva lume, tutta rossa e in camiciuola anche lei - lo scellerato l'afferrò a un tratto pei capelli, come una vera bestia che era, e non volle lasciarla più, per quanto essa gli martellasse gli stinchi cogli zoccoli e gli piantasse le unghie in faccia.
- Per la santa giornata ch'è oggi!...
- sbuffava Carmine col fiato grosso.
- Stavolta non vi lascio, no! -
Raffaela, tutta scomposta, torva, col seno ansante che le rompeva la camiciuola, andava brancicando per trovare la lucerna caduta a terra, e balbettava, colle labbra ancora umide:
- M'hai fatto spandere dell'olio! Accadrà qualche disgrazia! -
Nanni Volpe, nel rompere il maggese, alle prime acque, aveva acchiappata una perniciosa.
- La terra che se lo mangiava finalmente - e il medico e lo speziale pure.
Raffaela, poveretta, si sarebbe meritata una statua, in quella circostanza.
Tutto il giorno in faccende col nipote, a far cuocere decotti e preparar le medicine pel malato.
Lui rimminchionito in fondo a un letto, pensando sempre ai denari che volavano via, e ai suoi interessi ch'erano in mano di questo e di quello - gli uomini che mangiavano e bevevano alle sue spalle e se ne stavano intanto nell'aia senza far nulla, ora che mancava l'occhio del padrone - il curatolo che gli rubava certo una pezza di formaggio ogni due giorni - la porta del magazzino che ci voleva la serratura nuova, tanto che il camparo doveva averci pratica colla vecchia.
- La notte non sognava altro che ladri e ruberie, e si svegliava di soprassalto, col sudore della morte addosso.
Una volta gli parve anche di udir rumore nella stanza accanto, e saltò dal letto in camicia, collo schioppo in mano.
C'erano davvero due piedi che uscivano fuori, di sotto il tavolone, e Raffaela in sottanino che s'affannava a buttarvi roba addosso:
- Al ladro, al ladro! - si mise a gridare Nanni Volpe, frugando sotto la tavola colla canna dello schioppo.
- Non mi uccidete, ché sono sangue vostro! - balbettò Carmine rizzandosi in piedi, pallido come la camicia, e Raffaela, facendosi il segno della croce, brontolava:
- L'avevo ben detto, che l'olio per terra porta disgrazia! -
Poscia, spinto fuori dell'uscio Carmine più morto che vivo, e ancora mezzo svestito, Raffaela si mise attorno al suo marito, coi beveroni, col vino medicato, per farlo rimettere dallo spavento, scaldandogli i piedi col fiasco d'acqua calda, rincalzandogli nella schiena la coperta; - Lei non sapeva, in coscienza, come si fosse ficcato lì quel ragazzaccio.
Gli aveva detto, è vero, in prima sera, di aiutarla a cavar fuori il bucato; ma credeva che a quell'ora se ne fosse già andato da un pezzo.
Nanni, rammollito dal letto e dalla malattia, lasciava dire e lasciava fare.
Però, testa fina di villano, col naso sotto il lenzuolo, pensava ai casi suoi e al modo di levare i piedi da quel pantano, senza lasciarci le scarpe.
- Senti, - disse alla moglie appena giorno.
- Ho pensato di far testamento.
- Che malaugurio vi viene in mente adesso?
- No, no, figliuola mia.
Ho i piedi nella fossa.
Mi son logorata la pelle per far la roba, e voglio aggiustare i conti prima di lasciar la fattoria.
- Almeno si può sapere che intenzioni avete?
- Quanto a questo sta' tranquilla.
Sai come dice il proverbio? "L'anima a chi va e la roba a chi tocca".
- Dio vi terrà conto del bene che mi avete fatto e che mi fate! - rispose Raffaela intenerita.
- Mi avete presa nuda e cruda come un'orfanella, e anch'io vi ho rispettato sempre come un padre.
- Sì, sì, lo so, - accennò il marito, e la nappina del berretto che accennava di sì anch'essa.
Volle pure confessarsi e comunicarsi, per essere in pace con Dio e cogli uomini, quando il Signore lo chiamava.
Mandò a cercare persino suo nipote, e gli disse:
- Bestia, perché sei scappato? Avevi paura di me, che sono il sangue tuo? -
Carmine, come un baccellone, non sapeva che rispondere, dondolandosi or su una gamba e ora sull'altra, col berretto in mano.
- Rimetti il tuo berretto, - conchiuse lo zio Nanni.
- Qui sei in casa tua, e puoi venirci quando vuoi.
Anzi sarà meglio, per guardarti i tuoi interessi -.
E come l'altro spalancava gli occhi di bue:
- Sì, sì, va' a chiederlo al notaro il testamento che ho fatto, ingrataccio! "L'anima a Dio e la roba a chi tocca" -.
Allora Raffaela saltò su come una furia:
- L'anima la darete al diavolo! Come un ladro che siete! Sì, un ladro! Perché vi ho sposato dunque?
- Questo è un altro affare - rispose Nanni spogliandosi per tornare a letto - un altro affare che non può aggiustarsi, al caso, come un testamento.
- Ohè! - gridò Carmine affrontando la zia, che voleva slanciarsi colle unghie fuori.
- Ohè! non toccate mio zio! O vi tiro il collo come una gallina -.
Raffaela uscì di casa inferocita, giurando che andava a citare suo marito dinanzi al giudice per avere il fatto suo, e voleva farlo morir solo e arrabbiato come un cane.
- Non importa! - disse Carmine, il nipote.
- Se mi volete, ci resto io a curarvi che sono sangue vostro.
- Bravo! - rispose Nanni.
- E ti guarderai i tuoi interessi pure -.
Però Raffaela in casa della mamma fu accolta come un cane che viene a mangiare nella scodella altrui.
- Non hai la tua casa adesso? Non sei già maritata? Che vuoi qui? -
Essa voleva almeno gli alimenti dal marito.
Ma Nanni Volpe sapeva il codice meglio di un avvocato.
- L'ho forse cacciata via di casa? - rispose al giudice.
- La porta è aperta, se vuol tornare, lei -.
Carmine badava a dirgli che faceva uno sbaglio grosso a mettersi di nuovo la moglie in casa con quell'odio che doveva covar lei, che un giorno o l'altro l'avrebbe avvelenato per levarselo dinanzi.
- No, no, - rispose lo zio col suo risolino d'uomo dabbene.
- Il testamento è in favor tuo, e se mi avvelena non ci guadagna nulla.
Anzi! - Si grattò il capo a pensare se dovesse dirla, e infine se la tenne per sé, ridendo cheto cheto.
Infine Raffaela tornò a casa sottomessa come una pecora.
L'accompagnò la mamma Sènzia e gli altri parenti.
- Nulla nulla.
Son cose che succedono fra marito e moglie; ma ora la pace è fatta, e vedrete come vostra moglie si ripiglia il cuore che gli avete dato, compare Nanni.
- Io non gliel'ho tolto, - rispose Nanni Volpe.
- E non voglio toglierle nulla, se lo merita -.
Raffaela per meritarselo si fece buona ed amorevole che non pareva vero, sempre intorno al marito, a curarlo, a prevenire ogni suo desiderio e ogni malanno.
Il vecchio le diceva:
- Fai bene, fai bene.
Perché se mi accade una disgrazia prima che io abbia avuto il tempo di rifare il testamento, è peggio per te -.
E si lasciava cullare e lisciare, e mettere nel cotone, e ci stava come un papa.
- Un giorno o l'altro, - tornava a dire, - se il Signore mi dà tempo, voglio rifare il testamento.
Ho lavorato tutta la vita; ho fatto suola di scarpe della mia pelle; ma ora ho il benservito.
Tutto sta ad avere il giudizio per procurarsi il benservito -.
Il solo fastidio che gli fosse rimasto, in quella beatitudine, erano le liti continue fra Carmine e la zia.
Strilli e botte da orbi tutto il giorno, e non poteva neppure alzarsi per chetarli.
Alle volte Raffaela compariva tutta arruffata, sputando fiele, col sangue che le colava giù dal naso, mostrando gli sgraffi e le lividure:
- Guardate cosa m'ha fatto, quell'assassino!
- Ehi, ehi, Carmine, cosa le hai fatto a tua zia, birbante?
- Perché non lo cacciate via a pedate quel fannullone?
- Eh, eh, bisogna averci un uomo in casa, ora che sono inchiodato al letto.
- Vedrete! vedrete! Un giorno o l'altro vi fa fare la morte del topo, per non lasciarvi il tempo di rifare il testamento.
Vi dà il tossico, com'è vero Dio!
- O tu che ci stai a fare allora, se non mi guardi la pelle e i tuoi interessi? -
Sempre quell'affare del testamento, che Carmine n'era contento, così come gli aveva detto lo zio, e la moglie no; e Nanni Volpe fra i due non trovava modo di rifarlo, diceva ogni volta che si sentiva peggio; sicché Raffaela, al veder che se ne andava di giorno in giorno, ormai tutto una cosa gialla col berretto di cotone, si mangiava il fegato dalla bile, e si sentiva male anche lei, tanto che infine glielo disse chiaro e tondo in faccia a Carmine stesso, il quale stava imboccando lo zio col cucchiaio in una mano e reggendogli il capo coll'altra.
- Fate bene a tenervi così caro il sangue vostro, perché non sapete il bel servizio che v'ha reso vostro nipote! -
Carmine voleva romperle sul muso la scodella e il candeliere; ma il vecchio, agitando due o tre volte adagio adagio il fiocco del berretto, disse:
- Sì, sì, lo so -.
Così se ne andò all'altro mondo, pian pianino e servito come un principe.
Quando Carmine volle cacciar via a pedate Raffaela dalla casa, che oramai doveva esser di lui solo, fece aprire il testamento, e si vide allora quant'era stato furbo Nanni Volpe, che aveva canzonato lui, la moglie e anche Cristo in paradiso.
La roba andava tutta all'ospedale, e zia e nipote s'accapigliarono per bene, stavolta, dinanzi al notaro.
QUELLI DEL COLÈRA
Il colèra mieteva la povera gente colla falce, a Regalbuto, a Leonforte, a San Filippo, a Centuripe, per tutto il contado - e anche dei ricchi: il parroco di Canzirrò, ch'era scappato ai primi casi, e veniva soltanto in paese per dir messa a sole alto, l'aveva pigliato nell'ostia consacrata: a don Pepè, il mercante di bestiame, gliel'aveva dato invece in una presa di tabacco, alla fiera di Muglia, un sensale forestiero - per conchiudere il negozio - diceva lui.
Cose da far rizzare i capelli in testa! Avvelenata persino la fontana delle Quattro Vie; bestie e cristiani vi restavano, là! a Rosegabella, venti case, un bel giorno era capitato il merciaiuolo, di quelli che vanno in giro colle scarabattole in spalla, e quanti misero il naso fuori per vedere, tanti ne morirono, fin le galline.
Ciascuno badava quindi ai casi propri, collo schioppo in mano, appiattato dietro l'uscio, accanto la siepe, bocconi nel fossatello, per le fattorie, nei casolari, da per tutto.
Quelli di San Marino s'erano anche armati, uomini e donne.
Volevano morir piuttosto di una schioppettata, o d'altra morte che manda Dio.
Ma il colèra, no, non lo volevano!
Nonostante, lo scomunicato male andavasi avvicinando di giorno in giorno, tale e quale come una creatura col giudizio, che faccia le sue tappe di viaggio, senza badare a guardie e a fucilate.
Oggi scoppiava a Catenavecchia, il giorno dopo si sentiva dire che era alla Broma, cinque miglia soltanto da San Marino.
Una povera donna gravida di sei mesi, per aver aiutato certa vecchia che l'era caduto l'asino dinanzi alla sua porta, e fingeva di piangere e disperarsi, era stata presa da dolori quasi subito, ed era morta, lei e il bambino: sangue d'innocente che grida vendetta dinanzi a Dio!
La sera, da quelle parti, chi aveva il coraggio di arrischiarsi sino in cima alla salita, vedeva dietro la china che nasconde il paesetto i fuochi e i razzi avvelenati che sembravano quelli della festa del santo patrono, tutti col capitombolo verso San Martino, e il domani poi si trovavano le macchie d'unto per terra e lungo i muri; qua e là si sussurrava dei rumori strani che si udivano la notte: gatti che miagolavano come in gennaio, tegole smosse quasi tirasse il maestrale, gente che aveva udito bussare all'uscio dopo la mezzanotte - nientemeno - e dei carri che passavano per le stradicciuole più remote, come delle macchine asmatiche che andavano strascinandosi di porta in porta, soffiando e sbuffando, il Signore ce ne scampi e liberi!
Il venerdì, verso mezzogiorno, Agostino, quello delle lettere, era tornato dal rilievo della Posta colla borsa vuota e tutto stravolto.
Sua moglie, poveretta, al vederlo con quel viso, si cacciò le mani nei capelli: - Che avete fatto, scellerato? Dove l'avete preso tutto quel male in un momento? - Egli non sapeva dirlo.
Laggiù, arrivato al ponte, s'era sentito stanco tutt'a un tratto, e s'era seduto un momento sul parapetto.
Prima di lui c'era seduto un viandante, il quale si asciugava il sudore con un fazzoletto turchino.
- Don Domenico, il fattore, l'aveva predicato tante e tante volte, di badare sopra tutto a certe facce nuove che andavano intorno, per le vie, e nelle chiese perfino! (Potevate sospettarlo, nella casa di Dio?) Cavavano fuori il fazzoletto, finta di soffiarsi il naso, e lasciavano cadere certe polverine invisibili, che chi ci metteva il piede sopra poi, per sua disgrazia, era fatta!
Il giorno stesso, a precipizio, chi aveva qualche cosa da portar via, e un buco dove andare a rintanarsi, in una grotta, fra le macchie dei fichidindia, nelle capannucce delle vigne, era fuggito dal villaggio.
Avanti il somarello, con quel po' di grano o di fave, il cesto delle galline, il maiale dietro, e poi tutta la famiglia, carica di roba.
Quelli che erano rimasti, i più poveri, da principio avevano fatto il diavolo, minacciando di sfondar le porte chiuse, e bruciare le case dei fuggiaschi; poscia erano corsi a tirar fuori dal magazzino tutti i santi del paese, come quando si aspetta la pioggia o il bel tempo, l'Addolorata, coi sette pugnali di stagno, san Gregorio Magno, tutto una spuma d'oro, san Rocco miracoloso che mostrava col dito il segno della peste, sul ginocchio.
All'ora della benedizione, nel crepuscolo, quelle statue ritte in cima all'altare buio, facevano arricciare i peli ai più induriti peccatori.
Si videro delle cose allora da far piangere di tenerezza gli stessi sassi: Vito Sgarra che si divise dalla Sorda, colla quale viveva in peccato mortale da dieci anni; padre Giuseppe Maria a far la croce sul debito degli inquilini che proprio non potevano pagarlo; Angelo il Ciaramidaro andare a messa e a comunione come un santo, senza che gli sbirri gli dessero noia, e la notte dormire tranquillo nel suo letto, colla disciplina irta di chiodi e insanguinata al capezzale, accanto allo schioppo carico che ne aveva fatte tante.
Misteri della Grazia! come diceva il predicatore.
Tutta la notte, in fondo alla piazzetta, si vedeva la finestra della chiesa illuminata che vegliava sul villaggio, e di tratto in tratto udivasi martellare la campana, alla quale rispondeva da lontano una schioppettata, poi un'altra, poi un'altra - una fucilata che non finiva più, pazza di terrore, e si propagava per le fattorie, pei casolari, per le ville, per tutta la campagna circostante, dove i cani uggiolavano, sino all'alba.
La domenica mattina, spuntava appena l'alba, si vide una cosa nuova nel Prato della Fiera, appena fuori del villaggio.
Era come una casa di legno, su quattro ruote, con certe figuracce brutte dipinte sopra, e lì vicino un vecchio carponi, che andava cogliendo erbe selvatiche.
I cani avevano dato l'allarme tutta la notte, e quello del maniscalco, che stava da quelle parti, non s'era dato pace, quasi avesse il giudizio!
- Eccolo lì, povera bestia! gli manca solo la parola! -
Il maniscalco raccontava a tutti la stessa cosa, via via che andavasi facendo gente dinanzi alla bottega.
La gente guardava il cane, guardava la baracca, e scrollava il capo.
Dirimpetto, sugli scalini della croce in campo alla strada, c'erano altri in crocchio che guardavano, e parlavano sottovoce fra di loro, col viso scuro.
Dal muro del cimitero spuntava lo schioppo di Scaricalasino, malarnese, che accennava a tre o quattro altri suoi compagni della stessa risma, lontan lontano, verso la Broma, e poi verso Catenanuova, con gran gesti neri al sole.
Dal ballatoio della gnà Giovanna suo marito chiamava gente anche lui, in fondo alla piazza, agitando le braccia in aria.
- Quello! Quello! - gridavasi da un crocchio all'altro.
E il vecchio carponi era corso a rintanarsi.
Sul finestrino del carrozzone era passata una figura scarna di donna, coi capelli scarmigliati; poi s'erano uditi strilli di ragazzi e pianti soffocati.
Dalla strada principale giungevano il farmacista, il Capo Urbano, le guardie, col giglio sul berretto e grossi randelli in mano.
La folla dietro, come un torrente, mormorando, uomini torvi, donne col lattante al petto.
Da lontano, verso San Rocco, la campana sonava sempre a distesa.
Don Ramondo, colle mani e colla voce andava dicendo alla folla: - Largo, largo, signori miei! Lasciatemi vedere di che si tratta -.
Poi sgusciarono dentro il baraccone tutti e due, lui e il Capo Urbano; le guardie sbatterono l'uscio sul naso ai più riottosi.
Ci fu un po' di parapiglia, un po' di schiamazzo, qualche pugno sulla faccia.
Infine il farmacista e il Capo Urbano ricomparvero vociando tutti e due che non era nulla, il Capo Urbano sventolando un foglio di carta in aria, don Ramondo sgolandosi a ripetere: - Niente! Niente! Son poveri commedianti che vanno intorno per buscarsi il pane.
Poveri diavoli morti di fame -.
La folla nonostante li seguiva mormorando e accavallandosi come un mare.
Sulla piazza il Capo Urbano fece anche lui il suo discorsetto: - Via! via! State tranquilli.
Sono o non sono il Capo Urbano? - Poi infilò l'uscio della farmacia con don Ramondo.
La folla cominciò a diradarsi.
Alcuni andarono a casa, a contar la notizia; altri, siccome il sagrestano si slogava sempre a sonare a messa, entrarono in chiesa.
Qualcheduno, più ostinato, ritornò verso il Prato della Fiera.
Quei poveri diavoli di comici, che si tiravano dietro la loro casa al par della lumaca, passato il temporale, tornarono a metter fuori le corna ad uno ad uno, appunto come fa la lumaca.
Il vecchio aveva sciorinato all'uscio un gran cartellone dipinto.
La moglie, con un tamburo al collo, chiamava gente; i ragazzi, camuffati da pagliacci, facevano mille buffonerie, e la giovinetta, colle gambe magre nella maglie color di carne fresca, un fiore di carta nei capelli, il gonnellino più gonfio di una bolla di sapone, le braccia e le spalle nere fuori dal corpetto di seta stinta, soffiava nella tromba, col poco fiato del suo petto scarno.
Pure era una novità pel paese, e i giovinastri correvano a vedere, spingendosi col gomito.
Inoltre i comici avevano altri richiami per il pubblico: un cardellino che dava i numeri del lotto; il ronzino che contava le ore, e indovinava gli anni degli spettatori colla zampa; un ragazzo che camminava sulle mani, portando in giro, stretto fra i denti, il piattello per raccogliere la buona grazia.
Quando si era fatta un po' di gente, calavano il tendone un'altra volta, e rientravano tutti a rappresentare la commedia coi burattini, la donna col tamburone al collo, gridando sempre dalla piattaforma: - Avanti, signori! Avanti, che comincia! - Si pigliava alla porta quel che si poteva: un baiocco, delle fave, qualche manciata di ceci anche.
I ragazzi gratis.
Fino alla sera, tardi, ci fu ressa dinanzi alla baracca, sotto il gran lampione rosso che chiamava gente da lontano.
Amici e conoscenti si vociavano da un capo all'altro del Prato della Fiera; si scambiavano i frizzi salati e le parolacce come dentro avevano fatto Pulcinella e la Colombina.
Nessuno pensava più al castigo di Dio che avevano addosso.
Ma la notte - ci volevano più di due ore alla messa dell'alba - tac tac, vennero a chiamare in fretta lo speziale.
- Presto, alzatevi, don Ramondo, ché dai Zanghi hanno bisogno di voi! - Il poveraccio non riusciva a trovare i calzoni al buio, in quella confusione.
Zanghi, steso sul letto, freddo, colla barba arruffata, andava acchiappando mosche, colle mani fuori del lenzuolo, le mani nere, gli occhi in fondo a due buchi della testa.
Sua moglie seminuda, coi capelli sulle spalle, tutta gonfia e arruffata anche lei come una gallina ammalata, correva per la stanza, cercando di aiutarlo senza saper come, coi figliuoli che le strillavano dietro.
- Dottore! dottore! Cos'è? che ve ne pare? - Don Ramondo non diceva nulla: guardava, tastava, versava la medicina nel cucchiaio, colle mani tremanti, la boccetta che urtava ogni momento nel cucchiaio, e faceva trasalire al tintinnìo.
E il malato pure, colla voce cavernosa, che sembrava venire dal mondo di là, balbettando: - Don Ramondo! Don Ramondo! Che non ci sia più aiuto per me? fatelo per questi innocenti, ché son padre di famiglia! - Poi, come s'irrigidì, colla barba in aria, e i figliuoli si misero ad urlare più forte, aggrappandosi alle coperte di lui che non udiva, don Ramondo prese il suo cappello, e la donna gli corse dietro in sottana com'era, colle mani nei capelli, gridando aiuto per tutto il vicinato.
Spuntava l'alba serena nel cielo color di madreperla; alla chiesa, lassù, si udiva sonare la prima messa.
Per le stradicciuole ancora buie si udiva uno sbatter d'usci, un insolito va e vieni, un mormorio crescente.
Sull'angolo della piazza, nel caffè di Agostino il portalettere buon'anima, avevano dimenticato il lume acceso, nella bottega vuota, i bicchieri ancora capovolti nel vassoio, e dinanzi all'uscio c'era un crocchio di gente che discuteva colla faccia accesa.
Neli, il maggiore dei figliuoli, sporgeva il capo di tanto in tanto fra le tendine dello scaffale, più pallido del suo berretto da notte, cogli occhi gonfi, per vedere se qualcuno venisse a prendere il rum o l'acquavite.
E a tutti coloro che l'interrogavano dall'uscio, senza osare di entrare, rispondeva quasi sempre scrollando il capo: - Così! Sempre la stessa! - Poi si vide uscire dalla parte del vicoletto la ragazzina che andava correndo dal sagrestano per le candele benedette.
Ogni momento giungeva qualcheduno che veniva dalla casa di Zanghi, e aveva visto dall'uscio spalancato il letto in fondo alla camera, col lenzuolo disteso, le candele accese al capezzale e i figliuoli che piangevano.
Altri portavano altre brutte notizie.
- Il Capo Urbano che stava imballando le materasse; il farmacista che tardava ad aprire la bottega.
La folla cominciava ad ammutinarsi a misura che cresceva.
- Cristiani del mondo! Che ci vogliono far morire davvero come bestie nella tana! -
Uno, colla faccia stralunata, raccontava come Zanghi avesse acchiappato il male, nella baracca dei commedianti.
L'aveva visto lui, coi suoi occhi, il vecchio che lo tirava per la falda del vestito perché gli pareva che volesse passare a scappellotto.
- Anche comare Barbara! che pur non si era mossa di casa! - E quell'infame Capo Urbano che andava dicendo: - Non è nulla, non è nulla -, e mostrava la carta bianca! Quella era la carta del Sotto Intendente che ordinava di lasciar spargere il colèra! Ah! volevano proprio farli morire come bestie nella tana, cristiani di Dio!
Tutt'a un tratto si udirono dietro lo scaffale delle grida: - Mamma! mamma! - e delle grida di dolore disperate.
Neli irruppe nella bottega urlando come una bestia feroce, coi pugni sugli occhi.
Un parente corse lesto lesto a chiudere gli scaffali, per tutta quella gente che s'affollava nella bottega e nessuno poteva tenerla d'occhio.
Allora la folla, quasi fosse corsa una parola d'ordine, si mosse tutta come una fiumana, gridando e minacciando.
Un'anima buona si mise le gambe in spalla, e corse per le scorciatoie dal Capo Urbano, a dirgli che scappasse.
Ma il poveraccio, da un bel pezzo, fiutando come si mettevano le cose, aveva infilato l'usciolo dell'orto, carponi fra le viti, e preso il volo pei campi.
Quelli del baraccone stavano facendo cuocere quattro fave, a ridosso del muricciuolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia.
A un tratto udirono gridare: - Dàlli! dàlli! - e videro la folla inferocita che correva per sbranarli.
- Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! - Il vecchio annaspava colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna copriva i figlioletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria.
Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue.
Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte.
- No! no! non li ammazzate ancora! Vediamo prima se sono innocenti! vediamo prima se portano il colèra! - C'erano pure delle anime buone in quella ressa.
- Ma gli altri non volevano intender ragioni: Neli di comare Barbara, che gli sanguinava il cuore dall'angoscia, Scaricalasino che aveva visto coi suoi occhi Zanghi stecchito sotto il lenzuolo, massaro Lio che si sentiva già i dolori di ventre addosso.
In un attimo la baracca fu tutta sottosopra: i burattini, gli scenari, i cenci, la poca paglia fradicia dei sacconi.
Poi, dopo che non ebbero più dove frugare, fecero un mucchio d'ogni cosa, e vi appiccarono il fuoco.
- Bravo! E adesso come farete a scoprire se portavano il colèra? - gridarono alcuni.
Ma il povero capocomico non sentiva e non badava più a nulla, né le grida di morte, né le falci, né le scuri; pallido e stravolto, col sangue giù per la faccia, i capelli irti, gli occhi fuori della testa, voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani, urlando che lo rovinavano, che gli toglievano il suo pane, strappandosi i capelli dalla disperazione, in mezzo alla famigliuola tutta pesta e malconcia, scampata per miracolo alla strage.
- Meglio, meglio che ci avessero uccisi tutti! - Neppure il colèra li aveva voluti, da per tutto dove l'avevano incontrato, stanchi ed affamati.
Ancora, dopo cinquant'anni, Scaricalasino, il quale è diventato un uomo di giudizio, dice a chi vuol dargli retta, che il colèra ci doveva essere, nel baraccone.
Peccato che lo bruciarono! Quelli erano bricconi che andavano attorno così travestiti per non dar nell'occhio, e buscavano centinaia d'onze a quel mestiere.
Dove avevano saputo far le cose bene era stato a Miraglia, un paesetto mangiato dal colèra e dalla fame, il giorno in cui s'erano viste lì pure certe facce nuove per la via dove da un mese non passava un cane, e la povera gente, senza pane e senza lavoro, aspettava il colèra colle mani in mano.
Anche costoro mostravano di essere dei viandanti rifiniti dal lungo viaggio, come una famigliuola di zingari: l'uomo che si dava per calderaio, la moglie che diceva la buona ventura, la figlia, una bella bruna, la quale doveva averne fatte molte, così giovane com'era, e portava attaccato al petto cascante un bambino affamato e macilento.
Dei suoi diciotto anni non le erano rimasti che due grandi occhi neri, degli occhi scomunicati che vi mangiavano vivo.
Anch'essi si portavano dietro tutta la loro casa in un carretto sconquassato, coperto da una tenda a brandelli, che veniva avanti traballando, tirato da un somarello sfinito.
Siccome la popolazione si era commossa al loro apparire, e minacciava, il sindaco accorse anche qui colle guardie, armate sino ai denti, gridando da lontano: - Via! via! - come si fa ai lupi.
Loro a ripeter la commedia che venivano da lontano, che li avevano scacciati da ogni dove, che erano affamati, e preferivano li uccidessero a schioppettate.
Allora, per non saper che fare, temendo di accostarsi per paura del colèra, li lasciarono lì, fuori del paese, guardati a vista come bestie pericolose.
Nessuno chiuse occhio, quella notte, la vigilia di San Giovanni, che c'era un chiaro di luna come di giorno.
Tutt'a un tratto, coloro che stavano a guardia, nascosti dietro il muro, videro lo zingaro che s'era avventurato carponi sino alle prime case, razzolando in un mondezzaio.
Colà l'uccisero di una schioppettata, senza dirgli neppure: - guàrdati! - Dopo gli trovarono un torsolo di cavolo che ci aveva ancora in pugno, e il petto della camicia tutto gonfio di bucce e frutta marcia.
Al rumore, alle grida che si udivano da lontano, tutto il paese fu in piedi subito, e la caccia incominciò.
La vecchia fu raggiunta all'argine del fossatello, barcollando sulle gambe stecchite.
La giovane dinanzi al carretto, che voleva difendere la sua creatura, come succede anche alle bestie, con certi occhi che facevano paura, e cercava di afferrare le scuri per aria, colle mani insanguinate.
Dopo, frugando fra i cenci della carretta, si disse che avevano scovato le pillole del colèra e ogni cosa.
Ma quegli occhi più d'uno non poté dimenticarli.
E ancora, dopo cinquant'anni, Vito Sgarra, che aveva menato il primo colpo, vede in sogno quelle mani nere e sanguinose che brancicano nel buio.
Però, se erano davvero innocenti, perché la vecchia, che diceva la buona ventura, non aveva previsto come andava a finire?
LACRYMAE RERUM
Alla finestra dirimpetto, si vedeva sempre il lume che vegliava, la notte - le lunghe notti piovose d'inverno, e quando la luna di marzo, ancora fredda, imbiancava la facciata della casa silenziosa.
La stanza era gialla, con una meschina tenda di velo appesa alla finestra.
A volte vi apparivano dietro delle ombre nere, che si dileguavano rapidamente.
Ogni sera, alla stessa ora, si vedeva passare un lume di stanza in stanza, sino alla camera gialla, dove la luce si avvivava intorno a un letto bianco circondato dalle stesse ombre premurose.
Indi la casa tornava scura e sembrava deserta, nel gran silenzio della via.
Solamente, allorché vi saliva lo schiamazzo notturno di un ubbriaco, o il passaggio di una carrozza faceva tremare i vetri nelle finestre, una di quelle ombre tacite e dolorose si affacciava a spiare nella via, e poi si dileguava.
Di giorno tutte quelle finestre chiuse sembravano quasi misteriose.
Al balcone della camera gialla c'era un vaso di garofani che morivano di incuria, spioventi sul muro umidiccio, agitati dal vento perennemente.
Verso il tramonto si fermava dinanzi alla porta un legnetto, che dei visi pallidi stavano ad attendere ansiosamente dietro i vetri; s'intravedeva un affaccendarsi per le stanze, e il lume che si accendeva anche di giorno nella camera solitaria.
L'ultima visita che fece il legnetto nella stradicciuola solitaria fu più breve delle altre.
Un vecchio dai capelli bianchi, col piede sul montatoio, scrollava pietosamente il capo, rispondendo a una giovinetta che le era scesa dietro supplichevole sino alla porta, colle mani giunte e il viso disfatto; anch'essa diceva di sì col capo, macchinalmente, cogli occhi sbarrati e quasi pazzi in quelli del vecchio.
Poi quando egli fu partito, si celò il viso nel fazzoletto e rientrò nell'andito.
Era una sera di primavera, tepida e dolce.
Dalla strada saliva la canzone nuova, e il chicchierìo delle ragazze innamorate, nel plenilunio d'aprile.
Al primo piano della casa, dietro una ricca tenda di broccato, si udiva sonare il valzer di Madama Angot.
Più tardi, per la via deserta si udì una squilla, lo scalpiccìo e il borbottare dei fedeli che accompagnavano il viatico; s'affacciarono i vicini, alcuni ginocchioni, col lume in mano, e la folla s'ingolfò sotto la porta spalancata a due battenti, fra due file di lanterne che andavano balzelloni.
Tutte le finestre del quartierino desolato si illuminarono per la prima volta, dopo tanto tempo, per l'ultima solennità, mentre la folla degli estranei ingombrava la casa, con un luccichìo tremolante di ceri, nella camera gialla.
E dopo che tutti quanti furono partiti, la casa rimase sempre illuminata e deserta, quasi per una lugubre festa.
Vi si vedeva solo di tanto in tanto il passaggio delle solite ombre che correvano all'impazzata, in un affaccendarsi disperato.
Nel silenzio alto dell'ora tarda, dietro quei vetri lucenti sulla facciata bianca di luna, sembravano correre delle invocazioni deliranti, dei singhiozzi soffocati, delle braccia supplichevoli stese verso il cielo sereno.
Un usignolo si mise a cantare all'improvviso da un terrazzino tutto verde di pianticelle odorose, nel silenzio della luna alta, dimenticando forse in quell'ora la sua prigione, pei cespugli del bosco nativo.
Di quarto d'ora in quarto d'ora l'orologio squillava lentamente, dall'alto della torre.
La quiete greve della notte cadeva lenta anche su quella casa desolata.
Il lume vegliava sempre tristamente nella camera silenziosa.
Solo le ombre desolate si agitavano più frettolose e più smarrite, e nell'angolo dove ogni sera si ravvivavano i lumi, luccicavano adesso due fiammelle funebri.
Verso la mezzanotte si era udito bussare alla porta, e per le stanze si era notato un via vai.
Poi tutto si era raccolto in quell'attesa sconfortata.
La luna ora lambiva il pavimento, mentre i lumi si spegnevano.
La brina sgocciolava ghiacciata sui vetri.
A un tratto, in quella semioscurità, nacque un correre affannato, un affaccendarsi di gente smarrita, colle mani nei capelli, uno sbattere d'usci.
Poi la camera gialla si illuminò vivamente sulla facciata di tutta la casa nera.
L'alba imbiancava pallida e piovigginosa; allora si vide per la prima volta, dopo tanto tempo, la finestra della camera gialla spalancata, e le due candele che ardevano immobili al capezzale del letto bianco.
Più tardi vennero degli estranei che andavano e venivano per la stanza, indifferenti, col cappello in capo.
Uno che fumava un sigaro alla finestra, si chinò a fiutare il garofano rugginoso che penzolava; aveva una faccia pallida da malato o da prigioniero, colle gote azzurrognole di una folta barba accuratamente rasa.
Di poi quella finestra rimase chiusa e buia la notte; e le altre accanto si aprirono ogni mattina a lasciare entrare l'estate che veniva.
E la sera perfino vi si affacciavano timidamente delle giovanette vestite di nero, che ascoltavano in silenzio la canzone nuova, il suono del pianoforte di sotto, e il chiacchiericcio dei vicini.
Una mattina di settembre si videro tutte le finestre spalancate, e le stanze vuote, anche quella gialla, che si era spogliata delle meschine tende bianche, e mostrava una gran macchia di un giallo più carico al posto del letto che non c'era più.
Quelle povere masserizie erano sgomberate silenziosamente nella notte, coll'umile famigliuola timida.
Una vecchia serva venne a pigliare il vaso di garofani, mentre il padrone di casa andava guardando per ogni dove coi muratori, gridando e bestemmiando.
Egli additava le macchie della vecchia tappezzeria gialla, e i mattoni rotti del pavimento, sputando pel disgusto su quei guasti: tanto che la vecchierella se ne andò a capo chino, portandosi sotto lo scialle il vaso di garofani come una reliquia.
I muratori si misero a scrostare e martellare da per tutto.
E da mattina a sera udivasi la sega del falegname che strideva.
Nell'ultima camera avevano alzato un gran ponte, e attraverso quei trespoli si vedevano pendere i brandelli della carta gialla.
Dopo vennero pittori tappezzieri, e le persone ch'erano sloggiate un mese prima non avrebbero ritrovato più le memorie delle loro ore d'angoscia in quelle stanze tappezzate di nuovo e ridenti.
Il lume vegliava un'altra volta sino a notte tarda nell'antica camera gialla, dietro le tende di trina foderate di seta celeste; ma le due ombre che si vedevano sempre accanto, cercandosi, correndosi dietro, si confondevano con molli ondulazioni, si univano in una sola; e la mattina si vedeva pure qualche volta una testolina bionda e rosea, che sollevava la tendina allato a una testa bruna e sorridente.
Nella sala attigua, sotto un grande specchio dorato che rifletteva la luce di una lumiera velata da un paralume color di rosa, si udivano alle volte le note allegre di un pianoforte, nello scrosciare della pioggia notturna.
Quando giunse la primavera, e l'usignolo tornò a cantare fra il verde del terrazzino, e le ragazze al lume di luna, i due innamorati presero il volo come due farfalle, e non si videro più.
Al settembre la casa mutò d'aspetto, e nella camera azzurra venne a stare un gran letto matrimoniale, che tutte le mattine prendeva aria onestamente dalla finestra spalancata.
La casa risonò da mattina a sera del gridìo dei bimbi, e degli strilli del neonato che la mamma allattava a piè del letto.
Il marito tornava la sera stanco, colla faccia disfatta, e litigava tutto il tempo colla moglie e coi figliuoli.
Poi rimaneva a scartabellare dei conti sulla tavola sparecchiata, sino ad ora tarda, colla fronte fra le mani, sotto il lume che agonizzava.
La mattina usciva a buon'ora col passo frettoloso.
Di tanto in tanto si udiva una scampanellata furiosa in anticamera, e la madre correva a chiudersi in camera, facendo segno al suo ragazzo di dire che non c'era, coll'indice sulle labbra.
Il bimbo tornava, dopo un lungo ciangottare, a parlar colla mamma, la quale riaffacciava la testa allo sbattere violento della porta che faceva tintinnare il campanello, e l'uomo che se ne era andato così in collera, si fermava in mezzo alla strada, a spiare la finestra chiusa.
Alle volte la povera donna era costretta a mostrarsi, per calmare il visitatore che non voleva sentir ragione, giungendo le mani in croce, con gran gesti che volevano esser creduti.
Tutte le finestre spalancate lasciavano diffondersi pel vicinato indifferentemente pianti di bimbi e liti di genitori.
Un giorno, verso mezzodì, venne un vecchietto col cappello bisunto e un fascio di cartacce in mano, seguìto da due uomini malvestiti, i quali si misero a frugare dappertutto, scrivendo dei fogliacci in fretta.
La famigliuola li seguiva di stanza in stanza tristamente.
La roba fu portata via, alcuni giorni dopo, e delle poche masserizie rimaste caricarono un carro, e se ne andarono dietro a quello, il padre prima, coll'ombrello sotto il braccio, e la moglie dietro coi bambini in coda e il poppante al collo, senza neppure voltarsi a guardare quelle finestre che rimasero spalancate notte e giorno, per mesi e mesi, come se il padrone avesse voluto farne svaporare il tanfo di miseria che vi era rinchiuso.
Poi vi tornarono dei mobili eleganti, e delle stoffe ricche appese alle finestre.
Non vi si udirono più né strilli né schiamazzi; ma un silenzio beato dappertutto; i lumi sembrava s'accendessero da sé, fin nella camera azzurra che aveva una luce velata d'alcova.
Non vi si vedeva nessuno; soltanto a notte alta, una testa che faceva capolino timidamente, e guardava nella via, socchiudendo adagio adagio le persiane; e la luce che passava fra le stecche ne indorava i capelli biondi, e si stampava sul muro della casa dirimpetto in strisce lucenti, come un faro.
Dopo alcuni minuti un passo frettoloso e guardingo si udiva nella via, l'ombra della testa bionda appariva rapidamente dietro le persiane, e la finestra si chiudeva.
Una sera, nell'alto silenzio, squillò all'improvviso una scampanellata minacciosa.
Si videro delle ombre correre dietro le tende all'impazzata, e le stanze illuminarsi rapidamente una dopo l'altra.
Indi un silenzio d'attesa profondo, nel quale risonarono ad un tratto delle strida di terrore e degli urli di collera.
I vicini corsero alle finestre, col lume in mano.
Ma il quartiere era tornato silenzioso, soffocando i dolori o le collere che racchiudeva fra le sue tappezzerie sontuose.
Le finestre rimasero chiuse per un gran pezzo, e allorché si riaprirono, entrarono nelle stanze i muratori che demolivano la casa, per far luogo alla strada nuova, la quale passava di là.
Giorno e notte, dal muro sventrato, si vedevano le stanze nude e abbandonate, colle pitture del soffitto che pendevano, le gole dei camini squarciate e nere.
La carta gialla ricompariva sotto la tappezzeria lacera, il segno del letto e le macchie scure, i chiodi sul camino a cui era appeso il grande specchio dorato, il campanello ciondoloni sull'uscio della scala spalancato.
Il vento vi faceva turbinare la polvere, la pioggia le inondava, il sole vi rideva ancora sulle pitture, gialle, verdi, azzurre; la luna e la luce dei lampioni vi entravano ogni notte, si posavano sulla macchia unta del letto, sui fiorami dorati del salottino misterioso, scendendo sempre, di mano in mano che il piccone dei muratori si mangiava le rovine.
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I RICORDI DEL CAPITANO D'ARCE (1891)
I RICORDI DEL CAPITANO D'ARCE
D'Arce, cullato dal rullìo del bastimento, aveva posato il bicchierino sulla tavola, affissando l'orizzonte mobile attraverso il cristallo del finestrino, quasi vedesse ancora ciò che stava narrando.
No, neanche la punta di un dito.
Adesso è storia vecchia...
e anche triste!...
Non ci siamo neppur detto di amarci...
quello che si chiama amare...
Mi piaceva assai, ecco.
Andavo da per tutto dove sapevo d'incontrarla, alla Villa, al Sannazzaro, al concerto serale dello Châlet.
Mi sentivo battere il cuore e inciampavo nelle seggiole appena scorgevo da lontano i nastri rossi del suo cappellino.
Mi rassegnavo al cipiglio e all'accoglienza glaciale del Comandante, solo per vedere i begli occhi grigi di lei che mi cercavano nella folla.
Essa mi salutava con un sorriso appena accennato: sapete, quel sorriso che vedete soltanto voi, quella fiamma lieve e rapida che illumina a un tratto un bel viso delicato, e vi dice: - Grazie!...
- Ma amore, no.
Perché c'era di mezzo Alvise Casalengo, mio camerata, mio compagno d'armi e di scuola.
- Adesso è andato a finire nella Navigazione Generale, requiescat anche lui! - Ma allora era il mio Pilade, troppo Pilade, ahimé, perché potessi fingere d'ignorare quello che sapevano tutti, sebbene Alvise, com'è naturale, non me ne avesse fatta mai la confidenza.
Appunto, giusto per rappresentare la parte di uno che non vuol sapere, filavo anch'io il mio briciolo di corte alla signora Ginevra Silverio, la moglie del mio Comandante, in quei due mesi di licenza che avevo passato a Napoli: una corte modesta e superficiale, da non passare il guanto, quel tanto d'omaggio ch'era indispensabile di tributare alla moglie del mio superiore, bella, elegante, un po' civetta pure, dicevano; ma civetta con tanta naturalezza e tanta grazia che quasi non se ne accorgeva.
Essa s'era lasciata corteggiare anche da me perché non stonassi nel coro, perché tutti le facevano la corte, perch'ero intimo di Alvise, perché le piacevo, infine.
Ciò che era venuto in seguito, ciò che mi sembrava a volte vederle balenare negli occhi e sentirmi tremare nella voce...
Sapete come avviene...
gli ostacoli, i riguardi umani, la diffidenza del marito, la stessa sicurezza leale di Alvise...
Tante premure deliziose, un'attrattiva di sacrificio, un profumo soave di frutto proibito, più velenoso di quelli rubati nell'orto coniugale...
In conclusione, ditemi un po', adesso che ne parliamo coi gomiti sulla tovaglia, qual merito ne ho avuto agli occhi di quell'animale che ha piantato amici e spalline per fare il cabotaggio da Palermo a Genova? Il guaio era che il Comandante se la pigliava con l'intero genere umano, causa la pulce che Alvise gli aveva messo nell'orecchio - un pasticcio dell'ordinanza per cui c'erano state fra marito e moglie delle scene spiacevoli, convulsioni, lagrime, il dottore chiamato in fretta e furia, di notte...
Insomma quello che non sarebbe avvenuto, se il Comandante, credendo di far meglio, non avesse avuto la cattiva idea di prendere al suo servizio un cretino di nuova leva il quale non capiva nulla.
Poi ogni cosa s'era chiarita per il meglio.
Alvise, com'è naturale, era rimasto a latere del Comandante, e quella bestia dell'ordinanza, in punizione, sacco e branda, e imbarcarsi subito.
I cocci rotti avevano dovuto pagarli gli altri, gli amici di casa, il Comandante stesso, pover'uomo, diventato un orso, un Otello, una bestia feroce.
Ti rammenti, Serravalle, quando la signora Ginevra ti si svenne o quasi nelle braccia, ballando in casa Maio? Era tanto delicata, poveretta! E le piaceva tanto il ballo, che suo marito, per la tranquillità dell'alcova coniugale, si rassegnava ad essere di tutte le feste, insieme a lei.
Ma con che viso ci veniva, quell'uomo! Come faceva cascar le braccia ai poveri ufficialetti che gli arrivavano freschi freschi dalla Spezia o da Livorno, e che s'immaginavano di disarmarlo pigliandolo colle buone! Anch'io, purtroppo, ero nella lista dei sospetti.
Non so per qual motivo - perché ero più gentile e premuroso degli altri, perché gli ero simpatico, perch'ero amico d'Alvise, fors'anche...
Giudizi umani! Il fatto è che nell'animo del Comandante ero un uomo perduto.
Tante cose me l'avevano fatto capire: quel diavolo d'uomo aveva un modo di piantarvi gli occhi in faccia per dirvi buongiorno, che v'imbarazzava realmente.
E le ingiustizie del superiore, le punizioni e gli arresti che piovevano come gragnuola, l'ordine d'imbarco comunicatomi per telegrafo, quando si sapeva che la squadra sarebbe rimasta a Genova un'altra settimana! Anche lei, povera donna, sembrava consegnata, colla sentinella alla porta, un genovese cane il quale si piantava rispettosamente per mandarmi via, se tentavo di rompere il blocco in un giorno della settimana che non fosse il martedì, il giorno di ricevimento della signora Ginevra, il giorno di tutti e di nessuno.
Allorché l'avevo pregata di accordarmi un'entrata di favore, l'avevo vista così imbarazzata, così esitante...
Ecco, se avessi voluto permettermi un'indiscrezione col mio amico Alvise, sarebbe stata quella di chiedergli in un orecchio: - Come diavolo fai?...
-
Era una povera vittima, quella disgraziata! una schiava legata alla catena corta.
Chi l'avrebbe immaginato, di voialtri, quando la vedevi arrivare, col nasino palpitante e la febbre negli occhi, e una voglia di divertirsi fino nelle scarpette che si sarebbero messe a ballare da sole? Ma una paura del marito con tutto ciò! Bastava un'occhiata di lui per farle gelare il sorriso con cui vi si abbandonava nelle braccia, anelante, facendosi vento presto presto, smarrita da un capogiro delizioso.
