[Pagina precedente]...due, e protettore di Terenzio, da me si nomina opportunamente, ma non si fa comparire in iscena, sendo egli uno di quei Personaggi eroici per la dignità e per il grado, che più alla Tragedia che alla Commedia convengono. Livia è una di quelle Romane il di cui eroismo forma la parte nobile nelle Tragedie e nei Drammi, il di cui carattere posto in ridicolo diventa comico. Il Parassito, l'Adulatore, sono i caratteri di quei tempi, siccome lo Schiavo eunuco, invidioso, è parto vero dell'antichità . L'invenzione di Terenzio, che finge il vecchio Critone essere un venditore di schiavi, è tratta dalle Scene Comiche di Terenzio medesimo, e quantunque alcuni critici abbiano condannato nel mio Protagonista la macchina creduta indegna di Lui, non mi pento di averla eseguita, giustificandomi il carattere istesso di Terenzio, il quale non si dipinge per un Eroe, ma per un valente Poeta comico, che sapeva convertire a suo pro le belle invenzioni, colle quali si guadagnò la stima di tutta Roma.
PERSONAGGI
Il prologo
LUCANO senatore
LIVIA figliuola adottiva di Lucano
LELIO patrizio
TERENZIO africano, schiavo di Lucano
PUBLIO pretore
CREUSA greca, schiava di Lucano
FABIO cliente di Lucano, adulatore
LISCA parassito
DAMONE africano, eunuco, schiavo di Lucano
CRITONE ateniese, avolo paterno di Creusa
Uno Scriba
Sei Littori del seguito del Pretore
Clienti di Lucano
Servi di Lucano
Seguito del Pretore
L'Azione rappresentasi in una sala del palazzo di Lucano.
PROLOGO
Chi è fra di voi, signori, che della storia amico
Ravvisi il personaggio, ch'io rappresento antico?
Della Commedia innanzi, solo al popol ragiono...
Basta, basta; or ciascuno sa che il Prologo io sono.
Non mandami il Poeta per sola vanitÃ
Di richiamar sul palco la bella antichità .
Ma questa volta almeno, a voi fa di mestieri
Ch'io dica il suo disegno, ch'io sveli i suoi pensieri.
Questa Commedia nuova, che a voi si raccomanda,
Indietro coll'azione due mille anni vi manda,
Allor quando fioriva, scacciati i Re inumani,
La Repubblica invitta de' popoli Romani.
L'Autor sa che taluno dirà nel suo pensiere:
Mirar costumi nostri è quel che dà piacere;
Non ferma, non impegna, e l'alme non ricrea
Carattere di cui non s'ha precisa idea.
L'Autor per me risponde esser ciò vero in parte,
Che criticar chi vive di dilettare è l'arte;
Ma vide dall'esempio degli uomini più accorti,
Che un Comico i viventi può criticar coi morti.
Di Plauto e di Terenzio, pregiati dai Romani,
Erano gli argomenti delle Commedie estrani,
Prendendo dalla Grecia i Comici soggetti
Per criticar di Roma i vizi ed i difetti.
Fur le passioni umane le stesse in ogni etate;
Son tutte le nazioni da un sol principio nate:
Sol variano col tempo i riti ed i costumi,
De' quai a chi succede son necessari i lumi.
Questa occasion ci porge l'altra di dare al mondo
Un nuovo cogli antichi spettacolo giocondo;
E se le glorie loro veggiam nelle tragedie,
Giust'è che i lor difetti ci mostrin le commedie,
E veggasi in confronto, che in vari nomi espressi,
Gli antichi ed i moderni sono gli uomini istessi.
L'ingordo Parassito l'abbiamo anche in presente,
Regna fra noi pur troppo l'adulator Cliente.
L'invidia fra gli schiavi vediam fra servi nostri,
Ed agli antichi eunuchi abbiam simili mostri.
L'amor fu ognor lo stesso, superbia ognor eguale,
Ognor vi fu chi 'l bene cercò coll'altrui male.
Sol delle donne il fasto, che in Roma iva all'eccesso,
Sembra, se al ver m'appongo, sia moderato adesso.
Allora per orgoglio avean gli uomini a sdegno,
Ora superbe sono, ma non fino a tal segno.
Trattan con alterezza, se veggonsi adorare,
Ma quando son sprezzate, si veggono pregare;
E questo tal confronto fa due graziosi effetti,
Gli estremi a noi mostrando di due vari difetti.
Lo stile sollevato se udrete oltre il costume,
Se delle erudizioni sparso ne' versi il lume,
Se troppo per Commedia eroiche le passioni,
Per me vuole il Poeta addur le sue ragioni.
L'esige l'argomento; lo vuol l'inusitata
Opra, che il titol porta di Commedia togata,
Mista di personaggi bassissimi e d'eroi,
Che fra moderni e antichi ha pur gli esempi suoi;
Al che poi facilmente, volendo, si rimedia,
Lasciandola l'Autore chiamar Tragicommedia.
