[Pagina precedente]... a chiamarti figlio, liberto, amico.
Meco da questo punto tu pur cambia lo stile;
Meno ti renda il grado, a cui t'inalzo, umile.
A me svela il tuo cuore, confida i tuoi pensieri;
I labbri incoraggiti mi parlino sinceri.
Questa mercé ti chiedo a mia beneficenza:
Fammi, se mi sei grato, del cuor la confidenza.
TER.
(Come svelar l'affetto che all'amor suo contrasta?) (da sé.)
LUC.
Segui a tacer? Che parli ti prego, e non ti basta?
TER.
Signor, di tue richieste veggo, conosco il fine;
Del giusto i miei desiri eccedono il confine.
Ravviso il contumace amor che m'arde in petto;
Reprimerlo son pronto, di spegnerlo prometto.
Se in ciò potei spiacerti, deh, per pietà , mi scusa.
LUC.
(Chi sa s'egli favelli di Livia, o di Creusa?
Un ver scoprir io temo, che m'abbia a recar pena). (da sé.)
TER.
Vorrei, pria di spiacerti, soffrir doppia catena;
Quell'unico mi caglia giusto, soave amore,
Che grato ognor mi renda al cuor del mio signore.
LUC.
Che ami lo so. Svelato fummi di te l'affetto,
Ma dubbio ancor mi resta dell'amor tuo l'oggetto.
Non arrossir nel dirlo. Vedi qual per te sono
Disposto a compiacerti.
TER.
Signor, chiedo perdono.
Cieco è Amor. La natura frale al desio s'arrende;
L'uso, il comodo, il tempo l'alme più schive accende.
L'occhio principia, e il cuore trae seco, a poco a poco,
Da piccola scintilla prodotto il maggior foco.
Perdon, se nel mirare dapprima il vago oggetto,
Qual si dovea non ebbi a te, signor, rispetto.
Se il grado mio scordato, in quel fatal momento,
M'arresi al dolce incanto che forma il mio tormento;
Se di colei, che merta del mondo aver l'impero,
Questo mio cuor s'accese miserabile, altero.
LUC.
(Par che di Livia parli). (da sé.) Se tanto ho a te concesso,
Poss'anco ciò donarti, che amo quanto me stesso:
Dal prezioso acquisto, che offro a' tuoi merti ancora,
Vedi se Lucan ti ama, se ti distingue e onora.
TER.
(L'offerta a lui penosa m'atterra, e mi confonde). (da sé.)
LUC.
(Al maggior de' miei doni stupisce e non risponde). (da sé.)
TER.
Dunque, signor...
LUC.
Sì, amico, non ti avvilir, fa cuore.
La mia pietà vuol lieto mirarti anche in amore.
Più di Ciprigna il figlio il cuor non ti martelli,
E di dolcezza pieni farai carmi più belli,
S'è ver che quella sia che ti ha tenuto in pene...
TER.
Signor, vedi Creusa che timida sen viene.
LUC.
Questa è colei, Terenzio, questa è colei che gravi
Lacci impose a quest'alma, ch'ha del mio cuor le chiavi.
So che tu pur la stimi, so che tu pur l'amasti:
Buon per te, che per tempo fiamme nel cuor cangiasti;
Perciò l'amor sospeso a te più forte io rendo.
Consolati, Terenzio.
TER.
Sì, signor. (Non l'intendo). (da sé.)
LUC.
Olà , perché t'arresti? (verso la scena, da dove viene Creusa.)
SCENA UNDICESIMA
CREUSA e li suddetti.
CRE.
Temeva disturbarti.
LUC.
Sempre hai tu da fuggirmi? Sempre ho io da pregarti?
Saran le tue ripulse ai miei desiri eterne?
TER.
(Preso ho affé, questa fiata, lucciole per lanterne). (da sé.)
LUC.
Rispondimi, Creusa: stanca sei coi disprezzi
Pagar chi studia e pena a meritar tuoi vezzi?
TER.
(Che mai dirà ?) (da sé.)
CRE.
Signore, mio cuor sempre è lo stesso;
Quel che poc'anzi ho detto, posso ridirti adesso.