E le carezze timide colle quali cercava di sedurre quel cerbero, l'aria inquieta con cui si abbandonava a certe graziose imprudenze, guardandosi intorno per non esser sorpresa da lui, o gli fissava in volto i begli occhi sorridenti per cercare d'indovinare che vento tirasse, le piccole astuzie, le bugiette dietro il ventaglio, i complotti colle amiche per strappare al marito il permesso di un'ultima polca.
Giacché la poveretta sapeva quel che le sarebbero costati poi a quattr'occhi quelle audacie disperate, quei colpi di testa ai quali cedeva con tutto il sangue al viso - delle audacie innocentissime.
Noi altri uomini non sappiamo mai quanto coraggio ci vuole a fare certe cose.
Immaginate adesso un uomo che vi tira a bruciapelo l'ordine d'imbarco dopo una di quelle sere...
innocente com'ero...
e la povera signora Ginevra anch'essa!...
Nulla di nulla, vi giuro! Neanche una parola, neanche un dito...
Se ce ne fu il pericolo, dopo...
un momento solo...
la colpa fu tutta sua, di lui!...
D'Arce vuotò d'un fiato il resto del cognac, e posò il bicchierino sulla tavola, stringendosi nelle spalle come un uomo che ha navigato per tutti i mari, ne ha viste di tutte le razze e di tutti i colori, e non si meraviglia più di nulla.
Però non potevo abbandonare Napoli e l'Italia senza andare a salutare la signora Ginevra, tanto più che non avevo potuto vedere neppure il lembo del suo vestito, quand'ero andato a fare la mia visita di congedo, in gran tenuta, fra le dieci e le undici.
Lui sì, ce l'avevo trovato il signor Comandante, straordinariamente rabbonito dalla mia partenza, e mi aveva accomiatato con belle parole:
- Faccia buon viaggio, e metta il tempo a profitto.
So da buona fonte che li terranno un pezzo imbarcati, e avranno tempo di studiare e di farsi onore.
Il mare è una gran scuola e un gran corroborante per la gioventù -.
Grazie tante! Ma il buon viaggio volevo che me lo desse lei, la signora Ginevra.
Non poteva rassegnarmi a tutte quelle belle cose che mi aveva detto suo marito, senza vederla un'ultima volta, e sentire anche quel che ne pensava lei.
La mia stessa innocenza mi dava ai miei occhi una specie di salvacondotto per andare a trovarla.
Per altro m'ero proposto di essere prudente ed audace come un vero innamorato.
E contavo sul gran da fare che c'era al Comando, appunto per quella benedetta partenza.
La sera, appena sbirciai il mio superiore che svoltava l'angolo della piazza...
- due ore di guardia col naso incollato ai vetri del Caffè d'Europa, amici miei, temendo ogni momento di veder capitare Alvise, che volentieri avrei voluto sapere a casa, magari agli arresti, magari colla febbre.
- Vedevo il mio amico in ogni soprabito gallonato che incontravo, lungo la strada, rasente al muro, e il cuore mi batteva un po'...
Quando fui poi in via Partenope...
Il cerbero che custodiva la porta della signora Ginevra mi lasciò passare senza alzare gli occhi dal Pungolo, o credette forse che venissi per un affare di servizio, o si lasciò ingannare dalla somiglianza dell'uniforme...
prendendomi per quell'altro...
Sì in quel momento mi faceva un certo effetto di esser scambiato con un altro.
Pensavo ad Alvise, che andava e veniva senza tante difficoltà, e che sarebbe rimasto a Napoli!...
Entrava appunto un bel chiaro di luna dai finestroni colorati, e passava per la strada il ritornello della canzone in voga che solevano suonare allo Châlet.
Tutte le piccole seduzioni che vi formano le grandi, sapete!...
Avevo il cuore alla gola nel bussare all'uscio della signora Ginevra, forse perché ella stava al terzo piano...
o perch'ero giovanissimo allora...
Il fatto è che mi sentii penetrare lo squillo acuto e vibrante del campanello sino al cuore, come un sussulto, come una puntura, direi, ripensando ad Alvise...
Al mio superiore, no, non ci pensai, altro che per almanaccare un pretesto, pel caso che mi avesse fatto trovare un marinaio comandato di sentinella all'uscio della moglie anche a quell'ora...
Ma invece venne ad aprire Gioconda, quella bella giovane che aveva il viso come il nome, vi rammentate? Essa mi aveva visto spesso venire, nei bei giorni in cui non avevo ancora perso la stima del Comandante, e mi accolse con un graziosissimo sorriso: il medesimo sorriso della sua padrona, indulgente e grato verso le debolezze umane, il sorriso che comprendeva e perdonava, e voleva farsi perdonare ciò che doveva dirmi: - La signora era un po' sofferente, stava già per andare a letto...
Era scritto, vi dico! Mentre mi rassegnavo a tornarmene via, triste come la morte, e indugiavo a scusarmi per l'ora indebita, adducendo la partenza immediata..., l'assenza lunga, e questo e quell'altro...
- intanto le vedevo negli occhi una gran simpatia, alla buona giovane.
- In quel momento il campanello elettrico squillò di nuovo, premuroso e carezzevole, uno squillo che veniva dalle stanze interne stavolta, e diceva: Sì! sì! sì!...
- Se vuol passare un momento in sala, farò a ogni modo l'imbasciata...
-
Ho anch'io adesso i galloni di Comandante, e molti anni di più sulle spalle, ma ancora, vedete, mi sembra di sentirmi battere il cuore nel soprabito attillato di guardiamarina, rammentando quell'istante in cui vidi comparire sull'uscio del salotto lei, tutta sorriso, nella bocca, negli occhi, nel fruscìo del vestito, quel sorriso carezzevole e buono con cui accoglieva i suoi amici e che ho ancora dinanzi agli occhi, quando vado a pregare sulla sua tomba, poveretta!
D'Arce riempì di nuovo il bicchiere, sforzandosi di mostrarsi disinvolto, ripreso, suo malgrado, dalla commozione di quei ricordi.
La vedo ancora, seduta su quel canapè basso e largo come un letto.
Aveva delle calze di seta nera, delle calze terribili, amici miei, sotto quel vestito bianco, tanto che ella se ne accorse, e ritirò adagio adagio i piedini, facendosi rossa.
Proprio una bambina, vi dico! civetta, innocente nella sua civetteria come l'aveva fatta sua madre, e con una paura del marito, in quel momento, che le faceva tendere l'orecchio e troncare il discorso di tratto in tratto.
Anch'io mi sentivo assai sconvolto...
Allora scappammo a parlare tutti e due in una volta, come cavalli spaventati, battendo la campagna, con una vivacità che voleva sembrar sincera.
- Io non avevo voluto partire senza andare a salutarla.
- Essa non aveva voluto lasciarmi partire senza dirmi addio.
- Partire, lasciarsi...
- In fondo a ogni parola c'era sempre quella nota, sempre quel tono triste, in sordina, in note tenute, in tutte le note, all'infuori della tua, mio povero Alvise, che dormivi lealmente fra i due guanciali della tua felicità o piuttosto che perdevi al Circolo, in quel momento stesso, lieto del proverbio che lusingava il tuo amor proprio.
- E le nostre parole dicevan tutt'altro, dicevano tutt'al più di viaggi e paesi lontani, di orizzonti sconosciuti, o delle memorie che si portano via, e dei luoghi cari che non si vorrebbero lasciare...
- Felice lei che andrà così lontano, per tanto mare, per tanto mondo! Come vorrei volare anch'io, come vorrei venire! - Felice lei piuttosto, che rimane in questa città di cui il cuore porta via tanti ricordi...
in questo nido di cui gli occhi non si saziano di baciare ogni angolo e ogni cosa!...
- Questo dicevano i sorrisi vaghi, gli occhi umidi, erranti per quel salotto di cui tu conosci ogni gingillo, di cui ogni gingillo ha contato le tue ore felici, fortunato Alvise! - voi! - voi! - voi! - Ma non una parola d'amore, torno a dirvi.
S'indovinava, era sottinteso, in ogni sillaba, in ogni frase, discorrendo di amici e di conoscenti...
anche di Alvise - ella per provarmi ch'era lontano, tanto lontano dal suo salotto e dal suo pensiero! - io per rallegrarmi della sua assenza - per rallegrarcene intimamente tutt'e due, come eravamo lieti dell'assenza del Comandante...
il quale però avrebbe potuto ascoltare tutto ciò che si diceva, lei ed io, senza dover snudare il brando, senza che l'angelo custode della sua casa avesse avuto motivo di tapparsi le orecchie.
In quella squillò di nuovo il campanello dell'anticamera, forte, improvviso, minaccioso: una scampanellata da padrone, di quelle scampanellate che vi pigliano pei capelli, e vi fanno saltare in aria.
Ella impallidì visibilmente, e s'alzò di botto, come fuori di sé, agitando istintivamente la mano in un gesto vago.
E tutto a un tratto mi si abbandonò fra le braccia, quasi stesse per svenire, cogli occhi smarriti, il seno palpitante...
balbettando: - lui! lui! -
Proprio lui che l'aveva voluto, non è vero? Una povera donna il più delle volte si butta nel precipizio pel timore dell'abisso! Non ascoltava più, non capiva più che così facendo si accusava della colpa di cui eravamo innocenti...
Innocenti dinanzi agli uomini e dinanzi a Dio! Essa era caduta come una morta sul canapè, fissando gli occhi spaventati sull'uscio, quasi aspettando di veder comparire di momento in momento il suo giudice e il suo giustiziere...
Aspettai anch'io, in piedi, abbottonandomi macchinalmente l'uniforme, come si aspetta in un duello la pistolettata dell'avversario...
cinque minuti...
dieci...
un'eternità.
Nulla, non era stato nulla.
La cameriera venne a dire poco dopo che eran venuti a cercare il padrone per un affare di servizio.
Accidenti al servizio! La povera signora mi sfuggì di mano come un'anguilla, e non volle più saperne di ripigliare il duetto, proprio quando avevo tante altre cose da dirle, quando il suo viso pallido e i suoi occhi stralunati mi davano le vertigini, mentre respingevami colle mani tremanti, balbettando: - Andatevene! andatevene!...
-
Soltanto mi dava del voi; mi dava le mani tremanti e gli occhi che si smarrivano nei miei, bramosi e spaventati...
Nient'altro, amici miei...
Una donna che ha paura, capite...
La paura me l'aveva data un momento e la paura me la ritolse.
GIURAMENTI DI MARINAIO
- Giuratemi!...
giurami! -
Chi non avrebbe giurato, al vederla così pallida sotto i nastri rossi del cappellino, al vedere i begli occhi lucenti e il sorriso triste che mi cercava come un bacio? - povera e cara Ginevra, innamorata sino ai capelli, in un fiat, da un momento all'altro, dacché le avevo confessato d'amarla, in segreto, senza speranza, da circa due mesi! - Anch'essa! anch'essa! Peccato che avessimo aspettato l'ultimo momento a dircelo! - Almeno voleva lasciarmi negli occhi, nel sangue, nell'anima, la sua immagine, il suo profumo, le ultime sue parole.
- Lì, lì, e lì! in tutto voi, fin nel vostro vestito, dovunque sarete, sempre! - Era venuta per questo alla Villa, a quell'ora.
- Non sapete quel che ci è voluto! - In ogni suo accento, nel suono della voce, nel muovere delle labbra, c'erano tali carezze che penetravano in me come una gran dolcezza, e come altrettante punture anche, di tratto in tratto, allorché pensavo ad Alvise che dicevano suo amante.
- È gelosa, sapete!...
di tutte!...
di tutte le donne che avete conosciuto...
La Seraffini, dite?...
o la Maio...
a costei le facevate la corte! Non negate.
V'ho conosciuto in casa sua.
Il guaio è che l'avrete compagna di viaggio sino a Genova! Giuratemi!...
Neanche una parola!...
almeno a lei...
almeno a quelle che conosco!...
Pensate a me, d'Arce! Pensate che vi veggo, laggiù, dovunque sarete, che vi seguo col pensiero, dal momento che metterete il piede sul battello, nella cabina, a tavola...
Colei ci verrà pure, a tavola, dovesse rendere l'anima a Dio, per farvi ammirare le sue smorfie e il suo vestito da viaggio...
-
Ella guardava tristamente il bel mare azzurro che doveva separarci per tanto tempo, fra poche ore, e aveva gli occhi gonfi di lagrime, e mi abbandonava la mano, senza curarsi della gente che poteva vederci - per altro erano delle coppie mattutine che venivano a cercare le ombre discrete della Villa, e avevano altro pel capo anche loro - senza pensare al pericolo che correva, senza pensare a quell'orco di suo marito...
senza pensare ad altri.
E mi si abbandonava tutta, con quella manina tremante di cui parevami di sentire le carezze e la febbre attraverso il guanto di Svezia; e intrecciava le sue dita alle mie, e si attaccava a me, voleva legarsi a me, per sempre - l'una dell'altro - col cuore gonfio ambedue di amore eterno, di costanza e di fedeltà - io a dispetto dei miei venticinque anni - ella col marito sulle spalle...
ed Alvise, e tutti gli spergiuri latenti in una bella donna che ride volentieri, e ama sentirsi dire che il suo sorriso fa perdere la testa al prossimo...
Allora balbettai:
- Anche voi!...
anche tu...
giurami!...
-
Ella non rispose, colle mani nelle mie, gli occhi negli occhi, e una fiamma rapida le salì al viso: - Che posso farci? che posso farci? - voleva dirmi, povera donna.
Ma a un tratto mi lesse in viso il nome di un altro, l'immagine odiosa del mio amico Alvise che tornava a mettersi fra di noi.
- Oh! - mormorò, scolorandosi rapidamente.
- Oh, d'Arce! -
Chinò il capo, passandosi le mani sul volto, e non disse altro.
Aveva una peluria bionda che moriva dolcemente sulla bianchezza immacolata della nuca.
Le dolci parole, il delirio, la frenesia che mi si gonfiarono in cuore allora per chiederle perdono! Come avrei voluto buttarmi a' suoi piedi e abbracciare i suoi ginocchi, i ginocchi che si accennavano vagamente fra le molli pieghe del vestito bigio!...
Essa continuava a scuotere il capo, con un sorriso dolce e malinconico, e riprese:
- Quanti orrori vi avranno narrato sul conto mio...
le mie buone amiche...
lui stesso, fors'anche! Non negate...
è inutile.
Voglio che sappiate tutto...
oramai, sul punto di lasciarci forse per sempre!...
Come a un fratello...
come in punto di morte...
Mi crederete, d'Arce? mi crederete?...
Sono stata un po' leggiera...
un po' civetta anche, mettiamo...
Ecco, vi dico tutto! In casa mia poi, bisogna sapere quante noie! Che scene e che musi lunghi per un misero ballonzolo, fra quattro gatti...
per andare una sera a teatro...
Non sono né vecchia né gobba infine.
Mio marito invece vorrebbe tenermi sotto chiave nella santabarbara della sua nave.
Pedante, sospettoso, uggioso! Una cosa tremenda, caro mio! Allora, capite bene...
se bisogna nascondergli le cose più innocenti...
la colpa è tutta sua...
E una povera donna...
a meno di finir tisica...
Sì, parola d'onore, tante volte ho sputato sangue.
Chi sa se mi troverete ancora quando tornerete in Italia, povero d'Arce!...
Vi ricorderete sempre di me, dite? Verrete a trovarmi al camposanto? -
Trasse pure il fazzolettino dalla tasca del petto, e se lo recò alla bocca, tossendo un po', con certe piccole scosse che facevano sollevare gli omeri delicati sotto la giacchetta attillata, e le inumidivano gli occhi di un languore sorridente, e le facevano il viso tutto color di rosa.
No, no, non volevo sentirla parlare così! L'avrei difesa da quelle malinconie, fra le mie braccia, stretta stretta.
Ella schermivasi gaiamente; minacciava pure col fazzolettino...
- Badate!...
Che matto!...
Siamo due matti!...
Avete sempre quel brutto sospetto? No, sentite, voglio dirvi tutto.
È meglio che sappiate tutto da me stessa...
pel caso che egli vi abbia fatto le sue confidenze...
quell'altro...
giacché siete suo amico...
Sì, lo so...
voialtri uomini siete discreti...
Lasciamola lì! È vero che mi ha fatto un po' di corte...
come tanti altri...
più degli altri anche...
E me la son lasciata fare.
Mio marito...
me lo ha messo fra i piedi lui stesso, il vostro amico, col pretesto di farne il suo ufficiale d'ordinanza...
E gli ha attaccato il suo male pure...
le sue esigenze e le sue gelosie.
Dite la verità, vi avrà fatto delle scene anche a voi, Alvise? Un bel divertimento, quei musi lunghi! E senza averne il diritto, vi giuro! Mi credete, d'Arce! mi credete? Vedete adesso come sono venuta a voi!...
Lo sapete...
da due mesi...
i miei occhi che vi dicevano...
- Poi, a voce più bassa, accostando il viso al mio, figgendomi gli occhi nell'anima, con un sospiro: - Tua! Soltanto tua!...
Mi credi? -
Li avessi visti ai suoi piedi, in quel momento, il marito, e quell'altro, mi avessero detto che anche loro...
Avrei giurato che mentivano.
Mi turbava però il rimorso delle infedeltà che le avevo fatto...
prima di conoscerla...
e anche dopo...
Sì, delle vertigini...
qualche momento di oblio...
Ero arrivato a farle di queste confessioni, in quel punto, nel caldo della passione...
Volevo dirle tutto, per ispirarle la mia fede, perché non avesse a dubitare anch'essa, mentre saremmo stati tanto lontani!...
- Ah, sentite, è una cosa terribile! Volersi tanto bene...
proprio all'ultimo momento...
volersi così!...
E neanche la punta di un dito!...
Non mi guardate a quel modo, per l'amor di Dio!...
Proprio un amore senza macchia e senza paura, questo nostro!...
Ah! quel sorriso che mi fiorirà sempre in cuore! Quella fossetta che fate sulla guancia, ridendo!...
Un amore siffatto non deve aver paura di nulla...
e di nessuno...
del tempo che passa...
- Che ora sarà adesso? - chiese a un tratto lei.
Erano circa le due.
Essa s'alzò in piedi sgomenta.
- Dio mio! così tardi! Ah, povera me! - Poi mi stese la mano e volle pure cavarsi un po' il guanto, buona e cara Ginevra, perché le baciassi il polso sulla nuda carne, lì, dove la piccola vena azzurra avrebbe voluto portarmi su su pel braccio, e le labbra volevano struggersi.
- Addio! addio! - Per ricordo strappò una foglia dal cespuglio, dandomene la metà; l'altra se la nascose dentro il guanto, proprio dove si era posata la mia bocca.
E nel viso affilato, negli occhi, nella voce, la poveretta aveva il medesimo struggimento che sentiva, pareva che non potesse staccarsi da me.
Dovette fare uno sforzo - come uno strappo, nell'ultima stretta di mano - e se ne andò frettolosa, pensando ch'era tardi.
Ho ancora nelle orecchie il fruscìo della sua sottana di raso.
Povera Ginevra, come doveva avere il cuore gonfio anche lei! E le sarebbe toccato dissimulare poi col marito e con tutti gli altri! Almeno io...
Io mi posi a sedere dove essa era stata, andai a rintracciare il ramoscello dal quale aveva strappato la fogliolina.
Feci insomma tutto ciò che fanno gl'innamorati in casi simili.
Infine dovetti accorgermi che si faceva tardi e che avevo ancora la valigia da terminare.
La prima persona che vidi sul battello, al momento d'imbarcarmi, fu Alvise, il buon Alvise che era venuto a salutarmi, e mi stendeva la mano, a mia confusione.
Gliela strinsi con un po' di rossore al viso, ma grato e commosso, quasi mi avesse recato qualcosa della donna che amavamo entrambi.
Non c'era nulla di male, se l'amava anch'esso, giacché lei non poteva soffrirlo, e mi preferiva a lui, e si lasciava rubare a lui.
Per nascondere il mio imbarazzo gli domandai se ci fossero già dei passeggeri a bordo.
- No, non molti - rispose lui.
- La signora Maio, una simpatica compagna di viaggio -.
La signora Maio risaliva sul ponte in quel momento; c'incontrammo insieme alla scaletta.
- Oh, d'Arce! - Colei è un vero demonio, poiché al vedermi quella faccia i suoi occhi si misero a ridere da soli sotto il velo blu; e non la finiva più colle domande: - Dove andavo - se mi era toccata una buona destinazione - se sarei stato un pezzo laggiù - se mi rincresceva di lasciare l'Italia - il bel cielo di Napoli - gli amici...
- Ah, Ginevra! Buona Ginevra! Che pensiero gentile!...
che piacere mi hai fatto!...
-
Era proprio lei, la buona Ginevra, che inaspettatamente veniva a dare il buon viaggio alla cara amica che odiava, come Alvise era venuto per me.
- Per voi! per vedervi ancora un'ultima volta! - dicevano i suoi occhi nel rapido sguardo che mi rivolse.
E bastò per farmi rizzare le orecchie sul vero motivo che aveva condotto Alvise a bordo, e farmi allungare tanto di muso.
Però essa era meno imbarazzata di me, che dovevo esser pallido in modo ridicolo.
Filava imperturbabile il cinguettìo delle donne che non vogliono dir nulla, con la sua amica, con Alvise - a me rivolse appena qualche parola.
- Ah, va via anche lei? Partono tutti! Cosa hanno al Ministero che vi mandano tutti via? - Poi fu colta d'ammirazione pel berrettino da viaggio della signora Maio, un cosino di stoffa eguale al vestito, ch'era un amore, posato bravamente sui bei capelli castani, avvolti nella garza che dava una straordinaria finezza al bel visetto ardito e al mento spiritoso.
Si mise ad accomodare le pieghe con un buffetto che sembrava una carezza, dietro le spalle della sua amica, e intanto mi lanciò pure un'occhiata tremenda.
- L'amica prestavasi discretamente alla manovra, col tatto di una donna che sa vivere e lasciar vivere, tutta per lei, affabilissima anche con Alvise, dimenticando quasi che io fossi lì, come un intruso in quel terzetto spensierato che lasciava suonare la campana della partenza senza badarci.
Infine la ragazza che andava in giro col piattello a raccogliere i soldi pei virtuosi che ci avevano strimpellato l'augurio di buon viaggio, il cameriere che spingeva verso la scaletta i venditori di cannocchiali e di pettini di tartaruga, fecero capire ch'era il momento di separarci.
Le due amiche si buttarono le braccia al collo.
Alvise s'ebbe pure la sua stretta di mano all'inglese dalla signora Maio, la quale trovò un mondo di saluti da lasciargli, per lui, pei suoi amici, per tutto il genere umano, occupandolo, impadronendosene, pigliandoselo tutto per sé, tenendolo sempre per mano, mentre Ginevra stringeva la mia forte forte - fu l'unico segno - e le labbra che tremavano, il sorriso che spasimava, e l'occhiata lunga...
Poi la rivolse sull'amica, scintillante, e quasi minacciosa.
- Buona Ginevra! - osservò la Maio, rispondendo al saluto che essa continuava a mandare dalla barchetta, mentre si allontanava in compagnia di Alvise.
- E pensare che le toccherà pigliarsi delle osservazioni da quell'orso del Comandante, se egli arriva a sapere...
-
La gentile signora volle ancora restar lì, appoggiata al parapetto, perché la nostra amica potesse continuare a salutarci, rispondendo al saluto col fazzoletto anche lei, di tanto in tanto, sbadatamente e guardando altrove.
Poi mi lasciò solo, e scese nella cabina, allorché il fazzolettino della barchetta poté seguitare a sventolare da lontano senza compromettersi.
Caro fazzolettino che tremava nella brezza, e palpitava verso di me, e moriva nella caligine della sera, sul fondo già scuro del bel lido che cominciava a formicolare di lumi, a destra verso Portici, a sinistra per la Riviera.
Quante volte avevo colà cercato i nastri rossi del tuo cappellino, amor mio, e i tuoi occhi bramosi mi avevano detto: - Sì, sì, lo so!...
Io pure!...
- Tu pure pensi a me in questo momento, e cerchi il lume del mio bastimento fra gli altri lumi che si allontanano dal porto, mentre Alvise ti dà la mano per aiutarti a scendere a terra, seccatore! Egli può ancora udire lo scricchiolìo delle tue scarpette che si affrettano verso una carrozzella, e vedere il tuo piedino che si posa sul montatoio.
Qual via farai per andare a casa? San Ferdinando...
Chiaia...
Le vetrine scintillanti del Caffè d'Europa, dinanzi a cui tu passi come una visione...
Gli oziosi che stanno a vederti dal marciapiedi! Quante volte ti ho aspettata anch'io, lì...
Lo sai che ti vedo...
e ti accompagno cogli occhi, io pure...
passo passo, come tu promettesti di pensare a me?...
Come ero felice di sentirti parlare, di sentirti dire che volevi seguirmi col pensiero, col cuore, ogni momento, dacché avrei messo il piede sul ponte, nella cabina, a tavola!...
Povera e cara Ginevra! ti seccava che ci dovesse venire quell'altra, a tavola! Ti seccava, come mi secca che Alvise ti abbia accompagnata...
Eri gelosa...
E senza motivo, credi! Colei ha capito subito che son ben preso, sino ai capelli, tutto tuo!...
Non è mica una sciocca la signora Maio!...
E a tavola non vorrà perdere il tempo a farmi ammirare le sue smorfie, come le chiami, cattiva! Non vorrà che io rida di lei sotto i baffi...
Ed io non voglio ch'essa rida di me, se non mi vede a pranzo, se le lascio immaginare che io stia qui a pascermi di lai...
com'ella suol dire quando il suo musetto sardonico vi mette tutti i diavoli in corpo.
La signora Maio però non era scesa a tavola.
Il posto di lei rimaneva vuoto, a destra del capitano.
Ma l'udivo muoversi nella cabina, dietro le mie spalle, con un fruscìo d'abiti che mi turbava, a volte sommesso, quasi timido e pudibondo, a volte alto e brusco, come agitato da un'improvvisa fantasia.
Che diavolo faceva la bella signora? Si sentiva male? Stava per coricarsi? Non la finiva più di sgusciare delle sottane e di sfibbiare dei ganci?...
Il vestito, no...
Quello non era il frù-frù vivo della seta...
Era piuttosto il fruscìo molle della biancheria più intima.
Pareva di sentirne il profumo all'ireos.
Il fatto è che mi guastava il pranzo, mi dava delle distrazioni, una tensione d'udito in cui sembravami di vedere ogni parte del suo vestiario, a misura che le passava per le mani, di vederla nelle bottiglie e negli specchi dirimpetto, colle braccia nude, pettinandosi per la notte.
- Buona notte che avrei passato con quella cabina attaccata alla mia! - Povera Ginevra, le parlava il cuore! - Talché non volli aspettare neppure il caffè, e andai sul ponte a fumare un sigaro...
e pensare a lei...
- Bravo, d'Arce! Venite a farmi compagnia, - udii una voce che mi chiamava da poppa.
Proprio la Maio, che desinava tranquillamente, al lume della bussola, col piatto sulle ginocchia.
- Come...
voi qui! - mi scappò detto.
- Grazie! Credevo che aveste già notata la mia presenza a bordo, ingrato! - rispose sorridendo e mordendo una fetta di pera.
- Mi era parso di sentire...
Chi c'è dunque nella vostra cabina?
- La cameriera, credo.
Starà mettendo in ordine la mia roba.
Pensate che devo starci quattro o cinque giorni in quella gabbia!
- Tanto meglio!
- Tanto meglio, sia pure, giacché siete in vena d'amabilità.
Intanto mi tocca far penitenza, come vedete...
- L'avrei fatta anch'io volentieri con voi, se avessi saputo...
- Oh, voi...
è un'altra cosa.
Prima di tutto siete corazzato...
sul mare; e poi vi sono i regolamenti, che so io, tutti quegli ostacoli che avete immaginato voialtri...
a bordo.
Mentre io...
povera donna...
Mi è riuscito di intenerire il cameriere...
con un po' di buona volontà...
È una vergogna! In tanti anni che ho l'onore di appartenere alla marina di Sua Maestà...
per via di mio marito, non sono arrivata a farmi il piede marino, come dite voialtri; e se non voglio morir di fame bisogna prendere delle precauzioni.
Volete prenderne anche voi? Lì, in quel sacchetto, c'è della menta di VanPol eccellente.
Fumate pure, sapete che la sigaretta non mi dà noia.
Non ci conosciamo da oggi, mi pare! Anzi, se volete darmene una anche a me...
-
Mentre allungava il musetto color di rosa per accenderla, quasi volesse baciarmi, mi parve di vedere un altro punto luminoso nei suoi occhi, un balenìo che diceva: - Traditore! - Ma si tirò subito indietro, per farmi un po' di posto nel seggiolino pieghevole al quale aveva appoggiato i piedi, avvolgendosi nel suo mantellone da viaggio.
Invece, come attratto, mi accostai a lei, guardandola dal basso, col sorriso sincero di quei momenti, dicendole colla voce un po' roca:
- Sapete che mi hanno dato la cabina accanto alla vostra?
- Tanto meglio.
- Per voi forse...
Ma per un povero diavolo...
- Ah, la tentazione? Beveteci sopra un bicchier d'acqua.
Del resto vi prometto che passerò la notte sopra coperta.
Laggiù si soffoca...
Il faro di Napoli! - interruppe a un tratto, additando un punto luminoso in fondo.
Sembrava un occhio che ci spiasse dall'orizzonte buio, ora tremulo, come velato di lacrime, ora raggiante all'improvviso.
Sembrava che giungesse sino a noi, col mormorìo vasto e profondo del mare, l'eco della città, coi sospiri soffocati, con voci misteriose, con canzoni malinconiche.
La Maio s'alzò, vacillante pel rollìo del bastimento, e prese il mio braccio, appoggiandovi anche il petto nel fare qualche passo, sfiorandomi col vestito, col mantello grave che mi si avvolgeva alle gambe e mi legava.
- Non mi reggo, no caro d'Arce! A momenti vi casco nelle braccia! - balbettò fra due scoppi di risa soffocati che risuonavano come una musica.
Infine si fermò presso la sponda, senza lasciare il mio braccio, col gomito sulla ringhiera, e il bel mento delicato sulla mano nuda, guardando sempre laggiù, verso il punto luminoso.
- Cara Napoli! A quest'ora i nostri amici saranno tutti allo Châlet.
Vi rammentate le belle serate allegre?...
Quando il marito di Ginevra non era di cattivo umore, povera Ginevra...
Come è stata buona venendo a salutarmi sino a bordo!...
Tutta cuore...
si farebbe in quattro pe' suoi amici...
È per questo che ne ha molti...
e devoti...
voi, Alvise...
Mi sembra di vederlo quel diavolo di Alvise, a combinare il giochetto per nascondere a quell'orso di marito l'innocente scappata d'oggi...
d'accordo con Ginevra...
Il solito giuoco di bussolotti...
là, là, e là!...
-
Questa volta essa aveva il sorriso diabolico in bocca, mentre picchiava sul parapetto colla mano nuda.
Era sempre stata la mia passione quella mano un po' lunga, un po' magra, che diceva tante cose e faceva perdere la testa.
Mi chinai su di essa e la baciai.
Ritirò la mano, lentamente, senza dir nulla; ma il sorriso le morì sulle labbra che parvero tremare e scolorirsi.
- Ecco come siete, tutti quanti!...
- mormorò dopo un momento, guardandosi intorno, e passandosi la mano sul viso.
Eravamo soli, nascosti dalla parete della scala; la presi per forza e la baciai sulla bocca avidamente, felice di sentire che già si abbandonava, come fosse la prima volta.
- Dite la verità - mi chiese poi.
- Ve la siete fatta dare apposta la cabina accanto alla mia? -
Alvise aveva ragione di dire che era una simpatica compagna di viaggio: allegra, graziosa, riboccante di spirito, e senza malinconie.
Se qualche momento ne avevo io, delle malinconie, ripensando alle ultime parole della mia Ginevra, ai suoi begli occhi lagrimosi che mi chiedevano di esserle fedele, quest'altra metteva la miglior grazia a farmi tosto spergiuro...
e contento.
Una di quelle donne che non passano la pelle, ma che sanno accarezzarla.
Discreta poi! Mai una allusione o una parola.
Sapeva forse che il mio cuore era preso, e si contentava del resto.
Talché continuai a trovarla anche dopo che fummo arrivati a Genova, mentre aspettavo l'imbarco per Montevideo.
- Sapete, povera Ginevra...
- mi disse un bel giorno, leggendo una lettera che le era giunta allora da Napoli.
- Pare che abbia avuto dei guai laggiù, per quello scapato di Alvise...
S'è lasciata cogliere dal marito, la sera stessa che partimmo, vi rammentate? -
A quella notizia dovetti fare un viso molto sciocco, poiché ella soggiunse, col suo ghignetto malizioso, stavolta:
- Ve l'aveva fatto anche lei, il giuramento del marinaio? -
COMMEDIA DA SALOTTO
- Badate! Egli sa tutto! -
La signora Ginevra era pallidissima lasciando cadere quelle parole a fior di labbra, rapidamente, mentre fingeva di rispondere con un sorriso al profondo inchino di Alvise Casalengo, allungandogli, nel passare, una stretta di mano breve e confidenziale.
Egli, inquieto, cercò cogli occhi il marito di lei nell'altra sala.
Ma non poté chiederle altro.
La folla li separò tosto.
Ella, sorridente sempre, scollacciata sino al dorso, scintillante di gioie, aggiravasi fra i tavolinetti preparati per la cena, chinandosi a odorare i fiori, ad ammirare tutte quelle graziose ventoline colorate; rispondeva gaiamente ai saluti, agli auguri, alle strette di mano.
In fondo alla sala, nel gran specchio inclinato sul caminetto, si mirò un istante ad assicurare la stella di brillanti che le tremolava fra i capelli, pallidissima, quasi la sfumatura livida che le accerchiava i begli occhi si fosse allargata a un tratto per tutto il viso delicato.
- Sola? - esclamò la contessa Maio.
- Libera e sola? Che miracolo!
- Sì - rispose Ginevra collo stesso tono allegro.
- Una volta ogni fin d'anno almeno!...
Ho lasciato Silverio in anticamera...
coll'ammiraglio...
Sono fuggita...
-
Le parole e le labbra ridevano.
Ma gli sguardi erravano inquieti, come cercando ancor essi.
Alvise, sempre vicino all'uscio, stava a discorrere col suo amico Gustavo, tranquillamente, lisciandosi i baffi tratto tratto per dissimulare una ruga sottile che gli si contraeva di tanto in tanto all'angolo della bocca, e l'ansietà acuta che balenava suo malgrado negli occhi, i quali volgevansi spesso verso il salotto d'ingresso.
Dietro a un vecchietto calvo, dinanzi a cui tutti s'inchinavano, entrò il marito della bella Ginevra, col fiore all'occhiello, salutando gli amici, baciando la mano alle signore, solamente un po' duro e un po' rigido nel vestito nero, con un lieve aggrottar di sopracciglia appena incontrò lo sguardo fermo e rispettoso di Casalengo, il quale lo aspettava sull'uscio, piantandosi militarmente.
- Ah, lei, tenente?...
Ha terminato quel rapporto? -
Casalengo stava per rispondere, quando la signora Gemma, ad una parola dettale rapidamente sottovoce dalla sua amica Ginevra, la quale aveva seguìto ansiosa quell'incontro, con occhi che luccicavano intensi, quasi tutti i suoi lineamenti si alterassero all'improvviso, mentre passava macchinalmente il fazzolettino sulle labbra, attraversò la sala rapidamente, per andare a impadronirsi del Comandante.
Poscia tornando trionfante al braccio di lui, le chiese:
- Ha caldo?
- No...
Sì, veramente...
Un po'...
- Sei pallida.
Fa troppo caldo qui, cara Ginevra.
- No, no...
Non importa...
-
La buona Gemma, intanto, aveva sequestrato il Comandante nel vano di una finestra, tenendolo a bada con delle chiacchiere, interrompendosi con delle risate argentine che squillavano in mezzo al brusìo della sala, facendo di tutto per sedurre quell'orso, saettando di tempo in tempo alla Ginevra un'occhiata lucente che voleva dire: - Che diavolo è successo? - Indi prese il braccio dell'Ammiraglio e lo condusse verso il canapè, stordendo anche lui col suo cicaleccio allegro, continuando a guardar come distratta, come a caso, la sua amica e il marito di lei ch'era preso adesso nel circolo della contessa, voltandosi più guardinga verso il salotto dov'era andato a cacciarsi Casalengo insieme al suo camerata Gustavo.
Infine Gemma abbandonò l'Ammiraglio alle altre signore, e passò nel salotto anche lei.
Ginevra li vide che discorrevano animatamente con Casalengo.
Egli coll'aria grave, rispondendo a monosillabi, Gemma diventata seria, con un interesse che tradivasi dai minimi gesti, per quanto fosse abituata a padroneggiarsi in pubblico.
Gustavo s'era dileguato al par di un'ombra.
Una domanda a lei rivolta la fece trasalire in quel punto: Serravalle che le chiedeva un valzer e insisteva per averne la promessa: - Le fo paura? Non vuol vedermi neppure? È ancora in collera, dopo tanto tempo? -
Essa lo guardò un istante come trasognata, battendo le palpebre, col bel sorriso pallido che stentava a rifiorire sui lineamenti disfatti: - Ah, lei?...
No! Mai più...
Del resto non si ballerà...
- Sì, sì, dopo cena, me l'ha detto la contessa...
per cominciare l'anno nuovo...
Cominci l'anno con una buona azione, lei!...
Non ce n'è un'altra che balli il valzer come lei!...
Dica di sì! dica di sì!...
un giro solo!...
l'ultimo...
- Mai più! mai più!...
Sarebbe il primo dell'anno nuovo, se mai...
Non voglio passare tutto l'anno a svenirmi nelle sue braccia...
Sul serio, lei gira troppo in furia...
Mi fa girare il capo...
Si rammenta?
- Ah! per l'amor di Dio...
Non me lo rammenti, piuttosto! Non me lo faccia perdere il capo, lei!...
Ha detto di sì!...
Consegno qui la sua promessa!...
-
Ella rideva tutta quanta, come una bambina, a scatti, con una fossetta sulla gota, con certi movimenti che facevano sbocciare gli omeri delicati dalla scollatura del vestito.
Altri giovanotti le fecero ressa intorno, mentre Serravalle se ne scappava segnando nel taccuino il valzer che le aveva quasi strappato a forza.
Ciascuno la supplicava d'accordargli un posto al suo tavolinetto, nel va e vieni degli invitati che sedevano a cena a piccoli gruppi di tre o quattro, con delle esclamazioni giulive, degli scrosci di risa, dei nomi barattati da un tavolino all'altro, un fruscìo di seta, un luccicare di gemme, delle spalle nude che si chinavano con movimenti graziosi.
Ella tenendo testa a tutti quanti, schermendosi col ventaglio, ribattendo i frizzi e le galanterie, spiava sottecchi ogni atto, ogni gesto di suo marito e di Casalengo, il quale stava cercando il suo posto anche lui.
I loro sguardi si evitarono d'accordo, non appena s'incontrarono, per caso.
Il Comandante, dando il braccio alla contessa, le parlava nel viso, allegro e disinvolto anche lui.
La signora Ginevra, ritta dinanzi al posto dove aveva letto il suo nome sul cartoncino litografato, cavava adagio adagio le mani scintillanti di anelli dall'apertura del guanto che le saliva sino al gomito, avvolgendoli mezzi intorno al polso...
Gemma, che aveva potuto raggiungerla finalmente senza dar nell'occhio, le chiese sottovoce, brevemente:
- Cos'è stato?
- Nulla...
Ti dirò poi...
-
Ella così dicendo s'era chinata a leggere i nomi dei suoi compagni di tavola.
Ma scorgendo quello di Alvise di faccia a lei, un'attenzione delicata della contessa, che studiavasi di mettere insieme bene i suoi invitati, non seppe reprimere un moto come di sgomento.
- No, no...
per carità...
-
Gemma colse a volo il significato di quelle poche sillabe: - Casalengo, faccia il piacere...
venga qui, con me...
Mi liberi da Sansiro, che è una vera persecuzione...
-
Sansiro, il quale dovette prendere il posto di Alvise Casalengo, di faccia alla signora Ginevra, fece un inchino troppo profondo, che gli valse un'occhiata fulminante di lei.
Però in mezzo all'allegria generale lui solo rimaneva straordinariamente grave e taciturno, senza la più piccola freddura, senza permettersi con la bella Ginevra una sola delle spiritosaggini che facevano scappare le signore, quasi avesse voluto protestare col suo contegno contro l'accusa della signora Gemma.
Affettava di volgere le spalle a Casalengo; chinava gli occhi sul piatto se la signora Ginevra volgeva i suoi verso il tavolinetto vicino.
Mostravasi servizievole e premuroso; ma discretamente, con un certo sussiego, parlando poco e di cose serie.
Bruni, che era il terzo, faceva lui per tutti e tre.
Nondimeno la festa languiva in quell'angolo della sala, malgrado gli sforzi di Casalengo che stuzzicava e tormentava peggio di Sansiro la signora Gemma.
La povera Ginevra s'era fatta seria, quasi sentisse pesare di tanto in tanto sulla sua graziosa testolina gli sguardi acuti del marito, il quale dal canto suo battevasi i fianchi per tener desta l'allegria nel crocchio della contessa.
Gli uomini fingevano di essere occupatissimi nel fare onore alla cena, le signore sfioravano appena un'ala di fagiano o accostavano il bicchiere alle labbra.
Sembrava che un'invincibile musoneria si propagasse da quel cantuccio per tutta la sala, senza che una parola fosse stata detta, senza che un'indiscrezione fosse sfuggita, senza che un gesto avesse tradito il segreto, quasi l'istinto di tutti quei complici mondani li avesse avvertiti insieme del dramma che celavasi sotto il sorriso.
Il Comandante, vuotando l'uno dopo l'altro dei gran bicchieri d'acqua, animava però da solo il circolo della padrona di casa, la quale coll'occhio vigile intorno, col sorriso amabile per tutti quanti, guardava di tratto in tratto l'orologio posto di faccia a lei sul caminetto.
A un dato momento, quand'essa toccò il bicchiere del Comandante con un dito di champagne spumante in fondo al suo, gli invitati si alzarono frettolosi.
Degli auguri, dei baci, degli accenni, dei saluti s'incrociarono da un punto all'altro, da un tavolino all'altro.
Un muovere di seggiole, uno scomporsi di gruppi, una cordialità generale e un po' chiassosa che voleva essere sincera.
Dei sorrisi che si cercavano, e degli sguardi che si spiavano a vicenda.
La signora Ginevra aveva chinato i suoi per tornare ad infilarsi i guanti.
Gemma, nello scambiare con lei il bacio d'augurio, le disse all'orecchio:
- Bada, Ginevra! Non ti far scorgere.
Hai tutti gli occhi addosso!
- Ah, Dio mio! Dio mio! -
Poscia mentre s'avviavano a braccetto verso il pianoforte, dove una folla di signore assediava l'Ammiraglio che sorbiva lentamente il caffè, essa balbettò:
- Tieni a bada mio marito...
per carità..
due minuti soli...
-
E siccome Gemma insisteva per sapere cosa fosse avvenuto, infine, aggiunse:
- Ti dirò poi...
ti dirò poi...
-
L'Ammiraglio narrava una storiella allegra, con tutti i punti e le virgole, senza lasciarsi intimidire dal coro delle proteste, dalle esclamazioni di rimprovero, dai ventagli che lo minacciavano.
Gemma facendo coro alle sue amiche, coll'indignazione anch'essa nella bocca sorridente, era riuscita ad insinuarsi fra il Comandante e l'uscio del salottino dove si fumava: - Che orrore!...
Siete un orrore!...
tutti quanti! Anche lei, Silverio! Sì, anche lei che trova da ridere a coteste infamie! - Col busto inarcato, volgendo indietro la testolina accesa, ella seguiva colla coda dell'occhio la sua amica che aveva l'aria di fuggire lei pure Gustavo e Serravalle troppo insistenti dietro di lei.
- No, no, Ginevra! non stare ad ascoltarli!...
Sono diventati impossibili!...
tutti quanti! -
Così dicendo tornò a prendere il braccio dell'amica, giusto sull'uscio del salotto in fondo al quale Casalengo stava fumando una sigaretta, appoggiato alla spalliera della poltrona.
- Che vuoi fare, Ginevra? No, per l'amor di Dio! Sta' attenta! Tuo marito ha un certo viso questa sera!
- Bisogna ch'io gli parli...
assolutamente!...
Non ho avuto tempo d'avvertirlo...
Se mio marito riesce a trovarsi solo con lui prima che io l'abbia prevenuto nascerà qualche disgrazia!...
-
La poveretta era convulsa mentre balbettava quelle parole, sottovoce, coll'aria più indifferente che poteva, nello stesso tempo che accostava il capo ad ammirare la bella croce di brillanti sul petto dell'amica.
- Ah, Dio!...
-
Suo marito entrava in quel momento nel salottino, diritto, calmo, arrotolando fra le dita una sigaretta.
Poi si chinò per accenderla a quella di Casalengo, mentre la moglie in fondo alla sala, sentivasi venir meno, colla visione di quei due uomini che si trovavano faccia a faccia negli occhi stralunati.
La contessa, che vedeva ogni cosa dal suo posto, si mosse subito, e passò immediatamente nella stanza dove fumavasi.
- Ah, Dio mio! - balbettò la povera Ginevra.
- Via, mia cara!...
Vedi!...
È lì la contessa.
Non c'è pericolo pel momento...
-
Essa, interrottamente, con un soffio di voce, le labbra smorte e convulse, gli sguardi erranti qua e là, disse cosa era stato.
- L'ordinanza l'ha visto venire ieri sera...
tardi...
Ha detto ogni cosa a mio marito...
io non ho avuto tempo di suggerire una scusa a lui...
-
Intanto davano mano a sgombrar la sala per far quattro salti.
I giovani aiutavano, allo scopo di impietosire la padrona di casa e strapparle un sì.
Ma la contessa tappavasi le orecchie per non lasciarsi sedurre, ostinata, inflessibile, tossendo in mezzo al fumo delle sigarette, diceva sempre di no, ridendo e colle lagrime agli occhi.
- No, no...
Dite anche di no, voialtri signori mariti!...
Aiutatemi!...
Lo faccio per voialtri...
È tardi...
Me ne dispiace, miei cari giovinotti, ma questo non era nel programma...
Non voglio farmi tanti nemici...
- Il Comandante Silverio l'appoggiava ridendo.
Anzi, si avvicinò alla moglie, per farle osservare dolcemente ch'erano circa le due, che essa aveva l'aria un po' stanca, che si sarebbe affaticata troppo e sarebbe stata una vera imprudenza per lei così delicata...
così cagionevole...
Invano Gemma frapponeva le sue preghiere, il suo ventaglio, l'impegno con Serravalle.
La sua amica, in un momento che nessuno poteva udirla, l'aveva supplicata:
- Non mi lasciare andare!...
Ho paura!...
-
I giovanotti muovevano cielo e terra.
Infine, come la vinsero, appena risuonarono le prime battute festanti del valzer, la bella peccatrice si lasciò prendere dal ballo, tutta, diventata tutt'altra donna da un momento all'altro, col viso acceso, gli occhi ebbri, il seno palpitante, spensierata, gaia, una bambina, dimenticando ogni cosa, passando da un ballerino all'altro senza un'esitazione o una preferenza.