Ma troppo lungamente trattengo in impazienza
Di mirar la Commedia desiosa l'Udienza.
Supplito ho all'incombenza, per cui son qui venuto,
Dell'intenzione nostra ho il Popol prevenuto.
Se critiche verranno, le accetterem con pace,
Non è il Poeta nostro prosontuoso audace:
Per me degli error suoi perdono a voi domanda,
E alla clemenza vostra Terenzio raccomanda.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
LUCANO e DAMONE.
LUC.
Parla; che vuoi?
DAM.
Signore, dirti vorrei tre cose;
Una di lor non preme, ma due son premurose.
LUC.
L'inutile si lasci; le necessarie esponi.
DAM.
Viva il padron: tu sei lo specchio de' padroni.
Delle due cose gravi la prima eccola qui:
Terenzio mi corbella, mi tratta ognor così.
Nella commedia sua, l'Eunuco intitolata,
Contro me, che tal sono, vi è più d'una sferzata.
L'altra, che dir ti deggio, è questa, padron mio,
È africano Terenzio, è schiavo qual son io;
Ma lui dal signor nostro a scriver si destina,
Ed io son destinato agli orti e alla cucina;
E pur, se nel far ridere stan tutti i pregi sui,
M'impegno che il buffone so fare al par di lui;
Anch'io so adoperare il pungolo e la sferza...
LUC.
Basta: due cose vane. Esponi ora la terza.
DAM.
La terza importa meno: lo dissi, e lo ridico.
Lelio di fuor t'aspetta, di Terenzio l'amico.
LUC.
Lelio patrizio?
DAM.
Appunto.
LUC.
Venga.
DAM.
La mia ragione...
LUC.
A te ragion, se tardi, farò con il bastone.
DAM.
No, no, signor, sospendi l'usato complimento.
Disposto a nuove grazie col dorso non mi sento.
(Fortuna fortunaccia, tu sei meco indiscreta;
Ma voglio vendicarmi col comico poeta). (da sé, indi parte.)
SCENA SECONDA
LUCANO, poi LELIO.
LUC.
Sorte non cambia in seno degli uomini il costume;
Ciascun de' propri affetti segue a talento il lume.
Due schiavi a un laccio stesso ridotti in servitute
Uno l'invidia segue, e l'altro la virtute.
LEL.
A te pace, Lucano, diano i penati tuoi.
LUC.
Pace a Lelio e salute diano i penati suoi.
LEL.
Teco a gioir mi porta l'evento fortunato,
Che l'opre di Terenzio in Roma han riportato.
Nella punica guerra ei fu tua preda, e puoi
Gli applausi dello schiavo accogliere per tuoi.
La sua virtù lo rese grato alle genti note;
L'ama Scipione il giovane, dell'African nipote,
E quel che a lui mi lega tenero amore antico,
Fa ch'io sia di Terenzio, qual di Scipione, amico.
LUC.
Grati mi sono, il giuro, i tuoi sinceri uffici;
Giubilo che lo schiavo abbia cotali amici,
E averlo in mio potere nell'Africa ridutto,
Delle vittorie mie fia sempre il maggior frutto.
Roma se ne compiace: Roma l'applaude e loda;
Godo che dai Romani, per cagion mia, si goda.
Anche gli edili stessi, che de' teatri han cura,
Lodano nel poeta lo stile e la natura;
E maraviglia fassi ciascun, che un Africano
Scriva latin purgato, qual s'ei fosse Romano.
LEL.
Non rammentasti invano gli edili. In nome loro
A ragionarti i' vengo; grazia per tutti imploro.
Terenzio, amor di Roma, gloria di nostra etade,
Merta che a lui si doni l'onor di libertade.
Nel rendergli giustizia si accrescerà il tuo merto;
Terenzio di Lucano ognor sarà liberto;
E allor fia nostro, vanto l'ingegno peregrino
Vantar per figlio nostro per nostro cittadino.
Perde nel volgo un fregio il lauro alle sue chiome,
Con questo che l'aggrava di servo abietto nome;
All'opere sue belle, al comico valore,
Vedrai la libertade recar gloria maggiore;
Poiché pende talora il pregio e l'eccellenza
Nei pubblici giudizi dal nome e l'apparenza;
E tal, che mille in seno merti sublimi aduna,
Disprezzasi dal mondo, se mancagli fortuna.
LUC.
Tale richiesta, amico, mi onora e mi consola;
Ma un prezioso acquisto dalle mie soglie invola.
Bello è l'udir cantarsi dal popolo Romano:
Viva Terenzio il prode, lo schiavo di Lucano.
Pur se ragione il chiede, se fia il negarlo ingiusto,
Son pronto il sacrifizio far al Senato Augusto.
LEL.