LUC.
Se di Terenzio invano ti lusingasti, osserva:
Libero, e a Livia sposo, sprezza te Greca, e serva.
CRE.
(Barbaro) (da sé.)
TER.
(Sventurata! Or comprendo l'errore). (da sé.)
LUC.
Dille tu, s'io mentisco. (a Terenzio.)
TER.
Non mente un senatore.
LUC.
(D'un più discreto amore l'esempio egli ti reca). (a Creusa.)
CRE.
Da un African l'esempio sdegna un'anima greca.
LUC.
Tu, se 'l mio ben ti cale, se aneli alla mia pace,
Modera quell'ingrata nel disprezzarmi audace.
Cerca ragion che vaglia a impietosirle il seno;
Per quel che a te donai, poss'io chiederti meno?
Vo ad affrettar la pompa che far ti dee Romano,
Vo in tuo favor di Livia lieto a dispor la mano.
Fa tu che quell'altera dal cuor non mi discacci. (a Terenzio.)
Tu pensa a compiacermi, o a raddoppiar tuoi lacci. (a Creusa, indi parte.)
SCENA DODICESIMA
TERENZIO e CREUSA.
TER.
(Come con lei scolparmi?) (da sé.)
CRE.
(Che potrà dir l'ingrato?) (da sé.)
TER.
Ah Creusa, che pensi?
CRE.
Mai non ti avessi amato
TER.
Non aspettar che parli teco a pro di Lucano.
CRE.
Per lui, per te mi parla; meco favelli invano.
TER.
Ti son fedel.
CRE.
Si vede.
TER.
Ascolta in pochi accenti
La ragion dell'inganno.
CRE.
Non vo' saperla. (si scosta.)
TER.
Eh, senti. (seguitandola.)
SCENA TREDICESIMA
LIVIA ed i suddetti
LIV.
Creusa, a che qui resti, partito il tuo signore?
TER.
Io, per ordin di lui, deggio parlarle al cuore. (a Livia.)
LIV.
Te per tal opra ha scelto, ch'ardi per lei nel seno? (a Terenzio.)
CRE.
Di quel che per te peni, arde per me assai meno.
LIV.
Schiava vulgare, ardita, meco a garrir non chiamo.
CRE.
Partirò.
LIV.
Fallo tosto. Sollecita il ricamo.
Quel che a te diei disegno, richiama alla memoria,
E pensa che vicina la favola è all'istoria.
CRE.
Favola per me il foco fu di Terenzio altero;
Ma quel che per te nutre, Livia felice, è vero. (parte.)
SCENA QUATTORDICESIMA
TERENZIO e LIVIA
TER.
Fermati, ascolta. (vuol seguitarla.)
LIV.
Come? In faccia mia seguirla?
TER.
Per ordin di Lucano parlar deggio, e sentirla.
LIV.
Ciò da me potrà farsi.
TER.
È ver, ma tu non sai...
LIV.
Terenzio con Lucano testé di te parlai. (dolcemente.)
TER.
Di me che mai ti disse l'amabile signore?
LIV.
Ti lodò, mi propose... L'intesi a mio rossore.
TER.
Previdi ch'ei ti avrebbe mosso per me allo sdegno.
LIV.
Non è cuor di liberto d'una Romana indegno.
TER.
Dunque, se tal divengo, Livia Terenzio adora?
LIV.
Se libero ti rendi... Ma no, sei schiavo ancora. (parte.)
SCENA QUINDICESIMA
TERENZIO solo.
TER.
Fin che fra' lacci io sono, di te mi credi indegno;
Tal io, se li disciolgo, di te più non mi degno.
Dove fondate il fasto, donne Romane altere,
Che rendere vi puote ai miseri severe?
Livia, che ha cuor superbo, stimo d'un'altra meno;
Più val schiava Creusa, che ha la virtude in seno.
Duolmi senza mia colpa averle ora spiaciuto;
Rete tra i fior si tese; in quella io son caduto.
Ma tratto dal mio piede di servitute il laccio,
Creusa e me fors'anco saprò trar d'ogn'impaccio.