Quando incontrò la mano di Alvise, febbrile e parlante, nella contraddanza, essa gli porse due dita inguantate, come a tutti gli altri.
Casalengo ballava anche lui disperatamente, senza riposarsi un minuto, senza lasciare il tempo a un pensiero o ad una parola molesta di intromettersi fra lui e le ballerine che andava invitando una dopo l'altra, quasi indovinando e obbedendo a una parola d'ordine.
A un dato punto, nel bel mezzo d'uno sfrenato galoppo, la signora Gemma gli buttò sul viso poche parole rapide.
Le signore s'accomiatavano infine, ancora anelanti, un po' rosse, coll'allegria e l'eccitazione nelle parole e nel gesto.
Alvise Casalengo, che era venuto a salutare fino in anticamera la signora Ginevra, disse tranquillamente al marito di lei che l'aiutava ad infilare la pelliccia:
- Comandante, per terminare quel rapporto che mi ha ordinato mi occorrono alcuni schiarimenti...
Ero venuto a chiederglieli...
ieri sera...
- Ah! - rispose Silverio piantandogli gli occhi in faccia.
- Va bene.
Mi spiegherà poi...
-
Alvise vide biancheggiare fugacemente le sottane di lei che montava in carrozza senza neppure osare di volgere il capo, e rimase inquieto sulla porta, lasciando spegnere il sigaro, colpito dallo sguardo del marito, il quale esprimeva chiaramente di non credere alle sue parole, e dal tono brusco di quella risposta che gli faceva immaginare ciò che sarebbe accaduto più tardi in casa Silverio.
Accadde che a quattr'occhi, nel disordine profumato dello spogliatoio, dove la Ginevra, poveretta, s'era lasciata prendere dalle convulsioni, discinta, coi bei capelli sciolti, fra le lagrime calde e le calde parole, e il dottore per giunta, chiamato in fretta e in furia, e ch'era lì sempre fra i piedi, a tastarle polso e ordinare calmanti, il marito dovette convincersi che Casalengo era proprio venuto a cercarlo per un motivo innocentissimo, e il giorno dopo, quando Alvise venne a prendere gli ordini come al solito, in tenuta bianca, un po' pallido soltanto per la stanchezza della notte, gli disse battendogli sulla spalla:
- Quel benedetto rapporto ci ha dato un gran da fare, a lei e a me! Se ne sbrighi in due parole, e mi dica subito quali schiarimenti le occorrono, senza bisogno di tornare a incomodarsi stasera -.
NÉ MAI, NÉ SEMPRE!
Se un angelo del cielo fosse disceso a promettere sul serio la dolce lusinga che Casalengo credevasi obbligato di tubare tratto tratto all'orecchio roseo della signora Silverio, nei momenti buoni: - Per sempre uniti! - L'uno dell'altro! - Sempre! - lei, no.
Lei non ne diceva delle sciocchezze, neanche in quei momenti...
Ora poi, da che aveva corso il pericolo di vedersi cascare fra capo e collo tanta felicità, per l'imprudenza di un domestico - da che suo marito stava in guardia e minacciava una catastrofe, era diventata prudente, in modo da far disperare Casalengo, l'imprudente! - Ah, no, mio caro! Se sapeste, che paura! -
La bomba scoppiò all'improvviso, quando meno la povera signora sentivasi disposta a dar fuoco alle polveri: uno di quei colpi di vento o di follìa che vi fanno perdere la bussola.
E Casalengo l'aveva persa davvero dietro a quella donna che rassegnavasi docilmente al supplizio di non riceverlo più da solo a solo - specie quando la incontrava al ballo o in teatro, e non poteva neppure metterle un bacio sull'omero nudo.
Qualcosa gli diceva: - Bada, essa non è più quella di prima.
C'è qualcosa, un pensiero fisso, un segreto, un altro, negli occhi che ti guardano, nelle labbra che ti sorridono, nel gesto, nel suono della voce.
Proprio! il vostro peccato, che vi si rivolta contro, e vi punisce...
- Ginevra! È impossibile durarla così...
quando si ama...
se mi amate ancora...
- Ingrato! - ribatté lei, fermandosi un minuto solo, sull'uscio della sala da giuoco.
- Perdonatemi...
Avete ragione...
sempre.
Ma mettetevi nei miei panni, s'è vero che mi amate...
- Lasciatemi! Lui s'è voltato a guardarci...
Avete visto? -
Aveva ragione, sempre, lei; anche quando rideva e civettava in mezzo a una folla di cicisbei per sviare i sospetti; mentre lui doveva tenersi in corpo il dubbio, la febbre, la gelosia, in fino! la smania di sapere e di toccare con mano la sua disgrazia, di stringersela fra le braccia, e di conficcarsela ben bene nel cuore - costretto a mostrarsi disinvolto anche lui, onde evitare il ridicolo, allorché finalmente ella volle offrirgli una tazza di thè, nel vano di una finestra.
- Grazie.
Me la son meritata.
È vero.
- Ma...
secondo.
Lasciatemi guardarvi in viso...
- Ah no! Non facciamo imprudenze! Io, per esempio, potrei vedere nel vostro qualcos'altro...
- Che cosa?
- Lui...
- Lui, chi?
- Lui, quell'altro...
Vedete se sono buono! -
Il poveretto arrivava a bruciarle sotto il naso il granellino d'incenso della gelosia amabile.
Una cosa deliziosa.
Ella, ridendo, diceva di no, di no, col sì negli occhi.
- Un altro, chi? Siete matto?
- Che so io...
il sogno di stanotte, il chiaro di luna, la canzone che passa, l'ultima parola che vi è rimasta nell'orecchio, fra tante...
forse senza che ve ne siate accorta voi stessa...
-
Casalengo si batteva i fianchi, non potendo combattere il rivale incognito ch'era inutile cercare, ch'ella non avrebbe confessato giammai, e che non osava forse confessare a se stessa, ancora.
Una voce gli diceva all'orecchio, a lui pure: - È inutile, tutto ciò che farai aggraverà i tuoi torti di geloso che ha dei diritti, ed è diventato un ostacolo.
Non potrai essere con lei né magnanimo, né dispotico, e neanche innamorato, quasi.
Se minacci t'avvilisci, e se piangi sei ridicolo.
L'ultimo di cotesti imbecilli che le fanno la corte ha un gran vantaggio su di te.
Non puoi mostrarti a lei né umile, né minaccioso, né indifferente, né sospettoso.
Comunque ella ti risponda, sdegnosa, o docile, o tranquilla, o timida, ti butterà egualmente in faccia un rimprovero, un'accusa, una di quelle parole che rompono braccia e gambe, e fanno chinare il capo: "Seccatore!" Bisogna umiliarti colle finzioni, scendere alle indagini tortuose, rassegnarti al supplizio stesso che hai inflitto al marito di lei: la pena del taglione, il castigo di Dio, poiché c'è giustizia lassù anche per queste cose: e diventare odioso come un marito, peggio ancora, perché tu sei legato a lei soltanto da quel vincolo ch'essa vorrebbe mettersi sotto i piedi.
Tu non hai la scusa della Famiglia e dello scandalo da evitare, quando non hai il coraggio di rompere quella catena; non hai il diritto e la legge, per costringere e dominare la donna di cui sei geloso; non puoi averla sotto gli occhi a tutte le ore per spiarla; non hai l'interesse per difenderti, né la scelta del momento per riconquistarla.
Le stesse armi con le quali hai combattuto ti si ritorcono contro: le astuzie, i ripieghi inesauribili che ella sapeva trovare, il sangue freddo nei momenti difficili che ammiravi in lei, e il candore delle bugie che ti sembravano deliziose nella sua bocca...
E l'ebbrezza della vittoria, poi! il ricordo di certi momenti che ti si ficca nelle carni col sospetto di un rivale latente fra te e lei...
-
Proprio un affare serio, anche per un uomo meno innamorato di Casalengo - giacché l'immagine di un rivale passato, presente o futuro c'entra un po' in tutti i romanzi del cuore.
Una tentazione da farvi perdere il lume degli occhi.
- Sentite, Ginevra!...
È assurdo...
quando si ama...
se si ama...
non cercare...
non trovare in tutta Napoli un cantuccio, un momento per ritrovarsi, come prima...
fosse anche per cinque minuti soli...
A meno che...
- A meno che, nulla! Lo sapete e avete torto -.
Pure gli aveva accordato quell'appuntamento, proprio perché non ne aveva voglia, per lealtà, perché era un'imprudenza e un pericolo serio in quel momento, col marito che le stava alle costole, e sembrava fiutasse in aria qualcosa anche lui.
Giel'aveva accordato fors'anche perché indovinava i sospetti di lui, e sentivasi colpevole, in fondo in fondo.
Le donne hanno di coteste delicatezze che noi uomini non arriveremo mai a comprendere.
- Ebbene, - gli disse, - giacché lo volete assolutamente...
Sia pure.
Ditemi quando e dove...
Non importa.
Cercate voi -.
Casalengo aveva trovato: un alberguccio losco che essendo brutto assai sembravagli non potesse essere scoperto da altri.
Essa ripeté:
- Sia pure...
dove volete.
Non importa -.
Prese a due mani il suo coraggio e le sue sottane, e salì in punta di piedi quella scaletta sudicia, sfidando alteramente gli sguardi avidi e indiscreti del servitore bisunto, appena velata da un pezzetto di trina che si era cacciata in tasca, come non s'era curata del viso che aveva fatto la cameriera vedendola uscire a quell'ora e vestita così dimessamente, come s'era rassegnata all'insolenza del lazzarone che l'aveva scarrozzata sino ai vicoletto oscuro, dopo mille andirivieni sospetti, ghignando ed ammiccando alla gente che incontrava, per accusare il soffietto traballante sotto il quale tentava di nascondersi la povera signora messa così alla berlina, rinfacciandole al termine della corsa: - Cinque lire? A chi le date? Un servizio come questo! -
Casalengo aspettava dietro la finestra, colle tendine calate, il cuore in sussulto, innamorato sino ai capelli, dopo tanto tempo che non si erano più visti...
o quasi.
Essa entrò senza esitare, pallidissima, premendosi il petto anche lei.
Ritirò la mano che egli le aveva presa, e cavò dal manicotto una boccettina che fiutò a lungo, senza rispondergli, senza muovere un passo, guardandosi intorno cogli occhi lucenti: degli occhi in cui erano tante cose, all'infuori dello smarrimento e dell'abbandono che aspettava lui.
Però, in quel momento Alvise vide soltanto lei, bella, bianca, bionda, odorosa, sola con lui.
E la ringraziava colla voce tremante, col cuore traboccante di riconoscenza e d'ardore, col viso acceso, colle mani tremanti.
Accarezzava il manicotto e i guanti di lei; le faceva dolce violenza per attirarla vicino a lui, sul canapè a grandi fiori gialli e rossi: - Cara Ginevra...
Bella e buona tanto!...
Finalmente!...
Povera bimba...
come le batte il cuore!...
Qui, qui sul mio!...
- Ditemi, - rispose invece lei, sempre colla boccetta sotto il naso.
- Non potreste aprire quella finestra?
- Ah! - esclamò Casalengo, lasciandosi cadere le braccia.
- Ah! -
Ella si pentì subito d'essersi lasciata sfuggire quelle parole che erano state una fitta al cuore del povero innamorato, e sedette rassegnata, scusandosi col dire:
- Ma si soffoca qui!...
- Perdonatemi...
C'è un mondo di gente alla finestra dirimpetto...
Non ho potuto trovare di meglio...
per la vostra sicurezza...
- Vi ringrazio.
Avete ragione -.
Adesso rimanevano in silenzio l'uno rimpetto all'altra, imbarazzati e quasi cerimoniosi.
Talché lei, buona in fondo, se ne avvide, e volle togliersi i guanti e la veletta, per compiacenza, cercando ove posarli.
Poi, a buon conto, cacciò ogni cosa nel manicotto, che si tenne in grembo.
- Scusatemi, Alvise...
Vi sembrerò strana...
Sono tutta...
così...
-
Alvise continuava a tacere, seduto di faccia a lei, guardandola fissamente, tristamente.
E nei suoi occhi un sentimento nuovo, una grande amarezza balenava.
Infine, con voce mutata, nella quale tradivasi suo malgrado quell'angoscia, le disse:
- Ahimè, Ginevra...
siete come una che non ama più! -
Anch'essa allora alzò gli occhi splendenti, guardandolo fisso, con un sorriso amaro all'angolo della bocca.
- Avete ragione a dirmi ciò...
adesso...
e qui!...
- Ah! Non vedete quanto soffro? Non sentite che vi amo come un pazzo? Non avete indovinato tutte le torture?...
-
Vinto dalla commozione, dal desiderio, dalla passione, si lasciò trascinare a dirle tutto: le angosce, i palpiti, il dubbio, le notti passate sotto le sue finestre, la febbre che gli metteva addosso solamente quella breve striscia del suo polso nudo, i castelli in aria, i sogni, le follie...
tutto, tutto, proprio come un bambino: l'abbandono intero che tanto piace alle donne.
Essa gli posò infatti le mani sui capelli, quasi per accarezzarlo, commossa di vedersi ai piedi la forte giovinezza di quel fanciullo di trent'anni, come abbandonandosi anche lei, per riconoscenza.
Soltanto, vedendogli luccicare le lagrime negli occhi, tornò fredda come prima.
- No...
ecco...
Ho avuto una gran paura...
Ecco cos'è...
- Paura di che, povera bimba?...
- Ma di lui, mio caro.
Si fa presto a dire...
Vorrei vedervici voi! -
E anch'essa sciorinò allora tutto ciò che aveva patito e temuto, dal giorno che suo marito era entrato in sospetto.
Non si riconosceva più quell'uomo.
Un Otello addirittura! Dormiva col revolver sotto il guanciale.
Una paura atroce, un batticuore continuo...
Se incontrava lui, Casalengo...
se non lo vedeva...
temendo che un gesto o una parola lo tradisse...
trasalendo a ogni lettera che portava la posta...
se udiva il campanello...
Ogni cosa che la metteva sottosopra...
l'umore del marito, il contegno dei domestici...
- Insomma una cosa da far venire i capelli bianchi, amico mio!
- Ebbene! - esclamò Casalengo raggiante, stringendole le mani da farle male, seduto ai piedi di lei, supplicandola cogli occhi innamorati, accarezzandola col sorriso ebbro.
- Ebbene!...
- Ebbene! che cosa?
- Fuggiamo insieme!...
lontano da Napoli!...
in capo al mondo!...
Troveremo pure un nido dove nascondere la nostra felicità!...
-
Ella spalancò gli occhi, attonita, quasi le avessero proposto di condurla alla luna in pallone, d'andare a un ballo in veste da camera, di camminare a testa in giù.
Sicché il lirismo e l'entusiasmo del povero innamorato caddero a un tratto.
Ma lei, vedendolo così mortificato, ripigliò immediatamente, mettendogli la mano sulla bocca:
- Zitto!...
zitto!...
per carità...
-
Cercò di fargli intendere ragione, di farlo rientrare in se stesso, quel gran fanciullone, proprio colle buone, con dolcezza, abbandonandogli le mani anche, purché non ne parlasse più...
Egli non ne parlava più infatti, baciava e ribaciava quell'epidermide fine e profumata, risalendo lungo il braccio, sollevandosi sulle ginocchia.
Allora la bella Ginevra tornò ad avere la paura di prima.
- Badate, Alvise!...
Siete proprio sicuro che nessuno m'abbia vista?...
Voglio dire che nessuno abbia potuto vedermi...
mentre venivo?...
- Ma...
certamente...
- Perché...
m'è sembrato che qualcuno mi seguisse...
una carrozzella, sì...
dalla Villa sino a Foria...
E anche nel salir la scala...
Lui non pareva risolversi ad uscire.
M'ha chiesto se andavo al concerto...
Siete sicuro della gente di questa casa?
- Sicurissimo...
Chi volete...
Nessuno vi conosce...
-
Alvise non connetteva più, dal momento che quella manina gli si era posata sulla bocca.
Cercava le parole, balbettava, tentava di rifarsi al punto di prima e di riguadagnare il tempo perso, indispettito di vederselo fuggire a quel modo, stupidamente, dopo tanti ostacoli e tante difficoltà per trovarsi un'ora insieme!...
Ma lei però aveva il coraggio di pensare a tante altre cose in quel momento; badava a difendere la sua veletta e il manicotto!...
- No...
davvero...
Alvise...
Ho paura!...
- Ah, sì!...
la carrozzella...
Foria...
la scala!...
- Ecco! - rispose lei corrucciata.
- Ecco come siete!
- Ma io sono come uno che ama, cara mia! Non ho i vostri ma e i vostri se...
E neanche voi li avevate, prima...
- Ecco! ecco! Me lo merito!
- Oh, Ginevra!...
oh!...
-
Ella si era messo il fazzoletto agli occhi: un'altra gran tentazione, il profumo di quel fazzoletto, e le lagrime di quegli occhi! Alvise le afferrò di nuovo le mani, baciandole, baciando il fazzoletto, gli occhi, il vestito, fuori di sé, delirante, chiedendole se l'amava ancora, proprio, tutta tutta, se sentiva anche lei quello struggimento e quella frenesia.
Essa diceva di sì, di sì coi cenni del capo, col rossore del viso, col tremito delle mani, abbandonandoglisi a poco a poco, mutandosi in viso, fissandolo col turbamento delizioso negli occhi, balbettando anche lei, vinta alla fine:
- Non vedete...
Non vedi...
Sarei qui forse?...
Vi pare che sia una cosa da nulla?...
- Sì, è vero! Perdonatemi, povera bimba! Bimbetta bella e cara!...
Come batte quel cuoricino!...
Anch'io, sai!...
Ma è un'altra cosa...
Non è vero?...
Guardami! Sorridimi! È stato un gran affare, eh, questa scappata?...
Un colpo di testa?...
Non siam fatti per le tempeste grosse dell'amore! Preferiamo la maretta che ci culla e ci accarezza!...
Non è vero? di', confessalo! Siamo un po' civettuole anche! Ci piace di vederci corteggiare e di far perdere la testa al nostro prossimo, eh?...
Di'! di'!...
Tutti coloro che ti corrono dietro e sospirano alla luna!...
Confessalo! Confessati! Dimmi, chi è l'amante della luna adesso? colui che sospira di più per la mia Ginevra? Lo sai? te ne sei accorta? ti piace, di'...
ti piace far disperare il prossimo tuo?...
-
Ella sorrideva proprio come una bimba, stordita, commossa, riconoscente di quella nuova adulazione, dicendo di no, di no, che amava il suo Alvise, lui solo! E gli buttò anche le braccia al collo.
Tanto che lui non disse più nulla e ricominciò a parlare soltanto coi baci, dei baci che se la mangiavano viva, e le facevano mettere dei piccoli gridi soffocati:
- No!...
no!...
Davvero!...
Zitto!...
Sento proprio rumore.
Lì...
nella scala, dietro l'uscio!...
sentite?...
- Ah!...
quella scala maledetta!...
-
Ma Alvise s'arrestò lui pure a un tratto, udendo realmente il rumore di un alterco sul pianerottolo, poiché il cameriere voleva guadagnarsi coscienziosamente la sua mancia, e difendeva energicamente l'ingresso del santuario.
Una voce li fece allibire entrambi, la voce di Silverio.
L'uscio sgangherato si spalancò a un tratto, e apparve lui, il marito, Otello, cieco di rabbia e di gelosia - e stavolta poi con ragione, almeno all'apparenza.
- Il cuore le parlava, a lei!
Ciò che allora accadde può bene immaginarsi; perché anche dei gentiluomini, in certe occasioni, perdono il lume degli occhi tale e quale come dei semplici facchini.
Una scena terribile e tale da guarire in un momento di ogni tentazione passata e futura la povera donna che faceva sforzi disperati per svenirsi.
Mai più, mai più poté levarsi dagli occhi il gesto di Alvise che aggiustavasi la cravatta, cercando il cappello per uscire insieme al suo nemico mortale, e andare a tagliarsi la gola d'amore e d'accordo.
Fuori di sé, derelitta, andò un'ora dopo a bussare alla porta di lui.
Alvise parve stupefatto.
- Voi!...
qui!
- Oramai...
- balbettò ella smarrita.
- Oramai...
siete il mio amante...
- Ma no, amor mio!...
è impossibile!...
- E dove volete che vada adesso?
- A casa vostra.
Non temete.
Vostro marito è un gentiluomo.
Tutto si è accomodato.
- Accomodato, in che modo?
- Non sarà fatta parola di voi nella questione fra me e vostro marito...
Ci sarà di mezzo un'altra donna...
una che non avrà nulla da perdere.
- Nessuno vi crederà.
- Non importa che credano.
Ma bisogna che sia così.
Vostro marito partirà immediatamente per un lungo viaggio...
Voi sarete libera...
- Ah!...
- Credetemi!...
- diss'egli stringendole forte le mani, quasi colle lagrime agli occhi.
- Credetemi che darei tutto il mio sangue perché non fosse avvenuto tutto ciò! -
Ella gli si buttò fra le braccia, piangendo tutte le sue lagrime, abbandonandosi interamente all'uomo che un'ora prima cercava un nido in capo al mondo per andare a nascondervi il loro amore e la loro felicità.
Adesso invece cercava di calmare la povera Ginevra, preoccupato dei riguardi che doveva alla riputazione di lei, ai ma e ai se che le aveva rimproverato poco prima, cercando di farle comprendere le esigenze mondane che un'ora avanti voleva farle mettere sotto i piedi, un po' pallido, malgrado il suo coraggio provato, tutto un altr'uomo, imbarazzato, esitante, guardando l'uscio e l'orologio ogni momento, rispettoso e delicato, uomo di mondo sino ai capelli, è vero, ma un uomo di mondo cui sia caduta una tegola sul capo, e gli sia rimasta fra le braccia una gatta da pelare, per usare la frase gentile che nessuno dice e tutti pensano in casi simili.
- Infine...
- proruppe, - cara Ginevra...
aspetto qualcuno...
Non potete farvi trovare qui da questo qualcuno...
-
Il senso morale è industrioso in tanti modi.
E non è a dire che Casalengo ne fosse peggio dotato degli altri.
Quando il suo rivale se lo vide sotto la mira della pistola, con quella faccia, disse piano agli amici che l'assistevano: - Ecco un uomo morto -.
Certo non mancò per lui, che gli piantò due pollici di ferro fra le costole, e lo mise a letto per un pezzetto.
La signora viaggiò tutto quel tempo, almeno si disse.
E se pure andò a trovare il suo amico, di nascosto, proprio da suora di carità, non se ne seppe mai nulla ufficialmente.
Le lettere, per andare da lei a lui, facevano un lungo giro, coll'aiuto di un'amica fidata.
Talché quando la signora Ginevra riaprì il suo appartamento in via Partenope, libera e sola, più bella e più elegante che mai, fu una gara fra le signore e gli uomini in voga a darvisi ritrovo.
Alvise vi andò cogli altri, all'ora del thè, un giorno che il salotto era pieno di gente, e la bella Silverio faceva gran festa a tutti.
- Ah, Casalengo! Bravo! Temevo che fosse partito, o che mi avesse dimenticata -.
Egli vi ritornò altre volte, nei giorni di ricevimento e anche dopo.
Si fermava allo sportello della sua carrozza, al passeggio; e andava a salutarla nel palchetto, al San Carlo.
Era sempre uno degli intimi, come prima, il cavalier servente dell'elegante mondana, mentre il marito di lei viaggiava lontano, talché non c'era persona che sapesse vivere la quale invitando la signora Ginevra dimenticasse di invitare Casalengo, e viceversa.
Proprio il nido d'amore, tappezzato da Levera, e col terrazzino sul golfo di Napoli per contemplare le stelle, e la luna di miele.
Erano liberi, soli e senza alcun sospetto.
Ma non era più la stessa cosa, o almeno non era più la stessa cosa di prima.
Nella loro felicità aprivasi una lacuna, una crepa in cui s'abbarbicavano delle male piante che aduggiavano il bel sole d'amore e facevano impaccio alle parole e alle cose gentili.
Lei, infine, non sapeva perdonare a Casalengo l'inchino profondo, l'aria troppo rispettosa con la quale veniva a salutarla, in teatro, al ballo, fra i suoi amici.
Lui aggrottava le ciglia suo malgrado, tal quale come Silverio, se qualcheduno di essi mostravasi più appiccichino degli altri, più assiduo e premuroso degli altri verso di lei - tacendole le sue pene, oppure stordendola col cinguettarle alle orecchie delle sciocchezze che la facessero ridere.
- Le conosceva anche lui le arti di cotesti seccatori...
e anche lei un po' civettuola lo era stata sempre...
per incoraggiare ogni sciocchezza che le tubassero all'orecchio.
- Una noia, cara Ginevra!...
Non capisco come certuni si buttino addosso a una signora e le facciano gli occhi dolci per dirle magari: buona sera!
- Quello che facevate voi, mio caro...
allora...
nei bei tempi...
Quando vi dicevo: "Né mai, né sempre...." -.
CARMEN
- No, non mi tentate, Casalengo! Sapete che mi chiamano Carmen! Il vostro amico è "biondo e bello e di gentile aspetto"; e ingenuo, timido e cavalleresco...; ritorna adesso dagli antipodi...
Insomma, mi piace assai.
Non voglio conoscerlo -.
Essa gliel'aveva detto!
Invece Casalengo credeva che scherzasse: leggerezza, vanità, orgoglio d'amante che fosse stato in lui; cecità di stolto che Dio voglia perdere; incanto di quelle labbra che avrebbero fatto commettere qualsiasi sciocchezza per vederle sorridere ancora in siffatta maniera; distrazione procuratagli dai monili serpentini che tintinnavano scorrendo giù pel braccio, nudo, il quale levavasi minaccioso, col dito rivolto al cielo: - Guardate, Casalengo! C'è un Dio lassù per queste cose!...
-
Ma quando lui, col sorriso fatuo che gli segnava già le prime rughe sottili accanto agli occhi, s'ostinò a fare la presentazione: - Il mio amico Aldini...
- Essa rispose semplicemente: - Gli amici dei nostri amici...
- E stese la mano al nuovo arrivato con tanta cordialità, così lieta di scorgere nel giovanetto l'omaggio di un grande imbarazzo, che volle pure ringraziarne Casalengo con un'occhiata rapida: un'occhiata in cui era il sorriso del diavolo.
Aldini, che aveva sentito parlare sino a Zanzibar della gran passione per cui il suo amico Casalengo s'era giuocate le spalline di comandante, provava adesso una certa sorpresa dinanzi a quella donna che non aveva poi nulla d'estraordinario.
Un viso delicato e pallido, come appassito precocemente, come velato da un'ombra, dei grandi occhi parlanti, in cui era della febbre, dei capelli morbidi e folti, posati mollemente in un grosso nodo sulla nuca, e il bel fiore carnoso della bocca - la bocca terribile - come dicevano amici e gelosi.
Ma lo turbava il profumo mondano, la carne mortificata dalla gran vita, che traspariva fra le trine preziose, il segno che il braccialetto le lasciava sulla pelle delicata - e gli dava un gran da fare per non mangiarsela cogli occhi.
Ella se ne avvide, e mise cinque minuti buoni a infilarsi il guanto, in premio dell'ammirazione muta che le tributavano gli occhi sinceri del giovinetto, i rossori fugaci, le parole mozze...
Da abbracciarlo, lì, dinanzi a tutti quanti! E gli lasciò in pegno il ventaglio, tornando a ballare il valzer - un legame, lo scettro della sultana.
- Eccoti comandato...
servizio particolare! - gli disse Casalengo ridendo.
- Se avevi qualche impegno, ti scuserò io, caro Riccardo...
- No! Oh no! - esclamò Aldini, stringendo forte il ventaglio colle due mani.
Adesso osservava alla sfuggita, con una curiosità inquieta e rispettosa, il suo amico Casalengo, la forte giovinezza di lui come curva sotto un giogo, il sorriso distratto sulle labbra riarse, le frasi stonate, il pensiero fisso, l'ardore segreto, la ruga impercettibile e quasi nascosta fra le ciglia, gli sguardi erranti, suo malgrado, attratti dalla donna amata che gli fuggiva dinanzi nelle braccia di un altro, raggiante, e gli buttava in faccia il sorriso, il profumo, il vento dell'abito, la nudità delle spalle, tutte le seduzioni, i fantasmi dell'amore e della donna, quali erano passati dinanzi agli occhi a lui pure, Aldini, nelle calde fantasticherie dell'adolescenza, discorrendo laggiù della maliarda la quale prendeva lui pure adesso, con una parola, con un nulla, legandolo, incatenandolo a sé con quel ninnolo che gli aveva messo fra le mani, come un fanciullo che si voglia tenere a bada.
- Ah, ma sapete! È proprio carino il vostro amico Aldini!
- Ve l'avevo detto, - rispose Casalengo un po' ironico.
Ella si strinse nelle spalle con un movimento che gli mise sotto il naso i begli omeri nudi.
- Badate però.
È un ragazzo...
un ragazzo pericoloso.
- Ah, così? - disse lei.
E Carmen volle farne l'esperimento, povero Aldini.
Tanti altri, ora vinti e intossicati per tutta la vita, l'avevano chiamata con quel soprannome di guerra e di malaugurio, ch'era la punzecchiatura delle sue amiche gelose, e la carezza o la maledizione degli incauti che si lasciavano prendere al fascino del suo sorriso dolce e buono - la più strana cosa, su quella bocca di vampiro.
Poich'essa faceva il male con una incoscienza ch'era la sua maggiore attrattiva; vi metteva una sincerità, quasi una lealtà che le faceva perdonare i suoi errori, come il gran nome che portava le faceva aprire tutte le porte.
E una squisita eleganza, una grazia innata fin nelle bizzarrie, un'ingenuità provocante fin nella stessa civetteria, l'aria di gran dama anche in un veglione, avida di piaceri e di feste, quasi divorata da una febbre continua di emozioni e di sensazioni diverse, una febbre che la consumava senza ravvivare il suo bel pallore diafano, né le sue labbra dolorose, ma che però la lasciava spesso in una prostrazione desolata, le dava delle ore di stanchezza e di uggia, di cui i suoi adoratori pagavano la pena: ore tremende - in cui non c'era altro da fare che prendere il cappello e andarsene - dicevano i forti, quelli che avevano pianto poi dietro l'uscio di lei.
Gli altri, coloro che cercavano di spiegare le sue follìe, se non di scusarle, dicevano ch'era ammalata, ch'era matta - tutti i d'Altona erano morti tisici o dementi - che aveva provato dei gran dolori e dei gran disinganni, ch'era ferita a morte, condannata senza speranza, e voleva vivere vent'anni in venti mesi.
- Gliel'ha detto anche a lei, il mio amico Casalengo, che mi chiamano Carmen? - chiese ella ad Aldini, col sorriso mordente, la prima volta che un'ondata di folla glielo mise di nuovo faccia a faccia, all'uscire dal Sannazzaro.
Ma gli stese la mano senza rancore.
Poscia, mentre aspettava la carrozza, stretta nella pelliccia, e con quell'aria di stanchezza e di noia che faceva scappare la gente, soggiunse:
- M'accompagni.
Servirà ad insegnarle la strada...
quando vorrà venire a farmi una visita.
Troveremo qualche amico a casa...
degli amici suoi e miei, per prendere il thè insieme....
se non ha paura che l'avveleni come la Lucrezia Borgia di stasera...
una Lucrezia tremenda, da morir di noia!...
-
Fu in tal modo che lo prese, - come, per fargli posto nel legnetto, aveva preso e raccolto a due mani il suo vestito, - e lo avvolse fra le pieghe di esso, e lo stordì col suo profumo, allorché la pelliccia, scivolandole giù per le spalle, gli buttò al viso e alla testa la trasparenza di quegli omeri rosei - senza volerlo, quasi senza avvedersene, in quell'ora di uggia, e d'umor nero che l'avrebbe fatta dar della testa nell'imbottitura del coupé, e che egli le leggeva sul viso smorto, mentre guardava distrattamente attraverso il cristallo, ai bagliori fugaci che gettavano le vetrine scintillanti dentro la carrozza che correva su per Toledo - senza dirgli una parola, né rivolgergli un'occhiata, quasi non pensasse più a lui, o subisse ancor essa lo strano imbarazzo di quell'incontro, di quel silenzio, dell'oscurità che li avvolse tutti e due a un tratto nello stesso mistero e nella stessa tentazione, appena il legno svoltò pel corso Vittorio Emanuele - o sapesse che ciò doveva bastare a mettergli nel cuore, a lui, nelle carni, incancellabile, la febbre di quell'occasione che fuggiva rapida, la sete di quelle labbra di donna che si celavano nell'ombra, il turbamento di quella sfinge che rimaneva per lui impenetrabile nello stesso tempo che gli palpitava allato.
- Degli angeli godono così di sfiorare la colpa colle loro ali candide - ed essa non era un angelo, no, povera signora! Talché quando lo presentò ai suoi amici che l'accoglievano festanti: - Il tenente Aldini! - con un'aria di trionfo quasi avesse detto: - Ecco il Figliuol Prodigo! - era così pallido e stralunato, il povero Figliuol Prodigo, e come abbagliato dalla piena luce del salotto, o dalla fiamma ch'essa gli aveva accesa in cuore! Ed essa aveva davvero qualcosa dello spirito del male, in quel momento, nel sorriso ironico, nell'aria strana, nel pallore marmoreo del volto, nell'allegria forzata colla quale davasi tutta ai suoi ospiti, lottando di brio e d'arguzia, servendo il thè, dimenticando completamente Aldini in un cantuccio, faccia a faccia con un album di ritratti nel quale cercava di nascondere il suo imbarazzo.
- Che cosa vi ha fatto quel povero giovine? - le chiese sottovoce Casalengo, mentre inchinavasi a prendere una tazza di thè dalle sue mani.
- Tutti m'avete fatto! - rispose lei nel medesimo tono di scherzo.
Ed era forse la verità, il grido di rivolta del suo cuore ulcerato, il senso di disgusto che aveva trovato in fondo al bicchiere, l'amarezza che l'aveva colta allo svegliarsi dai sogni d'oro - quando aveva visto il pentimento mal dissimulato dell'uomo a cui aveva tutto sacrificato - quando era stata ferita dall'insulto che nascondevasi sotto il madrigale di galanti resi audaci dalla sua caduta - quando l'era mancata sin l'alterezza e l'illusione del sentimento puro, della fede giurata, pel tradimento altrui, ed anche pel proprio.
- Non valeva di meglio, no, essa ch'era stata debole nell'ora stessa in cui un altro le era infedele.
Tanto peggio! Tanto peggio per tutti, anche per lei, che sentiva rifiorire il bel fiore azzurro dentro di sé.
Non le avevano detto che i fiori durano un giorno, e che solo sinché odorano esistono? Era tornato spesso in quella casa di cui essa gli aveva insegnato la via, il Figliuol Prodigo, timido e rispettoso, ma preso proprio sino ai capelli, innamorato come un pazzo, di un amore bizzarro che si pasceva di chiaro di luna e di passeggiate sotto le finestre.
- L'aveva visto tante volte, lei, prima d'andare a letto, nel buio della strada! Ed era strano come ciò la facesse sorridere di piacere, le facesse cacciare il viso infocato nel guanciale, con una muta carezza.
Era un voluttà sottile e penetrante, il gusto di un'infedeltà che non poteva dar ombra a Casalengo; ma così dolce, quando beveva il bacio dagli occhi ingenui d'Aldini, e sentivasi ricercare avidamente da quell'adorazione bramosa, tutta, il seno palpitante, mentre ballava con lui, e le braccia che avrebbero voluto avvincerlo, al sentire come gli batteva il cuore contro il suo, il cuore che gli si dava, e la bocca, e la persona intera - e neppur tanto così, nondimeno! Né una parola e neanche un dito! - Una volta sola, smarrita, in quelle ondate di sangue che la musica e il valzer le mandavano alla testa...
- No, Riccardo, così...
mi fate male!...
-
Insomma, era scritto lassù.
Ella non avrebbe voluto, no, davvero, per timore del poi, per timore di lui e di se stessa...
e di Casalengo pure, giacché non era cattiva in fondo.
Ma allorché volle proprio, coll'anima e col corpo...
Tanto peggio! Almeno non volle essere né ipocrita né egoista.
Aveva sempre pagato del suo la festa, in moneta di lagrime e di onte segrete; e non doveva nulla a nessuno, neppure al Casalengo, cui aveva dato il diritto di mostrarsi geloso sacrificandogli tutto quando non l'amava più.
Come Aldini ricevette l'ordine d'imbarco, e minacciava di dare la dimissione, di tagliarsi la gola, un mondo di cose, ella gli disse:
- No, Riccardo.
Verrò con voi...
dovunque...
-
Una proposta che lo sbalordì, povero Aldini, quasi presentisse già il momento in cui doveva pesargli come una catena, quella dolce compagna che gli buttava le braccia al collo.
Ma allora vide soltanto le belle braccia delicate che l'avvincevano, e le labbra fragranti che gli si promettevano per sempre.
Ella forse, sì, ebbe la visione di quel giorno, nella nube che le misero agli occhi innamorati le lagrime della tenerezza.
- Sì, viaggerò anch'io.
Non ho nulla che mi trattenga qui...
No, no...
lo sapete!...
Né altrove, in nessun luogo...
Ho buttato al vento il mio fazzoletto...
per lasciar fare al destino...
Non per voi, siate tranquillo.
Sono ricca e padrona di me.
Sarò libera...
fra breve...
non dubitate.
Lasciate fare a me...
che non farò del male né a voi né ad altri.
M'hanno sempre detto che i viaggi di mare gioverebbero alla mia salute.
E poi, non vi terranno sempre imbarcato, mio povero Riccardo...
Vi lascieranno mettere piede a terra, di tanto in tanto...
per dimostrare alle belle straniere che ci abbiamo dei begli ufficiali a bordo delle navi...
per proteggere delle connazionali color di fuliggine o color di cioccolatte...
Ebbene, io sarò laggiù ad aspettarvi, dove indicherà il telegrafo o il giornale.
Vi farà piacere di trovar lì una tazza di thè e un cappellino da cristiani, non è vero? E senza pesare tanto così su di voi! senza nuocere alla vostra carriera...
Non avranno da dire né i regolamenti, né il servizio, né i superiori, e neanche le conoscenze che raccatterete per via, quando vi manderanno troppo lontano, o dove non sarò certa di trovare un caminetto e dei fiori freschi...
Vedete che non fo la brava, e non vi prometto mari e monti...
Liberi e felici come due uccelli dell'aria! Soltanto, quando anche questa bella volata nell'azzurro ci stancherà...
o ci verrà noia...
a voi o a me...
poiché tutto finisce...
Quando vorrete maritarvi, o amerete un'altra...
Sì, sì, ragazzo mio, un bel giorno rideremo di queste belle parole che ci fanno piangere adesso...
Ma non importa, se adesso sono sincere...
Quando vi parrà che io vi sia d'inciampo nella carriera o nella vita, e vorrete riprendere tutta intera la vostra libertà, ditemelo francamente...
Come io dirò francamente a un'altra persona che voglio riprendere la mia libertà, oggi stesso...
Non v'inganno e non inganno, vedete, Riccardo! Non sono peggiore di quella che sembro...
Ma non ci diamo la pena e il tormento di mentirci, mai! Mi promettete?...
mi prometti?
- Oh, amore! amore bello! - esclamò Aldini fuori di sé, tentando di prendersela fin da quel momento fra le braccia avide.
- No! - rispose lei, mettendogli le mani sul petto.
- Non ancora...
Quando sarò libera...
e tua! -
Casalengo fu ripreso bruscamente da un accesso dell'amore antico, appena essa gli fece capire che il suo era morto, lì, presso quel tavolinetto, dove l'avevano strascinato un pezzo, per abitudine e per dovere, nella mezz'ora prima di pranzo che il suo amico, sempre galante e gentiluomo, non mancava mai di dedicarle.
Ora egli sentivasi mordere al cuore dal pensiero che un altro le facesse tremare la voce ed il cuore come un tempo aveva fatto lui, come sembravagli di provare ancora dentro di sé in quel momento - e che fosse stato sempre così, e che dovesse durare eternamente, anche per lei...
Ella prese un fiore che si piegava avvizzito nel vasetto d'argento, e gli disse tristemente:
- Vedete questa rosa che mi avete donata ieri? -
Casalengo chinò la fronte sulla mano, e tacque un istante.
- Partirete? - domandò poi.
- Sì.
- Per dove? -
Ella non rispose.
- Volete darmi almeno quel fiore? - chiese tristemente Alvise.
Ella esitò alquanto, prima di rispondere.
- Grazie!...
Voi sapete vivere...
-
Egli si alzò in piedi, leggermente pallido, stretto nel vestito che gli dava ancora la sua aria militare, ma perfettamente padrone di sé, col sorriso un po' ironico dei suoi bei giorni.
- E lasciar vivere...
sì, ho imparato a mie spese.
Mi permettete di darvi un consiglio, in nome di questa benedetta esperienza?
- Dite.
- Partite sola...
e più tardi che potete -.
Ella arrossì sino ai capelli.
- Non dubitate.
Ci avevo pensato...
pel vostro amor proprio.
- No, mia cara, per voi stessa, quando ritornerete, e avrete bisogno dei vostri amici -.
E inchinandosi a baciarle la mano, aggiunse con un sorriso pallido:
- Voglio rimanere vostro amico...
se volete...
se sapete...
-
PRIMA E POI
- No - m'avete detto.
- Non sciupiamo il bel sogno d'oro, Riccardo! -
Ah, voi non sapete cos'è quel sogno d'oro nei vostri occhi che cercano i miei, e il fascino che metteva allora nel vostro pallido sorriso la triste scienza del poi!
Tutto, tutto l'ho assaporato quel terribile fascino - nel dolce lividore che i baci altrui v'hanno lasciato sulle palpebre, nella rugiada di cui sono ancora umide le vostre labbra, nel molle abbandono con cui vi appoggiavate al parapetto del battello, nel gesto carezzevole della vostra mano che additava Capri, laggiù in fondo, a Casalengo - lui che non trema, né impallidisce più nel parlarvi.
No, non voglio pensare a lui.
Mi sembra d'impazzire.
Avete indovinato quanto ho sofferto in quell'eterna gita di piacere? E anche voi! Ho sentito tremare la vostra mano mentre vi aiutavo a scendere nella barca.
Oh, Ginevra, quando vi siete abbandonata trasalendo contro il mio petto nel buio della Grotta Azzurra!...
Che m'importa di Casalengo, che m'importa del poi, che ve ne importa anche a voi, poiché le vostre pupille s'intorbidano e si smarriscono figgendosi nelle mie?...
Sentite, ieri sera son tornato da voi, sapendo che vi avrei trovato quell'altro e che non mi avreste ricevuto.
Gioconda m'ha detto infatti: - La signora non c'è -.
E s'è fatta rossa, vedendomi così pallido.
Avevo visto del lume nel vostro salotto.
Mi son fermato nella via sino alle undici per vederlo ancora e sentirmene ardere gli occhi ed il sangue - sino all'ora in cui l'altro se n'è andato.
Ho cercato di indovinare se l'amate ancora, dal suo passo e dalla sua andatura.
Se avessi visto quel lume nella vostra camera da letto mi sarei ucciso.
Oggi avete risposto alla domanda insidiosa della vostra amica Gemma con uno scherzo amaro: - Né mai, né sempre! - Ah, com'era dolorosa la vostra gaiezza in quella gita di piacere! e quanto avete dovuto amare quell'uomo, per non voler più amare!
Ho sentito parlarne sin laggiù, in capo al mondo, dove l'avventura di Alvise Casalengo metteva in rivoluzione il quadrato degli ufficiali, e il vostro bel nome correva come un bacio sulla bocca dei giovani allievi.
Voi mi avete preso sin d'allora, colla curiosità o la vaga gelosia che m'ispiravate, quando pensavo a voi che non conoscevo, nelle lunghe vigilie di quarto, sotto le stelle di un altro emisfero.
M'avete preso colle vostre bianche mani, dandomi il ventaglio da tenere, la prima volta che c'incontrammo, vi rammentate? Voi, mondana, non immaginaste neppure ciò che poteva essere una vostra parola o un semplice gesto pel giovane selvaggio che vi arrivava da Zanzibar già innamorato e pauroso di voi, quanta avida e gelosa penetrazione fosse negli occhi che divoravano la vostra bellezza offerta alteramente, il sorriso noncurante col quale ne accoglievate l'omaggio, l'abbandono ch'era nel concedervi ai vostri ballerini, il suono della voce con cui parlavate ad Alvise - e in cui sentivo le dolci parole che gli avrete dette - l'ebbrezza che provai io stesso la prima volta che mi deste del voi, quasi m'aveste già dato qualcosa della vostra persona.
Vi rammentate? quel giorno che sorprendeste il primo lampo di follìa e d'adorazione nei miei occhi, e vi faceste di porpora, odorando il mazzo di fiori che vi aveva mandato Casalengo, per coprirvene il seno?...
Così m'avete preso, per sempre! Non ci credete voi a questa parola? Perché avete chinato il capo quando vi ho confidato tremando il mio segreto? e avete lasciato la vostra mano nella mia? Quante cose mi avete dette senza parlare, in quell'angolo del salotto che sono rimasto a guardare dalla strada, stanotte! Quante cose vi ho detto chinando la fronte sul vostro ritratto che sorride dalla cornicetta di strass posata sul tavolino! Così mi pareva di veder brillare e sorridere a quell'altro i vostri occhi in quelle tre ore orribili che ho passato sotto le vostre finestre.
- Quando m'è sembrato di vedere Alvise dietro i vetri, quando vi siete avvicinata a lui, forse per porgergli una tazza di thè, forse per guardare nella via, e le vostre due ombre si sono confuse insieme...
Mi avete visto voi, Ginevra, laggiù, sotto la pioggia, coi piedi nel rigagnolo? Vi siete rammentata allora del dubbio atroce che doveva torturarmi, e che cercate di scacciare, ogni volta, quando posate la mano sul mio capo, pallida anche voi della mia angoscia, e balbettate: - No!...
no, Riccardo, vi giuro?...
-
Vi credo, voglio credervi, ho bisogno di credervi.
Perché dunque? perché mi fate soffrire a questo modo? Perché temete di sciupare il bel sogno d'oro? Oh, se sapeste come l'ho visto dietro le cortine color di rosa, che sembravano agitarsi e palpitare allorché siete passata nella vostra camera da letto, e animarsi di un incarnato più vivo quando vi siete avvicinata allo specchio, e velarsi di un'ombra pudica, dove passava la carezza dei vostri movimenti! Poi quella stessa ombra ha trasalito quasi, e s'è dileguata a un tratto dalla finestra del vostro spogliatoio, ed è solo rimasto il chiarore diffuso del globo roseo che veglia sui vostri sogni dolci e sulle vostre palpebre chiuse.
Oh, struggersi e morire su quelle palpebre chiuse - perché non abbiate a temere il poi - perché duri sempre il bel sogno d'oro! Sempre! Sempre! Il poi non esiste, quando si ama.
Non esiste il domani, non esiste quel ch'è stato ieri, non penso più a Casalengo.
Penso a voi, e vi amo, e vi voglio, come se tutta la mia vita e l'universo intero fossero in questo momento e in questo desiderio.