Tu pur del gran Senato sei fra' padri conscritti
A parte della gloria de' cittadini invitti.
Perdi un privato bene, se rendi il servo immune,
Ma l'hai moltiplicato col popolo in comune.
LUC.
Quel della patria nostra supera ogn'altro affetto.
Libero fia Terenzio: al pubblico il prometto.
LEL.
L'alta virtude i' lodo di superar te stesso;
Ma ancor non basta, amico, quel ch'hai di far promesso.
Schiava di Grecia hai teco: Creusa ella si chiama;
Seco fra' lacci al Tebro venne Terenzio, e l'ama;
E al lor signor comune, per grazia o per mercede,
In nodo a lui congiunta e libera la chiede.
LUC.
Troppo le mire estende uom ch'è fra' lacci ancora,
Poco non è, se ottiene la libertà che implora.
Per ostentar coperta qual libero la chioma,
Susciti in suo favore Lelio, Scipione e Roma;
Ma seco non presuma scioglier dai lacci miei
Schiava, che alle mie fiamme concessero gli dei.
Vegg'or perché rubella è al mio bel foco, e schiva:
Del cuor della mia preda è costui che mi priva.
Solo di libertade abbia Terenzio il dono;
A questo patto, amico, teco impegnato io sono.
Ma se in amor persiste a contrastarmi ingrato,
Non pensi a libertade, non pensi a cambiar stato.
Roma non mi comanda; Roma nel tetto mio
Il mio piacer rispetti. Son cittadino anch'io. (parte.)
SCENA TERZA
LELIO, poi TERENZIO.
LEL.
Anche fra' padri eccelsi vibra Cupido i strali.
Sono agli eroi non meno che agl'infimi fatali.
Etade non rispetta, grado, virtù, valore,
Il vincitor de' numi micidiale Amore.
TER.
Signor, qual uom che pende da oracolo divino,
Tal io da' labbri tuoi attendo il mio destino.
Qual si mostrò Lucano delle mie brame al volo?
LEL.
Libero sei, se 'l chiedi; ma senza sposa, e solo.
TER.
La grazia dimezzata rende mal pago il cuore;
Peggio, delle due parti se perdesi il migliore.
Amo la libertade, amo la donna bella,
Ma questa delle due mi piace più di quella;
Onde, se a me si nega ciò che quest'alma adora,
Sa ricusar Terenzio la libertade ancora.
LEL.
Perdere un sì bel dono per lei non ti consiglio,
Che può, dopo il tuo bene, formare il tuo periglio.
TER.
Lelio, di tai concetti piene ho le carte anch'io,
Ma in ciò dalla mia penna discorda il desir mio.
Insite per natura son le passioni al cuore,
Non vagliono ragioni per vincere l'amore.
Nella commedia a cui dà il titolo Formione,
Anch'io sgridai l'amore del giovane Antifone,
Ma allor che la morale spargea su' fogli miei,
Se gli occhi di soppiatto miravo di colei,
Dicea: Tu sei pur bella, amabile Creusa!
E al cuor del figlio amante mi suggeria la scusa.
LEL.
Ma che far vuoi, se invano a chiederla ritorni?
TER.
Soffrir nostre catene ancor per pochi giorni.
LEL.
Per pochi giorni? E come discioglierai quel nodo?...
TER.
Eh, san trovar di sciorlo l'anime franche il modo.
LEL.
Troncar colla tua mano vuoi della vita il velo?
TER.
No; serbar vo' la vita, finché la serba il cielo.
Hassi a morir, gli è vero, ed è fin d'ogni male
Sollecita anche troppo la morte naturale.
Spero troncar il laccio, in cui da noi si langue,
Con arte, con ingegno, non colle stragi e il sangue.
Folle è colui che affretta suo fin colla sua mano:
In altro mi uniformo; in ciò non son Romano.
La virtù dell'eroe credo consista in questo:
Nel tollerar costante il suo destin funesto.
Morir per l'onor suo, morir pel suo paese,
È nobile virtute che le grand'alme accese;
Ma sprezzan l'alme forti della fortuna il gioco:
Vile è colui che morte si dà per così poco.
LEL.
Vivi per comun bene, vivi per gloria nostra;
Ma per tua libertate men tiepido ti mostra.
Per me, pel tuo Scipione, nostro comune amico,
Per gli edili di Roma a pro tuo m'affatico.
Deh, l'opera di tanti struggere non ti piaccia;
Lavinio, il tuo nemico, più non ti rida in faccia.
Non vaglia sulle scene al detrattore insano
Il dir: Terenzio è schiavo; Romani, io son Romano.
Al popol, che s'appaga di facile ragione,
Con questo nome in bocca il tuo rivale impone.
TER.
Vanti Lavinio audace di cittadino il nome;
Per questo non isperi i lauri alle sue chiome.
Scrivo all'età presente, scrivo all'età future;
Dell'opere si parli, e non delle avventu...
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