Ahimè, Riccardo, il bel sogno d'oro è finito, da che vi siete svegliato nelle mie braccia.
Non ve ne voglio, e vi prego di non volermene.
Soltanto non ostiniamoci a chiudere gli occhi, con questo bel sole che deve accompagnarvi nella vostra traversata.
Buon viaggio, amico mio.
Vi scrivo seduta a quel medesimo tavolinetto della veranda su cui posavate la vostra tazza, quando venivate a prendere il thè nel mio salotto.
La signorina del N.
17 continua a strimpellare quel valzer che vi metteva di cattivo umore - Dolores, mi sembra - e anche a me, quando vi vedevo così uggito.
Ma adesso, non so il perché - forse il bel sole, dopo questa eterna notte in cui m'è parso d'impazzire, forse il vostro ricordo, come che sia - mi mette in cuore delle ondate di dolcezza malinconica, specialmente alla ripresa delle prime battute che piacevano anche a voi, alle volte, nei momenti buoni.
Ho ancora dinanzi agli occhi il movimento del vostro capo che segnava il tempo - il bel tempo e le buone risate che si facevano, allora...
Dove vi raggiungerà questa lettera, a Lima, al Messico? Vorrei che vi portasse il sorriso che vi piaceva tanto, una volta, e che non aveste a temere di trovarvi né lagrime né piagnistei, prima d'aprirla.
Le arie di salice piangente non mi vanno.
Anzi! M'avete sempre detto che son venuta al mondo ridendo...
e civettando.
È vero, sì.
Com'ero felice di vedervi fare il muso lungo! M'avete amata pazzamente e lealmente.
Che Dio ve lo renda coll'amore delle altre, di tutte quelle a cui sorriderete e a cui piacerà il vostro sorriso.
M'avete dato il bel fiore azzurro del vostro cuore e della vostra giovinezza.
Quante volte ci siamo inebriati insieme del suo profumo, tenendoci per mano, fra gente nuova e paesi sconosciuti, sotto le altre stelle a cui davamo dei nomi dolci, appoggiando al vostro braccio la mia persona stanca e addolorata d'aver tanto amato - e non voi soltanto.
- Vedete che vi dico tutto, e non mi faccio migliore di quel che sono.
Voi mi avete amata forse per questo; e non mi amaste più di quando sentiste ch'ero tutta vostra, tutta, tutta, Riccardo! senza pensare al poi che doveva venire tosto o tardi - e ch'è venuto.
Ora ho civettato e riso coi vostri amici, con tutti quelli che mi conducevate in casa per aiutarvi a passare le sere insieme a me.
- Hadow specialmente, che ha i più bei denti di cristianità e mi faceva perdere la testa colla sua gaiezza.
Voi non ve ne siete neppure accorto, ahimè!
Poi che siete partito ho paura di Hadow, e partirò anch'io, appena mi sarò rimessa del tutto, per tornare in Europa.
Questo cielo implacabilmente azzurro m'acceca e mi fa male.
Gioconda, che sta preparando i bauli, ha trovato degli oggetti che avete dimenticato qui: una scatola di sigarette, un fazzoletto colla vostra cifra.
Vi porterò ogni cosa a Napoli, dove vi ho conosciuto, e dove ho lasciato degli altri amici come voi.
Ve lo restituirò poi laggiù, il fazzoletto, "terso di lagrime" quando vi rivedrò, se vi rivedrò, e tornerete da me, come gli altri amici.
Adesso mi sento abbastanza forte per affrontare il viaggio di ritorno.
M'avete perdonato le pene e le noie che vi ho date da Genova sin qua? Come siete stato buono e affettuoso con questa povera ammalata! - malata di corpo e d'anima.
-
Quanto m'avete resa felice, e come m'avete guastata! Ieri sera, quando ci lasciammo, "ho fatto i capricci" proprio come una bimba viziata.
Non me ne do pace, no, Riccardo! Gioconda pretendeva che avessi la febbre, che dovessi prendere del laudano, del cloralio, che so io, alle quattro del mattino, figuratevi! Ah, che misera cosa non poter cambiar d'umore come si cambia di vestito, e avere dei nervi che fanno la festa mentre si ha voglia di dormire! La buona dormita che vorrei fare sino a Napoli, tutta d'un fiato, senza sogni e senza sentirmi vivere, e svegliarmi laggiù, nel paese che ride e canta, senza pensare a quel ch'è stato ieri o a quel che sarà domani! Quando ci rivedremo, laggiù, se ci rivedremo, voglio che mi troviate savia, grassa e prosperosa come quella bionda vergine ch'è venuta a far la tisica, qui all'albergo, e la vocina sottile per cantare le arie del Tosti, svenendosi sul piano.
Voglio che torniamo a ridere, senza musi lunghi, e senza "dolci languori negli occhi desiosi".
Oh, no! A che pro adesso? Noi ci siamo detto tutto.
E le parole amare che rimangono all'ultimo...
No, Riccardo! quelle no! Ieri sera eravate nervoso anche voi.
La mano che vi ho stesa nel dirvi addio, la mano che vi parlava altre volte, e vi diceva tante cose, non ha saputo trattenervi.
Ho persa anche la fede in quel povero neo che vi faceva perdere la testa a voi, una volta, e che non ha saputo dirvi nulla neppure esso, ahimè!
Ecco ora che fo la sfacciata per non sembrarvi noiosa, perché l'ultima immagine mia, l'ultimo ricordo che vi lascio sia buono, dolce, affettuoso e piacevole.
Sarà forse l'ultima civetteria che rimane, dopo la fine.
Vorrei che mi vedeste ancora come vi son piaciuta, quando vi son piaciuta, senza menzogne, senza reticenze, senza veli, tutta per voi, anima e corpo, tutta una cosa con voi, come quando si ama bene e molto - fin sopra ai capelli - direte voi.
E la prova è che abbiamo vuotato il sacco della felicità, voi forse più in fretta, io certo con maggior spensieratezza, poiché dovevo sapere come vanno a finire queste cose, io che son più vecchia di voi.
- Ho cent'anni da ieri in qua, amico mio.
- Ma non mi pento di avervi lasciato sfogliare pazzamente "le rose del cammino" perché ce n'erano tante, e così belle, che sembrava non dovessero terminare giammai; e vi ho aiutato anch'io a sfogliarle, sorridendo e chiudendo gli occhi, come fo adesso, per non sentirne le spine.
Se mentre vi scrivo per l'ultima volta non ho saputo nascondervi tutte quelle che mi son rimaste nelle mani, perdonatemi.
Non è come cavarsi un guanto, capirete! Ma "è pena così dolce" che tornerei a chiudere gli occhi, e a buttarmi a capofitto nelle spine.
- Non con voi, Riccardo.
Con voi il bel sogno d'oro è finito, e bisogna metterci sopra la croce delle orazioni funebri.
Il salice piangente stavolta son proprio io, la Ginevra vostra di un tempo.
CIÒ CH'È IN FONDO AL BICCHIERE
Quando la signora Silverio tornò insieme al marito - da Nuova York, da Melbourne, chi lo sa? - tutti videro ch'era finita per lei, povera Ginevra.
Metteva del rossetto; portava ancora la pelliccia nel mese di maggio; veniva a cercare il sole e l'aria di mare alla Riviera di Chiaja, dalle due alle quattro, nella carrozza chiusa, come un fantasma.
Ma ciò che stringeva maggiormente il cuore era la macchia sanguigna di quell'incarnato falso nel pallore mortale delle sue guance, e il sorriso con cui rispondeva al saluto degli amici - quel triste sorriso che voleva rassicurarli.
Anche il Comandante non si riconosceva più: aveva la barba quasi grigia, le spalle curve, e delle rughe che dicevano assai su quella faccia abbronzata d'uomo di mare.
Indovinavasi ciò che avessero dovuto fargli soffrire i farfalloni che svolazzavano un tempo intorno alla sua bella Ginevra, adesso che non era più geloso di lei, ed era tornato a prendersela sotto il braccio pietosamente, chinando il capo a tutti i suoi capricci, quasi sapesse che la poveretta non ne avrebbe avuti per molto tempo...
Dopo era ripartito subito, per ordine superiore, dicevasi; e dicevasi pure che l'ordine d'imbarcare l'avesse chiesto colla stessa sollecitudine con cui un tempo aveva desideravo di non lasciare la moglie e il Dipartimento di Napoli.
Essa, disperatamente, s'attaccava alla vita colle manine scarne, povera donna, e affaticavasi a menare a spasso i suoi guai e i suoi terrori segreti, ai balli, in teatro, come ripresa dalla febbre mondana - e forse era la stessa febbre che la teneva in piedi, sotto le armi, torturandosi delle ore dinanzi allo specchio, per strascinarsi poi col fiato ai denti sino al suo palchetto, o per passare soltanto da una sala da ballo.
- Ma così felice, sotto la carezza dei binoccoli che si puntavano sul suo petto anelante, e sembravano scaldarle il sangue nelle vene! Così grata a quell'anima buona che venisse a farle un briciolo di corte! - Senza cadere in tentazione, no! La tentazione ormai era lontana, e le aveva lasciato i lividori sulle carni.
- Tanto che sorrideva al marito, quando egli era ancora lì, come a dirgli:
- Vedi, che male c'è?...
-
Aveva preso un quartiere in via di Chiaja, per stare notte e giorno in mezzo al rumore e al movimento della città; perché gli amici venissero a trovarla più facilmente, all'uscire dal teatro o prima di pranzo, e riceveva specialmente il mercoledì sera.
Suo marito stesso me ne aveva fatto cenno al caffè, prima di partire, dimenticando le sue prevenzioni contrarie e forse anche i suoi sospetti: - Venga a trovarla, povera Ginevra.
Le farà tanto piacere -.
Ella accoglieva con gran festa tutti quanti.
Appena mi vide, mi corse incontro col suo bel sorriso che innamorava, stendendomi le mani.
Era proprio tornata la bella signora Silverio che ci faceva perdere la testa a tutti noi della Regia Marina, quando i disinganni e le amarezze non avevano ancora spento il suo bel sorriso civettuolo, e messo qualcosa di duro nella linea delle sue labbra.
- Ho lasciato tutto lì, le noie, le cose tristi! - pareva dire; e faceva un gesto grazioso col braccio esile, accennando lontano, allorché tornavano nel discorso i ricordi malinconici.
Al primo vederla, sotto il gran paralume chinese vicino al quale stava più volentieri, non mi parve nemmeno tanto patita.
Dei pizzi superbi davano una certa vaporosità alla sua figurina snella, e dei grossi filari di perle le coprivano interamente la scollatura del vestito.
Ripeteva sovente: - Adesso sto bene.
Son guarita interamente -.
Sorrideva anche delle sue paure.
Soleva rammentarle soltanto per far capire che le avevano lasciato una grande indulgenza per tutte le debolezze e tutti gli errori umani.
- E i tradimenti anche! - mi disse, spalancando gli occhioni, e accennando col muovere del capo e col sorriso che mi accusavano.
- Sapete che sono stata molto male, caro d'Arce? Ho creduto di fare il gran viaggio! Torno da lontano, adesso...
di laggiù, dove si sa tutto, e tutto si perdona!...
-
Si volse a cercare la sua amica Maio, e la pregò lei stessa di offrirmi il thè.
Da lontano vidi i suoi occhi fissi su di noi, nel breve istante che scambiammo un profondo inchino cerimonioso.
Poi la bella Maio tornò a raccogliere gli omaggi altrui come una regina.
Quando andai a posare la tazza vuota sul tavolinetto, al quale la signora Ginevra appoggiava di tanto in tanto la mano, coll'aria un po' stanca e affaticata, ella mi chiese a bruciapelo, fissandomi in viso quegli occhi luminosi:
- Così? Non avete più nulla da dirvi, né voi né lei?
- Ahimè, no.
- Oooh! - esclamò ridendo, - oooh!...
-
E inzuccherò senza pietà il thè dell'Ammiraglio.
La contessa Ardilio le offrì di aiutarla.
Ella accettò subito per venire a sedere accanto a me su di un canapè d'angolo.
- Abbiamo molte cose da dirci; ma è meglio non parlarne, è vero? A che serve oramai? Siamo perfettamente ragionevoli tutti e due...
Allora...
quando seppi il torto che avete fatto alla parola datami...
il giuramento del marinaio, vi rammentate?...
- E sorrideva, povera Ginevra.
- Però non ve ne volli...
né a voi, né a lei...
Ebbi dei torti anch'io...
Ma voi sapevate che non ero libera...
-
Allora mi parlò francamente di Alvise, il solo che non potesse farsi vivo fra i suoi amici.
- Anch'io ho bisogno di perdono, lo so!...
Ora tutto ciò è passato...
lontano tanto!...
Vedete come ve ne parlo?...
-
Tornava a fare quel gesto vago, tirando in su i guanti lunghissimi.
Tutta la sua civetteria riducevasi adesso a una cura gelosa di nascondere le sue povere carni mortificate.
E di colui pel quale aveva sentito forse più trionfante la vanità della sua bellezza, quando appariva in una festa, colle spalle e le braccia nude, soltanto per lui, discorreva adesso tranquillamente, con una certa amara disinvoltura.
Solamente non lo chiamava più pel suo nome di battesimo:
- Povero Casalengo...
Un buon amico e un uomo di mondo...
Dei pochi che sappiano pigliarlo com'è, il mondo!...
-
Rammentava ancora gli altri, passando in rivista delle memorie che accendevano dei punti luminosi nelle sue pupille.
D'un solo non fece motto, forse perché era ancora troppo presente dinanzi ai suoi occhi, quando parevano oscurarsi a un tratto, e pareva come delle ombre livide le lambissero il viso emaciato.
Ma tornava subito gaia e sorridente, occupandosi dei suoi invitati, facendosi in quattro per pensare a tutti.
Si avventurò sino all'uscio del salotto ove fumasi, col fazzoletto alla bocca, con quella gaiezza che rendeva così ospitale la sua casa.
- No, no, mi piace anzi! Fumerei anch'io, se non mi facesse tossire -.
Avrebbe chiuso gli occhi, e si sarebbe lasciata soffocare per far piacere agli altri, ed avere tutte le sere la casa piena di gente sana e allegra che la facessero illudere d'esser sana e allegra lei pure.
Aveva inchiodato Sansiro al pianoforte, e minacciava di fare un giro di valzer.
- No! con lei, no! giammai! - mi disse respingendomi con le braccia tese.
Sembrava proprio rivivere nel suo elemento, e parlava insino di "lasciarsi andare" a bere "qualcosa di forte" eccitandosi, colle guance già accese e il sorriso ebbro, lei che aspirava soltanto delle lunghe boccate d'etere "per tenersi su".
Però, di tanto in tanto, alla sfuggita, guardavasi furtivamente negli specchi, e l'occhiata ansiosa, quasi smarrita, tradiva l'interno sbigottimento.
Tutt'a un tratto, mentre mesceva il thè a dei giovanotti ch'erano giunti tardi, venne meno fra le braccia di Serravalle, tutta di un pezzo, come un cencio.
Nondimeno, appena si riebbe alquanto, cercò di rassicurare amici ed amiche che le si affollavano intorno, volgendo la cosa in scherzo, bianca come il suo vestito, facendosi vento col fazzoletto, balbettando, col sorriso smorto:
- Ah!...
la colpa è di Serravalle!...
Non posso vedermelo accanto senza cadergli fra le braccia...
È destinato, povero Serravalle!...
Si rammenta, quella volta che si ballava insieme in casa Maio? -
Fu l'ultima sua festa, povera donna.
A poco a poco gli amici dileguarono quasi tutti; e ciò la rattristiva assai, quantunque non lo dicesse.
Chiedeva di loro ai pochi fedeli che continuavano a farle visita, di tanto in tanto.
Un giorno che le recai il saluto di Alvise provò un gran piacere.
- Ah, Casalengo...
si rammenta!...
- mormorò lieta.
Volle anche sapere a chi Casalengo facesse la corte, in quel tempo, e le sfavillavano gli occhi alle piccole maldicenze che si fanno sottovoce nei circoli mondani.
- Colui, sì!...
sa vivere! - ripeté, e accennava pure col capo, assorta.
Mi era grata del tempo che rubavo "all'altra mia amica" per dedicarlo a lei, e mi chiamava "il suo buon fratello".
- Fratello, non è vero? - ripeteva colla sua grazia maliziosa.
E c'era quasi un rimasuglio di rancore involontario nella carezza della parola affettuosa.
Alcune volte, quando mi diceva quelle cose, specie sull'imbrunire, che provava una gran tristezza e mi aveva pregato di non lasciarla mai sola, al vedere i suoi occhi luminosi, il sorriso ancora dolce che le rianimava il viso e pareva dissiparne le ombre, mi sentivo riprendere irresistibilmente da quella moribonda, con un'immensa dolcezza amara.
Essa preferiva quell'ora, l'angolo del salotto riparato dal paravento chinese, la mezzaluce che dissimulava il suo pallore e il suo male.
Era il suo pudore e l'ultima sua civetteria.
Nell'ombra sentiva che il suo profumo e la sua voce ancora dolce mi parlavano meglio di lei, della Ginevra che avevo conosciuta un tempo.
- Colei lo sa che siete qui...
che fate un'opera buona...
per meritarvi il paradiso? -
Come diceva quelle parole! Come esse sonavano e penetravano! Come attiravano verso di lei quell'anelito frequente e quelle povere mani febbrili!
- No...
non mi fiderei più degli amici...
e delle amiche! Ho imparato a spese mie, caro d'Arce! -
Una sera che aveva tossito più del solito, e parlava più triste, reggendosi il capo col braccio appoggiato al tavolino, mi disse guardandomi fisso, china verso di me, nello stesso tempo che schermivasi dalla luce colla mano aperta:
- Noi non siamo stati mai...
nulla.
Ecco perché mi siete rimasto fedele -.
Le si era fatta la voce un po' roca.
Tutto ciò che le veniva alla mente e sulle labbra aveva la stessa velatura stanca, e un abbandono che avvinceva me pure.
Senza quasi avvedermene le avevo preso la mano, ed essa me la lasciò, calda ed inerte.
Allora, senza guardarmi, quasi senza volerlo, mi confidò il segreto di ciò che aveva sofferto laggiù, lontana da tutti, in paese straniero.
Una storia semplice e dolorosa, senza dramma, senza neppure l'ombra di una rivale.
Colui pel quale aveva abbandonata la sua casa e la sua patria non l'amava più: ecco tutto.
- Amore...
chi lo sa?
Anch'io avevo amato Casalengo...
o m'era parso, prima di lasciarlo per quell'altro...
Per una parola che ci suoni meglio all'orecchio, per un'occhiata che lusinghi il nostro vestito nuovo, per una frase musicale che ci faccia sognare ad occhi aperti...
Ecco perché ci perdiamo, e ciò che forma quest'amore.
Quando egli non ebbe più dinanzi altre seduzioni con cui confrontare la mia, quando non temé più altri rivali...
Una mattina, sull'alba, tornò pallido e fosco.
Aveva perduto.
Giuocava da un pezzo, da che non mi amava più.
E si voleva uccidere perché non poteva pagare...
Non per me...
Lui che aveva tutte le delicatezze, tutta la poesia, tutta la nobiltà dell'animo.
E l'ultima rottura fra di noi, l'ingiuria che non poté perdonarmi, fu quando gli offrii d'aiutarlo, io ch'ero parte di lui, che vivevo soltanto per lui, che gli avevo sacrificato ben altro, che non sapevo cosa farmi del mio denaro...
Mi lasciava appunto per questo, perché egli non ne aveva più.
L'onore degli uomini è così fatto.
Poi, quand'egli fu partito, colui che aveva detto di non poter vivere senza di me, lasciandomi sola e moribonda in un albergo...
mio marito ebbe pietà di me - lui che non mi amava più e non doveva più amarmi...
Pagò un altro debito d'onore anche lui...
-
Parlava calma, con un filo di voce, interrompendosi di tratto in tratto e lasciando morire in un soffio certe parole.
Le passò sul volto un sorriso che la fece sembrare più pallida.
- Povero d'Arce! V'ho intronate le orecchie per narrarvi le solite storie.
Cose che succedono a tutti...
Lo sappiamo e torniamo a cascarci.
Allora vuol dire che dev'essere così, non è vero? Anche voi...
-
Nel luglio e l'agosto stette meglio.
Però non si lasciò indurre a mutar paese per qualche tempo.
Il silenzio e la quiete della campagna le facevano paura.
Volle piuttosto andare alla festa di Piedigrotta.
S'era fatto fare apposta un vestito elegantissimo, e aveva combinato una carrozzata allegra, nella quale ero invitato io pure.
- La Maio, no! - mi disse sfavillante.
Tutto quel chiasso e quel movimento l'eccitavano assai.
Tornò stanchissima e si mise a letto per due o tre giorni.
Dopo si strascinò ancora un pezzo fra letto e lettuccio.
La tristezza delle giornate autunnali la pigliava lentamente.
Se non mi vedeva all'ora solita, mi teneva il broncio, quasi avessi mancato a una tacita promessa.
Faceva spesso dei progetti per l'avvenire; s'illudeva più facilmente, ora che le fuggiva la terra sotto i piedi, e che non aveva più la forza di strascinarsi sino al canapè.
Così tenacemente s'attaccava al mio braccio, che le parlavo anch'io di Sorrento e di Nizza, col cuore stretto.
Ella diceva di sì, di sì, tutta contenta, tornando ad affermare col capo, tornando a sorridere come una bambina.
Consultava insieme a me delle guide e dei giornali di mode, e aveva fissato l'epoca del viaggio: - Dopo il carnevale, appena tornerà la primavera.
Tornerò a rifiorire anch'io, vedrete! tutti v'invidieranno la vostra bella amica...
Amica, veh! -
Aveva ordinato degli abiti da ballo per quell'inverno.
Si faceva bella ancora per me.
Diceva "che erano le sue prove generali".
Una sera si fece trovare in abito da ballo, presso un gran fuoco.
Com'era contenta, povera Ginevra! Quel sorriso ingenuo nella bocca e negli occhi che le mangiavano il viso, mi mise un brivido nei capelli: lo stesso brivido che mi faceva trasalire quando l'udivo gemere sottovoce nella stanza accanto per abbigliarsi - e quel giorno che la cameriera mi chiamò spaventata, cercando colle mani tremanti la boccettina d'etere sopra la tavoletta.
Essa, pure in quel momento, coprivasi colle mani il misero petto scarno...
Una volta mi disse: - Quanto saremmo stati felici...
allora...
di poterci vedere liberamente, come adesso!...
-
In dicembre peggiorò rapidamente.
Non si alzò più dal letto; non parlò più di viaggi.
Il parlare stesso la stancava.
La baraonda e l'allegria fragorosa del Natale napoletano le davano noia.
Sembrava distaccarsi a poco a poco da ogni cosa.
Però voleva ancora che andassi a vederla spesso, più che potevo, e lagnavasi che tutti l'abbandonassero.
Stava poi ad ascoltarmi, immobile, guardandomi fisso.
Alle volte i suoi occhi si offuscavano, quasi guardassero dentro se stessa, o in un gran buio, e il viso le si affilava maggiormente, con un'espressione d'angoscia vaga.
Dopo sembrava ritornare da lontano, con una cert'aria smarrita.
Mi sorrideva dolcemente, quasi per scusarsi dell'involontaria distrazione, ma in modo che stringeva il cuore.
In quei giorni tornò a Napoli suo marito, chiamato per telegrafo.
Essa volle festeggiare con lui l'ultima sera dell'anno, e invitò pochi amici.
Le avevano apparecchiato un tavolino accanto al letto, e dei fiori, un gran numero di candele nella camera.
Era raggiante, poveretta, e sembrava proprio una bambina, sparuta, fra le gale e i pizzi della cuffia e del corsetto.
Ci salutava col capo ad uno ad uno, alzando verso di noi la coppa nella quale aveva fatto versare un dito di champagne, e beveva cogli occhi alla nostra salute, senza accostarvi le labbra, come sapesse ciò che si trova in fondo al bicchiere, come anche i nostri auguri la rattristassero.
Infine si lasciò vincere dalla comune gaiezza; parve che tornasse a sorridere a una vaga speranza, e sorrideva a tutti, a tutti noi, cogli occhi e le labbra, col viso pallido e magro.
Il capo d'anno le recai dei fiori, un gran fascio di rose che ero andato a cogliere per lei a Capodimonte.
Ella si levò giuliva a sedere, e le volle sul letto, tutte.
Ripeteva: - Quante! quante! - scegliendo le più belle, immergendovi le mani...
Era tanto contenta! Mi mostrò i regali che le avevano mandato gli amici, e le amiche...
- tutti quanti! - La camera n'era piena, sulle mensole, sul canapè, da per tutto.
Ella indicava ad uno ad uno il nome del donatore.
Dalla gioia mi pose un braccio intorno al collo, dicendomi:
- Ma nessuno come voi!...
nessuno! Voi siete il mio caro fratello, non è vero? E mi vorrete sempre bene così, sempre sempre...
perché non fummo mai altro!...
Un momento...
ci fu il pericolo...
Vi rammentate? Ma era scritto lassù!...
lassù...
-
In quel momento portarono il regalo del marito: un magnifico abito da ballo che la cameriera spiegò trionfante sulla poltrona.
Ella indovinò la delicata e pietosa intenzione d'illuderla che c'era nella scelta del dono, e ne fu scossa profondamente.
Non disse nulla; gli occhi le si fecero più grandi e più lucenti, e tornò a coricarsi, tirandosi la coperta fino al mento.
Mi lasciò senza dirmi addio, povera e cara Ginevra! L'ultima volta che la vidi, in presenza del marito e di due o tre altri, ella sembrava già non fosse più di questo mondo.
Non mi disse nulla; non sembrò nemmen accorgersi di me.
Stava zitta, chiusa, cogli occhi sbarrati e fissi.
Il Comandante rispondeva per lei qualche parola, colla voce rauca, i capelli arruffati, la barba incolta, pallido anche lui, e col viso gonfio dalle notti insonni.
Un momento appena, udendo la mia voce, ella volse su di me quegli occhi che non guardavano e non dicevano più nulla: e tornò a rivolgerli altrove, indifferente.
Li attirava adesso soltanto una striscia di luce che moriva sulle tendine istoriate.
Fu l'ultima volta che la vidi.
Dopo, l'uscio delle sue stanze rimase chiuso per tutti.
Erano arrivati dei parenti da Venezia e da Genova.
Gli amici erano tornati a chiedere di lei o a lasciare il loro nome alla porta: tutti coloro che avevano ballato in quella casa e vi avevano passato delle ore liete.
Parecchi ci avevano perduto anche la testa, un tempo, e parlavano di lei che moriva, a voce bassa, prima di tornare al Circolo o al teatro, facendosi piccini dinanzi al marito che ripigliava il suo posto in casa sua, all'ultima ora, invecchiato in un mese, rispondendo alle condoglianze e alle strette di mano collo sguardo chiuso e la mano gelida.
Seppi ch'era morta dall'invito per assistere ai funerali.
Nelle sale dove essa ci aveva ricevuti festante, era una gran folla, e molti fiori, come il primo giorno dell'anno, sulle mensole, sui tavolini, sul pianoforte.
C'erano tuttora gli avanzi delle candele dei candelabri posti dinanzi agli specchi dove ella s'era guardata.
Le sue amiche misero dei fiori sulla bara.
La signora Maio soffocava i singhiozzi con un fazzolettino di pizzo.
Prima di morire aveva detto che voleva una semplice bara coperta di raso bianco, e una semplice lapide col suo nome.
Non ci furono discorsi sulla tomba.
La sua orazione funebre fu fatta da Casalengo, che venne a trovarmi la sera stessa, per parlarmi di lei.
- Povera Ginevra! - e non disse altro.
DRAMMA INTIMO
Casa Orlandi era tutta sossopra.
La contessina Bice spegnevasi lentamente: di malattia di languore, dicevano gli uni: di mal sottile, dicevano gli altri.
Nella gran camera da letto, quasi buia in tutto il quartiere illuminato come per una festa, la madre, pallidissima, seduta accanto al letto dell'inferma, aspettava la visita del dottore, tenendo nella mano febbrile la mano scarna e ardente della figliuola, parlandole con quell'accento carezzevole, e quel falso sorriso con cui si cerca di rispondere allo sguardo inquieto e scrutatore dei malati gravi.
Tristi colloqui che celavano sotto una calma apparente la preoccupazione di un morbo fatale, ereditario nella famiglia, il quale aveva minacciato la contessa medesima dopo la nascita di Bice - il ricordo delle cure inquiete e trepide che avevano accompagnato l'infanzia delicata della bambina - l'ansia dei presentimenti minacciosi che avevano quasi soffocato la maternità della genitrice e scusato i primi traviamenti del marito, morto giovane, di un male da decrepito, dopo avere agonizzato degli anni su di una poltrona.
Più tardi un altro sentimento aveva fatto rifiorire la giovinezza della vedova, appassita anzi tempo fra quella culla minacciata, e quello sposo di già cadavere prima di scendere nella tomba: un affetto profondo e occulto, inquieto, geloso, che si mischiava a tutte le sue gioie mondane e sembrava vivere di esse, e le raffinava, le rendeva più sottili, più penetranti, quasi una delicata voluttà che profumava ogni cosa, una festa, un trionfo di donna elegante.
Adesso quell'altra nube paurosa, sorta a un tratto colla malattia della figlia in quel cielo azzurro, sembrava posare simile a una gramaglia sui cortinaggi pesanti del letto dell'inferma, e distendersi sino a incontrare degli altri giorni neri: la lunga agonia del marito, la faccia grave e preoccupata di quello stesso medico ch'era venuto quell'altra volta, il tic-tac di quella stessa pendola che aveva segnato delle ore d'agonia, e riempiva ora tutta la camera, tutta la casa, di un'aspettativa lugubre.
Le parole della madre e della figliuola, che volevano sembrar gaie e tranquille, morivano come un sospiro nella penombra della vòlta altissima.
A un tratto il campanello elettrico squillò nella lunga fila di stanze sfavillanti e deserte.
Un servitore silenzioso precedeva in punta di piedi il medico, vecchio amico di casa, il quale sembrava solo calmo, nell'attesa inquieta di tutti.
La contessa si rizzò in piedi, senza poter dissimulare un tremito nervoso.
- Buona sera.
Un po' tardi oggi...
Finisco adesso il mio giro.
E questa ragazza com'è stata? -
S'era seduto di contro al letto; aveva fatto togliere la ventola dal lume, ed esaminava l'inferma tenendo fra le dita bianche e grassocce il polso delicato e pallido della fanciulla, ripetendo le solite domande.
La contessa rispondeva con un lieve tremito nervoso nella voce; Bice, con monosillabi tronchi e fiochi, sempre fissando il medico con quegli occhi inquieti e lucenti.
Nell'anticamera si succedevano gli squilli sommessi del campanello che annunziavano altre visite, e la cameriera entrava come un'ombra per annunziare all'orecchio della signora il nome degli amici intimi che venivano a chieder notizie della contessina.
A un certo momento il dottore rizzò il capo.
- Chi è entrato adesso nella sala accanto? - domandò con una certa vivacità.
- Il marchese Danei, - rispose la contessa.
- La solita pozione per questa notte, - continuò il medico quasi avesse dimenticato la sua domanda.
- Bisogna osservare a che ora cadrà la febbre.
Del resto, nulla di nuovo.
Diamo tempo alla cura...
-
Ma non lasciava il polso dell'inferma, fissando uno sguardo penetrante sulla fanciulla, la quale aveva chinato gli occhi.
La madre aspettava ansiosa.
Un istante le pupille ardenti della figlia si fissarono in quelle di lei, e Bice avvampò subitamente in viso.
- Per carità, dottore! per carità! - supplicava la contessa, riaccompagnando il medico, senza badare agli amici e ai parenti che aspettavano in sala chiacchierando fra di loro sottovoce.
- Come ha trovato stasera la mia ragazza? Mi dica la verità!
- Nulla di nuovo, - rispondeva lui.
- La solita febbriciattola...
il solito squilibrio nervoso...
-
Ma quando furono in un salottino appartato, si piantò ritto dinanzi alla contessa, e disse bruscamente:
- La sua figliuola è innamorata di questo signor Danei -.
La contessa non rispose sillaba.
Solo impallidì orribilmente, e per istinto si portò le mani al petto.
- È un po' di tempo che lo sospettavo, - riprese il medico con certa rude franchezza.
- Ora ne son certo.
È una complicazione nella malattia, che per la estrema sensibilità dell'inferma, in questo momento, può farsi grave.
Bisogna pensarci.
- Lui! - fu la prima parola che sfuggì alla madre, quasi fuori di sé.
- Sì, il polso me l'ha detto.
Lei non aveva alcun indizio? Non ha mai sospettato qualche cosa?
- Mai!...
Bice è così timida...
così...
- Il marchese Danei viene spesso in casa? -
La poveretta, sotto lo sguardo fisso e penetrante di quell'uomo che assumeva l'importanza di un giudice, balbettò:
- Sì.
- Noi altri medici alle volte abbiamo cura d'anime, - aggiunse il dottore sorridendo.
- Forse è stata una fortuna che quel signore sia venuto mentre io ero qui.
- Ma ogni speranza non è perduta, dottore? Per l'amor di Dio!...
- No...
secondo i casi.
Buona sera -.
La contessa rimase un momento in quella stanza, quasi al buio, asciugandosi col fazzoletto il freddo sudore che le bagnava le tempie.
Quindi ripassò per la sala, rapidamente, salutando gli amici con un cenno del capo, guardando appena Danei, ch'era in un canto, nel crocchio degli intimi.
- Bice!...
figlia mia!...
Il medico t'ha trovata meglio oggi, sai!
- Sì, mamma! - rispose la fanciulla dolcemente, con quell'amara indifferenza degli ammalati gravi che stringe il cuore.
- Di là ci sono degli amici...
che sono venuti per te...
Vuoi vederli?
- Chi sono?
- Ma tutti.
La zia, Augusta...
il signor Danei...
Possono entrare un momentino? -
Bice chiuse gli occhi, come assai stanca, e nell'ombra, così pallida com'era, si vide lieve rossore montarle alle guance.
- No, mamma.
Non voglio veder nessuno -.
Attraverso le palpebre chiuse, delicate come foglie di rosa, sentiva fisso su di lei lo sguardo desolato e penetrante della madre.
All'improvviso riaprì gli occhi, e le buttò al collo quelle povere braccia esili e tremanti sotto la battista, con un atto ineffabile di confusione, di tenerezza e di sconforto.
Madre e figlia si tennero abbracciate a lungo, senza dire una parola, piangendo entrambe delle lagrime che avrebbero voluto nascondersi.
Ai parenti e agli amici che chiedevano premurosi notizie dell'inferma, la contessa rispondeva come al solito, ritta in mezzo alla sala, senza poter dissimulare uno spasimo interno che di quando in quando le mozzava il respiro.
Allorché tutti se ne furono andati, rimasero faccia a faccia Danei e lei.
Tante volte, durante la malattia di Bice, erano rimasti soli alcuni minuti, come allora, nel vano della finestra, scambiando qualche parola di conforto e di speranza, o assorti in un silenzio che accomunava i loro pensieri e le loro anime nella stessa preoccupazione dolorosa.
Momenti tristi e cari, nei quali essa attingeva il coraggio e la forza di rientrare nell'atmosfera cupa e lugubre di quella stanza d'inferma con un sorriso d'incoraggiamento.
Stettero alquanto senza aprir bocca, colla fronte sulla mano.
La contessa aveva tale espressione di tristezza in tutta la persona, che Danei non trovava la parola da dirle.
Finalmente le tese la mano.
Ella ritirò la sua.
- Sentite, Roberto...
Ho da dirvi una cosa...
una cosa da cui dipende la vita di mia figlia...
-
Egli aspettava, serio, un po' inquieto.
- Bice vi ama!...
-
Danei parve sbalordito, guardando la contessa che si era nascosto il viso fra le mani, e piangeva dirottamente.
- Essa!...
È impossibile!...
Pensateci bene!...
- No...
È un'idea che m'ha fatto nascere il suo medico...
Ed ora ne son certa.
Vi ama da morirne...
- Vi giuro!...
Vi giuro che...
- Lo so, vi credo.
Non ho bisogno di cercare perché mia figlia vi ami, Roberto! - esclamò la madre tristamente.
E si abbandonò sul divano.
Roberto era commosso anche lui.
Tentò di pigliarle la mano un'altra volta.
Ella la respinse dolcemente.
- Anna!...
- No...
no! - rispose lei risolutamente.
E le lagrime silenziose parevano che le solcassero le guance delicate come degli anni, degli anni di dolore e di gastigo che sopravvenivano tutt'a un tratto nella sua esistenza spensierata.
Il silenzio sembrava insormontabile.
Infine Roberto mormorò:
- Cosa volete che faccia?...
dite...
-
Essa lo guardò smarrita, con un'angoscia indicibile, e balbettò:
- Non so!...
non so...
Lasciatemi tornar da lei...
Lasciatemi sola...
-
Come rientrava nella camera dell'inferma, dall'ombra del cortinaggio gli occhi della figlia luccicarono ardenti, fissi su di lei, con un lampo incosciente che agghiacciò la madre sulla soglia.
- Mamma, - chiese Bice, - chi c'è ancora?
- Nessuno, figlia mia.
- Ah!...
Statti con me, allora.
Non mi lasciare -.
E le teneva le mani, tremante.
- Povera bambina! Povero amore! Guarirai presto, sai! L'ha detto il medico.
- Sì, mamma.
- E...
e...
sarai felice -.
La figlia le fissava sempre in viso quello sguardo.
- Sì, mamma -.
Poi chiuse gli occhi, che sembravano neri nelle orbite incavate.
Successe un mortale silenzio.
La madre scrutava quel viso pallido e impenetrabile con uno sguardo ardente, arrossendo e impallidendo a vicenda.
A un tratto si fece smorta come lei, e la chiamò con un'altra voce:
- Bice! -
Il suo petto si contraeva spasmodicamente, come se qualche cosa vi agonizzasse dentro.
Poscia si chinò sulla figliuola, posando la guancia febbrile su quell'altra guancia scarna, e le mormorò nell'orecchio, con un soffio appena intelligibile:
- Senti, Bice...
tu ami?...
-
Bice spalancò gli occhi all'improvviso, tutta una fiamma in volto.
E con quegli occhi sbarrati e quasi paurosi, affascinati dagli occhi lagrimosi della madre, balbettò con un accento ineffabile d'amarezza, e quasi di rimprovero:
- Oh mamma!...
-
Allora la sventurata, sentendosi penetrare quella voce e quelle parole sino all'intimo del cuore, ebbe il coraggio di aggiungere:
- Danei ha chiesto la tua mano.
- Oh mamma! oh mamma! - ripeteva la fanciulla con lo stesso accento supplichevole e dolente, stringendosi nelle coperte con un senso di pudore.
- Mamma mia!...
-
La contessa, che sembrava anche lei nello smarrimento dell'agonia, balbettò:
- Però...
se tu non l'ami...
se non l'ami...
di'!...
-
L'inferma ascoltava palpitante, ansiosa, agitando le labbra senza proferir parola, con gli occhi spalancati, enormi sul volto rifinito, che interrogavano gli occhi della madre.
Tutt'a un tratto, come quella si chinava verso di lei, l'abbracciò stretta, tremando a verga, stringendola con tutta la forza delle sue povere braccia, con un'effusione che diceva tutto.
La madre, in un impeto d'amore disperato, singhiozzava:
- Guarirai! Guarirai! -
E tremava convulsivamente ancor essa.
Il giorno dopo la contessa aspettava Danei nel suo gabinettino, seduta accanto al caminetto, stendendo verso il fuoco le mani così bianche che sembravano esangui, cogli occhi fissi sulla fiamma.
Quanti pensieri, quante visioni, quanti ricordi passavano dinanzi a quelli occhi! La prima volta che si era turbata al cospetto di Roberto - il silenzio ch'era caduto all'improvviso fra di loro - e le prime parole d'affetto che egli le aveva sussurrato all'orecchio, abbassando la voce ed il capo - il batticuore delizioso che soleva imporporarle le gote ed il seno, quando egli l'aspettava nel vestibolo dell'Apollo, per vederla passare, bella, fine, elegante, nella mantellina di raso bianco.
- Poscia, le lunghe fantasticherie color di rosa, in quel posto medesimo, le gioie trepide e intense, le attese febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la lezione di musica o di disegno.
Ora, allo squillare del campanello, si rizzò con un tremito nervoso; e immediatamente, mercé uno sforzo della volontà, tornò a sedere, colle mani in croce sulle ginocchia.
Il marchese si fermò esitante sull'uscio.
Ella gli stese la mano che ardeva, evitando di guardarlo.
Siccome Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, la contessa rispose dopo un breve silenzio:
- La sua vita è nelle vostre mani.
- Per l'amor di Dio, Anna!...
v'ingannate!...
- rispose lui.
- Bice s'inganna...
Non può essere...
non può essere!...
-
La contessa scosse il capo tristamente.
- No, non m'inganno! Me l'ha confessato lei...
Il dottore dice che la sua guarigione dipende...
da ciò!...
- Da che cosa?...
Per tutta risposta ella gli fissò negli occhi gli occhi arsi di febbre.
Allora, sotto quello sguardo, la prima parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu:
- Oh!...
no!...
-
Ella giunse le mani.
- No.
Anna! pensateci bene...
Non può essere...
V'ingannate...
- ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente.
Le lagrime le soffocarono la voce in gola.
Poi stese le mani a Roberto, senza dir nulla come nei bei tempi trascorsi.
Soltanto, quel viso che gli esprimeva uno spasimo d'angoscia e una preghiera straziante, era diventato tutt'altro in ventiquattr'ore.
Roberto chinò il capo al pari di lei.
Erano entrambi due cuori onesti e leali, nel significato mondano della parola, nel senso di esser sinceri in ogni loro atto.
Perché la fatalità facesse abbassare quelle teste alte e fiere, bisognava che le avesse messe per la prima volta di fronte a un risultato che rovesciava bruscamente tutta la loro logica, e ne mostrava la falsità.
La rivelazione della contessa aveva colpito Danei di stupore.
Adesso, ripensandoci, ne era spaventato; e in quel contrasto d'affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, egli trovavasi imbarazzato.
Parlò di loro due, del passato, dell'avvenire che gli faceva paura; cercando le frasi e le parole onde scivolare sui tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi.
- Pensateci bene, Anna! Questo matrimonio è impossibile! -
Essa non sapeva che dire.
Balbettava solo: - Mia figlia! mia figlia! -
- Ebbene...
Volete che io parta...
che mi allontani per sempre!...
Sapete qual sacrifizio farei!...
Ebbene, lo volete?
- Ella ne morrebbe -.
Roberto esitò, prima d'affrontare l'ultimo argomento.
Poi mormorò abbassando la voce:
- Allora...
allora non resta che confessarle ogni cosa...
-
La madre s'irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona.
E rispose con voce sorda, chinando il capo:
- Lo sa!...
Lo sospetta!...
- E nondimeno?...
- riprese Danei dopo un breve silenzio.
- Ne sarebbe morta...
Le ho fatto credere che s'ingannava.
- E lo ha creduto?
- Oh! - esclamò la contessa con un triste sorriso.
- L'amore è credulo...
Lo ha creduto!
- E voi! - chiese Roberto con un tremito che non poté dissimulare nella voce.
- Io ho già tutto sacrificato a mia figlia -.
Poi gli stese la mano, e soggiunse:
- Sentite com'è calma?
- Siete certa che sarà sempre così calma?
Ella rispose:
- Sempre! -
E sentì freddo nella nuca, alla radice del capelli.
Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto.
- Ascoltate, Roberto, ora è la madre che vi abbraccia! Anna è morta.
Pensate a mia figlia; amatela per me e per essa.
Ella è pura e bella come un angelo.
La felicità la farà rifiorire.
Voi l'amerete come non avete mai amato...
Dimenticherete ogni cosa...
siate tranquillo! -
Roberto, pallidissimo, non rispose verbo.
Il matrimonio della contessina Bice fu annunciato officialmente pochi giorni dopo che essa entrò in convalescenza.
Amici e parenti venivano a congratularsi nello stesso tempo dei due fortunati avvenimenti.
Il marchese Danei era uno sposo convenientissimo, e se qualche indiscreto arrischiò delle osservazioni sulla disparità degli anni - o altro - fu messo subito a tacere dal coro unanime delle signore che si sollevavano scandolezzate.
La fanciulla risanava davvero, raggiante di vita nuova, colla sincerità, la credulità, l'oblio, l'egoismo della felicità, che espandeva nel seno della madre, la quale trovava la forza di sorriderle.
Il medico si fregava le mani, borbottando:
- Io non ci ho alcun merito.
Fo come Pilato.
Questa benedetta gioventù se ne ride della scienza.
Adesso ecco le mie prescrizioni: - Recipe: L'inverno a San Remo o a Napoli.
L'estate a Pegli o a Livorno.
Una scappata a Roma, nel carnevale, e un bel maschiotto alla fine della cura -.
La contessa, alla figliuola che avrebbe voluto condurla seco, aveva risposto:
- No.
Io e il dottore non ci abbiamo più nulla a fare in questo viaggio.
Tutta la mia pretesa è che siate felici -.
E sorrideva agli sposi, col suo sorriso un po' triste.
La figliuola, a volte, aveva inconsciamente degli sguardi acuti che correvano come un lampo dal fidanzato alla madre.
A quelle parole, senza saper perché, l'abbracciava ogni volta strettamente, nascondendole il viso in seno.
La contessa aveva detto che quella sarebbe stata l'ultima sua festa; e le sue spalle bianche e delicate mostraronsi realmente un'ultima volta allo sposalizio, nelle sale scintillanti di lumi e affollate d'amici e parenti come nei giorni più tristi in cui erano venuti a chieder notizie della Bice.
Roberto, allorché baciò la mano della contessa, non poté dissimulare un certo turbamento.
Poscia quando l'ultima carrozza fu partita, e non rimase a piè dello scalone che il piccolo coupé del marchese, e la carretta inglese che portava alla stazione il bagaglio degli sposi, mentre Bice era andata a cambiarsi d'abito, rimasti soli un momento, la contessa e Roberto:
- Fatela felice! - disse lei.
Danei era nervoso; abbottonava macchinalmente il soprabito da viaggio e tornava a cavarsi i guanti.
Non disse nulla.
Madre e figlia s'abbracciarono teneramente, a lungo.
Infine la contessa respinse quasi bruscamente la figliuola, dicendo:
- È tardi.
Perderete il treno.
Andate, andate! -
La contessa Orlandi aveva tossito un poco quell'inverno, e di tanto in tanto aveva avuto bisogno del medico.
Costui, onde non spaventarla, la sgridava, perché essa soleva passare la mattinata in chiesa - a salvarsi l'anima e perdere il corpo - diceva lui.
Il buon uomo pigliava la cosa leggermente, per rassicurarla, ma in realtà era inquieto, e ingannandosi a vicenda con una finta gaiezza, pensavano entrambi a una minaccia più grave.
Bice scriveva che stava bene, che si divertiva tanto, che era tanto felice, e più tardi accennò anche vagamente a un altro avvenimento che avrebbe affrettato il loro ritorno prima che finisse l'anno.
La contessa telegrafò di non farne nulla, di aspettare l'avvenimento là dove si trovavano, protestando che temeva per la figliuola lo strapazzo del viaggio.
Piuttosto sarebbe andata lei stessa a raggiungerli.
Però non andava mai, cercando mille pretesti, differendo di giorno in giorno quel viaggio, quasi le pesasse.
I telegrammi si succedevano.
Infine Roberto ebbe un dispaccio: - Arrivo stasera -.
La prima persona che Anna vide sul marciapiedi della stazione, giungendo, fu Roberto che l'aspettava, solo.
Ella si premeva con forza il manicotto sul cuore, quasi le mancasse il respiro.
Il marchese le baciò la mano, sul guanto, e le diede il braccio, mentr'essa balbettava:
- Bice?...
Come sta? -
Fuori era fermo il piccolo coupé del marchese, col servitore accanto allo sportello.
Ella esitò un istante, al momento di montare insieme a lui.
Poi si strinse nel suo cantuccio, chiusa nella pelliccia, col velo sul viso.
- Bice sta bene, - rispondeva lui, -...per quanto è possibile...
Sarà tanto contenta! - Sembrava che cercasse le parole, col viso rivolto allo sportello, impaziente d'arrivare.
Sfilavano le case e le botteghe illuminate.
A un tratto successe l'oscurità, nell'attraversare una piazza.
Tutti e due istintivamente, si scostarono e tacquero.
Bice era corsa ad incontrare la madre, e le si buttò al collo con un diluvio di carezze e di parole sconnesse.
Era sofferente, e Roberto le diede il braccio per salire le scale.
La contessa veniva dopo, un po' stanca anch'essa, soffocata dalla pelliccia greve.
Allorché furono nel salotto, in piena luce, ella fu colpita dall'aspetto di Bice, dalla sua veste da camera larghissima, dalle mani venate d'azzurro, posate sui bracciuoli della poltrona dove s'era lasciata cadere come sfinita, ma raggiante di una serena felicità.
Roberto si chinava per parlarle nell'orecchio.
Senza avvedersene si appartavano entrambi spesso e volentieri, discorrendo sottovoce fra di loro, presso la fiamma del caminetto che li colorava di un'aureola rosata, lontani dal mondo, lontani da tutti, dimenticando ogni cosa...
Dopo il primo sbigottimento di quella sera, la contessa sembrava più calma.
Allorché trovavasi sola con Roberto, e lui parlava, parlava, quasi avesse paura del silenzio, ella ascoltava col sorriso distratto, sprofondata nella poltrona, accanto al fuoco che lumeggiava d'azzurro i capelli neri, col fine profilo opaco inquadrato nella luce al pari di un cammeo.
Però un nube sembrava sorgere fra madre e figlia, nell'intimità della famiglia: una freddezza incresciosa e insormontabile che agghiacciava le affettuose espansioni: un imbarazzo che rendeva moleste le premure di Roberto per l'una o per l'altra, e spesso anche la presenza fra di loro - come un'ombra del passato che offuscava gli occhi della figlia, che faceva impallidire la madre, che turbava anche Roberto, di tanto in tanto.
Una sfumatura d'amarezza accennavasi a volte nelle parole più semplici, nei sorrisi che si evitavano, negli sguardi che si cercavano sospettosi.
Una sera che Bice s'era ritirata prima del solito, e Roberto era rimasto nel salotto insieme alla contessa, per farle compagnia, il silenzio piombò all'improvviso, quasi minaccioso.
Anna stava a capo chino, dinanzi al fuoco che spegnevasi, presa da un brivido, tratto tratto, e il lume posato sul caminetto le accendeva dei riflessi dorati alla radice dei capelli, sulla nuca che sembrava accendersi anch'essa di fiamme vaghe.
Come Roberto si chinò a prender le molle, essa trasalì vivamente, e si alzò di scatto per augurargli la buona notte, accusando un po' di stanchezza.
Il marchese l'accompagnò sino all'uscio, in preda anche lui a un vago turbamento.
In quella apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo accappatoio bianco.
Madre e figlia si guardarono, e la prima rimase senza parola, quasi senza fiato.
Roberto, il meno imbarazzato di tutti e tre, chiese:
- Che hai, Bice?
- Nulla...
Non potevo dormire...
Che ora è?
- Non è tardi.
Tua madre stava per ritirarsi...
dice di sentirsi stanca...
- Ah, - rispose Bice.
- Ah...
- E non disse altro.
Anna, ancora tremante, balbettò con un triste sorriso:
- Sì...
sono stanca..
Alla mia età...
figliuoli miei!...
- Ah, - ripeté Bice.
Allora la madre, facendosi pallida come una morta, come soffocata da un'angoscia ineffabile, aggiunse con quello stesso sorriso doloroso:
- Non mi credete?...
Non mi credi, Bice?...
-
E rialzando alquanto i capelli sulle tempie, mostrò che quelli di sotto erano tutti bianchi.
- Oh...
È un pezzo...
tanto tempo!...
-
Bice, con uno slancio affettuoso, le buttò le braccia al collo, e le cacciò la testa in seno, senza dir altro.
E le mani della madre sentirono che tremava tutta quanta, ancor essa.
Roberto, il quale sembrava sulle spine, s'era levato per andarsene, quasi vedesse di esser di troppo fra quelle due donne, e nell'istante in cui i suoi occhi s'incontrarono in quelli di Anna, arrossò, e parve divampare in quell'istante un ricordo del passato.
La contessa Anna passò due settimane in casa della figlia, dove si sentiva estranea, accanto a Bice, accanto a lui! Come erano mutati! Quando egli le dava il braccio per andare a tavola, quando la figliuola le diceva - Mamma! - senza guardarla, e arrossiva se parlava di suo marito! - Dimenticherete, siate tranquillo! - ella aveva detto a Roberto.
E non avevano dimenticato del tutto, né l'uno né l'altra!...
Chiudeva gli occhi e rabbrividiva a quel pensiero...
Qualche volta, all'improvviso, la sorprendevano anche degli impeti di collera, di un'altra gelosia pazza.
Le aveva rubato perfino il cuore di sua figlia, colui! Tutto le aveva tolto quell'uomo!
Una sera si udì un gran trambusto per la casa.
Cocchieri e servitori erano stati spediti in fretta; il medico e un'altra donna erano giunti premurosi, ed erano entrati subito nella camera di Bice.
E nessuno era venuto a cercare di lei, sua figlia stessa non la voleva al suo capezzale, in quel momento.
- No, nessuno aveva dimenticato! - Quand'egli venne ad annunziarle la nascita della sua nipotina, quell'uomo!...
Quando lo vide così commosso e raggiante...
- Non l'aveva mai visto così! - Quando lo vide al capezzale di Bice, che era supina sul letto, come fosse già morta, con una lagrima di tenerezza per lui soltanto negli occhi socchiusi...
degli occhi che non cercavano che lui!...
Allora sentì un odio implacabile contro quell'uomo che accarezzava la sua figliuola dinanzi a lei, e a cui Bice soltanto sorrideva, anche in quel punto.
Come misero il suo nome alla neonata, ed essa la tenne al battesimo, disse sorridendo: - Ora posso morire -.
Bice andava rimettendosi lentamente.
Però il suo organismo delicato vibrava ancora.
Nei lunghi giorni di convalescenza le venivano dei pensieri neri, degli impeti d'irritazione sorda e irragionevole, degli scoramenti improvvisi, quasi tutti l'abbandonassero.
Allora guardava muta, cogli occhi neri, e diceva al marito con accento indescrivibile:
- Dove sei stato? - Dove vai? - Perché mi lasci sola? -
Ogni cosa la feriva; sembrava ingelosirsi anche di quel resto di eleganza ch'era sopravvissuto nella madre sua.
Era arrivata a dirle, cercando di dissimulare la febbre che le si accendeva suo malgrado negli occhi: - Quando partirai? -
La madre chinò il capo, quasi sotto il peso di un gastigo inevitabile.
Ma Bice tornava poi in sé, e pareva chiedere perdono a tutti colle sue parole e le sue carezze affettuose.
Appena incominciò ad alzarsi da letto, la contessa fissò il giorno della partenza.
Nel lasciarsi, madre e figlia, alla stazione, erano commosse entrambe, abbracciandosi senza dire una parola, all'ultimo momento, quasi dovessero lasciarsi per sempre.
La contessa giunse tardi a casa sua, di sera, affranta, intirizzita dal freddo.
La casa vuota e deserta era fredda ancor essa, malgrado il gran fuoco acceso, malgrado le lumiere solitarie, nelle stanze malinconiche.
La salute della contessa Anna declinò rapidamente.
Da prima ne accusò la stanchezza del viaggio, le commozioni, la stagione rigida.
Stette circa tre mesi fra letto e lettuccio, e il medico tornò a visitarla tutti i giorni.
- Non è nulla - ripeteva lei.
- Oggi mi sento meglio.
Domani m'alzerò -.
Alla figliuola scriveva regolarmente, senza accennare però alla gravità del male che l'uccideva.
Verso il principio dell'autunno parve migliorare davvero.
Ma a un tratto peggiorò in guisa che i familiari si credettero obbligati a telegrafare al marchese.
Roberto giunse il giorno dopo, spaventato.
- Bice non sta bene, - disse al dottore che l'aspettava.
- Sono inquieto anche per lei.
Non sa nulla...
Ho temuto che la notizia...
l'agitazione...
il viaggio...
- Ha ragione...
Anche la salute della marchesa ha bisogno di molti riguardi...
È una malattia gentilizia, pur troppo!...
Io stesso non avrei preso su di me tale responsabilità...
E se non fosse stata la gravità del caso...
- Molto grave? - chiese Roberto.
Il dottore scosse il capo.
L'inferma, appena le annunziarono la visita del genero, entrò in una grande agitazione.
- E Bice? - chiese appena lo vide.
- Perché non è venuta?
Egli balbettava, quasi pallido quanto lei, sentendosi anch'esso un sudore freddo alla radice dei capelli.
- Siete stato voi...
a dirle che non venisse?...
- seguitava lei colla voce tronca e soffocata.
Egli non le aveva mai udito quella voce, né visto quegli occhi.
Una donna, china sul capezzale, sforzavasi di calmare l'inferma.
Infine essa tacque, abbassando le palpebre, stringendo forte le mani sul petto.
Volle confessarsi la sera stessa.
Dopo che si fu comunicata fece chiamare di nuovo il genero, e gli strinse la mano, quasi per chiedergli perdono.
Nella stanza vagava l'odore dell'incenso - l'odore della morte; soffocato di tratto in tratto da un odore più acuto di etere, penetrante, che pigliava alla gola.
Delle ombre livide sembravano errare sul volto della moribonda.
- Ditele...
- balbettò la poveretta.
- Dite a mia figlia...
-
L'affanno la vinceva, soffocandole le parole nella strozza, facendole stralunare gli occhi deliranti.
Allora accennò che non poteva più, con un moto del capo desolato.
Di tanto in tanto bisognava sollevare di peso sui guanciali quel povero corpo consunto, nell'angoscia suprema dell'agonia.
Ella però faceva segno che Roberto non la toccasse.
Le si erano quasi sciolti i capelli, tutti bianchi.
- No...
no...
- furono le ultime sue parole che si udirono gorgogliare indistinte.
Giunse le mani per chiudere la battista che le si era aperta sul petto, e così passò, colle mani in croce.
ULTIMA VISITA
"Vorrei morir...".
Donna Vittoria cantava divinamente.
Però gli amici che frequentavano la sua casa (casa Delfini era una specie di succursale del Circolo) l'udivano raramente.
Essa pretendeva che il canto l'affaticasse; soleva dire ridendo che sarebbe morta di una malattia di petto.
- Per questo motivo, allorché compariva ai balli o al teatro, nel turbinìo infaticabile della vita elegante, splendente di bellezza e scollacciata sino al dorso, su quel petto delicato ch'era rimasto una meraviglia dopo dieci anni di matrimonio, fioccavano i complimenti e i madrigali dei suoi adoratori.
- Ne aveva tanti!...
- essa diceva con quel sorriso che faceva palpitare il bel nasino arcuato - per far la guardia alla sua virtù, guardandosi in cagnesco fra di loro!...
- Amici del marito (il solo del fior fiore del Circolo che non fosse obbligato a farsi vedere un momento nel salotto di lei) o delle sue amiche, le quali venivano a prendere il thè, a farsi ammirare, a darsi degli appuntamenti, a discorrere di tutto, fuorché di musica, ch'era la passione segreta di donna Vittoria - il solo vizio che nascondesse agli amici - diceva lei - il suo egoismo e la sua civetteria - dicevano gli altri.
Talché quella sera che si era lasciata piegare dalle calorose insistenze della cugina Roccaglia, era stato proprio un avvenimento, udire la sua voce un po' velata che accennava squisitamente quella musica, con un certo riserbo signorile, con una tinta di malinconia anche.
- Ah, sì! - esclamò galantemente il vecchio duca d'Orezzo.
- Morire a quella maniera e una bella cosa! -
Ella scherzava adesso gaiamente coi suoi intimi, che si affollavano intorno al pianoforte rimproverandole la sua ingratitudine.
- Ah, valeva proprio la pena di esserle fedeli, tutte le sere, perch'ella fosse così avara della sua voce, soltanto con loro! - Anche lei, Ginoli, ha il coraggio di lagnarsene? - Io no.
La musica mi fa male...
quando le sento dire a quel modo "Vorrei morire!..." - Gli occhi di lei ridevano negli occhi del bel giovane biondo, che si accesero anch'essi un istante di una luce più viva, malgrado il loro riserbo mondano, com'era passata una carezza nel tono della voce che voleva sembrare disinvolta e scherzevole.
- Davvero...
- soggiunse lei.
- Alle volte, sapete...
in certi momenti deliziosamente tristi...
-
Essa parlava gaiamente della morte nel fervore della festa, al ritmo del valzer di Chopin che l'eccitava vagamente, splendente di gemme e di bellezza, sotto gli occhi innamorati di Ginoli.
All'uscire di casa Roccaglia, in mezzo alla scorta di galanti che si affrettavano a metterle la pelliccia sulle spalle, a darle il braccio, ad aprir lo sportello del legnetto tiepido e profumato come un nido, aveva sentito un brivido scenderle per le belle spalle nude, ancora ansanti pel valzer, sotto la lontra del mantello.
Il suo medico, il medico delle signore eleganti, era venuto il giorno dopo a fare quattro chiacchiere, sprofondato nella gran poltrona ai piedi del letto, buttando giù svogliatamente prima d'andarsene, senza togliersi i guanti due o tre lineette della sua bella scrittura da signora su d'un foglietto medioevo con la corona a cinque foglie.
Alla porta era una vera processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea; tutti che lasciavano una parola, un nome, una carta di visita, di cui il portiere ogni sera recava in anticamera un vassoio pieno zeppo, colla lista fitta di condoglianze e di auguri, insieme al bollettino della giornata, redatto in guisa da poter passare sotto gli occhi dell'inferma, la quale voleva leggere ogni giorno i nomi di coloro che si erano ricordati di lei.
Se ne parlava al Circolo, al teatro, come s'incontravano fra di loro, amici e conoscenti di lei, in visita, dal confettiere, allo sportello delle carrozze, a Villa Borghese.
- La povera donna Vittoria!...
- Le visite si succedevano a Casa Delfini: delle signore eleganti, degli uomini che venivano un momento a stringere la mano al marito di lei, delle coppie che vi si davano ritrovo, delle ondate di profumi leggieri e delicati che passavano nell'atmosfera greve, delle osservazioni brevi che si scambiavano i visitatori a bassa voce, nell'uscire, con un gesto del capo, o della mazzettina, stringendo il manicotto al seno, o stringendosi nelle spalle.
La sera miss Florence lasciava il romanzo che stava leggendo, e scendeva colla bimba nella camera della signora, la quale accoglieva entrambi con un sorriso pallido.
La figliuola, una ragazzina bianca e delicata, con lunghe trecce d'oro pendenti giù per le spalle, e la compostezza di una donnina, andava a baciare la mamma in punta di piedi, col passo di signorina ben educata.
Le chiedeva della salute in inglese o in tedesco, secondo la giornata; poi le augurava la buona notte, e se ne andava dietro all'istitutrice, diritta e impettita.
Però una mattina il dottore s'era fatto serio all'udire donna Vittoria lagnarsi di un altro guaio serio, sopravvenutole nella notte: un dolore pungente che le attraversava il petto, dalle spalle al seno: - Come dicono che sia il mal d'amore!...
- Donna Vittoria ne parlava in tono scherzoso, con una specie di febbre d'amore realmente negli occhi, sulle guance, e nella voce rotta.
Il dottore la pregò di lasciarsi osservare, così, sollevandosi un poco, una cosa da nulla.
Una cosa che le faceva un effetto curioso, a lei, al sentire contro la batista quel viso di uomo che pareva l'abbracciasse, e le facesse battere il cuore davvero, e la faceva scomporre in volto, senza saper perché, mentre si forzava ancora di ridere, fra due colpetti di tosse: - Proprio il mal d'amore, eh, dottore? - Egli non rispose subito, intento, coll'orecchio sulle sue spalle delicate che trasalivano e s'imporporavano.
Poi aveva espresso il desiderio "di consultarsi con qualche collega sul metodo di cura", e s'era fermato un momento in anticamera a discorrere sottovoce col marito dell'inferma.
Calava la sera, una sera tiepida di primavera.
Per la via udivasi il rumore non interrotto delle carrozze che tornavano dal passeggio.
Soltanto nella camera dell'inferma, che dava sul giardino, regnava un gran silenzio.
Quando la figliuola era andata ad augurarle la buona notte, secondo il solito, donna Vittoria aveva trattenuta la ragazzina per mano, e le aveva detto, nella sua lingua nativa, poche parole che accusavano la febbre, col sorriso già triste nel viso color di cera.
La bimba ascoltava seria e zitta, coi grand'occhi azzurri spalancati.
Sino a tarda ora, come s'era sparsa la notizia del consulto tenutosi in casa Delfini, erano venuti degli amici di donna Vittoria, che il marito di lei riceveva nel suo salottino da fumare - un salottino da scapolo, con delle figure scollacciate alle pareti, e dove scoppiettava una fiammata allegra - distribuendo dei sigari e delle strette di mano, discorrendo di ciò che avevano detto i medici, e di quel che dicevasi al Circolo e nei crocchi mondani.
Qualche signora, venendo a chiedere notizie dell'amica, dopo il teatro, s'avventurò a cacciare un momento la testolina incappucciata in quel recesso profano, scandolezzandosi "degli orrori" che v'erano in mostra, sgridando Delfini e lasciandogli un saluto per "la cara Vittoria", empiendo le sale del fruscìo dei loro strascichi, e il gaio cinguettìo che fugava le idee nere.
I domestici sbadigliarono un po' più del solito in anticamera, e sino a tarda ora lo stesso coupé che aveva ricondotta la padrona dal ballo in casa Roccaglia stette attaccato a piè dello scalone, coi due fanali accesi che si riverberavano nell'acqua della fontana.
Null'altro.
Ma la stessa notte l'inferma aveva peggiorato rapidamente.
Il medico, chiamato in fretta e in furia sin dall'alba, si turbò in viso al primo vederla.
Stette appena cinque minuti e promise di tornare fra qualche ora.
Intanto fece prevenire il suo collega del consulto, suggerì alla cameriera di svegliare Delfini, che dormiva ancora, prescrisse un sacco d'ordinazioni che fecero perdere la testa ai servitori e alle cameriere.
Per un momento la casa fu tutta sottosopra.
Nel cortile c'era un va e vieni frettoloso di carrozze, coi cavalli fumanti e coi cocchieri ancora in giacchetta.
Dei parenti giungevano a ogni momento, col viso lungo, parlando sottovoce.
Il medico era tornato due volte.
Verso le quattro, prima d'andarsene, aveva scritto un'ultima ordinazione sul tavolino dell'anticamera, volgendo le spalle all'uscio, dinanzi al servitore serio e grave, di già in cravatta bianca sino dalle dieci di mattina.
Poi, il coupé di donna Vittoria era andato a prendere di corsa una lontana parente, mezza beghina, dinanzi al cui vestito dimesso, quasi umile, gli usci dorati si spalancarono premurosamente.
Costei s'era assisa al capezzale dell'inferma, con un'aria d'intimità quasi materna, chiedendole come si sentisse, chiacchierando di cose diverse con la voce pacata delle donne che vivono nella pace della chiesa.
Parlò di sé, dei suoi piccoli guai di tutti i giorni, del solo conforto che si trova nella religione.
- Giusto incominciava allora la quaresima, l'epoca della penitenza, dopo i peccati del carnevale.
A volte le malattie sono avvertimenti che dà il Signore perché ci si rammenti di Lui.
Appunto perciò i buoni cristiani antichi usavano chiedere il Viatico appena s'ammalavano.
Non è giusto aspettare l'ultimo momento per riconciliarsi con Dio.
Già il miglior rimedio è una buona confessione, si era visto tante volte, con dei malati gravi...
Donna Vittoria, bianca come il merletto del guanciale su cui posava la testa, ascoltava senza dire una parola, spalancando gli occhi, quasi affascinata da un'orribile visione interiore, col viso già stravolto da un'angoscia suprema, agitando le mani, agitando il capo che non poteva trovar requie sul guanciale.
Tutt'a un tratto si fece proprio cadaverica in volto, cercando di rizzarsi sulla vita, balbettando:
- No...
più tardi...
più tardi...
Non mi fate questi discorsi...
Non mi fate morir di spavento...
Andatevene, zia!...
andatevene!...
Più tardi poi...
-
La beghina se ne andò finalmente, stringendosi nelle spalle, brontolando delle parole oscure, accennando col capo al marito di donna Vittoria che aspettava all'uscio, sbigottito anche lui.
L'inferma gli fece cenno d'accostarsi, interrogandolo cogli occhi ansiosi, con un'espressione di rancore pure, in fondo a quegli occhi atterriti, chiedendogli perché avessero lasciata entrare quella donna...
perché?...
perché?...
La voce le si era mutata a un tratto, come il viso, come gli occhi che fissava in volto a tutti quanti e domandavano ansiosi: - Sto proprio così male?...
Cosa ha detto il medico?...
Perché non mandate a chiamare il medico? - Ad un tratto si abbandonò sul letto supina, con un terrore immenso nel viso.
- Ah...
Dio mio!...
così presto!...
-
Il triste annuncio giunse di buon'ora al Circolo.
Ginoli teneva banco, aspettando che fosse l'ora d'andare a far visita in casa Delfini, come al solito, quando il duca d'Orezzo, che aveva preso posto fra i giuocatori un momento prima, ripeté la frase che correva da una settimana sulla bocca degli amici: - La povera donna Vittoria!...
- stavolta in tal tono che tutti quanti levarono il capo.
Ginoli aveva voltato un nove.
Allora gli stessi tornarono a chinarsi sulle carte, rannuvolati.
- Pur troppo! - rispose il duca alla domanda di Ginoli, che aveva dimenticato di ritirar le poste.
- S'è già confessata...
-
Ginoli vinceva sempre con una vena implacabile che l'inchiodava al suo posto, e non teneva allegri neppure i suoi compagni di giuoco.
Accusasse un cinque o chiamasse un sette, tutte le follìe di un giuocatore inesperto che voglia fare lo spaccone, o che abbia perduta la testa, gli giovavano invece a sventare le astuzie dei suoi avversari, i quali non sapevano più a che santo votarsi, e maledicevano in cuor loro gli uccelli di malaugurio che vanno in giro a portare la disdetta e le cattive nuove.
Santa-Sira, il quale aveva già le orecchie infocate, saettò di nascosto un'occhiata sul duca.
Ma Lionelli, il quale aspettava la rivincita, e temeva che Ginoli lasciasse le carte, osservò garbatamente che in tal caso non conveniva andare in casa Delfini quella sera...
per non disturbare...
Altri approvarono, guardando alla sfuggita Ginoli a cui tremavano le mani nel dare le carte, e luccicavano delle goccioline di sudore sulla fronte, quasi perdesse tutto sulla parola; e Domitilla discretamente cambiò discorso, per riguardo a Ginoli che teneva il banco, e di cui conoscevasi la relazione con donna Vittoria.
- Peraltro si facevano pochi discorsi, ciascuno avendo da pensare ad altro, con quella maledetta partita che s'era fatta più seria che non si credesse, e che sarebbe stata un disastro per qualcheduno, se Ginoli non fosse stato quel gentiluomo che era, e non avesse capito che gli conveniva continuare a giuocare, come facevano tutti gli altri amici di donna Vittoria, per la riputazione di lei.
Con una partita così grossa, nessuno avrebbe voluto tenere il banco per lui.
- Tanto da lasciarmi tirare il fiato, - aveva egli detto sorridendo, quasi l'emozione della vincita fosse stata realmente tale da togliergli il respiro.
Finalmente, quando poté correre in casa Delfini, dopo una serie fortunata di zeri che gli riconciliò i suoi amici del Circolo, era circa mezzanotte.
Domitilla aveva voluto accompagnarlo per salvare le apparenze.
Salendo la scala gli disse: - Bada...
sei ancora tutto sottosopra...
-
Nel salotto c'erano dei parenti, una signora attempata, amica di casa, che si era offerta di vegliare la notte, e due altri, marito e moglie, zii, per parte di madre, di donna Vittoria.
La zia parlava di cure portentose, di guarigioni insperate.
Gli altri tacevano, senza ascoltare.
La contessa Roccaglia parve molto sorpresa di veder comparir Ginoli, e rivolse la parola a Domitilla, per salvare le apparenze: - Non sapevate...
povera Vittoria!...
-
Allora Ginoli dovette ascoltare le osservazioni della zia, ch'era stata nella camera dell'inferma, e balbettare delle condoglianze comuni, dinanzi a tutti quegli occhi fissi su di lui.
Di tanto in tanto passava un domestico frettoloso; una cameriera socchiudeva discretamente l'uscio delle stanze della signora.
Un momento si vide far capolino anche il marito di lei, pallidissimo, che scomparve subito.
Nel salotto discorrevasi a voce bassa, con parole tronche, con un vago senso di malessere e di fastidio reciproco.
Lo zio guardava l'orologio tratto tratto.
Poi succedevano dei lunghi intervalli di silenzio che pesavano su tutti, quasi d'attesa funebre.
A un certo punto l'uscio si spalancò e comparve prima l'istitutrice, col fazzoletto agli occhi, reggendo la fanciullina che sembrava svenuta; e il padrone di casa attraversò il salotto barcollando, senza salutare nessuno, fissando soltanto uno sguardo singolare su Ginoli che aveva chinato il capo.
Dall'uscio rimasto aperto udivasi il rumore di un affaccendarsi frettoloso, nelle stanze dell'inferma.
La cameriera era venuta correndo a prendere un candelabro dal caminetto.
Allora gli zii e la vecchia signora le erano andati dietro.
Come Ginoli si era alzato anche lui, vacillante, pallido come un cadavere, quasi non sapesse più quel che si faceva, la contessa Roccaglia lo fermò sull'uscio, dicendogli piano:
- No...
S'è confessata or ora...
s'aspetta il Viatico...
-
Si udì il suono funebre di un campanello, e uno scalpiccìo di gente che saliva.
Ginoli, dileguandosi come un'ombra, quasi inseguito dallo squillare di quel campanello, vide un'altra ombra in fondo all'anticamera, dinanzi a cui dovette chinare il capo, irresistibilmente.
BOLLETTINO SANITARIO
San Remo, 10 novembre
Sono qui da ieri sera.
Venite.
VIOLA
San Remo, 21 novembre
VIOLA fa sapere alla sola persona dalla quale è conosciuta, che ella aspetta inutilmente da otto giorni.
San Remo, 8 dicembre
Perché non siete venuto, GIACINTO? Avete letto le mie del 10 e 21 novembre? Avete dimenticato la vostra promessa? Dove siete? Ho bisogno di voi.
San Remo, 16 dicembre
Mi sono ingannata; perdonatemi.
Voi siete come tutti gli altri.
Sorrento, 22 dicembre
Io sono precisamente come tutti gli altri, cara signora VIOLA; anzi, come tutti quegli altri che hanno bisogno di pace, e a cui i medici prescrivono il riposo dell'anima e del corpo, e il clima di Nizza o di Napoli.
GIACINTO
San Remo, 25 dicembre
Godeteveli.
Parto domani.
È inutile dirvi dove andrò, poiché è inutile che mi scriviate.
Addio.
VIOLA
Sorrento, 20 gennaio
Alla signora VIOLA - non del pensiero.
- Mia cara, giacché ai vostri occhi devo comparire assolutamente colpevole, eccovi la mia giustificazione: ve la mando come posso.
Per altro, nessuno vi conosce, nemmen io, e voi non avete esitato per la prima a far correre le poste ai nostri piccoli segreti.
Sono stato malato, molto malato; ho creduto di morire, e ho avuto paura.
Vedete quanto io sia lontano dal mondo e dalle sue illusioni, se vi confesso anche cotesto! Ho vista la vita dall'altro lato.
Se sapeste che rovescio! La giovinezza, il passato, voi! Quante cose si veggono nelle cortine stinte di un letto d'albergo, a cinque lire per notte, coll'odore delle medicine sotto il naso, e il russare dell'infermiera in un canto! Mi sembrava di non dovermi alzare più.
Andavo cercando col pensiero tutto ciò che si era presa la mia vita, e non lo trovavo: il giuoco, gli amici, le amiche...
E i sogni della giovinezza...
Vi rammentate, quella prima sera che mi bruciaste l'anima colle lenti del vostro cannocchiale? Che miseria! E pensare che tutto ciò ora non mi fa battere il cuore come la voce grossa del dottore il quale mi misura la febbre col termometro!
Che cosa volete, cara VIOLA! Ritorno dal paese freddo delle ombre, dove anche il fiore del pensiero intirizzisce; e mi scaldo tranquillamente a questo bel meriggio d'inverno, come un ebete, con un plaid sulle ginocchia, le orecchie ben calde dentro il mio berretto di lontra; e sorrido soltanto al sole che mi bacia le mani diacce, gialle, di un bel giallo d'oro, come i mucchi di luigi che illuminavano le nostre notti di Montecarlo, dove quell'altro mi vinceva anche voi.
Vi rammentate, a Venezia? Avevate un colletto alto da uomo, un ferro di cavallo alla cravatta, un cappellino grigio, a tese piatte, con un ciuffo di piume di struzzo sul davanti: ricordi che mi sembrano gai e festosi in questa bella giornata d'inverno: - l'occhiata lunga e calda che mi lasciaste nel vestibolo, sirena! e la furberia con la quale vi nascondevate dietro le spalle oneste e larghe del vostro compagno, nel palchetto, per puntare il cannocchiale su di me! Quante belle cose ci dicevamo! Due o tre volte chinaste il capo e sorrideste: un sorriso che voleva dire tante cose: - Vi saluto! - Davvero? - Sì! - Venite? - che so io...
forse non lo sapevate voi stessa.
Io sorrisi e chinai il capo come voi.
Che potevamo dire di più? Tutto l'amore umano non è in quel linguaggio senza parole? - Chi sei? - Mi piaci! - Mi vuoi? - Quel bel signore che vi dava il braccio non avrebbe potuto chiedervi né sentirsi rispondere altro da voi, neppure nel momento in cui posava la sua testa accanto alla vostra sul medesimo guanciale.
Eppure, tutta la notte questa visione non mi fece chiudere occhio.
Lasciamo stare, lasciamo stare! Ecco che ricasco di nuovo nella fantasticheria erotica - la più malsana divagazione della mente, dice il mio medico.
Ora non c'è nulla per me che valga una buona nottata di sonno profondo, collo spirito e il corpo nella bambagia tiepida delle coperte.
Erano tante notti che non potevo dormire, mangiato dalla tosse, mangiato dalla febbre! Sentite, quando vi dicono che in cotesti momenti hanno pensato a voi, che siete stata il conforto, il sollievo, che so io, vi mentiscono come furfanti.
In principio, forse, quando il male non ha compìto il suo lavorìo, quando il medico non ha fatto il viso lungo, quando non si è visto passare lo spettro nero nelle prime ombre della sera...
Allora, forse...
quando il sangue ancora ricco dà con la febbre quella sensazione di benessere, si può pensare a lei, alla donna, alla treccia bionda sul guanciale, alla mano bianca che apre dolcemente le cortine, agli occhi lucenti che aspettano...
Così mi guardavate, dal fondo di quella loggia.
- Che cosa ne avete fatto del vostro bel cavaliere? Sapete, ultimamente lo incontrai a Napoli.
Non volle riconoscermi, e fece bene.
Ho un sospetto che quell'uomo in dominò della cavalchina fosse lui, e che abbia udito quando deste l'indirizzo al gondoliere...
Lasciatemi in pace, lasciatemi in pace, ecco quello che vi ho detto poi, nelle lunghe notti senza sonno e senza sogni.
E vi ho detto anche peggio.
Che ve ne importa? Che me ne importa? Io voglio dormire, voglio dormire soltanto.
Voi siete bella, sana, giovane, ricca.
Avete lì San Mauro ai vostri piedi, Giuliano che vi fa ridere, il duca che vi manda delle violette da Nizza.
Lasciatemi in pace.
Vedete, è un'ora che vi scrivo.
Il sole m'ha lasciato adagio adagio, e col sole le liete fantasie che suscitava la vostra memoria.
Ora ho freddo, e la nebbia è calata anche su di voi.
Che colpa ne ho io? Se vedeste com'è triste questo mare che illividisce, e questo verde che si fa scuro! Sento il bisogno del bel fuoco che scoppietta nel camino, e del buon brodo che fuma nella tazza.
Se stanotte potessi dormire senza cloralio, quanto sarei felice! Vedete quanto poco ci vuole per avere la felicità? Il dottore m'assicura che sto meglio, e che forse fra un mese o due potrò lasciare Sorrento...
Giacché dovete sapere che odio Sorrento, odio questo mare, questo cielo, questo verde implacabile, in mezzo al quale sono costretto a vivere, se voglio vivere.
Ora difatti mi sento meglio, ho pensato a voi, ho riletto le vostre lettere, ho sentito rifiorire in me qualcosa del passato che credevo morto, e che mi rianima invece, e mi riscalda.
Dunque anch'io posso rivivere? Allora, allora...
No, non voglio pensare ad altro.
Il medico dice che mi fa male.
Il mio male siete voi.
Non mi importa più di nulla, capite! Sentite...
siete già in collera? Vi chiedo perdono.
Sono un uomo dell'altro mondo: eccovi spiegato il motivo del mio silenzio.
Non pensate più a me.
Se mi vedeste ora, volgereste il capo dall'altra parte.
Lasciatemi in pace.
Sorrento, 25 marzo
È proprio vero.
Sto meglio, son quasi guarito, sapete? Il male non era così grave come si temeva.
Chi ne sa nulla? Questi medici, dottoroni! non lo sanno neppur loro.
Certo è che son guarito, guarito! Oggi ho fatto una lunga passeggiata a piedi.
Che bel sole! che bel verde! Quella ragazza che mi vende le viole ha detto che non mi ha mai visto così di buona cera.
Anche qui si fa la corte, come laggiù la fanno a voi, e non potete immaginare quanto sia ingenua e credula la civetteria dei malati.
Le ho dato venti lire.
Quanta gente si può far contenta con venti lire.
Ho portato il plaid sul braccio, tutto il dopo pranzo.
C'è un povero storpio che suona da un'ora il valzer di Madama Angot sotto le mie finestre.
Sì, quella musichetta gaia può avere il suo merito anch'essa quanto il vostro Chopin e il vostro Mendelssohn.
Le belle sere passate nel vostro salottino, guardandovi le mani e accarezzandovi i capelli! Non mi sgridate.
Sono un gran colpevole che vi domanda perdono e viene a picchiarsi il petto dietro la vostra porta.
Dove siete? Che avete pensato di me? Ero tanto lontano da voi, tanto! Ed ora desidero tanto di rivedervi! Basta, non ne parliamo.
Non me lo merito, lo so.
L'avete ancora quel serpentello d'oro al braccio? Come mi farebbe bene una bella chiacchierata con voi, di quelle chiacchierate che sapete fare, mezzo sdraiata sulla poltrona, e colle scarpette accavalciate l'una sull'altra! Sono circa sei mesi che non parlo.
E vedete, che perciò chiacchiero, chiacchiero per lettera, e vi corro dietro con la mente, e con qualche altra cosa anche, qui nel petto...
Se siete tuttora in collera, dovreste perdonarmi soltanto al pensare che, se voleste dirmi dove siete, verrei a piedi, come un pellegrino, a sciogliere il voto, foste anche in capo al mondo! Non mi sgomenterei, no! Ora son forte.
Ah, com'è bella la vita!
Sì, vi avevo promesso: "Quando mi permetterete di venirvi a trovare...
dovunque sarete..." Poi fui in collera con voi che m'avete lasciato partire.
Quella sera che mi posaste la fronte sul petto, a Villa d'Este? Perché non siete venuta con me? Eravate tutta tremante.
Mi amavate dunque? Perché non avete voluto che ci acciuffassimo pei capelli, io e quell'uomo? Che notte ho passato sotto le vostre finestre! Fu là che presi la tosse...
E ve ne volli.
Sì, sì, quando vi seppi partita, partita con colui, vi odiai, fui malato, volli dimenticarvi.
Giuliano mi disse che San Mauro vi faceva la corte, e che il duca portava discretamente al collo la vostra catena.
Che m'importa adesso? Io so che avete le mani bianche e che ve le siete lasciate baciare da me.
So che a San Remo non siete più da un pezzo, e che mi avete aspettato colà, e che siete partita senza dire per dove.
Ed io vi ho lasciata partire! Ero pazzo allora, o son pazzo adesso? Nessuno potrebbe dirlo.
Quello che so di certo, è che in questo momento vorrei baciare ancora le vostre mani bianche.
Sorrento, 11 aprile
VIOLA cara! VIOLA bella! VIOLA bionda! Eccomi ginocchioni dinanzi a voi, con le mani in croce, la fronte sul tappeto.
Lasciatemi baciare le vostre scarpette piccine! Sì, sì, lo so, sono molto colpevole.
Non merito il perdono.
Ditemelo, ma ditemelo voi stessa.
Sono otto giorni che ho fatte le valige, e che aspetto una vostra parola, dura, assai dura, che mi dica di venirmi a chiedere perdono.
Pensare che forse eravate sola a San Remo, e che avreste lasciato l'uscio socchiuso...
Ah, come darei della testa nella parete! Sono stato peggio di colpevole: sono stato uno sciocco.
Non ci cascate anche voi, se mi amate ancora, per picca, per dispetto.
Pensate che potremmo vederci, soli, dirci colla bocca tutto ciò che ci siamo detto quella sera alla Fenice col cannocchiale! Vi dico delle cose pazze.
Sono pazzo, vi giuro...
Sorrento, 16 aprile
GIACINTO supplica e scongiura a mani giunte VIOLA di fargli avere un rigo, una parola, qualunque sia, perché il silenzio implacabile di lei gli mette addosso tutte le febbri.
Sorrento, 29 aprile
Sentite, non ne posso più.
Aspetterò qui la vostra lettera sino a domani.
Domani, ultimo giorno d'aprile, non so quel che farò.
Vi amo, vi amo, mi sento morire un'altra volta.
Fatelo per pietà almeno, VIOLA! Stanotte ho tossito di nuovo e ho avuto la febbre.
Sorrento, 8 maggio
Ah, che siate proprio tale quale vi avevo giudicata! senza cuore, senza spirito, senz'altro che lo spumeggiare delle vostre trine e lo scintillìo dei vostri diamanti, frivola e dura altrettanto! Vi odio, vi detesto! Voi mi fate morire, consunto da questa febbre che mi avete messa nel sangue, maledetta! Tenetevi il duca che v'insulta co' suoi doni.
Tenetevi Giuliano, che si ride di voi.
Tenetevi San Mauro che vi mette in un mazzo con le ballerine della Scala.
Io vi ho buttato in faccia la giovinezza mia, che avete distrutto, la vita che mi avete succhiata coi baci, vampiro!
GIACINTO
Genova, 8 maggio
Aspettatemi.
Verrò.
VIOLA
Napoli, 14 maggio
No, no, mio caro GIACINTO.
È meglio non vederci più.
Sono stata a trovarvi, incognita; l'albergatore mi aveva aperta una finestra sul giardino, dove eravate a passeggiare.
Come siete mutato, mio povero e caro GIACINTO!
VIOLA è morta.
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DON CANDELORO E C.
(1894)
DON CANDELORO E C.
Don Candeloro era proprio artista nel suo genere: figlio di burattinai, nipote di burattinai - ché bisogna nascerci con quel bernoccolo - il suo pane, il suo amore, la sua gloria erano i burattini.
- Non son chi sono se non arrivo a farli parlare! - diceva in certi momenti di vanagloria come ne abbiamo tutti, allorché gli applausi del pubblico gli andavano alla testa, e gli pareva di essere un dio, fra le nuvole del palcoscenico, reggendo i fili dei suoi "personaggi".
Per essi non guardava a spesa.
Li perfezionava, li vestiva sfarzosamente, aveva ideato delle teste che movevano occhi e bocca, studiava sugli autori la voce che avrebbe dovuto avere ciascuno di essi, Almansore o Astiladoro.
Quando declamava pei suoi burattini, nelle scene culminanti, si scaldava così, che dopo rimaneva sfinito, asciugandosi il viso, nel raccogliere i mirallegro dei suoi ammiratori sfegatati, come un attore naturale.
Di ammiratori ne aveva da per tutto, alla Marina, alla Pescheria, certuni che si toglievano il pan di bocca per andare a sentire da lui la Storia di Rinaldo o Il Guerin Meschino, e se l'additavano poi, incontrandolo per la strada, colla canna d'India sull'omero e la sua bella andatura maestosa, che sembrava Orlando addirittura.
Era un gran regalo quando egli rispondeva al saluto toccando con due dita la tesa del cappello.
Se nasceva una lite in teatro, e venivano fuori i coltelli, bastava che don Candeloro si mostrasse fra le quinte, e dicesse: - Ehi ragazzi!...
- con quella bella voce grassa.
Giacché s'era fatta anche la voce, come il gesto e la parlata, sul fare dei suoi "personaggi" e pareva di sentire un Reale di Francia anche se chiamava il lustrastivali dal terrazzino.
Con queste doti innamorò la figliuola di un oste che teneva bottega lì accanto.
La ragazza era bruttina, ma aveva una bella voce, e doveva avere anche un bel gruzzolo.
- La voce è tutto! - le diceva don Candeloro sgranandole gli occhi addosso, e accarezzandosi il pizzo.
- Grazia! Che bel nome avete pure! - Andava spesso a far colazione all'osteria per amore della Grazia, e le confidò che pensava d'accasarsi, dacché aveva voltato le spalle alla vecchia baracca del padre, e messo su di nuovo teatro che rubava gli avventori al SAN CARLINO, e al TEATRO DI MARIONETTE.
Si mangiavano fra di loro come lupi, padre e figlio, e i suoi colleghi erano giunti ad ordirgli la cabala, e fargli fischiare la Storia di Buovo d'Antona.
- Spenderò i tesori di Creso! - aveva fatto voto quel dì don Candeloro battendo il pugno sulla tavola.
- Ma non son chi sono se non li riduco a chiuder bottega tutti quanti! -
Lui con dei contanti avrebbe fatto cose da sbalordire.
Insino il balletto e la pantomima avrebbe portato sul suo teatro; tutto colle marionette.
- Ci aveva qualcosa lì! - e si picchiava la fronte dinanzi alla Grazia, fissandole gli occhi addosso come volesse mangiarsela, lei e la sua dote.
Si scervellò un mese intero, col capo fra le mani, a cercare un bel titolo pel suo teatrino, qualcosa che pigliasse la gente per gli occhi e pei capelli, lì, nel cartellone dipinto e coi lumi dietro.
- Le Marionette parlanti! - Sì, com'è vero ch'io mi appello Candeloro Bracone! parlanti e viventi meglio di voi e di me! Non deve passare un cane che abbia un soldo in tasca dinanzi al mio teatro, senza che dica: "Spendiamo l'osso del collo per andare a vedere cosa sa fare don Candeloro!" -
L'oste veramente non si sarebbe lasciato prendere a quelle spampanate, perché sapeva che gli avventori seri preferiscono andare a bere il buon vino nel solito cantuccio oscuro; e del resto, lui voleva un genero con una professione da cristiano, come la sua, a mo' d'esempio, e non un commediante con la zazzera inanellata, che parlava come un libro e gli incuteva soggezione.
- Quello è un tizio che ci farebbe muovere a suo piacere come i burattini, te e me! - disse alla figliuola.
- Bada ai fatti tuoi: le buone parole, qualche risatina anche, con gli avventori.
E poi orecchie di mercante.
Hai inteso? -
Ma il tradimento gli venne da un finestrino che dava sul palcoscenico, al quale la ragazza correva spesso di nascosto a mettere un occhio, e dove si scaldava il capo con tutte quelle storie di paladini e di principesse innamorate.
Don Candeloro, dacché s'era dichiarato con lei, lasciava socchiusa apposta l'impannata, e le sfuriate di amore, Rinaldo e gli altri personaggi, le rivolgevano lassù; tanto che la ragazza ne andava in solluchero, e aveva a schifo poi di lavare i piatti e imbrattarsi le mani in cucina.
"Non pur me, ma infiniti signori questo amore ha fatto suoi vassalli, principessa adorata!..."
- Tu non me la dài a intendere! - brontolava l'oste colla figliuola.
- Che diavolo hai in testa? Mi sbagli il conto del vino...
Gli avventori si lamentano...
Questa storia non può durare -.
La catastrofe avvenne alla gran scena in cui la bella Antinisca ritorna alla città di Presopoli, e Guerino "quando la vidde" dice la storia "s'accese molto più del suo amore".
Smaniava per la scena, sbalestrando le gambe di qua e di là, alzando tratto tratto le braccia al cielo, squassando il capo quasi colto dal mal nervoso.
Diceva, con la bella voce cantante di don Candeloro:
"O Dio, dammi grazia ch'io mi possa difendere da questa fragil carne, tanto ch'io trovi il padre mio, e la mia generazione".
E la bella Antinisca, dimenandosi anch'essa, e lagrimando (si capiva dalle mani che le sbattevano al viso):
"O Signor mio, io speravo sotto la vostra spada di esser sicura del Regno che voi mi avete renduto, per questa cagione vi giuro per li Dei che come saprò, che voi siete partito, con le mie proprie mani mi ucciderò per vostro amore, e se mi promettete, che finito il vostro viaggio ritornerete a me, io vi prometto aspettarvi dieci anni senza prender marito".
"Non per Dio, sarete vecchia" disse il Meschino.
"Questo non curo, pur che voi giuriate di tornare a me, di non pigliare altra donna".
(Veramente la bella Antinisca aveva una voce di grilletto che faceva ridere gli spettatori, giacché don Candeloro per le parti di donna aveva dovuto scritturare a giornata un ragazzetto che cominciava adesso a farsi grandicello, e per giunta recitava come un pappagallo, talché alle volte il principale, sdegnato, gli assestava delle pedate, dietro la scena).
Allora la bella Antinisca cadde d'un salto fra le braccia del Guerino, piegata in due dalla tenerezza, e Grazia, arrampicata al finestrino, si sentì balzare così il cuore nel petto, che le sembrava proprio di essere nei panni dei due felici amanti, allorché il Meschino, in presenza di Paruidas, Armigrano e Moretto, giurò per tutti i sagramenti di farla sua donna e legittima sposa.
- Quando saremo marito e moglie, le parti di donna le farai tu! - le aveva detto don Candeloro.
E la ragazza, ambiziosa, si sentiva gonfiare il petto dalla gioia, a quelle scene commoventi che facevano drizzare i capelli in capo ad ognuno, e si vedevano degli uomini con tanto di barba piangere come bambini, fra gli applausi che parevano subissare il teatro.
- Sì! sì! - disse Grazia in cuor suo.
Il babbo invece disse di no.
C'erano continuamente delle scene fra padre e figlia; quello ripetendo che la storia non poteva durare, e minacciando la ragazza di tornare a maritarsi, e metterle sul collo la matrigna.
Lei dura nel proposito: o don Candeloro, o la morte! Quando don Candeloro andò a far domanda formale, vestito di tutto punto, l'oste rispose:
- Tanto onore e piacere.
Ma ciascuno sa i fatti di casa sua.
Sono vedovo, non ho altri figliuoli, e mi abbisogna un genero che mi aiuti...
- Allora vuol dire che non son degno di tanto onore! - balbettò don Candeloro facendosi rosso, e piantandosi di tre quarti, colla canna d'India appoggiata all'anca.
- Nossignore, l'onore è mio.
- L'onore è vostro, ma vostra figlia non me la date...
- Nossignore.
Come volete sentirla?
- Va bene.
Umilissimo servo! - conchiuse don Candeloro calcandosi con due dita la tuba sull'orecchio, e se ne andò mortificatissimo.
- Senti - disse poi alla Grazia dal finestrino.
- Tuo padre è un ignorante che non capisce nulla.
Bisogna prendere una risoluzione eroica, hai capito? -
La ragazza esitava a prendere la risoluzione eroica di infilare l'uscio e venirsene a stare con lui, per costringere poi il babbo ad acconsentire al matrimonio.
Ma don Candeloro aveva il miele sulle labbra, e sapeva trovare delle ragioni alle quali non si poteva resistere.
Le diceva di fare nascostamente il suo fagotto...
con giudizio, s'intende...
- C'era anche la sua parte nei denari del padre, - e venirsene dove la chiamavano i cieli.
- Non hai giurato per gli Dei di essere mia donna e legittima sposa? -
Il vecchio però era un furbo matricolato, il quale cantava sempre miseria, e nascondeva i suoi bezzi chissà dove.
Grazia non portò altro che quattro cenci in un fazzoletto, e quelle poche lire spicciole che aveva potuto arraffare al banco.
- Come? - balbettò don Candeloro che si sentiva gelare il sangue nelle vene.
- In tanto tempo che ci stai, non hai saputo far di meglio?...
-
Questo era indizio che non sarebbe stata buona a nulla, neppure per lui; e le questioni cominciarono dal primo giorno.
Basta, era un gentiluomo, e la promessa di Candeloro Bracone era parola di Re.
Il bello poi fu che lo stesso giorno in cui andarono all'altare, lui e la sposa, il suocero volle fargli la burletta di andarci lui pure, insieme a una bella donnona colla quale aveva combinato il pateracchio lì per lì.
- Senza donne non possiamo stare né io né il mio negozio, cari miei, - gli piaceva ripetere, con quel sorrisetto che mostrava le gengive più dure dei denti, e faceva venire la mosca al naso.
- State allegri e che il Signore vi prosperi e vi dia molti figliuoli.
Alla mia morte poi avrete quel che vi tocca -.
I figliuoli vennero infatti a tutti e due, genero e suocero, uno dopo l'altro.
Ma l'oste prometteva di metterne al mondo quanto il Gran Sultano, e di campare gli anni del Mago Merlino.
Ogni volta che gli partoriva la moglie o la figliuola, invitava tutto il parentado a fare una bella mangiata.
Crescevano i figliuoli, e i pesi del matrimonio; ma viceversa poi diminuivano gli introiti e il favore popolare.
Quella gran bestia del pubblico s'era lasciato prendere a certe novità che avevano portato Bracone il vecchio e il proprietario del SAN CARLINO.
Adesso nei teatrini di marionette recitavano dei personaggi in carne ed ossa, la Storia di Garibaldi, figuriamoci, ed anche delle farsacce con Pulcinella; e vi cantavano delle donne mezzo nude che facevano del palcoscenico un letamaio.
La gente correva a vedere le gambe e le altre porcherie, tale e quale come le bestie, che don Candeloro ne arrossiva pel mestiere, e preferiva piuttosto fare il saltimbanco o il lustrascarpe, prima di scendere a quelle bassezze.
Per non recitare alle panche era arrivato a far entrare in teatro gratis dei vecchi avventori, fedeli alle belle Storie d'Orlando e dei Paladini antichi, coi quali almeno si sfogava dicendo vituperi dei suoi colleghi:
- Perché non mettere le persiane verdi alle porte, come certi stabilimenti?...
Sarebbe più pulito.
Dovrebbe immischiarsene la Questura, per Satanasso! -
Però l'ignoranza e l'ingratitudine del pubblico gli facevano cascare le braccia.
Non valeva proprio la pena di sudare coi libri, e spendere dei tesori per dare roba buona a degli asini.
- Volete lavare la testa all'asino? - Gli stessi burattini recitavano svogliatamente, vestiti come Dio vuole.
- Ci si perdeva l'amore dell'arte e d'ogni cosa, parola di gentiluomo! - Dov'erano andati i bei tempi in cui si facevano due rappresentazioni al giorno, la domenica e le feste, e la gente assediava la porta, quend'era annunziato sul cartellone un "personaggio" nuovo? Don Candeloro, colla barba di otto giorni e la zazzera arruffata, passava le giornate intere nella bettola del suocero, a dir corna dei suoi colleghi, o a litigare colla moglie, ora che in casa pareva l'inferno.
Grazia, adesso che aveva visto cosa c'era dietro le belle scene impiastricciate, stava con tanto di muso a rammendar cenci anche lei, a stemperar colori, e rompersi braccia e schiena, vociando come un pappagallo per le Artemisie e le Rosalinde, dall'avemaria a due ore di notte; che specie quando il Signore le mandava dei figliuoli (e succedeva una volta all'anno) era proprio un gastigo di Dio.
- Tu non sai far altro, per Maometto! - le rinfacciava il marito furibondo.
L'oste dava soltanto buoni consigli: - Non vedete che gli avventori corrono al vino nuovo? Cambiate il vino -.
Ma don Candeloro non si piegava.
Piuttosto avrebbe tolto su baracca e burattini, e sarebbe andato pel mondo a far conoscere chi era Candeloro Bracone, giacché i suoi concittadini non sapevano apprezzarlo.
La piazza "non faceva più" per lui! Se c'era ancora un po' di buon senso e di buon gusto dovevasi andare a cercarlo in provincia, dove non erano ancora penetrate quelle sudicerie.
Finalmente spiantò davvero il teatro, mise ogni cosa su di un carro, e via di notte, per non dar gusto ai nemici.
L'oste prese lui a pigione il magazzino per metterci delle botti, e allargare il negozio, ora che la figliuolanza era cresciuta.
- Te l'avevo detto, - disse alla Grazia.
- Quello non è mestiere da cristiani.
Se fossi rimasta a vendere del vino.
non saresti ridotta adesso a far la zingara.
Ben ti stia! -
Don Candeloro viaggiò per valli e per monti, come i cavalieri antichi, con tutto il suo teatro ammucchiato in un carro, e la moglie e i figliuoli sopra.
Il guaio era che non si trovava con chi combattere.
Quei contadinacci ignoranti ed avari, sfogata la prima curiosità, voltavano le spalle alle "marionette parlanti" o s'arrampicavano sul tetto del teatrino per godersi la rappresentazione gratis.
Arrivando in un villaggio, don Candeloro scaricava la roba sulla piazza, pigliava in affitto una bottega, un magazzino, una stalla, quel che trovava, e si mettevano a inchiodare e incollare tutti quant'erano.
Le stagioni duravano otto, quindici giorni, un mese, al più.
Dopo, si tornava da capo a correre il mondo, e in quel va e vieni la roba andava in malora; si mangiavano ogni cosa le spese d'affitto e di viaggio, con dei carrettieri ladri ch'erano peggio dei saracini, e non usavano riguardi neanche a Cristo.
Don Candeloro, avvezzo ad essere rispettato come un Dio da simile gentaglia, voleva farsi ragione colle sue mani, in principio, sinché si buscò una grandinata di calci e pugni.
E ci dovette arrivare anche lui, Candeloro Bracone, a fare il pagliaccio se volle aver gente nel suo teatro, e a rappresentare le pantomime nelle quali pigliavasi le pedate nel didietro dal minore dei suoi ragazzi per far ridere "la platea".
Quando vide che il pubblico non ne mangiava più in nessuna salsa delle "marionette parlanti", e ci voleva dell'altro per cavar soldi da quei bruti, ebbe un'idea luminosa che avrebbe dovuto fare la fortuna di un artista, se la fortuna baldracca non ce l'avesse avuta a morte con lui...
- Ah, vogliono i personaggi veri?...-
Un bel giorno si vide annunziare sul cartellone che la parte di Orlando, nei Reali di Francia, l'avrebbe sostenuta don Candeloro in persona "fatica sua particolare!" E comparve davvero sul palcoscenico, lui e tutta la sua famiglia, in costume, e armato di tutto punto: delle armature ordinate apposta al primo lattoniere della città, e che erano costate gli occhi della testa.
Il pubblico sciocco invece, al vedere quei ceffi di giudei che toccavano i cieli col capo, e suonavano a ogni passo come scatole di petrolio, si mise a ridere e a tirare ogni sorta d'immondizie sui Paladini, massime allorché ad Orlando cadde di mano la spada, ed egli, tutto chiuso nell'armi, non poté chinarsi per raccattarla.
Urli, fischi e mozziconi di sigari in faccia ai Reali.
Un putiferio da prendere a schiaffi tutti quanti, o da passar loro la spada attraverso il corpo, se non fosse stata di latta, pensando a tanti denari spesi inutilmente.
Da per tutto, ove si ostinava a portare i Paladini di Francia "con personaggi veri" trovava la stessa accoglienza: torsi di cavolo e bucce d'arance.
Il pubblico andava in teatro apposta colle tasche piene di quella roba.
Non li volevano più neanche "coi personaggi veri" i Paladini! Volevano le scempiaggini di Pulcinella, e le canzonette grasse cantate dalle donne che alzavano la gamba.
- E tu fagliele vedere le gambe! - disse infine alla moglie don Candeloro infuriato.
- Diamogli delle ghiande al porco! -
Lui stesso, colle sue mani, dovette aiutare la Grazia ad accorciare la gonnella, litigando con lei che pretendeva di non esser nata per quel mestiere, e si vergognava all'udire i complimenti che il pubblico indirizzava ai suoi stinchi magri.
- Per che cosa sei nata? per far la principessa? Il pane te lo mangi, però! - Lui invece era preso adesso dalla rabbia di mostrare ogni cosa, a quegli animali, la moglie, la figliuola ch'era più giovane e chiamava più gente.
- Anch'io, se vogliono vedermi!...
Voglio calarmi le brache in faccia a quelle bestie! - Faceva delle risate amare, povero don Candeloro! Cercava le farsacce più stupide e più indecenti.
Si tingeva il viso per fare il pagliaccio.
Sputava sul pubblico, dietro le quinte! - Porci! porci! -
LE MARIONETTE PARLANTI
Si rappresenta
Come il MESCHINO andò per le CAVERNE
E trovò MACCO in forma di SERPENTE
Col quale parlò
E giunse alla PORTA della
FATA
Indi farsa con
PULCINELLA
Il cartellone portava dipinto il Meschino, armato di tutto punto contro un drago verde, il quale vomitava delle lettere rosse che dicevano: Ebbi nome MACCO, e andai facendo male sin da piccino: tutta opera di don Candeloro, il quale dipingeva anche le scene, suonava la gran cassa, vestiva i burattini e li faceva parlare, aiutato dalla moglie e dai cinque figliuoli, talché in certe rappresentazioni c'erano fin venti e più personaggi sulla scena, combattimento ad arma bianca, musica e fuochi di bengala, che chiamavano gran gente.
Diciamo cinque figliuoli, però uno di essi veramente era figlio non si sa di chi, raccolto da don Candeloro sulla pubblica via per carità, ed anche perché aiutasse a lavare i piatti, suonar la tromba e chiamar gente, vestito da pagliaccio, all'ingresso del teatro.
- Martino, fate vedere i vostri talenti, e ringraziate questi signori -.
Martino voltava la groppa, si buttava a quattro zampe e imitava il raglio dell'asino.
Egli era il buffo della Compagnia, faceva il solletico alle donne, e andava a cacciare il naso fra le assi del dietro scena, mentre si vestivano per la farsa.
Colla ragazza poi inventava cento burlette che la facevano ridere, e le mettevano come una fiamma negli occhi ladri e sulla faccia lentigginosa.
- Be', Violante, vogliamo rappresentare al vivo la scena fra Rinaldo e Armida? -
Una volta che don Candeloro lo sorprese a far la prova generale colla sua figliuola, la quale si accalorava anch'essa nella parte, e abbandonavasi su di un mucchio di cenci, quasi fossero le rose del giardino incantato, amministrò a tutti e due tal salva di calci e schiaffi da farne passare la voglia anche a dei gatti in gennaio.
- Ah bricconi! Ah traditori! V'insegno io!...
- La Violante ne portò un pezzo il segno sulla guancia.
Ma ormai aveva preso gusto alle monellerie di Martino, sicché andava a cercarlo apposta dietro le quinte, fra le scene arrotolate, e i cassoni delle marionette, mentre lui smoccolava i lumi per la rappresentazione della sera, o soffiava sotto la marmitta posta su due sassi, nel cortiletto.
Gli soffiava fra capo e collo dei sospiri che avrebbero acceso tutt'altro fuoco, pigliandosela colle stelle e coi barbari genitori.
- Sta' tranquilla, - disse Martino, - sta' tranquilla che me la pagherà -.
Adesso era lei che lo stuzzicava, vedendo che il ragazzo, ammaestrato dalle busse, stava all'erta pel principale, coll'orecchio teso e guardandosi intorno prima di allungare le mani verso di lei.
Gli portava di nascosto i migliori bocconi; gli serbava, in certi posti designati, il vino rimasto in fondo al fiasco; per rivolgergli le parole più semplici, dinanzi ai suoi, faceva un certo viso come avesse l'anima ai denti, col capo sull'omero e gli occhi di pesce morto; pigliava il tono delle Clorinde e delle Rosamunde per dirgli soltanto: - Bisogna andare per l'olio, Martino.
- Guarda che non c'è più legna sotto la mangiatoia...
-
E quando lavorava accanto a lui, sul palco, con le Artemisie in mano, gli buttava sul viso le parole infocate della parte, cogli occhi neri che mandavano lampi, e le labbra turgide che volevano mangiarselo.
"O Cieli! Che mai vedo a me dinanzi!...
Mio signore...
mio bene!"
- Lavora! lavora, sgualdrinella! - borbottava don Candeloro, allungando delle pedate, quando poteva.
- Com'è vero Dio! t'ho detto che me la pagherà! - rispose Martino fra i denti più di una volta.
"Si, principessa adorata..."
E gliela fece pagare, un giorno che il principale era andato avanti a procurar la piazza, e la Compagnia e la baracca seguivano dietro su di un carro.
Martino e la Violante finsero di smarrirsi per certe scorciatoie, in mezzo ai fichi d'India, e raggiunsero poi la comitiva in cima alla salita, scalmanati; Martino trionfante, quasi avesse vinto un terno al lotto, e la Violante che sembrava davvero una principessa, sdilinquendo attaccata al suo braccio, e lagnandosi di avere male ai piedi.
Chi si lagnò sul serio poi fu don Candeloro, che non poteva più maneggiare quel birbo di Martino, divenuto insolente e pigro, minacciando ogni momento di piantar baracca e burattini e andarsene pei fatti suoi.
- Ora che t'ho insegnato la professione, e t'ho messo all'onor del mondo!...
ribaldo, fellone!...
-
Violante piangeva e supplicava l'amante di non abbandonarla in quel punto.
- Che vuoi? - disse Martino.
- Sono stanco di lavorare come un asino pei begli occhi di non so chi.
Ci levano la pelle.
Non ci lasciano respirare un momento, neppure per trovarci insieme...
-
In tre mesi soltanto quattro volte, di notte, a ruba ruba, con una paura del diavolo addosso! Una sera che babbo e mamma avevano mangiato bene e bevuto meglio, la ragazza andò a trovare il suo Martino in sottana, che sembrava la Fata Bianca, sciogliendosi in lagrime come una fontana.
- Che facciamo, Dio mio?...
Tu dormi invece!...
- Eh? Che vuoi fare? - rispose lui fregandosi gli occhi.
- Non posso più nascondere il mio stato...
La mamma mi tiene gli occhi addosso...
Bisogna confessare ogni cosa...
Tu che hai più coraggio...
- Io, eh? Perché tuo padre mi dia il resto del carlino? Grazie tante! Piuttosto infilo l'uscio e me ne vo.
Se tu vuoi venire con me, poi...
-
L'idea gli parve buona e l'accarezzò per un po' di tempo.
- Io so fare il salto mortale, l'uomo senz'ossa, il gambero parlante.
Tu sei una bella ragazza...
Sì, te lo dico in faccia...
Vestita in maglia, a raccogliere i soldi col piattello, la gente non si farà tirar le orecchie per mettere mano alla tasca.
Andremo pel mondo; ci divertiremo, e ciò che si guadagna ce lo mangeremo noi due.
Ti piace? -
Mai e poi mai don Candeloro si sarebbe aspettato un tradimento così nero.
Proprio nel meglio della stagione, quando il pubblico cominciava ad abboccare, e da otto giorni che erano arrivati in paese, e avevano piantato le assi nel magazzino dell'arciprete Simola, s'intascavano soldi colla pala, e ogni sera si cenava! Fu allora che Martino e la Violante, sentendosi la pancia piena, sputarono fuori il veleno, e gli appiopparono il calcio dell'asino, la sera che il pubblico affollavasi in teatro per la continuazione delle imprese di Guerin Meschino alla ricerca della Fata Alcida, e prevedevasi più di venti lire d'incasso.
La moglie di don Candeloro, che da qualche tempo aveva dei sospetti e teneva d'occhio la figliuola, la sorprese tutta sossopra, dietro a Martino, il quale insaccava della roba.
Violante, colta sul fatto, le si buttò ai piedi piangendo, come la Damigella di Pacifero Re del Porchinos, quando svela il suo fallo al genitore.
- Ah, scellerata! - strillò la madre.
- Cos'hai fatto? Tuo padre ora v'accoppa tutt'e due! -
Don Candeloro sopraggiunse in quel punto, facendo il diavolo a quattro appena intese di che si trattava.
Sua moglie gridando aiuto, Violante buttandosi dinanzi all'amante per difenderlo eroicamente a costo dei suoi giorni, Martino arrampicandosi sull'intelaiatura delle quinte, con tanto di temperino in mano, i ragazzi strillando tutti in coro: una scena al naturale che chiunque avrebbe pagato l'ingresso volentieri per godersela.
Don Candeloro però non dimenticò neppure allora né chi era né quel che aveva a fare.
- Zitti tutti! - gridò colla voce solenne delle grandi rappresentazioni.
- Adesso apparteniamo al pubblico, che comincia a venire in teatro.
Tu, Grazia, va alla porta, se no entrano di scappellotto.
Aggiusteremo i conti dopo, in famiglia -.
Figuriamoci la povera madre che doveva sorridere alla gente incassando i due soldi del biglietto, con quel pensiero e quello spavento addosso!...
Le prime scene poi, mentre aiutava il marito che aveva le mani legate dai burattini, e non poteva andare a prendere pel collo i due infami che non comparivano a tempo coi loro personaggi!...
- Che diavolo fanno? Adesso è l'entrata di Alcida.
Com'è vero Dio, mi rovinano la meglio scena!...
-
Il pubblico, che non sapeva niente di tutto ciò, aspettava l'entrata della Fata Alcida, la quale doveva sedurre il Meschino per bocca della Violante; e lo stesso Meschino era rimasto colle braccia in aria, dondolandosi sulla punta dei piedi, e guardando la gente coi suoi occhi di vetro, come a chiedere: - Che succede adesso? -
Succedeva che dietro le quinte c'era una casa del diavolo.
Si udiva correre e bestemmiare, e a un certo punto la stessa scena, che figurava una bellissima loggia tutta istoriata a colonne gialle e turchine, ondeggiò come sorpresa dal terremoto.
Guerino alzò ancora le braccia al cielo, tirato in su sgarbatamente, e uscì di furia, col manto rosso che gli si gonfiava dietro.
- Tradimento! Infami saracini! Voglio berne il sangue! - si udì gridare don Candeloro colla sua voce naturale.
Il pubblico si mise a strepitare.
Dei burloni che avevano adocchiato qualche bella ragazza nei primi posti, cominciavano a spegnere i lumi.
- Fermi! Ehi! Non facciamo porcherie! - gridavano altri.
Nella baraonda si udì il correre dei questurini, che le orecchie esercitate riconobbero subito al rumore degli stivali.
- Musica! musica! Non è niente! niente! -
Ma non ce ne fu bisogno.
Guerino tornò in scena, piegandosi in due ad inchinare gli spettatori, e dall'altra parte comparve immediatamente la Fata Alcida, "di tanta bellezza adorna che la sua faccia splendeva come un sole" come spiegava a voce don Candeloro, il quale accese in quel punto un po' di magnesio, che fece un bel vedere sull'armatura di latta del Meschino, e il manto della fata tutto a draghi e bisce d'orpello.
- Bravi! bis! - gridarono i compari, che non ne mancavano.
Si sarebbe udita volare una mosca.
Da un canto il Guerino, che faceva orecchio di mercante alle seduzioni della Fata, e lei che ostinavasi a riscaldare in lui "le ardenti fiamme d'amore" diceva colla sua stessa bocca, e con certi atti di mano anche, tanto che il Meschino dimenavasi tutto con un suon di ferraccia, e lasciava intender chiaramente "che se Dio per la sua grazia non gli avesse fatto tenere a mente gli avvertimenti dei tre santi Romiti di certo sarìa caduto".
La gente si sentiva drizzare i capelli in testa.
Uno di lassù, nei posti da un soldo, gridò inferocito:
- Guardati, Meschino! Tradimento c'è! -
Però gli avventori soliti avevano notato che quella non era la voce della Fata Alcida, e gli stessi gesti che faceva, di qua e di là, all'impazzata, non avevano niente di naturale.
Per certo qualcosa di grosso doveva essere avvenuto dietro le quinte.
Sicché da prima furono osservazioni e mormorii, e poi vennero le male parole.
Infine allorché invece dei draghi e degli altri incantesimi che dovevano far nascere il finimondo, don Candeloro cercò di cavarsela con una manata di pece greca e picchiando su due scatole di petrolio per imitare il fracasso dei tuoni, scoppiò davvero l'inferno in platea: urli, fischi, bucce d'arance e pipe rotte, che pareva volessero sfondare il sipario.
- Pubblico rispettabile, - venne a dire la moglie di don Candeloro più morta che viva, e con un occhio pesto, - ora viene una bella farsa tutta da ridere, nuovissima per queste scene.
Onorateci e compatiteci -.
Che farsa! La gente era lì dall'avemaria per godersi appunto la gran scena dell'incantesimo, e aveva speso i suoi denari per vedere "i personaggi", che si azzuffavano sul serio menando botte da orbi, e non don Candeloro, il quale fingeva di prendersi le legnate dal randello imbottito di stoppa e se la rideva poi sotto il naso.
Parecchi si buttarono sulla cassetta.
Ci fu un piglia piglia fra le guardie e i più lesti di mano.
I comici saltarono giù dal palcoscenico, così come si trovavano, mezzo vestiti per la farsa, gridando e strepitando anche loro.
Don Candeloro colla camicia di Pulcinella, scappò a correre verso la campagna, al buio, in cerca dei fuggitivi, giurando d'accopparli tutt'e due, se li pigliava.
- Li ho visti io, - disse un ragazzo: ce n'è sempre di cotesti: - Son fuggiti per di qua -.
Martino e la Violante correvano ancora infatti, tanta era la paura.
Allorché incontravano dei carri per la strada, Violante si buttava dietro una siepe, poich'era in sottanina bianca, così come aveva potuto svignarsela mentre vestivasi per la farsa.
Martino, più furbo, fingeva d'andare pe' fatti suoi, o di allacciarsi una scarpa.
Poi, quando furono ben lontani, si accoccolarono dietro un muro, e mangiarono del salame, che Martino, innamorato com'era, aveva pensato a mettere da parte.
Violante, più delicata e sensibile, badava piuttosto a guardare le stelle, pensando a quel che aveva fatto.
- Dove si va adesso? - chiese sbigottita.
- Domani lo sapremo - rispose lui colla bocca piena.
Cominciava a spuntare il giorno.
Violante non aveva portato altro che uno scialletto logoro, sulla sottanina, e tremava dal freddo.
- Hai paura forse? - chiese lui.
- No...
no...
con te, mio bene...
-
Le venivano in mente allora le parlate d'amore che aveva imparato a memoria pei burattini, allorché Martino rispondeva colla voce grossa e facendo smaniare d'amore Orlando e Rinaldo.
Così le damigelle e le principesse si lasciavano rapire dall'amante sui cavalli alati.
Martino fermò un carrettiere che andava per la stessa via, e combinò di montare sul carro, lui e la Violante, pagando.
- Hai dei soldi? - chiese lei sottovoce.
- Sì, sta zitta -.
Dopo, per giustificarsi, si sfogò a dir male dei genitori di lei, che li facevano lavorare per nulla e si arricchivano a spese loro.
- Infine, - conchiuse, - ho preso il mio.
Tanto tempo che tuo padre non mi dava un baiocco -.
Però la Violante non aveva appetito, sentendosi sullo stomaco la paura del babbo, e il peso di quell'azionaccia che Martino gli aveva fatto mettendo le mani nella cassetta.
Lui invece era allegro come un fringuello; accarezzava la ragazza e faceva cantare i soldi in tasca; nelle strade maestre ci stava come a casa sua, e ad Augusta le fece far l'entrata in ferrovia come una principessa.
- Vedi! - le disse, pigliando i due biglietti di terza classe.
- Vedi come tratto io! -
Da principio non andava male.
Violante era un po' goffa, un po' pesante; ma allorché girava in tondo su di un piede, o s'arrampicava sul dorso di Martino, scopriva tali attrattive che la gente correva in piazza a vedere, e metteva volentieri mano alla tasca.
Martino chiudeva un occhio quando correvano anche dei pizzicotti, sottomano, mentre la ragazza girava contegnosa col piattello fra la folla.
Pazienza! il mestiere voleva così.
Oggi qua, domani lontani delle miglia.
- Dove ti rivedranno poi gli sciocchi che si lasciano spillare i soldi per la tua bella faccia? - In compenso si mangiava e beveva allegramente, e lui andava a letto ubriaco, sinché il diavolo ci mise la coda...
La Violante si ubbriacava pure agli applausi e alle esclamazioni salate del pubblico, sicché scorciava sempre più il sottanino, e rischiava di rompersi l'osso del collo nel fare il capitombolo.
Per disgrazia s'accorse nello stesso tempo che bisognava slargare di giorno in giorno la cintura, e che le dolevano le reni nel fare le forze.
Già quei baffetti gliel'avevano detto a Martino, che non l'avrebbe passata liscia.
Sicché le rinfacciava che quando sarebbe divenuta grossa come il tamburone, il pubblico li avrebbe lasciati in piazza tutt'e due a grattarsi la pancia.
Per giunta poi aveva dei sospetti su di un Tizio che correva dietro alla Violante, da un paese all'altro, e tirava a farlo becco.
Ne aveva avuti tanti la bella figliuola degli spasimanti che ustolavano dietro il suo gonnellino corto: militari, bei giovani, signori che avrebbero speso tesori! Nossignore! Ecco che ti va a cascare in bocca a quel disperato che portava tutta la sua bottega al collo, e girava anch'esso per il mondo a vendere spilli e mercerie di qua e di là.
Per un palmo di nastro la brutta carogna si era venduta! Martino n'ebbe la certezza quando glielo vide al collo, e vide pure il merciaiuolo che lo pigliava colle buone anche lui, e gli pagava da bere per tenerlo allegro.
- Aspetta! - ghignava fra sé e sé Martino alzando il gomito.
- Aspetta, che vogliamo ridere meglio quando verrà il momento che dico io! -
Tollerò ancora un po', per necessità, finché la Violante poté aiutarlo a raccogliere soldi sulle piazze, odiandola internamente e dandole in cuor suo tutti i titoli che aveva imparato nei trivi.
Poi, un bel giorno, accortosi che il merciaio allungava le mani sotto la tavola verso la Violante, mentre desinavano insieme come amici e fratelli all'osteria, fece una scena indiavolata, tirando fuori il coltello, minacciando gli amici che si frapponevano a metter pace.
- Che pace? Con quella canaglia?...
Voglio mangiargli il cuore a tutti e due! - sbraitò raccogliendo i suoi cenci, e tanti saluti alla compagnia!
Il povero merciaio, che si vide cadere sulle braccia la Violante più morta che viva, e gravida di sette mesi per giunta, protestò la sua innocenza, e se la diede a gambe anche lui, la stessa notte.
Sicché la sventurata rimase senza amici e senza quattrini, in mezzo a una via, e dovette lasciare all'Ospizio di Maternità il frutto del suo bell'amore.
Così babbo don Candeloro, passando da quelle parti, raccolse di nuovo nell'ovile la pecorella smarrita, ché la misericordia paterna è grande assai, e la ragazza, nel teatro delle MARIONETTE PARLANTI, riusciva di molto aiuto, massime ora che la mamma cominciava a sentire gli acciacchi degli anni e della figliuolanza.
Violante lavava, cucinava, aiutava i fratelli nelle prove, mentre il genitore smaltiva l'uggia al caffè.
Le marionette in mano sua parlavano davvero.
Se la mettevano poi a riscuotere i soldi, in maglia carnicina, la gente entrava in teatro soltanto per rasentarle i fianchi.
Sembrava la Fortuna delle "Marionette parlanti" come si suol dipingere, col piede sulla ruota e rovesciando il corno dell'abbondanza sul prossimo suo.
- Madre natura m'ha fatto così, - ripeteva dal canto suo don Candeloro nel crocchio degli amici, che si rinnovano sempre in ogni paese e in ogni caffè nuovo, - il cuore largo come il mare e le braccia aperte...
-
Cogli anni era diventato filosofo.
Aveva imparato a conoscere i capricci della sorte e l'ingratitudine degli uomini.
Perciò pigliava il tempo come veniva, e gli amici dove li trovava.
Si contentava di portare il corno di corallo fra i ciondoli dell'orologio, e un ferro di cavallo, del piede sinistro, inchiodato sulle assi della baracca.
Era andata su e giù quella baracca.
Una volta, quando i figliuoli, fatti grandicelli, aiutavano anch'essi colle forze e nelle pantomime, le MARIONETTE PARLANTI contavano fra le prime di quante ne fossero in giro, e si stava bene.
Poi i ragazzi erano sgattaiolati di qua e di là, in cerca di miglior fortuna o dietro la gonnella di qualche donnaccia dello stesso mestiere, e don Candeloro per aiutarsi era stato costretto a riprender Martino che aveva incontrato a Giarratana povero in canna, e ridotto a far qualsiasi cosa per il pane.
- Sono nato senza fiele in corpo, come i colombi, - disse allora don Candeloro.
- Le anime grandi si conoscono appunto al perdono delle offese.
Se mi prometti di non tornar da capo, ti piglio di nuovo in Compagnia, a quindici lire il mese, alloggio e vitto compreso.
- Sia pure, - rispose Martino che moriva di fame.
- Lo fo per amor della Violante, che un giorno o l'altro deve esser mia moglie e legittima sposa.
Ma intendiamoci, vossignoria, che non son più un ragazzo!...
e se tornate a giocar di mano o a farmi patir la fame, ci guastiamo per l'ultima volta, com'è vero Dio! -
Si rappattumarono anche colla Violante, per intromissione del babbo, il quale però prescrisse che dormissero lontani l'uno dall'altra, in omaggio al buon costume, finché fossero stati marito e moglie.
Messosi così l'animo in pace, tornò agli amici e all'osteria, ora che al resto badavano gli altri.
Nondimeno capitava spesso di dover sospendere le rappresentazioni per due settimane o tre a causa della Violante, la quale era costretta a tornare di tanto in tanto all'Ospizio di Maternità.
Il fidanzato allora vomitava ogni sorta di improperi contro di lei, pigliandosela anche con la suocera, la quale non sapeva tenere gli occhi aperti come faceva lui, protestando di non averci colpa; e don Candeloro metteva pace e tornava a ripetere che quella storia doveva avere un termine, e che li avrebbe menati per le orecchie dinanzi al sindaco tutti e due, e l'avrebbe fatta finita.
Disgraziatamente i tempi non dicevano.
Le marionette facevano pochi affari, e la Violante protestava che se Martino non arrivava a metter su teatro da sé, sinché doveva portar lei sola tutta la baracca sulle spalle, non voleva mettersi pure quell'altra catena al collo, e preferiva restar zitella come Sant'Orsola.
Lei invece sapeva ingegnarsi col suo pubblico, di qua e di là, e per mezzo delle beneficiate e dei regali riusciva a porre da parte qualche soldo.
Don Candeloro vedeva già il momento in cui gli avrebbero dato il calcio dell'asino, come aveva fatto lui con suo padre.
- Così paga il mondo! Non tutti hanno il cuore a un modo! -
E ci aveva pure un'altra spina nel cuore il povero vecchio, al vedere la condotta che teneva la figliuola, e rodendosi internamente contro quella bestia di Martino che non si accorgeva di nulla.
Accettava, è vero, per amor della pace, le cortesie e gli inviti a cena dei protettori che la figliuola sapeva trovare in ogni piazza; si lasciava mettere in fondo alla tuba il cartoccio coi dolci o gli avanzi del desinare per la sua vecchiarella che aspettava a casa; ma stava a tavola di mala voglia, senza alzare il naso dal piatto, col cuore grosso.
E vedendo Martino che macinava a due palmenti, cuor contento, quell'altro! gli dava fra sé certo titolo che non aveva mai portato, lui!...
- Ah, no! Non nacqui sotto quella stella, io! -
PAGGIO FERNANDO
- Paggio Fernando sarà lei! - esclamò il signor Olinto, puntando l'indice peloso.
- Lei sarà un amore di paggio, parola d'onore! -
Don Gaetanino Longo, rosso dal piacere, seguitò a tormentare i baffetti che non spuntavano ancora, e balbettò:
- Se crede...
se le pare...
- E come! e come! - Il capocomico, col pugno sull'anca e il busto all'indietro, colla tuba bisunta sull'orecchio, e il mento ispido in mano, saettando un'occhiata sicura di conoscitore di fra le setole delle sopracciglia aggrottate, continuava a dire:
- Ma sicuro! Lei ha il fisico che ci vuole! Faranno una bella macchia insieme alla mia Rosmunda! -
Allora scoppiarono i malumori e le gelosie fra i dilettanti raccolti intorno al biliardo nel Casino di conversazione.
Si udì prima un'osservazione timida, come un sospiro; poscia il coro delle lagnanze: Perché è figliuolo del sindaco!...
Perché torna dagli studi col solino alto tre dita!...
- Eh?...
Che cosa?...
Dicano, dicano pure liberamente.
Siam qui apposta per intenderci...
fra amici...
-
Si fece avanti un giovanotto magro e barbuto, sotto un gran cappellaccio nero, e cominciò:
- Io vorrei...
Non dico per la distribuzione delle parti...
Non me ne importa...
Ma quanto alla scelta della produzione...
Mi pare che sarebbe ora di finirla colla camorra...
- Eh? Che dice? Non le piace la Partita a scacchi dell'avvocato Giacosa?...
Lavoro applaudito in tutte le piazze!...
-
L'altro fece una spallata, e l'accompagnò con un risolino che diceva assai.
Don Gaetanino, che pigliava le parti dell'avvocato Giacosa, come si sentisse già sulle spalle la responsabilità della parte affidatagli, tirava grosse boccate di fumo dal virginia lungo un palmo, col cuore alla gola.
- Vediamo.
Mi trovi di meglio.
Cerchi lei, signor...
signor...
-
Il giovanotto s'inchinò; cavò fuori dal portafogli un biglietto di visita, e lo presentò, con un altro inchino al signor Olinto.
- Ah! ah! corrispondente della Frusta teatrale e dell'Ape dei teatri?...
Felicissimo! Io non domando di meglio che contentare la libera stampa e la pubblica opinione...
Vediamo, dica lei.
Mi suggerisca, signor...
- E tornò a leggere il biglietto di visita.
- Barbetti, per servirla.
- Signor Barbetti, dice lei...
Se ci ha sotto mano qualche altra cosa che si adatti meglio al gusto di questo colto pubblico...
Qualche lavoro di polso...
-
Barbetti si faceva pregare, masticando delle scuse, fingendo di ribellarsi all'amico Mertola, il quale moriva dalla voglia di tradire il segreto dell'amico Barbetti.
Infine Mertola non seppe più frenarsi, e alzò la voce, scostandosi dall'amico, additandolo al pubblico per quel grand'uomo che egli era.
- Il lavoro di polso c'è...
inedito...
la sua Vittoria Colonna!...
Gli è costata due anni di lavoro!...
- Ah! ah! - fece il capocomico.
- Ah! ah! e me lo teneva nascosto, lei! Non sa ch'io sono ghiotto di simili primizie? -
Barbetti s'arrese infine, e tirò fuori dal soprabitino un rotolo legato con un nastro verde.
- Adesso? - rispose il signor Olinto.
- Su due piedi? Che mi canzona, caro lei?...
Un lavoro di polso come il suo!...
Bisogna vedere...
bisogna studiare...
Intanto dò un'occhiata...
-
Colla schiena appoggiata alla sponda del biliardo e il mento nel bavero di pelliccia, andava sfogliando le pagine, aggrottato, e borbottava:
- Bene, bene!...
Effetto scenico!...
Bei pensieri!...
Stile elevato!...
In questa parte la mia signora...
Non le dico altro!...
- Con permesso! con permesso! - interruppe il cameriere del Casino, spingendosi avanti a gomitate.
- Ecco qui don Angelino e il notaro Lello.
Devo preparare il biliardo per la solita partita -.
Il capocomico si cacciò la mazza sotto l'ascella, e raccattò gli scartafacci e i telegrammi sparsi sul panno verde.
- Va bene, va bene, ne riparleremo.
Intanto bisogna far girare la pianta -.
Fu il più difficile.
I giuocatori di tressette rispondevano picche, e brontolavano contro quel forestiere che portava la iettatura.
Seduta stante si dovettero ribassare i prezzi.
Ma l'avvocato Longo, sentendo che c'era per aria un dramma dell'avvocato Barbetti, repubblicano e suo avversario nel Consiglio, una gherminella per togliere la parte di Paggio Fernando al suo figliuolo, dichiarò che non dava il teatro per rappresentazioni immorali e sovversive.
Il signor Olinto, che andava mostrando la pianta del teatro col cappello in mano, gli disse:
- Ma che! Lei ci crede alla Vittoria Colonna? Una porcheria! Servirà per accendere la pipa.
Lasci fare a me che so fare...
Me ne trovo tra i piedi una ogni piazza, delle Vittorie!...
- Bene, faccia lei.
Ma a buon conto sa che al sindaco spetta un palco, e un altro alla Commissione teatrale, senza contare il tanto per cento sull'introito lordo a beneficio dell'Asilo Infantile -.
Le trattative durarono otto giorni.
Il signor Olinto si scappellava con tutto il paese, per rabbonire la gente, e la signorina Rosmunda aiutava dal balcone, civettando, vestita di seta, con un libro in mano, mentre la mamma badava alla cucina.
Don Gaetanino Longo, oramai sicuro del fatto suo, aveva confidato all'amico Renna:
- Quella me la pasteggio io! -
E passava e ripassava sotto il balcone, succhiando il virginia, a capo chino, rosso come un pomodoro, lanciando poi da lontano occhiate incendiarie.
Il signor Olinto, che l'incontrava spesso, gli disse infine:
- Voglio presentarti alla mia signora.
Così ti affiaterai pure con Jolanda -.
Il tu glielo aveva scoccato a bruciapelo, fin dal primo giorno.
Ma quel tratto d'amicizia commosse davvero don Gaetanino.
Trovarono la signorina Rosmunda che stava leggendo accanto al lume posato su di un cassone, colla fronte nella mano, la bella mano delicata e bianca che sembrava diafana.
Aveva i capelli nerissimi raccolti e fermati in cima al capo da un pettine di tartaruga, un casacchino bianco e un cerchietto d'argento, dal quale pendeva una medaglina, al polso.
Da prima alzò il capo arrossendo e fece un bell'inchino al figliuolo del sindaco.
Gli occhioni scuri e misteriosi sotto le folte sopracciglia lasciarono filare uno sguardo lungo che gli cavò l'anima, a lui! Ma in quella comparve la mamma infagottata in una vecchia pelliccia, coll'aria malaticcia, un fuoco d'artificio di ricciolini inanellati sulla fronte, e le mani, nere di carbone, nei mezzi guanti.
- Da artisti, alla buona, senza cerimonie - disse il signor Olinto.
E cominciò a parlare dei suoi trionfi e delle famose candele che gli dovevano tanti autori che adesso andavano tronfi e pettoruti; e delle birbonate che aveva salvato da un fiasco sicuro, e passavano ora per capolavori.
- Anche quella Vittoria Colonna, vedi, se mi ci mettessi!...
Don Gaetanino assentiva col viso e con tutta la persona.
Ma intanto guardava di sottecchi la figliuola, che aveva il viso lungo e il naso del babbo, ingentiliti da un pallore delicato, da una trasparenza di carnagione che sembrava vellutata, dalla polvere di cipria abbondante, e da una peluria freschissima che agli angoli della bocca metteva l'ombra di due baffetti provocanti.
Essa di tratto in tratto gli saettava addosso di quelle occhiate luminose che lo irradiavano internamente.
- Ah! anche il signore si occupa?...
- Sì.
Non hai inteso? Lui è Paggio Fernando...
Essa allora gli piantò addosso gli occhi e non li mosse più, perché egli vedesse ch'erano proprio belli.
Il babbo colse giusto quel momento per passare in cucina; e don Gaetanino, sentendo di dover spifferare qualche cosa, balbettò col cuore che battevagli forte:
- Signorina!...
son fortunato!...
davvero!...
- Oh! Che dice mai?...
Piuttosto io!...
- Il bicchiere dell'amicizia! - interruppe il signor Olinto tornando con una bottiglia in mano e gli occhi già accesi.
- Da artisti, alla buona.
Scuserai...
Non abbiamo mica il buon vino che bevete voi altri proprietari del paese...
-
La ragazza non volle bere.
Il giovanetto, per cortesia, bagnò appena le labbra in quell'aceto, dicendole:
- Alla sua salute! -
Essa alzò gli occhi su di lui, e lo ringraziò con quella sola occhiata.
- Divino!...
Squisito! - sentenziò don Gaetanino, che non sapeva più quel che si dicesse.
- Vi manderò domani un po' di quel vecchio...
Questo qui è eccellente...
Non c'è che dire...
Ma domani...
-
La mamma voleva protestare.
Il marito le chiuse la parola in bocca:
- Per qualche bottiglia di vino...
Non è un gran male.
Non è un regalo di valore.
Fra amici...
pel bicchiere dell'amicizia.
Già verrai a berlo anche tu...
la sera, quando non avrai altro da fare...
intanto vi affiaterete con Jolanda -.
Jolanda appoggiò l'invito con un'altra occhiata, e Paggio Fernando balbettò:
- Sì!...
certamente!...
felicissimo!...
-
Stava poi per rompersi l'osso del collo quando imboccò la botola della scaletta.
Fuori c'era un bel chiaro di luna, una striscia d'argento fredda e silenziosa che divideva la strada in due.
Egli camminava in quella striscia d'argento, col piede leggiero, il cervello spumante, il virginia rivolto al cielo, il cuore che batteva a martello, e gli diceva: - È tua! è tua! -
A casa trovò una lavata di capo per l'ora tarda, e andò a letto senza cena.
Il povero giovane passò una notte deliziosa, cogli occhi sbarrati nel buio, a veder pettini di tartaruga e occhiate lucenti che illuminavano la camera.
Appena uscito, il giorno dopo, provò subito una smania di correre dall'amico Renna.
- Una divinità, caro mio! Una cosa da ammattire! -
Renna, ch'era indiscreto, volle sapere a che punto fossero le cose, e lo costrinse a inventare dei particolari.
- Benone! - conchiuse.
- Sai però cosa ti dico? Alla lesta! Non perdere il tempo a filare il sentimento.
Già è donna di teatro; non ti dico altro!
- Io?...
Filare il sentimento?...
- borbottò Gaetanino, quasi reputandosi offeso.
- Vedrai!...
Ma il signor Olinto era lì ogni sera, a fumare la pipa e centellinare il vino dell'amicizia.
Quando lui usciva a prender aria poi, la mamma, che stava appisolata in un cantuccio, collo scaldino sotto le sottane, apriva un occhio.
Filavano le occhiate, del resto, che era uno struggimento, e le pedate sotto la tavola, e il fuoco e l'accento di certe frasi, alle prove:
Io ti guardo negli occhi che son tanto belli!!!
- Così - esclamava il capocomico, picchiando della mazza per terra.
- Faremo saltare in aria il teatro! -
Intanto quel briccone di Barbetti metteva dei bastoni nelle ruote.
Erano giunte due copie della Frusta teatrale con un articolaccio che diceva ira di Dio della camorra letteraria ed artistica, e fecero il giro del paese.
La pianta del teatro rimaneva mezzo vuota.
Don Gaetanino, per onore di firma, dovette prendere un palco ad insaputa del genitore.
C'erano pure delle altre nubi in quel cielo azzurro.
Il vino vecchio scorreva com'olio; e l'amico Olinto qualche volta, conducendolo a braccetto per le strade remote, gli faceva delle confidenze:
- Sono sulle spese...
Otto giorni inoperoso sulla piazza...
La recita non va...
- Don Gaetanino dovette carpire le chiavi del magazzino e vendere del grano di nascosto.
Intanto il capocomico, per rabbonire il corrispondente della Frusta teatrale e dell'Ape dei teatri, aveva tirato in casa pur lui, a studiare Vittoria Colonna, insieme alla sua signora e alla ragazza.
Quando don Gaetanino trovò anche Barbetti installato accanto alla Rosmunda, col cappellaccio in testa e il bicchiere in mano, fece tanto di muso, e andò a sedere in disparte.
- Lei mi deve fare entrare Vittoria alla terza scena - stava dicendo il capocomico.
- C'è più interesse e movimento.
Un valletto solleva la tenda, giusto all'ultima battuta mia: "sulla tua corona superba, il mio piede sovrano di pezzente!..." e comparisce lei, bella, maestosa, imponente...
-
E così dicendo additò la sua signora.
Costei al richiamo spalancò gli occhi di botto, e si rizzò sulla vita, col viso di tre quarti, e un sorriso sospeso all'angolo della bocca.
Rosmunda finse di dover andare di là, e passando vicino a don Gaetanino disse piano:
- Che seccatore!...
- No! - ribatté Barbetti solennemente.
- Non muto neppure una virgola! Mi farei tagliare la mano piuttosto!
- Ah! Bene! bene! Questo si chiama aver coscienza artistica! Non come tanti altri che magari vi aggiungono o tagliano degli atti intieri...
quasi fosse un giuoco di bussolotti!...
Mi pareva soltanto...
pel movimento scenico...
per l'interesse...
per la pratica che ci ho!...
Ma già, lei è il miglior giudice.
Alla sua salute! -
Don Gaetanino vedeva nell'altra stanza lampeggiare al buio gli occhi della Rosmunda, la quale si voltava a guardarlo di tanto in tanto.
Poi essa ritornò con un lavoro all'uncinetto e gli si mise allato.
- Che hai, Paggio Fernando?...
- gli chiese sottovoce, con una musica deliziosa nella voce, e i begli occhi chini sul lavoro.
Allora senza curarsi di Barbetti, senza curarsi di nessuno, egli le disse il suo segreto, col viso acceso, colle parole calde che le balbettava all'orecchio come una carezza.
Essa chinavasi sempre più sul lavoro, quasi vinta, scoprendo la nuca bianca.
Poscia si sollevò con un sospiro lungo di cui non si udì il suono, appoggiando le spalle alla seggiola, colle mani abbandonate sul grembo, la testa all'indietro, il viso pallido, la bocca semiaperta, gli occhi languidi di dolcezza che si fissavano su di lui.
Ma quello sfacciato di Barbetti non se ne dava per inteso.
Sembrava anzi che si pigliasse da sé la sua parte di confidenza e d'intimità in casa dei comici.
Era lì ogni sera, stuzzicando la ragazza a fare il chiasso, bevendo il vino di don Gaetanino, giuocando a briscola col signor Olinto, sparlando di questo e di quello.
- Da artisti! Una vita quieta e tranquilla, che si sarebbe dimenticato volentieri di cercar le piazze e le scritture, in quell'angolo del mondo! - diceva il capocomico.
Quando non c'era l'amico Barbetti, faceva dei solitari, o si esercitava in certi giuochi di mano coi quali aveva messo sossopra dei teatri.
Don Gaetanino, purché lo lasciassero quieto nel suo cantuccio, portava nelle tasche del cappotto salsicciotti e altri salumi, che piacevano tanto alla mamma, felicissimo quando poteva starsene insieme alla Rosmunda, colle mani intrecciate, guardandosi negli occhi, spasimando di desiderio, e volgendo le spalle agli altri.
- Eh? a che punto siamo? - chiedeva il Renna di tanto in tanto.
Don Gaetanino rispondeva con un sorriso che voleva sembrar discreto.
- Ma c'è sempre Barbetti?
- Ci vado di notte...
- confessò finalmente Gaetanino facendosi rosso, - dalla finestra!...
-
Tutto il paese sapeva ch'egli era l'amante della "prima donna" e papà Longo sequestrò le chiavi della dispensa, vedendo diradare i salsicciotti appesi al solaio, e avendo anche dei sospetti quanto al grano e al vino vecchio.
Fu un affare serio, poiché l'orologio d'argento messo in pegno non durò neanche quarantott'ore.
Per giunta il povero don Gaetanino era geloso di quella bestia di Barbetti, il quale colla Rosmunda si pigliava troppa libertà, senza educazione, subito in confidenza, con quelle manacce sudice sempre per aria, e le barzellette salate che facevano ridere la ragazza.
Due o tre volte, giungendo prima dell'ora solita, li aveva trovati a tavola tutti quanti, mangiando e bevendo alla sua barba.
Vero è che Rosmunda si era alzata subito, con un pretesto, ed era venuta a dirgli in un cantuccio:
- Quel seccatore!...
L'ho sempre fra i piedi! -
Le prove tiravano in lungo, come la vendita dei biglietti per la serata.
Il signor Olinto passava le giornate dal barbiere, al caffè, nelle spezierie, dando anche la sera una capatina nel Casino di conversazione, cavando fuori ogni momento la pianta, fermando la gente per le strade col cappello in mano.
Aveva pure radunata una Commissione, "senza colore politico", per proteggere la serata, il presidente della Società operaia insieme al vice pretore, i quali avevano accettato soltanto per godersi la Partita a scacchi gratis.
A Barbetti poi diceva, con una strizzatina d'occhi che doveva chetarlo:
- Abbi pazienza! Prima bisogna adescare il pubblico con quella roba lì! Più tardi poi...
se abboccano...
fuoco alla grossa artiglieria! E diamo mano all'arte sul serio! -
Perciò ogni mattina alle 10, tutti in teatro per le prove: lui gesticolando colla canna d'India in mano e predicando dentro il bavero di pelo; la sua signora, come una marmotta, colla sciarpa di lana intorno al capo; Rosmunda col nasino rosso sul manicotto di pelle di gatto, e la veletta imperlata dal freddo.
- Là! Fatemi suonare quei versi! -
Oh! Ma non sai, Jolanda, che ho giuocato la vita?
- Flon! flon! flon! La gamba un po' più avanti! La mani sul petto! Viva quella mano, perdio! che palpiti e frema! Tu sei innamorato della mia ragazza...
-
Il fatto è che a dirglielo in versi dinanzi a tanta gente, don Gaetanino diventava un minchione.
C'erano pure gli altri dilettanti, in posizione, ad aspettare la loro battuta colla bocca mezzo aperta, e il cappellaccio di Barbetti che andava svolazzando al buio per la platea, come un uccello di malaugurio.
Jolanda al contrario, padrona di sé e del palcoscenico, si muoveva come una regina, agitava drammaticamente il manicotto, si piantava sull'anca, col seno palpitante, il torso audace, gli occhi stralunati sotto la veletta.
Tu giungesti, Fernando, tu che sei forte e bello.
E una voce nell'anima mi gridò tosto: È quello!...
- Perdio! Porca fortuna! - il babbo picchiava con forza il bastone sulle tavole.
- Un insieme come questo!...
Il pubblico balzerà in piedi, vi dico!...
Dove me lo trovate?...
Li tengo negli stivali tutti quei cavalieri e commendatori, quanto a saper mettere in scena!...
È che la fortuna!...
-
Allora se la pigliava colla cabala, col gusto corrotto del pubblico, coi tempi che non dicevano, e deplorava che ora si corra dietro all'apparato, ai vestiti delle prime attrici, roba che non ha nulla a fare coll'arte, anzi che la corrompe.
Un'artista, per contentare tutti al giorno d'oggi deve fare quel mestiere!
Don Gaetanino, mortificato, scusavasi col dire:
- Sicuro...
quando avrò il costume...
Adesso, con questi abiti...
mi sento tutto...
-
Finalmente, papà Longo sequestrò anche le chiavi del magazzino.
Allora il signor Olinto accorciò le prove.
A Barbetti, che gli ronzava sempre intorno colla Vittoria Colonna, disse chiaro e tondo:
- Mio caro, se mi dai teatro pieno, volentieri...
Ma se no, salutami tanto donna Vittoria.
Da tre settimane son qui sulle spese! -
Sembrava che la sera della recita alla Rosmunda le parlasse il cuore.
Nervosa, irrequieta, correndo ogni momento dinanzi allo specchio per darsi un po' di cipria, o per accomodarsi meglio la parrucca bionda.
Appena i tre violini della Filarmonica attaccarono il valzer di Madama Angot, essa stessa si buttò singhiozzando nelle braccia di Paggio Fernando, il quale aspettava dietro una quinta, irrigidito, e lo baciò sulla bocca, lievemente, tenendolo discosto per non sciupare il belletto.
- Che hai, Rosmunda?...
- Ora andremo via...
fra qualche giorno!...
Non ci vedremo più! -
Comparve all'improvviso il babbo, come uno spettro, infarinato, bianco di pelo, colle calze bianche della moglie tirate sulle polpe, e due ditate nere sotto gli occhi: - Ragazzi! attenti! Fuori di scena! -
Andò a rotta di collo la Partita a Scacchi.
Sia che ci fosse "il partito contrario"; sia che Paggio Fernando, con quei stivaloni e quella penna di struzzo dinanzi agli occhi, perdesse la tramontana.
Incespicò, s'impaperò, batté i piedi in terra, tornò da capo: insomma un precipizio.
L'amico Olinto, bestemmiando nel barbone di bambagia, gli faceva degli occhiacci terribili.
Jolanda fu lì lì per isvenire.
Barbetti e tre o quattro amici suoi dal cappellaccio repubblicano, in piedi addirittura fischiavano come locomotive.
La mamma di don Gaetanino e tutto il parentado se ne andarono prima che calasse la tela.
Il Sindaco, furibondo, voleva fare arrestare tutti quanti.
Ma fu peggio il giorno dopo, quando il povero innamorato, di sera, pigliando le strade fuori mano, andò a trovare la Rosmunda, con tanto di muso e bisbetica, che gli fece appena la carità di un'occhiata e di una parola.
Meno male l'amico Olinto, che non ne parlava più e badava soltanto a fare i conti dello spesato, e con Barbetti, il quale prometteva mari e monti, e aveva di nuovo intavolato il discorso della Vittoria.
- Se avessi dato retta a me!...
Quella è roba che fa ridere oramai...
Non parlo per l'esecuzione...
-
Più di una volta, in quella sera disgraziata, don Gaetanino accarezzò l'idea del suicidio.
Girovagò sin tardi per le strade buie come l'inferno.
Andò a chinarsi sul parapetto del Belvedere, scivolando sui mucchi di sterro, colla morte nell'anima.
Da per tutto, nella vallata scura e sinistra, nel cielo nuvoloso, sugli usci neri, vedeva il viso di lei rigido e chiuso; la vedeva ancora colla parrucca bionda e il bacio sulle labbra di carminio.
Non chiuse occhio tutta la notte, tormentato da quella visione implacabile, colle stesse parole di Paggio Fernando che gli martellavano le tempie, ridicole, simili agli sghignazzamenti della platea, che gli facevano cacciare il capo disperatamente fra i guanciali.
Poi, come tutto passa, anche Rosmunda si calmò; il padre stesso di lei venne a cercarlo sin nella strada.
Ricominciarono a far girare la pianta, e parlare di un'altra recita con un "lavoro originale di penna paesana".
Il capocomico e Barbetti tornarono a passar la sera discorrendo di Vittoria Colonna, egli e Rosmunda parlando di tutt'altro, a quattr'occhi, in un cantuccio, tenendosi le mani, benedicendo a quella Vittoria che tratteneva ancora in paese papà Olinto e la sua ragazza.
Ma la gente non voleva più saperne di mettere mano alla tasca per simili sciocchezze.
Il teatro rimaneva quasi vuoto.
Barbetti seguitava a pigliarsela colla camorra, e don Gaetano era indebitato sino agli occhi.
Infine suo padre, vedendo che quella musica non cessava, ed egli rischiava davvero di perdere il figliuolo che già gli si ribellava contro, tanto era innamorato, prese un partito eroico: salassò il bilancio comunale di un centinaio di lire, raccolse un altro gruzzolo per contribuzione, e mandò i denari ai comici per le spese del viaggio.
Che agonia l'ultima sera! Che schianto mentre Rosmunda preparava i bauli colle mani tremanti, e la mamma faceva friggere in cucina un po' di pesce per la cena d'addio! Don Gaetanino seguì la Rosmunda anche lì, dinanzi alla mamma che voltava le spalle, tenendola per mano, appoggiati al muro tutti e due, la ragazza singhiozzando forte come una bambina, nei brevi istanti che la mamma discretamente li lasciava soli.
- Addio!...
per sempre!...
Non ci vedremo più!...
Sempre così!...
sempre così!...
-
Ora gli parlava a cuore aperto, lamentandosi a voce alta, a rischio d'essere udita dal Barbetti.
Che gliene importava? Non si sarebbero visti mai più! così era stato sempre, tutta la sua vita, da un paese all'altro, ogni due o tre settimane uno strappo al cuore, appena il cuore si attaccava a qualcuno...
- Ti ho voluto bene, sai! Tanto bene! tanto! - E lo guardava fisso, accennando anche col capo, cogli occhi pieni di lagrime.
L'amico Olinto, baciandolo sulle due guance, coi baffi ancora umidi di salsa, gli disse all'ultimo momento:
- Arrivederci, Paggio Fernando! Le montagne sole non si muovono.
Chissà!...
Rammentati l'amico Olinto, in giro pel mondo, e viva l'allegria! -
Don Gaetanino Longo rimase Paggio Fernando: nel paese, all'Università, più tardi, quando vinse il concorso di notaio, consigliere comunale, maritato, padre di famiglia: Paggio Fernando! E la moglie, per giunta, gelosa come una tigre per quel soprannome che gli faceva sospettare non so che infedeltà.
Dopo un gran pezzo, a Roma, dove aveva accompagnato il Sindaco per certo affare del municipio, rivide in teatro la Rosmunda, acclamata, festeggiata, tutti gli occhi su di lei, tutte le mani che l'applaudivano.
Provò un tuffo nel cuore, soffiandosi il naso come una trombetta, coi lucciconi di tanti anni addietro che gli tornavano agli occhi.
Ma Renna, segretario comunale, ch'era con lui nello stesso palco, se la rideva invece nella barba grigia; e Severino, il suo ragazzo, di già alto così, gli fece capire quant'era sciocco.
- Guarda, papà che piange! Se è tutta una finzione!...
-
I ragazzi al giorno d'oggi hanno più giudizio dei vecchi.
LA SERATA DELLA DIVA
- Sublime!...
impareggiabile!...
divina!...
- acclamarono in coro gli ammiratori della seratante ammessi all'onore d'esprimerle a viva voce i loro entusiasmi.
- Celeste! - le soffiò sulla nuca Barbetti, il cronista teatrale.
La divina, imbacuccata nella pelliccia preziosa che la cameriera le aveva buttato premurosamente sulle spalle appena fra le quinte, ansante, col viso acceso, passò modestamente orgogliosa in mezzo alla folla degli amici che le facevano ala sino all'uscio del camerino, ringraziando col sorriso distratto i suoi ammiratori.
C'erano tutti quelli della piazza.
Il principe d'Antona, in giacchetta, come uno che da per tutto si reputa in casa propria, Barbetti e il banchiere Macerata in cravatta bianca come dei principi; i soliti amici di tutte le prime donne che passano pel palcoscenico dell'Apollo.
C'erano anche delle facce nuove, che se ne stavano timidamente in seconda fila: un giovanotto pallido e dagli occhi sfavillanti che tartagliava, una signora in voce di poetessa, la quale eclissavasi con affettazione dietro agli altri; e un po' in disparte il Re di cuori, come lo chiamavano, il patito della signora Celeste, un bel giovane taciturno che assumeva un'aria misteriosa.
Barbetti scriveva già le impressioni della serata sul ginocchio, posando lo scarpino inverniciato sulla sponda del canapè, elegantissimo e insolente, quand'era in cravatta bianca, mugolando fra le labbra:
- Ah, Celeste mia! Celeste voluttà!...
-
Lontano, al di là della scena buia e di un caos d'attrezzi, continuava ancora l'applauso, col crepitìo di un fuoco d'artifizio.
Delle ballerine discinte si affacciavano alle ringhiere dei camerini soprastanti.
Il buttafuori, in maniche di camicia, accorreva scalmanato.
Le stesse voci plaudenti ripigliarono:
- Sentite! sentite!...
Vi vogliono ancora!...
Li avete proprio elettrizzati!...-
La diva, nell'orgoglio del trionfo, fece un atto sublime di disdegno, lasciandosi cadere quasi sfinita sul canapè, accanto al ginocchio del cronista, e colla coda dell'occhio seguiva il lapis d'oro di lui, mentre rispondeva col solito sorriso stracco ai complimenti che le piovevano da ogni parte.
L'impresario venne in persona a supplicarla di "accondiscendere al desiderio del pubblico", arruffato, gongolante, col sorriso cupido che voleva sembrar benevolo.
- Cara signora Celeste...
abbiate pazienza!...
un momentino solo!...
Buttano sossopra il teatro, se no!...
-
La trionfatrice, a cui gli occhi sfavillavano di desiderio, ebbe però il coraggio di ripetere il magnanimo rifiuto, stringendosi nelle spalle, questa volta in barba all'uomo che teneva la cassetta.
Ma il giornalista paternamente le tolse la pelliccia di dosso, senza dir nulla, e la spinse verso la ribalta in un certo modo che significava:
- Via, via, figliuola, non facciamo sciocchezze -.
L'applauso, quasi soffocato sino allora, rinforzò a un tratto collo scrosciare impetuoso di una grandinata.
Delle acclamazioni ad alta voce irruppero qua e là.
E a misura che l'entusiasmo s'eccitava, propagandosi dall'uno all'altro, dei visi accesi, delle mani inguantate, dei petti di camicia candidissimi sembravano staccarsi confusamente dalla folla, e avanzarsi verso l'attrice.
Più vicino, dinanzi a lei, dei professori d'orchestra si erano levati in piedi, plaudenti, e sino in fondo alla vasta sala, lungo la fila dei palchi gremiti di spettatori, nel brulichìo immenso della folla variopinta, si sentiva correre, quasi un fremito d'entusiasmo, l'eccitamento delle note d'Aida ancora vibranti nell'aria e dei seni ignudi che si gonfiavano mollemente, tutta la vaga sensualità diffusa per la sala, che rivolgevasi verso l'attrice e l'avviluppava come una carezza del pubblico intero - colle mani che si stendevano verso di lei per applaudirla - colle grida che inneggiavano al suo nome - col luccichìo dei cannocchiali che cercavano il suo sorriso ancora inebbriato, il sogno d'amore ch'era ancora nei suoi occhi, l'insenatura delicata del suo petto e la curva elegante della maglia che balenava tratto tratto fra le pieghe della tunica d'Aida, trasparente e semiaperta, quasi cedendo già all'invito delle braccia tese verso di lei, mentre essa inchinavasi dolcemente, col sorriso tuttora avido, volgendo sguardi lunghi e molli che cercavano l'amore della folla.
- Proprio così! - stava dicendo il giornalista che aveva fretta di andarsene a cena.
- Stasera non ce n'è più per noialtri.
Siamo in troppi, amici miei! Vi pare?...
Dopo aver dato il cuore a duemila persone...
e in musica per giunta!...
-
E Barbetti stonacchiò sotto il naso del Re di cuori:
- Morir d'amor per te!...
per teee!...
-
Il principe sorrise lievemente, stendendosi sul divano.
Macerata, mentre la diva rientrava nel camerino, ribatté con molto spirito:
- Va bene.
Vuol dire che noi rappresentiamo l'entusiasmo pubblico...
la deputazione dei dimostranti venuta a prendere l'accolade!...
E la vogliamo, per bacco! -
Così dicendo fece mostra di aprirle le braccia confidenzialmente.
Ella vi mise soltanto la pelliccia, sedendo accanto al principe, il quale le baciò la mano.
- Un successone!...
un vero trionfo! - ripeteva intanto il coro.
Ma essa non dava retta.
Sembrava assorta, un po' stordita dall'applauso, e interrogava solo Barbetti con uno sguardo insistente.
Questi chinò il capo affermando, senza dire una parola.
- Ci penserete voi al telegrafo? - diss'ella un momento dopo.
Barbetti esitò.
- Va bene, ci penserò io...
c'è tempo...
-
Una dozzina di persone pigiavansi nel camerino.
E delle altre teste si ammonticchiavano all'uscio, degli altri visitatori sopraggiungevano: il direttore d'orchestra che veniva a congratularsi "del legittimo successo", un compositore famoso per cercare dei complimenti da per tutto, col pretesto di farne agli altri:
- Ah, signora Celeste, non ci siete che voi!...
il vostro metodo!...
la vostra voce!...
l'arte vostra!...
-
Per cinque minuti si parlò anche d'arte e di musica.
Il giovanetto tartaglione, strozzato dall'emozione, balbettò qualche frase sconnessa, facendosi rosso, di una fiamma sincera d'entusiasmo che avvivava le sue guance e i suoi occhi giovanili, e faceva sorridere la commediante.
La poetessa si fece avanti alla fine, bisbigliando a mezza voce:
- Mia cara...
Non ho saputo resistere...
Quali sensazioni deliziose!...
-
Il principe si era alzato per cederle il posto; ma essa preferiva drappeggiarsi nel suo mantello, per recitare con voce dimessa un madrigale pomposo.
Barbetti che si era messo a sedere sul bracciolo del canapè e la guardava insolentemente, si chinò poi all'orecchio della signora Celeste, dicendole:
- Ah, figliuola mia, se m'innamorate anche le donne, adesso!...
-
L'attrice riceveva tutti quegli omaggi negligentemente seduta sul canapè, come in trono, sorridendo a mala pena di tanto in tanto, in aria distratta, quasi tendesse ancora l'orecchio al rumore degli applausi, quasi cercando ancora il suo pubblico delirante coll'occhio assorto che fissavasi incerto su chi parlava.
E tornava a sorridere incontrando gli occhi sfavillanti del giovinetto ingenuo che la divoravano.
Fragranze rare e delicate emanavano dai fiori ammucchiati da per tutto, sulla poltrona, sulle seggiole, sul tavolinetto che reggeva lo specchio, fra le quinte: dei mazzi enormi, dei monogrammi inquadrati su dei cavalletti, delle giardiniere che impedivano il passo e che nessuno guardava; un profumo delizioso di vari odori che andava alla testa e inebbriava al pari della musica, al pari dell'amore d'Aida, al pari delle parole sonanti accompagnate dal ritmo armonioso, al pari degli applausi della platea, dei tanti visi accesi per lei, dei tanti cuori che essa aveva fatto palpitare, di tante fantasie e tanti vaghi desideri che essa aveva destato e che erano venuti a deporsi ai suoi piedi, coll'adulazione ingenua e ardente del collegiale che aveva osato mandarle la sua dichiarazione d'amore per la posta, col francobollo da cinque centesimi: - "Stanotte vi ho sognata...
Mi pareva di essere sotto un bell'albero, in un ameno giardino...
e un usignuolo cantava colla vostra voce..." - oppure colla lusinga che era nell'articolo del giornale e nei versi dedicati a lei: "Celeste scende degli umani al core..." - "Per descrivere le impressioni veramente celestiali destate dal canto della grande artista signora Celeste..." - Le parole e le frasi che l'avevano inneggiata in tanti modi si ripetevano in quel momento vagamente dentro di lei, quasi un'altra armonia interiore, tutte quante, le più insulse come le più artificiose; le facevano gonfiare il cuore egualmente del ricordo di tutti i suoi ammiratori - dall'adolescente imberbe che rizzavasi in piedi affascinato, dietro le spalle della mamma, nel palchetto di proscenio, al giornalista che smetteva il sorriso canzonatorio quando le parlava - al diplomatico che disertava il Circolo per lei, e le offriva le ultime fiamme avanzate dalle emozioni del giuoco e della gran vita - all'operaio che le gridava brutalmente il suo entusiasmo dalla piccionaia.
- Tutti, tutti.
- Fin l'impresario che si mostrava amabile - fino il telegramma che andava a cercarla in capo al mondo - fino il cronista di provincia che assediava il portiere del suo albergo - dovunque, in ogni piazza, fin nelle stagioni di riposo, ai bagni, ai quattro punti cardinali, sempre, lo stesso culto l'era stato tributato in tutte le lingue, lo stesso sentimento essa aveva letto in viso ad ammiratori di tutte le razze, il sentimento che le indicava il valore della sua persona e ispiravale l'amore di tutto ciò che riferivasi a lei, il teatro, l'arte, Aida, Valentina, Margherita, tutte le creazioni che incarnavansi in lei.
E sentiva a momenti in quel trionfo di sé, in quell'orgoglio sconfinato del suo io, una tenerezza, una gratitudine, una simpatia, un'indulgenza per tutti gli omaggi che erano venuti a lei, comunque fossero, da qualunque parte venissero, e che si personificavano in tanti ricordi, in tante date, dei momenti deliziosi, delle parole che le avevano fatto palpitare il cuore un momento, di qua e di là...
Chi poteva rammentarsi? Delle fisonomie e dei lembi di paesaggio le tornavano dinanzi agli occhi, di tanto in tanto: dei visi che dovevano turbarsi anch'essi, quando leggevano il suo nome nelle gazzette sparse ai quattro venti della terra, o il suo ritratto, sparso anch'esso ai quattro venti della terra, tornava a cadere loro sott'occhio.
L'avevano tutti, il suo ritratto, nel giornale illustrato, nella vetrina dell'editore, sulle cantonate della via; i fotografi lo tiravano a centinaia di dozzine, ed essa se lo lasciava dietro, in ogni città, a dozzine intere, per tutti quanti, come dava a tutti quanti i tesori del suo canto, le emozioni della sua anima, i segreti della sua bellezza.
Perché accordare delle preferenze quando aveva bisogno dell'ammirazione di tutti? Perché imporsi certi riserbi, vincolare il suo cuore o il suo capriccio, se doveva mutare amici e paese a ogni mutar di stagione, se nessuno le sarebbe stato grato della costanza, se la sua dignità stessa di donna doveva essere diversa da quella delle altre? E una malinconica dolcezza le veniva da tanti ricordi confusi, nello stordimento e nella vaga lassezza di quell'ora.
E sorrideva più volentieri al giovinetto bleso di cui l'adorazione ingenua ridava una specie di verginità a quelle memorie.
E il bel Re di cuori, collo sguardo supplichevole, implorava invano da lei quella sera l'occhiata complice che avrebbe dovuto assentire e promettere...
Egli aspettava sempre, paziente e rassegnato, aiutando a porre in ordine lo stanzino, scegliendo i fiori da mettere da parte, cedendo il posto ai nuovi visitatori, dando sottovoce degli ordini alla cameriera, la quale affrettavasi a riporre i regali che brillavano sulla tavoletta, segnati da biglietti da visita.
Macerata, che covava cogli occhi da un pezzo il suo, non seppe tenersi dal protestare:
- Come?...
Senza farceli neppure ammirare?...
Senza "farci vedere il cuore degli amici?..." -
Gli astucci allora passarono di mano in mano, ammirati, lodati, sotto gli occhi sospettosi della cameriera, la quale si teneva ritta presso la cortina che nascondeva il fondo del camerino.
Si ripeté un altro coro di esclamazioni:
- Bello! - Elegantissimo! - Stupendo! - Il banchiere insisteva sull'intenzione che esprimeva il suo dono, uno spillo a ferro di cavallo di brillanti.
- Per dare un bel calcio alla jettatura! - Nella confusione poi alcuni dei biglietti che accompagnavano al dono il nome del donatore andarono smarriti, prima che la diva si fosse degnata di accorgersene.
Un magnifico vezzo di perle non si sapeva più da chi fosse stato offerto.
- Eh, giacché siete tanto indiscreti...
Sono stato io, là! - disse infine Barbetti.
Tutti quanti scoppiarono a ridere, compresa la signora Celeste, quasi Barbetti avesse spacciato la panzana più matta.
Il principe assentì anche col capo.
In quella fece capolino all'uscio un inserviente del palcoscenico, sorridendo alla seratante come uno che aspetti la mancia anche lui, porgendole a mano un biglietto da visita.
- C'è questo signore...
Dice che la conosce tanto...
-
L'attrice studiava il biglietto, cercando di rammentarsi quel nome, quando entrò il signore che essa conosceva tanto, un bel giovane forestiero, riccioluto e azzimato all'ultima moda, il quale però rimase un po' male, trovandosi a un tratto in sì bella compagnia, al cospetto della diva in soglio che lo guardava d'alto in basso, per raccapezzarsi, e di tutta la sua corte.
- Scusatemi, Celeste...
- balbettò lui.
- Ho letto sui giornali...
Presi subito il treno...
Non potevo immaginare una cosa simile...
-
E com'ella seguitava a guardarlo in quel modo imbarazzante, senza rispondere, in mezzo al silenzio ostile di tutto l'uditorio, il povero giovane perse del tutto la tramontana, cercando d'aiutarsi alla meglio.
- Ettore...
Ettore Baroncini di Sinigaglia...
Vi rammentate...
per la fiera?
- Ah!...
- fece lei.
- Oh! -
Ettore Baroncini, incoraggiato dai due monosillabi insidiosi, si lasciò sfuggire:
- N'è passato del tempo, eh! -
Non aggiunse altro, mortificato del sorriso glaciale di lei, che riprese immediatamente a discorrere col principe, volgendo le spalle all'amico Baroncini e alla fiera di Sinigaglia, con un certo sorriso fine per giunta, che aveva tutta l'aria d'essere dedicato a lui, e che gli tolse il coraggio finanche d'andarsene insalutato ospite, e lo inchiodò al posto in cui era.
- Allora - riprese Barbetti, quasi continuando un discorso incominciato.
- Allora direi che il donatore incognito è già bell'e trovato...
E vuol dire che non sarò stato io, pazienza! -
D'Antona, mentre gli altri si accingevano a ridere di nuovo, disse galantemente alla bella signora:
- Chiunque sia stato l'ammiratore incognito...
Ne avrete tanti!...
Volete permettermi di rappresentarlo? -
Ella che aveva già indovinato sorridendo gli stese la mano, che il principe si mise a baciare ghiottamente, fra il serio e il faceto, sulla palma, sul polso, salendo su pel braccio che sembrava inzuccherato dalla polvere di cipria, mentre la Celeste rideva quasi le facesse il solletico, fingendo di voler svincolarsi, esclamando:
- No! no! basta! Così ve la pigliate per venti ammiratori! -
Macerata reclamava intanto la sua parte, e degli altri pure, cortesemente.
Solo la poetessa accomiatavasi a labbra strette, e il giornalista agitava il gibus quasi per scacciare delle mosche, ripetendo:
- Via, via, signori miei...
dinanzi alla gente...
dei forestieri anche!...
-
Il signore forestiero, ancora rosso dall'emozione, aveva fatto la bocca al riso anche lui, per non restar da grullo, tormentandosi i baffi, girando intorno, suo malgrado, uno sguardo inquieto, sulla comitiva di cui la sola faccia simpatica gli sembrò allora quella del bel giovane taciturno, il quale lisciavasi i baffi anche lui, sorridendo a fiori di labbro anche lui.
Di fuori intanto il macchinista strepitava per far sgombrare il palcoscenico:
- La vita!...
Signori!...
Abbiano pazienza! - Gli ammiratori della cantante, che erano rimasti sull'uscio, ondeggiavano di qua e di là.
Degli altri mazzi di fiori furono cacciati nel camerino alla rinfusa.
Il cavalletto e la giardiniera furono spazzati via.
Si udì un correr frettoloso, uno sbatter di usci, delle voci di comando, e uno schiamazzar di voci femminili.
- Il ballo! In scena pel ballo! -
Lo stesso impresario, che era tutto miele un quarto d'ora prima, mandava ora al diavolo gli importuni.
- Signori miei...
un po' di pazienza...
Il pubblico s'impazienta!
- Se si andasse a cena? - propose Macerata.
La signora Celeste fece una smorfia che diceva di no.
Ma il banchiere torno ad insistere e a farle dolce violenza, chino verso di lei, prendendole la mano, parlandole sul collo in un certo modo che faceva arricciare il naso al Re di cuori e all'amico di Sinigaglia.
Barbetti però approvava il rifiuto.
- Andiamoci pure a cena, ma senza di lei.
Lei ha bisogno di riposare, poverina.
Lasciateli dire, mia cara.
Questa gente non sa cosa significhi una serata simile...
- Il bel Re di cuori infine perse la pazienza, borbottando che non era quella la maniera...
Ettore Baroncini in cuor suo fece lega con lui.
- Ma no! ma no! - diss'ella.
- Andate via, piuttosto! Non posso mica spogliarmi dinanzi a tutti quanti.
- Oh! - Perché mai?...
- Magari!...
- C'est juste mais sévère! - conchiuse il banchiere.
- Bello! bellissimo...
le mot de la fin!... - esclamò Barbetti, e intanto spingeva fuori la gente, come uno di casa.
Il Re di cuori era rimasto cercando il cappello, aspettando dalla diva la parola o l'occhiata che essa gli aveva promesso per quella sera.
- Caro Sereni, - gli disse Barbetti.
- non facciamo dei gelosi...
- Barbetti, ehi! il telegrafo l'avete dimenticato? - esclamò la signora Celeste passando la testa nell'apertura della tenda.
- Eh, no...
pur troppo...
- A Milano! E rammentatemi anche a Napoli, dove farò la quaresima...
Non lo dimenticate...
Vi accompagnerà Sereni perché non lo dimentichiate, al vostro solito...
Aspettate, Sereni, vi do un rigo per memoria -.
E lì, scrivendo sul ginocchio anche lei come Barbetti, colla tunica di Aida semiaperta che scopriva il fine contorno della gamba coperta dalla maglia carnicina, buttò due parole su di un pezzetto di carta strappato da un mazzo di fiori, e sporse dalla tenda il braccio nudo per dare il bigliettino a Sereni, il quale lo prese avidamente, mentre dietro la cortina, con un fruscìo frettoloso di vestiti, si udiva ancora la bella voce allegra di lei ripetere:
- Andatevene! Andate via tutti quanti! -
I suoi fedeli però l'aspettavano ostinatamente dietro l'uscio del camerino, Macerata che voleva aver l'onore di darle il braccio sino alla carrozza, il principe d'Antona discorrendo con una figurante che non gli nascondeva nulla, Ettore Baroncini il quale non sapeva risolversi ad andarsene dopo aver preso apposta il treno, temendo di passare per uno zotico, Sereni che fiutava un rivale e Barbetti che odorava la cena.
Finalmente la bella ricomparve col berrettino di lontra sugli occhi, imbacuccata sino al naso, seguìta dalla cameriera contegnosa che portava la borsetta delle gioie, sgridando Barbetti e tutti gli altri, che si precipitavano ad accompagnarla, Macerata impadronendosi del braccio di lei che gli era costato uno spillo di brillanti, il principe staccandosi garbatamente dalla figurante, la quale schermivasi allora coprendo il petto colle mani, Barbetti canticchiando:
- Andiam! partiam! a cena andiam!...
Non dico a voi, cara Celeste.
Voi anderete a dormire tranquillamente...
Sentirete che brindisi, dal vostro letto!...
- Ah! meraviglia delle meraviglie! Angeli e ministri di grazia, soccorretemi voi! -
Quest'ultimo complimento era diretto all'altra diva del ballo "La stella" che attraversava in quel punto il dietro scena, seminuda, colle spalle e il seno appena coperti da una ricca mantellina, tutta vaporosa nella cipria e nei veli diafani, col viso mordente delle labbra e degli occhi tinti che salutava gli amici e gli ammiratori della cantante, suoi ammiratori anch'essi e suoi amici, quasi librandosi sulla punta delle scarpette di raso all'incitamento della musica che la chiamava, per correre all'applauso che aspettava impaziente lei pure.
Il tenore, con cui la diva del canto aveva delirato d'amore in musica, e per cui era morta sul palcoscenico mezz'ora prima, le passò vicino adesso senza salutarla, rialzando il bavero della pelliccia, col fazzoletto sulla bocca.
Ed essa non lo guardò neppure, scambiando invece un'occhiata ostile coll'altra diva della danza.
- No, no, non vi lascio andar sola...
Ho paura che vi rubino, i vostri ammiratori...
- diceva il principe che ostinavasi a voler montare in carrozza con lei, dopo aver messo da banda tranquillamente Macerata.
Ed essa rispondeva con la risatina squillante: - Sciocco!...
via! andate via!...
Barbetti?...
- Sì, sì, il telegrafo, non l'ho dimenticato.
Signori belli, cosa si fa adesso? Si va a cena, a finir la serata della diva? Ehi, dico, Sereni, è quanto possiamo far di meglio.
Non ti cavare gli occhi sotto quel lampione, che lo scritto so io cosa dice -.
Ma il principe si scusò dicendo di avere un appuntamento al Circolo, e Macerata non si sentiva di pagare anche i brindisi che gli altri avrebbero fatti alla diva.
Rimasero Baroncini, il quale non voleva passare per straccione o per avaro, ricusando di pagar da cena, e Sereni che aveva letto: "Impossibile per questa sera, mio caro...
Abbiate pazienza...
Sono affranta...
Sognerò di voi...".
Per altro, tutti e due avevano bisogno di pensare alla diva, vicino a degli altri che avrebbero pure pensato a lei o parlato di lei.
Nei fumi del vino, più tardi, poiché Baroncini aveva fatto le cose per bene, Barbetti, commosso anche lui, sentenziava:
- Cari amici miei...
Il telegrafo non sapete cosa significhi...
L'impresario...
l'agente teatrale...
Dei colpi di gran cassa per far quattrini...
Siamo giusti...
il mondo gira su di un pezzo da cinque lire...
Ciascuno secondo il suo mestiere...
L'arte, il giornalismo...
tutte belle cose...
Segui bene il mio ragionamento, Sereni...
Io sono un artista...
Bene...
io appartengo al pubblico...
il pubblico è il mio amante...
Tu sei innamorato di me, artista...
bene...
Se Venere, in camicia, venisse a dirmi in certi momenti...
Barbetti, dammi una notte d'amore...
No, no, e poi no! -
IL TRAMONTO DI VENERE
Quando Leda, astro della danza, splendeva nel firmamento della Scala e del San Carlo, come stella di prima grandezza, contornata di brillanti autentici, e regalava le sue scarpette smesse ai principi del sangue e del denaro, chi avrebbe immaginato che un giorno ella sarebbe stata ridotta a correre dietro le scritture e i soffietti dei giornali, cogli stivalini infangati e l'ombrello sotto il braccio - a correre specialmente dietro un mortale qualsiasi, fosse pur stato Bibì, croce e delizia sua?
Poiché Bibì era anche un mostro, un donnaiuolo, il quale correva dal canto suo dietro tutte le gonnelle, e concedeva perfino i suoi favori alle matrone ancora tenere di cuore, adesso che la sua Leda batteva il lastrico, in cerca di scritture e di quattrini, e lui aspettava filosoficamente la dea Fortuna al Caffè Biffi, dalle 5 alle 6, nell'ora in cui anche le matrone s'avventurano in Galleria - oppure tentava di sforzarla - l'instabil Diva - a primiera o al bigliardo, tutte le notti che non consacrava alla dea Venere, come chiamava tuttora la sua Leda, quand'era fortunato alle carte o altrove, o quando non la picchiava, per rifarsi la mano.
Ahimé sì! L'indegno era arrivato al punto di fare oltraggio ai vezzi per cui aveva delirato, un tempo - per cui i Cresi della terra avevano profuso il loro oro.
Le rinfacciava adesso, brutalmente: - Dove sono questi Cresi? -
Ah, l'ingrato, che dimenticava quanto gliene fosse passato per le mani di quell'oro; con quanta delicatezza la sua Leda gliene avesse celato spesso la provenienza, per non farlo adombrare, lui che era tanto ombroso, allora! E i sottili artifici, le trepide menzogne, i dolci rimorsi che rendevano attraente l'inganno fatto all'amante, per l'amante stesso, onde legarlo col beneficio! E le care scene di gelosia, e le paci più care!...
Che importa il prezzo? Non era lui il suo tesoro, il suo bene?
Ma ciò che ora rendeva furiosa specialmente la povera dea Venere, erano le infedeltà gratuite e umilianti di Bibì; gli idilli che le toccava interrompere dinanzi alla tromba della scala, colle serve del vicinato; il lezzo di sottane sudice che egli le portava in luogo di violette di Parma.
Aveva un vulcano in corpo, l'indegno! Ardeva per tutte quante della stessa fiamma che consumava lei pure, ahi derelitta - di persona e di beni!
O dolcezze perdute, o memorie! Quando invece Bibì correva dietro a lei, come un pazzo, in quella memorabile stagione dell'Apollo che fece perdere la testa anche a dei principi della Chiesa! Ebbene, essa aveva preferito Bibì, né signore né principe, allora, ma giovin, studente e povero, venuto dal fondo di una provincia, ricco solo di entusiasmi, per imparare musica, o pittura - una bell'arte insomma.
La più bell'arte, per lui, fu di saper conquistare, senza spendere un quattrino, il cuore di Leda, la quale in quell'epoca teneva legata al filo dei suoi menomi capricci quasi una testa coronata.
Capriccio per capriccio, essa preferì il nuovo, quello che aveva il sapore del frutto proibito, un'attrattiva insolita, la freschezza e la grazia di un primo palpito: - Lettere, mazzolini di fiori, incontri semifortuiti al Pincio, ogni fanciullaggine, in una parola.
Ei ripeteva, supplice, come un eroe della scena: - Un'ora!...
e poi morire!...
- No! - rispose ella alfine.
- No! Vivere e amar! -
Amor, sublime palpito!...
Il fatto è che ne fu presa anche lei stavolta, allo stesso modo che aveva fatto ammattire tanti altri.
- Ma presa, là, come si dice, pei capelli.
Così il fortunato giovane ascese furtivo all'ambìto talamo del geloso prence.
Gli schiuse l'Eden lei stessa, tremante, a piedi nudi - i divini piedi cantati in prosa e in versi! - Bibì, che a sentirlo era un leone indomito, tremava anche lui come una foglia.
E se lo prese, lei, trionfante per la prima volta! - Come sei timido, fanciullo mio! -
Tanto che Sua Altezza, seccato alfine da quelle fanciullaggini, degnò aprire un occhio, e li scacciò dall'Eden.
Che importa? Il mondo non era seminato di teatri e di mecenati che portavano in palma di mano lei e Bibì? Soltanto, come i principi son rari, e i mecenati vogliono sapere dove vanno a finire i loro denari, i due amanti fecero le cose con maggior cautela, e le fanciullaggini a usci chiusi.
Bibì era felice come un Dio, viaggiando da una capitale all'altra, in prima classe, ben vestito, ben pasciuto, a tu per tu cogli impresari e i primi signori del paese che accorrevano a fare omaggio alla sua diva.
Se bisognava ecclissarsi qualche volta discretamente dinanzi a loro, lo faceva con un sorriso che voleva dire: - Poveretti! - Le stesse scene di gelosia sembravano combinate apposta per infiorare quel paradiso, come una carezza all'amor proprio di entrambi, una protesta dignitosa dell'amante, e una delicata occasione offerta all'amata di tornare a giurargli e spergiurargli la sua fede: - No, caro!...
Lo sai!...
Sei tu solo il signore e il padrone...
Ecco! -
Basta, ora si trattava di non lasciarsi sopraffare da quell'intrigante della Noemi, che le rapiva agenti ed impresari, alla Leda, con tutte le armi lecite e illecite, e le portava via le scritture - una che non aveva dieci chili di polpa sotto le maglie! - E le portava via anche Bibì, il quale si dava il rossetters ai baffi, e si metteva in ghingheri per andare ad applaudirla, gratis et amore.
- Ma il ballo nuovo del cavalier Giammone non me lo porta via, no! - giurò a se stessa la bella Leda.
Da un mese, Barbetti e tutti gli altri giornalisti che vendono l'anima a chi li paga, non facevano altro che rompere la grazia di Dio ad artisti ed abbonati con quel nome della Noemi stampato a lettere di scatola.
Già erano in tanti a far la spesa degli articoli, i protettori della casta vergine! Ma il ballo nuovo del cavalier Giammone non l'avrebbe avuto, no!
Il cavaliere stava appunto parlandone coll'impresario, chiusi a quattr'occhi, dinanzi al piano del Gran Poema storico-filosofico-danzante, sciorinato sulla tavola, allorché capitò all'improvviso la signora Leda, in gran gala, e col fiato ai denti.
- Cavaliere mio!...
scusatemi!...
Non si parla d'altro sulla piazza!...
Sarà un trionfo, vi garantisco!...
Lasciatemi vedere...
- Ah! - sbuffò il coreografo colto sul fatto.
- Oh!...
-
E si buttò sulle sue carte, quasi volessero rubargliele.
L'impresario, dal canto suo, diede una famosa lavata di capo al povero tramagnino che stava a guardia dell'uscio.
- Ho dato ordine di non essere disturbato, quando sono in seduta! Nessuno entra senza essere annunziato!...
-
Dopo tanti anni che le porte si spalancavano dinanzi a lei, e gli impresari le venivano incontro col cappello in mano! Se non la colse un accidente, fu proprio un miracolo.
Barbetti, che la incontrò all'uscita così rossa e sconvolta, non poté tenersi dal dirle ridendo:
- Come va, bellezza?
- Senti! - rispose lei, fuori della grazia di Dio davvero; - senti, faresti meglio a stare alla porta della Noemi, per vedere chi va e chi viene, giacché fai quel bel mestiere! -
All'occasione la signora Leda aveva la lingua in bocca anche lei - la bocca amara come il tossico.
- Per rifarsela dovette fermarsi al Biffi, a bere qualche cosa.
Bibì era là, al solito, in trono fra gli amici.
Tutti quanti, ad uno ad uno, per far la corte a lei e a lui, cominciarono a dire ira di Dio della Noemi - che non aveva scuola - che non aveva grazia - che non aveva questo e non aveva quest'altro.
Già l'avevano tutti quanti a morte coll'Impresa che lasciava disponibili i migliori soggetti.
Poi, dopo che l'amorosa coppia si fu congedata, fra grandi inchini e scappellate - Bibì stavolta volle accompagnare la sua signora per sentir bene come era andata a finire, un po' inquieto e nervoso in fondo, ma disinvolto, giocherellando colla mazzettina, lei tutta arzilla e saltellante, col sorriso di cinabro e le rose sulle guance (quantunque si sentisse soffocare nella giacchetta attillata) per non dar gusto ai colleghi, Scamboletti, il celebre buffo, ch'era anche il burlone della compagnia, mandò loro dietro questo saluto:
- Lei sì che n'ha della grazia di Dio!...
Una balena! - Anzi citò un'altra bestia.
- Senza invidia però, Bibì! -
Senza invidia, a lui, Bibì, ch'era un pascià a tre code, e di donne ne aveva sino ai capelli, damone e titolate?...
Basta, era un gentiluomo! E sapeva anche quello che andava reso alla sua signora.
Ma in quanto all'arte però non era partigiano, e ammirava ugualmente tutti i generi.
Leda era del genere classico? E lui l'aveva fatta subito scritturare al Carcano, un teatro di cartello anche questo, non c'è che dire.
Oggi, pei balli grandi, bastano le seconde parti, gambe e macchinario.
Piacciono anche questi? Ebbene, batteva le mani lui pure, senza secondi fini.
Ma la Leda, che non aveva più un cane che le battesse le mani, era diventata gelosa come un accidente, e gli amareggiava la vita, povero galantuomo.
Lagrime, rimproveri, scene di famiglia continuamente.
Alle volte, magari, lui doveva buttar via il tovagliolo a mezza tavola, per non buttarle il piatto in faccia.
Tanto, quella poca grazia di Dio gli andava tutta in veleno.
Si rappattumavano dopo, è vero; perché quando si è fatto per un uomo quello che aveva fatto lei!...
- E quando si è un gentiluomo come era lui!...
Ma però artisti l'uno e l'altra, dopo la commedia delle paci e delle tenerezze si tenevano d'occhio a vicenda, e la signora Leda, a buon conto, aveva messo un tramagnino alle calcagna di Bibì, per scoprire il dietro scena nel repertorio delle sue tenerezze.
Talché gli amici al vederlo sempre con la guardia del corpo, gli affibbiarono il titolo di Re di picche.
Infine tanto tuonò che piovve, la sera stessa della beneficiata di Leda, che non c'erano duecento persone al Carcano.
Ella cercò di sfogarsi con Bibì "il quale faceva il risotto" alla Noemi, invece! lui e i suoi amici! bestie e animali tutti quanti, che non sapevano neppure dove stesse di casa il vero merito! e si lasciavano prendere all'amo dalle grazie di quella diva, la quale rideva di loro, poi - sicuro! - di lui pel primo! - Gonzo!
- Via, fammi il piacere! - interruppe Bibì accendendo un mozzicone di sigaro dinanzi allo specchio.
- Ah, non vuoi sentirtela dire? Già, quella lì non ti piglia certo pei tuoi begli occhi, mio caro! - Schizzava fuoco e fiamme dagli occhi, lei, colle ciglia ancora tinte e il rossetto sulla faccia, così come si trovava all'uscire dal teatro, una Furia d'Averno - dopo tutto quello che aveva fatto per lui, e le occasioni che gli aveva sacrificato, ricconi e pezzi grossi, che se avesse voluto, ancora!...
- Fammi il piacere, via! - tornò a dire Bibì con quel ghignetto che la faceva uscire dai gangheri.
- Allora senti! Bada bene a quello che fai! Bada bene, veh! Che son capace di andare a romperle il muso, alla tua casta diva! - E qui un mondo di altre porcherie: - che lui era roba sua, di lei, giacché lo pagava e lo manteneva, e si rompeva la grazia di Dio, laggiù al Carcano, per mantenergli anche la casta diva! - Allorché era in bestia la signora Leda sbraitava tal quale come la sua portinaia, e vomitava gli improperi che aveva inteso al Verziere, quando stava da quelle parti.
- Puzzone! Svergognato! Ti pago perfino il sigaro che hai in bocca!...
- Scendere sino a queste bassezze, via! Talché Bibì stavolta perse il lume degli occhi e l'educazione, e gliene disse d'ogni specie anche lui, buttando in aria ogni cosa, dediche, omaggi, ritratti e corone sotto vetro, tutto quanto v'era in salotto, e quando non ebbe più che dire buttò anche le mani addosso a lei, senza riguardo neppure al rossetto e alle finte che costavano 50 lire al paio.
- Già al Carcano non ci avrebbe ballato più per un pezzo, la brutta bestia, tante gliene diede, - e il meglio era di prendere il cappello e andarsene via, poiché il vicinato era tutto sul pianerottolo, e colla Questura lui non voleva averci a che fare di nuovo, dopo che gli aveva rotto le scatole per altre sciocchezze.
Stavolta sembrava bell'e finita per sempre fra Bibì e la sua signora.
- Ciascuno per la sua strada, e alla grazia di Dio tutt'e due, in cerca di miglior fortuna, - se non fossero stati i buoni amici che vi si misero di mezzo.
Tanto, dopo tanto tempo che stavano insieme, erano più di marito e moglie.
No, lei non poteva starci senza Bibì.
Fosse sorte, fosse malìa, la teneva legata ad un filo, come essa ne aveva tenuti tanti, uomini seri, ed uomini forti, che in mano sua sembravano delle marionette.
E anche Bibì, a parte l'interesse, un cuor d'oro in fondo, che non si poteva dire lo facesse muovere l'interesse, ormai.
Non tornò a servirla in ogni maniera e a procurarle le scritture egli stesso? in America, in Turchia, dove poté, giacché al giorno d'oggi soltanto laggiù sanno conoscere ed apprezzare le celebrità.
- Prova i vaglia postali che lei mandava, poco o molto, quanto poteva.
Un cuor d'oro.
E allorché la povera donna batté il bottone finale, e sbarcò a Genova senza un quattrino, bolsa e rifinita, chi trovò alla stazione, a braccia aperte? Chi si fece in quattro per scovarle qua e là mezza dozzina di ragazze promettenti, e insediarla maestra di ballo addirittura? Chi le prestò i mezzi, a un tanto al mese, per metter su "pensione d'artisti" - una speculazione che sarebbe riuscita un affarone, se non ci si fosse messa di mezzo la Questura, che l'aveva particolarmente con Bibì?
E come ogni cosa andava di male in peggio, cogli anni e la disdetta, chi le prestò qualche ventina di lire, al bisogno, di tanto in tanto, quando si poteva? Dio mio, le ventine di lire bisogna sudare sangue e acqua a metterle insieme; e quando si diceva prestare, da lui a lei, era un modo di dire.
E al calar del sipario, infine, allorché la povera Leda andò a finire dove finiscono gli artisti senza giudizio, chi andò a trovarla qualche volta all'ospedale, e portarle ancora dei soldi, se mai, per gli ultimi bisogni?
Bibì ne aveva avuto del giudizio, è vero, e un po' di soldi aveva messo da parte, col risparmio e gli interessi modici, tanto da render servizio a qualche amico, se era solvibile, e da far la quieta vita, coi suoi comodi e la sua brava cuoca.
Perciò quelle visite all'ospedale gli turbavano la digestione, gli facevano venire le lagrime agli occhi, e non era commedia, no, quando ne parlava poi cogli amici, al caffè.
- Bisogna vedere, miei cari! Una cosa che stringe il cuore, chi ne ha! L'avreste creduto, eh? Lei abituata a dormire nella batista!...
E ridotta che non si riconosce più...
Un canchero, un diavolo al petto...
che so io...
Non ho voluto vedere neppure.
Lei ha sempre la smania di far vedere e toccare a tutti quanti.
E delle pretese poi! Certe illusioni!...
Non si dà ancora il rossetto? Misera umanità! Ieri, sentite questa, vo sin laggiù a Porta Nuova, apposta per lei, con questo caldo, e trovo la scena della Traviata: "O ciel morir sì giovane..." "Mia cara:..
giovani o vecchi...
Voi guarirete, ve lo dico io!" "Ah! Oh!" Allora viene la parte tenera, e vuol sapere se sono sempre io...
lo stesso amico...
da contarci su...
"Certo...
certo...
Diamine!..." O non mi esce a dire di condurla via? Sissignore - che una volta via di lì è sicura di guarire - che vogliono operarla - che ha paura del medico: "Per carità! Per amor di Dio!" "Un momento, cara amica! Che diamine, un momento!" Ella si rizza come una disperata, afferrandomi pel vestito, baciandomi le mani...
Non ci torno più, parola d'onore! -
E vedendo che ci voleva anche quello, dalla faccia degli amici, Bibì asciugò una furtiva lagrima.
PAPA SISTO
Di commedianti come Vito Scardo non ne nascono più a Militello, massime dacché fu toccato dalla grazia, e da povero diavolo arrivò ad essere guardiano dei cappuccini, come Papa Sisto.
Dopo aver provato cento mestieri - e averne fatte d'ogni colore anche, dicevasi, colla donna e la roba altrui - ridotto colle spalle al muro, malandato di borsa e di salute, Vito Scardo capì alfine: - Qui bisogna mutar strada -.
Era l'anno della fame per giunta, che i seminati, dal principio, dissero chiaro che si voleva ridere quell'inverno, e tutti quanti, poveri e ricchi, si strappavano i capelli, alla raccolta.
Vito Scardo stava bestemmiando anche lui nell'aia di massaro Nasca - compare Nasca sfogandosi coi figliuoli a pedate - sua moglie covando le spighe magre cogli occhi arsi e il lattante al petto - lo stesso marmocchio che si disperava e non trovava nulla da poppare - una desolazione insomma da per tutto, per la campagna brulla, senza una canzone o un suono di tamburello, quando si vide arrivare fra Angelico, quello della cerca, fresco come una rosa, trottando allegramente sulla bella mula baia dei cappuccini.
- Sia lodato San Francesco! - E lodato sia, fra Angelico! - disse compare Nasca fuori della grazia di Dio stavolta.
- Che a voi altri, benedica, il pane e il companatico non ve lo fa mancare San Francesco!...
Sangue di!...
Corpo di!...
- Le bestemmie della malannata, in una parola.
Ma fra Angelico se ne rideva.
- O dunque chi prega Domeneddio per la pioggia e pel bel tempo, gnor asino? -
Un pezzo di tonaca sulle spalle, una presa di tabacco qua e là, il buon viso e la buona parola, e fra Angelico raccoglieva grano, olio, mosto, senza bisogno di mietere né di vendemmiare, e senza pensare ai guai e a malannate, ché al convento, grazie a Dio, il caldaione era sempre pieno, e i monaci non avevano altro da fare che ringraziare la Provvidenza e correre lesti al refettorio quando suonava la campanella.
- Quello è il mestiere che fa per me, - disse allora Vito Scardo.
Di lì a poco, un bel giorno - volontà di Dio - lo trovarono tutto pesto e malconcio nel podere di Scaricalasino, o che l'avessero colto a cerca di olive senza permesso del padrone del campo, e senza la tonaca di San Francesco, o che a Scaricalasino quella notte gli dicessero le corna di tornare a casa insalutato ospite.
Il fatto è che glie ne diedero tante, al povero Vito Scardo, da lasciarlo più morto che vivo, e in quell'occasione volle confessarsi dal guardiano dei cappuccini appunto.
- Padre Giuseppe Maria - disse veramente contrito - padre Giuseppe Maria, o me ne vo in paradiso, o prometto di cambiar vita e fo voto di darmi a Dio.
- Va bene, va bene.
A questo c'è tempo -.
Il guardiano credeva che fossero le solite chiacchiere di ogni galantuomo ridotto al mal passo, e promise d'aiutarlo anche, per sbrigarsene.
Ma però non furono chiacchiere.
Vito Scardo aveva la pelle e la testa dura.
Non s'era fitto in capo di mutar vita? O dunque perché gli aveva promesso Roma e torna quel servo di Dio? Il guardiano, di lì a un mese, come se lo vide capitar dinanzi con quel dettato, sano come una lasca, fece il segno della croce: - Monaco tu? Non ci mancherebbe altro adesso! - E vossignoria che vi cresceva qualche cosa? Per arrivare guardiano anche!...
-
Voi che avreste fatto? Un arnese come Vito Scardo, che puzzava di tutti i sette peccati mortali! Però egli giurava che era un altro, ormai.
Lo pigliassero a prova.
Tanto disse e tanto fece che il povero guardiano dovette pigliarlo a prova, pel vitto e la tonaca soltanto, frate converso.
- Se la tonaca fa questo miracolo, vuol dire ch'è una santa cosa davvero, figliuol mio!-
Basta, o che la tonaca abbia fatto il miracolo, o che sia stato il bisogno a far trottare l'asino, Vito Scardo divenne l'esempio della comunità.
Bravo, modesto, prudente - le donne, magari, non le guardava neanche, in strada.
- E per la cerca poi valeva un Perù; meglio di fra Angelico, ch'è tutto dire.
La gente al vederlo così cambiato, che pareva un santo, diceva: - Questa è opera di San Francesco.
- E mandava elemosine.
Però c'era ancora quella certa tizia che tirava a fargli perdere il pane - comare Menica la moglie di Scaricalasino, dopo che suo marito era andato in galera per le legnate di quella notte - lei a tentarlo fino in chiesa, e occhiate di fuoco, e imbasciate con questa e con quella.
Una sera poi l'appostò al cancello del podere, che tornava tardi dalla cerca e non passava un cane, e lo strinse proprio colle spalle al muro: - Dopo averla messa in quello stato - né vedova né maritata! - E tutto quello che aveva fatto per lui! - Le legnate che s'era prese! - Sissignore! Eccole qua! - Quasi quasi si spogliava lì dov'era, dietro la siepe.
La siepe fitta, l'ora tarda, sulla strada che non passava un cane...
San Francesco glorioso, se Vito Scardo tenne duro come Giuseppe Ebreo, fu tutto merito vostro.
- Sorella mia - rispose lui - sorella mia, in galera si va e si viene, ma se mi scacciano dal convento cosa fo, ditelo voi? -
E lo disse anche al Padre Guardiano, a titolo di confessione - la carne - il demonio.
- La sai più lunga di lui! - pensò il guardiano.
Ma dovette chinare il capo anche stavolta, toglierlo dalla cerca e metterlo ai servizi interni del convento.
Vito, contentone, badava a far la sua strada.
Un colpo al cerchio, un colpo alla botte, barcamenandosi fra questo e quell'altro, che il convento è come un piccolo mondo, e le nimicizie covano anche fra i seni di Dio.
Quando s'accapigliavano fra di loro, e volavano le scodelle, lui orbo e sordo.
A tempo e luogo poi lisciare i pezzi grossi pel verso del pelo, e pigliare ciascuno pel vizio suo, fra Serafino col tabacco buono di Licodia, fra Mansueto chiudendo un occhio in portineria, il Padre Lettore a colpi d'incensiere.
- Ah, che grazia v'ha fatto il Signore! Quante cose sapete, vossignoria! - Figliuol mio, ho sudato sangue.
Vedi, ho tutti i peli bianchi.
Che mi giova? Padre Lettore, e nulla più.
- Birbonate! La solita storia che chi più merita meno ha...
M'intendo io, se fossi padre da messa e avessi voce in capitolo, quando fanno il guardiano!...
Il guaio era che per entrare in noviziato ed arrivare padre da messa ci voleva un po' di latino, e 20 onze di patrimonio.
Quanto al latino, pazienza, Vito Scardo, picchia e ripicchia, sudando sui libracci come Gesù all'orto, tendendo l'orecchio a questo e a quello, pigliandosi la testa a due mani - testa fine di villano che quel che voleva voleva - coll'aiuto di Dio e del Padre Lettore riescì a farvi entrare quel che ci voleva.
Ma trovare le 20 onze del patrimonio era un altro paio di maniche.
Ci si struggeva mattina e sera, senza contare i digiuni, le astinenze, e simili privazioni, che ormai era diventato tutto pelo e naso, e le divote susurravano anche che portava il cilizio sotto la tonaca.
In chiesa poi servizievole con tutti quanti, premuroso colle figlie penitenti del guardiano e dei pezzi grossi, innamorato del Patriarca San Giuseppe, sì che la vedova Brogna s'indusse a fare l'altare nuovo, e fu tutto merito suo.
Insomma, se il Patriarca non gli faceva trovare i danari per entrare in noviziato e darsi a Dio, voleva dire che non c'è religione né nulla.
- O tu che credi d'arrivare Papa? - Gli diceva alle volte il guardiano ridendo.
E lui, minchione minchione: - Papa, no -.
Bene, se il Patriarca non voleva farlo, l'avrebbe fatto lui il miracolo, Vito Scardo.
A un tratto, corse la voce che egli guariva asini e muli, con certi rimedi che sapeva lui - e la fede viva.
Se mancava la fede, addio virtù dei semplici, e tanto peggio per la bestia che crepava, salute a noi.
Poi furono i numeri del lotto che gli vennero in mente, come un'ispirazione del cielo che gli diceva all'orecchio: - Escirà il tale, il tale, e il tal altro numero -.
Veramente a tanta grazia divina recalcitrava egli stesso, semplice frate laico, senza neppure gli ordini sacri.
Resisteva alla tentazione, si confessava indegno, faceva il sordo o lo scemo, arrivava a tapparsi le orecchie insino, quando i poveri giuocatori gli correvano dietro supplicando: - Per la santa tonaca che portate! - Per l'anima dei vostri morti! - e per questo, e per quest'altro.
- Due parole sole, e ci togliete dai guai! - Intanto i numeri che gli ballavano dentro, e le dita stesse che si tradivano e accennavano il terno, senza sua voglia, soltanto al modo di lisciare la barba e di far segno: - zitto! - Chi sapeva intendere poi e cavarne il terno ci pigliava l'ambo almeno.
E l'elemosine fioccavano.
Il padre guardiano, uomo rozzo all'antica, prese infine Vito Scardo a quattr'occhi, e gli fece una bella lavata di capo: - A che giuoco giuochiamo? Che significa questa faccenda? - Lui a testa bassa, colle mani in croce nei maniconi, rispose tutto compunto che significava che il Signore lo chiamava in religione, e se non lo lasciavano entrare in noviziato sarebbe andato a fare l'eremita in cima a una montagna.
- Fra Giuseppe Maria capì il latino.
- A fare il santo per conto tuo, eh? E tirar l'acqua al tuo mulino? - Vito Scardo non capiva neppure.
- L'acqua? - Il santo? - Il mulino? - E le 20 onze del patrimonio, per pigliar messa? le 20 onze le hai? - aggiunse il guardiano per tagliar corto.
- Ah, le 20 onze?...
-
Come abbia fatto a procurarsele, quel diavolo di Vito Scardo, lo sa Dio e lui.
O che siano stati frutti di stola, come dicevano le male lingue, denari rubati allo stesso San Francesco, messi da parte sulla cerca, in barba a lui; o che la vedova Brogna abbia fatto anche questa, e si sia lasciato toccare il cuore; o sia stata infine carità fiorita di qualche altra benefattrice, che tirava anime a salvamento - la Scaricalasino vendé allora un pezzo di terra, suo di lei.
- Il fatto è che all'impensata saltò fuori il padre di Vito Scardo, Malannata, uno che il soprannome stesso diceva chi fosse, povero e pezzente che avrebbe cavato la pelle piuttosto al suo figliuolo per rattoppare la sua, e mise fuori i denari del patrimonio.
- Qui, ecco le 20 onze! - Il guardiano, che cercava pretesti ancora, voleva sapere donde venivano e donde non venivano.
Ma Vito Scardo che piangeva di tenerezza e di gratitudine, abbracciando gnor padre e baciandogli le mani, abbrancò il suo gruzzolo e minacciò di piantar su due piedi baracca e burattini.
- Allora, benedicite! Allora vi lascio la tonaca e me ne vo, giacché non volete salvarmi l'anima neppure col fatto mio! - Questo diavolo ci darà da fare a tutti quanti! - disse poi in capitolo il padre guardiano.
E disse bene, che gli parlava il cuore.
Basta, per toglierselo dai piedi lo mandarono a fare il noviziato fuori provincia, alla Certosa di Santa Maria.
Ci pensassero intanto quegli altri frati a vedere se spuntava grano o loglio da quel seme.
E Vito Scardo zitto, fece l'obbedienza, fece il noviziato, girò anche un po' il mondo, come piaceva ai superiori, e tornò fra Giobattista da Militello, monaco fatto, con tanto di barba e qualche pelo bianco.
Però colla barba e i peli bianchi gli era cresciuto anche il giudizio.
Trovò il paese sottosopra: bandiere, luminarie, ritratti di Pio IX da per tutto, Scaricalasino a spasso per le strade, e il padre guardiano colla coda fra le gambe.
Cose che non potevano durare, in una parola.
Intanto si doveva riunire il capitolo per la nomina dei superiori.
Malcontenti ce n'erano molti, minchioni la più parte, che pensavano ciascuno: - Ora infine tocca a me! - E brigavano, s'arrabattavano, trappolandosi gli uni e gli altri, liberali e realisti.
Lui invece né carne né pesce, affabile con tutti, rispettoso coi superiori, e tanto di coltello poi sotto la tonaca, a buon conto.
Come si avvicinava il gran giorno delle elezioni, il convento sembrava un formicaio messo in subbuglio.
Un va e vieni di frati sospettosi - quelli che andavano a caccia di voti - quelli che stavano a spiare - quelli che montavano la trappola - un fruscìo di tonache e di piedi scalzi, specie la notte, capannelli nei corridoi, conciliaboli di religiosi fino in sagrestia, vestendosi per la santa messa, e occhiate torve, anche in refettorio, il campanello della portineria che tintinnava ogni momento, gente di fuori che veniva a confabulare, le figlie penitenti che si guardavano in cagnesco fra di loro esse pure, il servizio divino sbrigato alla diavola, tutti colle orecchie tese alle notizie che giungevano di fuori, al vento che soffiava.
- Vincono i regi.
- Vincono i rivoltosi.
- Hanno bombardato Messina.
- Catania si difende -.
Gli umori e le alleanze segrete che ondeggiavano collo spirare del vento.
Fra Giobattista vedeva e taceva, o al più rispondeva: - Ah? - Eh? - Oh? - quando venivano a tastarlo anche lui, tirandolo ognuno dalla sua parte.
- Fra Mansueto che gli raccomandava in tutta segretezza di guardarsi bene di Scaricalasino, il quale voleva reso conto del pezzo di terra venduto da sua moglie.
- Il Padre Lettore che lo incensava lui adesso: - Il merito deve premiarsi.
Chi l'avrebbe detto di cos'era capace Vito Scardo se non fosse stato lui? - Lo stesso fra Serafino che veniva a sfogare le sue amarezze, dopo quarant'anni di religione, rimasto sempre a veder salire gli altri e vivere di elemosina - anche per una presa di tabacco! - Potete dirlo voi stesso, eh! Che ve ne pare? Non è un'ingiustizia? Allora vuol dire che non arriveremo mai a prendere il mestolo in mano, né voi né io!
Fra Giobattista, rassegnato invece, si stringeva nelle spalle.
- Eh, tenere il mestolo...
al giorno d'oggi...
È un affare serio...
Ci vuol prudenza...
ci vuol giustizia...
ci vuol carità -.
Tante belle cose.
- E al Padre lettore: - Non dubitate.
Il vostro tempo è venuto.
Ci vogliono uomini in testa e di lettere adesso.
E senza di voi...
Guardate, mettessero anche l'ultimo del convento a quel posto, mettessero me, guardate...
Senza il vostro aiuto che potrei fare? - E dare perfino ragione a fra Mansueto, ch'era il capo del malcontenti.
- Ci vuol politica...
Chiudere un occhio.
Non siamo più ai tempi che il guardiano faceva il commissario di polizia -.
In verità il povero guardiano aveva altro da fare adesso.
La tremarella da una parte, e la bile che gli toccava ingoiare dall'altra, e far buon viso a chi gli mirava al cuore.
Questo vuol dir politica, ora che il Santo Padre aveva mutato casacca, e il Re, Dio guardi, mandava truppe a far sacco e fuoco.
Se la spuntava, bene.
Ma se no, chi vi andava di mezzo per il primo era lui, padre Giuseppe Maria.
Un calcio nella schiena, e lo sbalestravano chissà dove, a far penitenza, semplice fraticello, giacché i pochi a lui fedeli gli nicchiavano in mano anch'essi.
Era quella famosa settimana santa del '48; le stesse funzioni sacre si trascinavano svogliate, la chiesa quasi vuota, tutta la gente in piazza dalla mattina alla sera, ad aspettare le notizie col naso in aria.
Giungevano fuggiaschi, carri di masserizie che temevano il sacco anch'essi, e rivoltosi di tutte le fogge, che contavano d'aver fatto prodigi, e correvano ad aspettare i regi laggiù, a Palermo, per massacrarli tutti.
Il sindaco, a buon conto, fece armare i galantuomini per tener d'occhio la roba del paese.
La folla correva ogni tanto sulla collina del Calvario, in cima al villaggio, per vedere se era già cominciato il fuoco nella città laggiù, lontano, in fondo alla pianura verde - uomini, donne, cappuccini anche, ciascuno pel suo motivo.
Vito Scardo invece non si muoveva, badava alla chiesa, badava al convento, badava ad aggiustare le sue faccende con questo o con quello, a quattr'occhi, intanto che fra Mansueto e il Padre Lettore perdevano il tempo a vendersi vesciche per lanterne l'un l'altro, o a correre lassù al Calvario a cercar notizie e le stelle di mezzogiorno.
- Signori miei, badate a quel che fate! - ammoniva Vito Scardo.
- Vincano questi, vincano quegli altri, badate a quel che fate! -
Soltanto a sera tarda sguisciava fuori un momento per pigliar aria, e sentire quel che si diceva, e lì, sotto gli olmi della piazzetta, al buio, amici, conoscenti, che spuntavano come funghi, e perfino Malannata, in gran sussurro.
Alcuni dissero pure di averci visto Scaricalasino, in confidenza con fra Giobattista.
Malannata poi che faceva il mestiere di vender erbe, ed era sempre in giro, ne portava più di ogni altro, notizie fresche.
Andava a raccoglierle sino a Scordia e a Valsavoja, insieme alle erbe, talché il figliuolo, perché parlasse in libertà, lo ficcava anche in cucina, col naso sulla scodella.
Giunsero le funzioni del giovedì santo, la comunione per tutti i frati, abbracci e baci a destra e a sinistra.
- Fra Giobattista adesso, colle lagrime agli occhi, si picchiava il petto quasi fosse giunta l'ultima sua ora.
Tanto che il guardiano si mise in sospetto e lo chiamò in sagrestia: - Che c'è, figliuol mio? Che sai? - Niente, Padre.
Ho il cuore grosso.
Il cuore mi dice che arriva il finimondo -.
Con tutta la comunione in corpo era più furbo che mai, quel diavolo di Vito Scardo, e non diceva altro.
Ma il guardiano tirò un sospirone.
Il finimondo, per un servo di Dio della taglia di fra Giobattista, doveva essere la vittoria dei regi e della podestà legittima.
- Gli era rimasto sempre sullo stomaco quel religioso.
- Fra Mansueto invece, giallo come un morto, lo aspettò nel corridoio per raccomandarsi a lui.
C'era qualcosa per aria? Eh? Che sapeva di certo? - Nulla...
di certo, nulla...
Chiacchiere.
"Tempo di guerre, menzogne per le terre" -.
Insomma ciascuno più era al buio di tutto, e più aveva da perdere, e perciò era inquieto, e più Vito Scardo diventava un pezzo grosso, con quell'aria di dico e non dico di chi la sa lunga davvero.
Tanto più che verso sera mutò il vento di nuovo: bande, fiaccolate, grida di viva che arrivavano sin lassù, e non si sapeva che credere e che pesci pigliare.
Il venerdì fu peggio ancora.
Giorno di lutto, in chiesa e fuori, le notizie che facevano a pugni fra di loro, dei curiosi che correvano in piazza per vedere se c'era ancora la bandiera al Municipio.
La sera i reverendi accompagnavano il Cristo morto, quando all'improvviso corse la voce: - Correte! - Lassù, al Calvario! - Si vede la città in fiamme! - Figuratevi come restò la processione! Fra Mansueto, nel deporre il cero in sagrestia, gli tremavano le mani.
Il guardiano non era tranquillo neppur lui.
In refettorio non si mise neppur la tavola.
Ciascuno, mogio mogio, era andato a rintanarsi nella sua cella, e aspettava come andava a finire.
Verso mezzanotte, toc-toc, fra Giobattista in punta di piedi andò a bussare all'uscio del Padre guardiano - Che è, che non è? - Gli altri religiosi, che avevano il suo peccato ciascuno, e la tremarella addosso, stavano ad origliare, e quando lo videro uscire, poi, dopo mezz'ora, ciascuno voleva sapere la sua.
Niente.
Si vedrà domani, in capitolo.
- Fra Giuseppe Maria protestava che ne aveva abbastanza, del guardianato, e fra Mansueto non voleva fastidi neppur lui.
- Basta, vedremo.
Sentiremo quello che consiglia lo Spirito Santo -.
E spunta infine il sabato santo, sempre in quell'incertezza.
Gli stessi curiosi in piazza; la bandiera sul campanile; la città che si vedeva fumare, laggiù, dal Calvario.
Intanto, per pigliar tempo, si fecero le funzioni in chiesa, prima di passare ai voti, suonarono le campane a gloria, s'invocò il Veni creator, e finalmente si riunì il capitolo.
Padre Giuseppe Maria esordì con un discorsetto tutto miele, tutta manna: - La religione - la fratellanza, - la carità -.
Lui domandava perdono a tutti se non era stato all'altezza della carica, mentre ne deponeva il peso, troppo grave per la sua età, supplicando di lasciarlo l'ultimo degli ultimi, semplice servo di Dio.
- Fra Mansueto chinava il capo anche lui.
Il Padre Lettore cominciò un'orazione in tre punti, per dichiarare che i tempi eran gravi e a reggere la comunità ci voleva giustizia - ci voleva prudenza - tutte le belle cose che aveva detto fra Giobattista.
Però il discorso diventava lungo, e fra Serafino pel primo cominciò a interrompere.
- Basta.
- Lo sappiamo.
- Ai voti, ai voti -.
Le lingue si confusero, e successe una babilonia.
Allora saltò su fra Giobattista; ch'era stato zitto, e disse la sua: - Signori miei, a che giuoco giuochiamo? Altro che perdere il tempo per sapere se deve essere Tizio o Caio a pigliare il mestolo in mano! Qui si tratta che stasera non si sa chi lo piglia sul capo, il mestolo! -
Successe un putiferio.
Fra Mansueto, che aveva la maggioranza, voleva approfittare del momento e passar subito ai voti.
Fra Giuseppe Maria protestò invece che se ne lavava le mani.
- Sì e no.
- Una baraonda.
In quella si udì scampanellare in furia alla portineria.
- Un momento! - strillò fra Giobattista come un indemoniato, colle mani in aria.
- Un momento! Eccoli qua! -
Che cosa? Lo sapeva lui solo, che uscì correndo, colla tonaca al vento.
Era proprio quell'altro, Scaricalasino, ansante e trafelato, che veniva a pigliar chiesa, quasi ci avesse già gli sbirri alle calcagna; poi Malannata, gongolante, e altri ancora, che confermavano la mal nuova.
Vito Scardo li piantò tutti in asso, e capitò di nuovo come una bomba in mezzo ai reverendi che si accapigliavano già.
- Signori miei, non fate sciocchezze.
Siamo belli e fritti! Tolgono le bandiere.
Andate a vedere -.
Era proprio vero, la notizia che i regi s'erano impadroniti della città fin dal giorno innanzi si era sparsa come un fulmine.
Il paesetto era allibito.
E ogni frate, dal canto suo, per togliersi di impiccio, e assicurarsi il quieto vivere, dava il voto a chi gridava di più:
- Fra Giobattista - Fra Giobattista -.
Vito Scardo che assisteva allo scrutinio con tanto d'orecchi aperti, a un certo punto cadde ginocchioni, colle mani in croce.
Piegò il capo a recitare in fretta due parole di orazione, e poi disse:
- Sia fatta la volontà di Dio -.
E fece anche la sua, sbalestrando padre Giuseppe Maria a Sortino - glielo aveva detto il cuore al poveraccio! - fra Mansueto e altri turbolenti di qua e di là.
S'intese pure col Giudice, ora che il buon ordine era tornato in paese, e le autorità si dovevano aiutare a vicenda per rimettere sotto chiave i malviventi sul fare di Scaricalasino, e vivere poi quieti e contenti com'era prima della rivoluzione, ciascuno al suo posto.
Vito Scardo rimase alla testa della comunità temuto e rispettato, un colpo al cerchio, un colpo alla botte, chiudendo un occhio a tempo e luogo, badando a non far ciarlare le male lingue, a proposito della Scaricalasino, o della vedova Brogna, che era gelosa matta.
Tutti contenti e lui pel primo.
Chi rimase scontento fu solo Malannata che gli era parso di dover mutar vita anche lui, col figlio guardiano, e diventare non so che cosa.
Ed era il solo che osasse lagnarsi.
- Monaco! - Tanto basta! - Nemico di Dio! -
EPOPEA SPICCIOLA
Ecco come lo zio Lio raccontava poi quella faccenda:
Mancava dove andare ad ammazzarsi? Nossignore, proprio qui; ché per dieci miglia in giro ne fecero piangere degli occhi! E anche loro ne seminarono delle ossa a far concime, lungo la strada, fra le siepi, dietro i muri, uomini e bestie mietuti a fasci, talché un mese dopo, a dar un colpo di zappa, ne saltavano ancora fuori, ossa di cristiani! Figuratevi i campi e gli orti! E la povera gente del paese che non c'entrava per nulla in quella lite, e non voleva entrarci.
Alcuni vi lasciarono la pelle, infine - per difendere la sua roba.
- La roba e la vita, perse!
Basta.
Molti se l'erano data a gambe il giorno prima, a buon conto, come sentivano: - Vengono! - Gli svizzeri! - La cavalleria! - E chi non gli era bastato l'animo di piantar subito casa e paese, all'ultimo momento disse pure: - Meglio il danno che la pelle - e via: uomini, donne, bestie, quello che si poteva mettere in salvo insomma; le vecchie col rosario in mano.
Io non avevo nessuno al mondo, soltanto quei quattro sassi al sole, la casa, l'orto, lì proprio sulla strada, con tanti soldati che passavano - chi li diceva dei nostri - chi di quegli altri - ciascuno che voleva mangiarsi il mondo - certe facce! Cosa avreste fatto? Rimasi a guardia della mia casa, lì accanto, seduto sul muricciuolo.
- A svignarsela, poi, c'è sempre tempo - pensai.
Intanto passa un'ora, ne passano due.
I nostri avevano tirato dei cannoni sin lassù sulla collina, in mezzo alle vigne.
Figuratevi il danno! A un tratto giunge uno a cavallo, tutto arrabbiato, che pareva volesse mangiarsi il mondo anche lui - uno di quelli che insegnano a farsi ammazzare agli altri - e si mette a gridare da lontano.
Allora uomini, cannoni, muli, via a rompicollo dall'altra parte; povere vigne! Però stavolta quello del cavallo aveva pure la testa fasciata; segno che si picchiavano diggià, in qualche luogo.
Però non si vedeva nulla ancora, dalle nostre parti.
Il paese quieto, la via deserta, la città che pareva tranquilla anch'essa, come se non fosse fatto suo, sdraiata in riva al mare, laggiù, e le fregate che andavano e venivano innanzi e indietro, fumando.
- Questa è l'ora d'andare a mangiare un boccone, - dico io, dall'alba che stavo piantato lì come un minchione.
In quella si mette a tuonare, lassù nella montagna.
Uno, due, tre, infine un temporale a ciel sereno, in quella bella giornata di Venerdì Santo che dovevano succedere tanti peccati.
- Buono! Addio voglia di mangiare un boccone! Lo stomaco se n'era già bell'e sceso in fondo alle calcagna, con quella solfa.
A buon conto è meglio correre a casa, e stare a vedere come si mettono le cose da dietro l'uscio.
Scendo quatto quatto dal muricciolo, e filo carponi lungo la siepe.
Le Proscimo allora mi vedono passare; la vecchia apre un po' di finestra, e si mette a strillare: - O zio Lio - Cosa succede? - Per amor di Dio! - C'era anche la figliuola, Nunzia, dietro la madre, più morta che viva anche lei; tutt'e due che non sapevano far altro: - Signore! - Madonna! - Ahimé! - Bene - dico io - chiudetevi in casa.
Stiamo a vedere -.
Mi chiudo in casa mia anch'io, e stiamo a vedere.
Niente.
Non passa un cane.
La pace degli angeli da queste parti.
Soltanto lassù che si divertono sempre a cannonate.
- Buon pro vi faccia! Tanto, qui il sangue non arriva, quando vi sarete accoppati tutti -.
Poteva essere mezzogiorno, a occhio, ché il sagrestano non si arrischiava certo sul campanile quella volta.
Quasi quasi m'arrischio a mettere il naso fuori di nuovo, quand'ecco, crac, il tetto dei Minola che rovina, e poi un altro, lì a due passi.
Le palle ci piovono sui tetti, adesso!
Che vedeste! Chi è rimasto a fare il bravo va a cacciarsi sotto il letto.
Altri che s'erano rintanati nelle cantine o in qualche buco, saltano fuori all'impazzata.
Pianti, grida, un baccano d'inferno.
Io andavo correndo di qua e di là per la casa, senza sapere dove ficcarmi, talmente ogni colpo me lo sentivo fra capo e collo.
- Aiuto! - Cristiani! - gridavano le Proscimo.
C'è cristiani e turchi in quel momento? Maledette donne che ce li tirano addosso, ora! Eccoli infatti che arrivano, prima dieci, poi venti, poi, che vi dico? un fiume.
Soldati e poi soldati che si vedono passare dal buco della chiave, per più di un'ora, a piedi, a cavallo, con certi cannoni di qua a là.
Povera la città che se li vede capitare addosso!
Intanto, se Dio vuole, di qui se ne vanno, a poco a poco; ché quando pareva fossero passati tutti, ne giungevano altri ancora, a frotte, alla spicciolata, zoppi, sfiniti, strascinandosi dietro il fucile e le gambe, con certe facce nere e arse.
E a un tratto ecco che si mettono a bussare in mala maniera dalle Proscimo, alla mia porta, qua e là alle poche case lungo la strada, volendo da bere, coi sassi, coi fucili, e minacciano di sfondare ogni cosa.
Al vedere che lo fanno davvero, dove non rispondono subito, aprono le Proscimo, apro io pure, e ci mettiamo alla fune del pozzo.
Acqua all'uno, acqua all'altro; ne vengono sempre! Bisogna vedere come vi si buttavano, colla faccia, colle mani, coi berretti, e spinte, e busse, una ressa indiavolata.
Delle facce, Dio ne scampi, che avevano gli occhi come brace.
E alcuni si lasciavano cadere giù in fascio col fucile dove c'era un po' d'ombrìa.
Altri si cacciavano nelle case e mettevano le mani da per tutto.
- Ah le mani! - Questo poi! Sì e no.
- Tira e molla.
- Si cercava di persuaderli colle buone e colle cattive: - Caporale! - Che fate? - Siamo poveri campagnoli! - Noialtri non c'entriamo colla guerra -.
A chi dite! Come parlare al muro.
E a capire ciò che dicevano loro, peggio, con quel linguaggio di bestie che hanno.
Andare a far sentir ragione alle bestie! La Proscimo che ci s'era provata con uno che le sembrava più faccia da cristiano, un ragazzo addirittura, biondo come l'oro, fine e bianco di pelle che sembrava una donna, cercava di addomesticarlo narrandogli guai e miserie - Sono una povera vedova - con due orfani sulle spalle! - Ci avrete la mamma anche vossignoria, laggiù al vostro paese!...
- Sissignora che quello invece le adocchia la figliuola, e tirava a farsi intendere colle mani, giacché colla lingua non si capivano né lei, né lui.
L'uno peggio dell'altro, in una parola.
Gente venuta da casa del diavolo ad ammazzare e farsi ammazzare per un tozzo di pane.
Dopo che ebbero bevuta l'acqua, vollero bere il vino, e dopo vollero il pane, e dopo volevano anche la ragazza.
Ah, le donne, poi! Qui non si usa! Pazienza la roba, e tutto il resto.
Ma anche le donne adesso? proprio sotto il mostaccio? Allora era meglio pigliare lo schioppo anche noi, e come finiva, finiva.
Vero ch'erano in tanti, e facevano tonnina nel villaggio intero! La Nunzia, però - una ragazza onesta - quel discorso sotto gli occhi della madre e dei vicini per giunta...
- Urli, graffi, morsi, si difendeva come una leonessa.
E la vecchia! Avete visto una chioccia, che è una chioccia, se la toccano nei pulcini? Insomma, sul più bello salta in mezzo anche il ragazzo dei Minola, che stava abbeverando quei porci lui pure - con quel bel costrutto.
- Salta in mezzo, e si mette a dar botte da orbi con un pezzo di legno che trovò lì nel cortile - o che gli premesse la ragazza, vicini come erano, oppure che gli sia andato il sangue agli occhi finalmente, dopo tante soperchierie.
Botte da orbi, a chi piglia, piglia.
Ma chi le pigliò peggio fummo noi poveri diavoli del paese.
Le case arse, i poderi distrutti, il ragazzo Minola con una baionetta nella pancia, la mamma Proscimo ridotta povera e pazza, e Nunzia con un figliuolo che non sa di chi sia, adesso.
L'OPERA DEL DIVINO AMORE
Nel monastero di Santa Maria degli Angeli c'era sempre stata proprio la pace degli angeli.
Non dispute né combriccole quando trattavasi di rieleggere la superiora, suor Maria Faustina, che reggeva il pastorale da vent'anni, come i Mongiferro da cui usciva tenevano il bastone del comando nel paese; non liti fra le monache pel confessore o per la nomina delle cariche della comunità.
Le cariche si sapeva a chi andavano, secondo la nascita e l'influenza del parentado.
E come suol dirsi che il monastero è un piccolo mondo, anche lì dentro c'erano le sue gerarchie, chi disponeva di un pezzetto d'orticello, e chi no, chi aveva le sue camere riserbate sotto chiave, le sue galline segnate alla zampa, e i giorni fissi per servirsi delle converse e del forno della comunità.
Ma senza invidie, senza gelosie, che son l'opera del demonio e mettono la discordia dove non regna il timor di Dio e il precetto d'obbedienza.
Già si sa che tutte le dita della mano non sono eguali tra di loro, e che anche nel Testamento Antico c'erano i Patriarchi e le Potestà.
A Santa Maria degli Angeli l'abbadessa e la celleraria erano sempre state una Flavetta o una Mongiferro: dunque vuol dire che così doveva essere, e a nessuna veniva in mente di lagnarsene.
Se nascevano delle questioni alle volte - Dio buono, siamo nel mondo, e ne nascono da per tutto - suor Faustina colle belle maniere, e don Gregorio suo fratello coi sorbetti e i trattamenti che mandava per tutte quante le religiose, nelle feste solenni, mantenevano nel convento il buon ordine e il principio d'autorità.
Ma un bel giorno questa bella pace degli angeli se ne andò in fumo.
Bastò un'inezia e ne nacque un diavolìo.
Padre Cicero e padre Amore, liguorini e cime d'uomini, vennero in paese pel quaresimale e fondarono l'Opera del Divino Amore, con sermoni appropriati e sottoscrizioni pubbliche fra i fedeli.
Se ne parlava da per tutto.
Le buone suore avrebbero voluto vedere anch'esse di che si trattava.
Però il monastero ne aveva pochi da spendere, e suor Maria Faustina diceva che bastava don Matteo Curcio, il cappellano, per gli esercizi spirituali.
C'era in quel tempo novizia a Santa Maria degli Angeli, Bellonia, figlia di Pecu-Pecu, il quale arricchitosi col battezzare il vino, aveva messo superbia per sé e pei suoi e aveva pensato di far educare la figliuola fra le prime signore del paese - motivo d'appiccicarle il Donna, se giungeva a maritarla come diceva lui.
Bellonia però, rimasta nel sangue bettoliera e tavernaia, in convento ci stava come il diavolo nell'acqua santa, e gliene fece vedere di ogni colore, a lui Pecu-Pecu, e alle monache tutte quant'erano.
La prima volta fuggì ficcandosi nella ruota del parlatorio.
Una povera donna che si trovava lì appunto a ricevere non so che piatto dolce dalle monache, rimase figuratevi come, invece, al vedersi sgusciar fuori dallo sportello quel diavolo in carne, appena girò la macchina.
Un'altra volta si calò dal muro dell'orto, colle sottane in aria, a rischio di spezzarsi il collo.
Un giorno che si facevano certi lavori nel monastero, e c'era quindi un via vai di muratori alla porta, Bellonia si cacciò fra le gambe della suora portinaia, e via di corsa.
Pecu-Pecu, poveretto, ogni volta correva a cercare la sua figliuola di qua e di là, fra gli altri monelli, nei trivi, fuor del paese, dietro le siepi di fichi d'India pure, e la riconduceva per un orecchio al convento, supplicando la madre badessa di perdonarle e ripigliarsela per amor di Dio.
Alla ragazzetta che si ribellava poi, e strillava rivoltolandosi in giro per terra, strappandosi vesti e capelli, e non voleva starci, carcerata in convento, Pecu-Pecu tornava a dire:
- Bellonia, abbi pazienza!...
Per amor del tuo papà!...
Dammi questa consolazione al papà! -
Bellonia non voleva dargliela.
Vedendo che non poteva escirne, di gabbia, o dopo tornava a cascarci per sempre, cercò il modo e la maniera di farsene cacciar via dalle monache stesse.
Attaccò lite con questa e con quella, mise zizzanie, inventò pettegolezzi, fece altre mille diavolerie, e non giovava niente.
Pecu-Pecu accorreva, pregava, supplicava, faceva intendere questo e quell'altro, si giovava della protezione di don Gregorio Mongiferro e degli altri pezzi grossi, ch'eran tutti suoi debitori, mandava regali al convento, e Bellonia vi restava sempre.
Tanto, suo padre si era incaponito di lasciarvela a imparare l'educazione, sino a che la maritava.
- Tu dammi questa consolazione, e il papà in cambio ti contenterà in tutto quello che desideri -.
- Pensa e ripensa, infine Bellonia disse che voleva quelli del Divino Amore, e Pecu-Pecu fece venire i due padri liguorini a sue spese.
Quaresimale in regola e Santa Maria degli Angeli, con organo, mortaletti e suono di campane.
Dopo due giorni soli che padre Cicero e padre Amore fecero sentire la parola di Dio a modo loro, le povere monache parvero ammattite tutte quant'erano.
Chi fu presa dagli scrupoli, e chi si trovava ogni giorno un peccato nuovo.
Estasi di beatitudine, fervori religiosi, novene a questa o a quella Madonna, digiuni, cilizi, discipline che levavano il pelo.
Parecchie si accusarono pubblicamente indegne del velo nero.
Suor Candida, per mortificazione, non si lavava più neppur le mani, suor Benedetta portava una funicella di pelo di capra sulle nude carni, e suor Celestina arrivò a mettere dei sassolini nelle scarpe.
A suor Gloriosa infine la predica dell'Inferno aveva fatto dar volta completamente al cervello, e andava borbottando per ogni dove: - Gesù e Maria! - San Michele Arcangelo! - Brutto demonio, va via! -
Siccome la grazia poi toccava i cuori per bocca dei due predicatori forestieri, le suore se li rubavano al confessionale, al parlatorio, li assediavano sino a casa per mezzo del sagrestano, coi dubbi spirituali, coi casi di coscienza, coi vassoi pieni di dolci.
Alla madre abbadessa fioccavano le domande delle religiose, le quali chiedevano l'uno o l'altro dei due padri liguorini per confessore straordinario.
Invano suor Maria Faustina, che ai suoi anni era nemica di ogni novità, rifiutava il permesso, anche per riguardo a don Matteo Curcio, che era il cappellano ordinario del monastero.
Le monache ricorrevano al vicario, all'arciprete, sino al vescovo, inventavano dei peccati riservati, si lamentavano che don Matteo Curcio era duro d'orecchio, e non dava quasi retta: - Gnora sì - Gnora no - Ho inteso - Tiriamo innanzi -.
Qualcheduna giunse ad accusarlo di far cascare le penitenti in distrazione, con quella barba sudicia di otto giorni, che in un servo di Dio non ispirava alcuna devozione.
Invece i due padri forestieri, quelli sì che sapevano fare! L'uno, padre Amore, che portava il nome con sé, un bell'uomo che si mangiava l'aria, e faceva tremar la chiesa in certi passi della predica; e padre Cicero, un artista nel suo genere, tutto san Giovanni Crisostomo, col miele alle labbra.
I peccati sembravano dolci a confidarli nel suo orecchio.
E la bella maniera che aveva di consolare! - Sorella mia, la carne è fragile.
- Siamo tutti indegni peccatori.
- Buttatevi nelle braccia del Divino Amore -.
Allorché vi sussurrava all'orecchio certe parole, con la sua voce insinuante, con le pupille color d'oro che vi frugavano addosso attraverso la grata, sembrava che vi s'insinuasse nella coscienza, quasi l'accarezzasse, talché quando levava per assolvervi quella bella mano fine e bianca, vi veniva voglia di baciarla.
Qualche disordine s'era notato sin da principio.
C'erano state delle mormorazioni a causa di suor Gabriella la qual
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