Ah, voglia quel che a noi sovrasta eterno fato,
Ch'io possa esser felice, ma senza essere ingrato,
Valgami nel grand'uopo, a superar gli obietti,
La bella comic'arte di maneggiar gli affetti.
E se noi dall'arena abbiam comici il vanto
Di trar sovente il riso, di trar talora il pianto,
Quel che su finte scene l'arte maestra aduna,
Tentar vo' per me stesso, per far la mia fortuna.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
TERENZIO solo.
TER.
A me doni preziosi? a me carmi ed onori?
Per me l'amor di Roma, l'amor de' senatori?
Di schiavitù fra i lacci viver non si rifiuta,
Quando a un sì caro prezzo la libertà è venduta.
E libertade istessa, cui la natura inclina,
Per rendermi felice, la sorte mi destina.
Ma, ahimè, l'alma trafitta un altro ben sospira,
Senza di cui la vita, non che la sorte ho in ira:
Un ben, che agli altri beni accrescere può il fregio,
Cui più d'ogni tesoro ave il mio cuore in pregio;
E lieto sceglierei viver fra' lacci ancora,
Pria di smarrir la vista del bel che m'innamora;
Provandosi per questo che il mondo e i beni suoi
Prezzo d'opinione ricevono da noi,
Stimandosi più quello che più diletta e piace,
Trovando sua ricchezza il cuor nella sua pace.
SCENA SECONDA
DAMONE ed il suddetto.
DAM.
Cerco il padron per tutto, e lo ricerco invano.
Saprà dov'è Terenzio, ch'è un membro di Lucano.
TER.
Sì, amabile Damone, lo so dov'ei si trova:
Sollecita d'amore per me l'ultima prova.
Con Lelio e con Scipione, e col pretor di Roma,
Accelera, concerta l'onor della mia chioma.
DAM.
Oh Roma fortunata, poiché fra' lustri suoi
Onorerà Terenzio, la feccia degli eroi!
TER.
Così sciolto da' lacci fosse Damone ancora,
Che 'l numero infelice de' servi disonora.
DAM.
Per me più stimo e apprezzo spennar polli e pavoni,
Dell'arte, onde ti vanti, de' mimi ed istrioni.
TER.
Che dir degl'istrioni, che dir de' mimi intendi?
Di questi e quelli il vanto, il merto, non comprendi.
Ister, che fra gli Etruschi dir vuol gioco da scena,
Diede agli attori il nome della commedia amena;
Mimus, che imitatore dir vuol, diè nome ai mimi,
Quei che ciò fan coi gesti, chiamati pantomimi.
DAM.
Uomini che di fama, che degli onor son privi,
Satirici, impudenti, scandalosi, lascivi.
TER.
Roma per mie commedie a me reca gli onori,
L'autor non è scorretto, onesti son gli attori.
Scena che virtù insegna, dà merto e preferenza;
Quel che detesto anch'io, del ballo è la licenza.
DAM.
Teco la perde sempre chi dir vuol sua ragione;
Dimmi dove poss'io ritrovar il padrone.
TER.
Lice, cortese amico, lice saper l'arcano,
Per cui mosso è Damone a ricercar Lucano?
DAM.
Amico eh?
TER.
Terenzio a te tal si professa.
Fummo in pari fortuna; siam d'una patria istessa.
Cartagine non sappia, che invidia in suol romano
D'un Africano il bene desti in altro Africano.
Spera che se la sorte in me ricchezze aduna,
D'un che fratello i' chiamo, posso far la fortuna.
DAM.
Tu mi deridi e sprezzi. Di me ti sei servito
Ponendo sulle scene l'Eunuco sbalordito.
TER.
T'inganni, e tale inganno comune è a più soggetti,
Che credon dal poeta segnati i lor difetti.
S'incontran facilmente dal comico imitate
Persone che l'autore non ha nemmen sognate,
Facile essendo a caso toccar d'un tale il fondo,
Da chi prende i difetti a criticar del mondo.
DAM.
Questa ragion m'appaga; amico esser ti voglio;
Vedi se di cucina puoi tormi dall'imbroglio.
Chiedimi al signor nostro. Spezza la mia catena,
E dammi, se puoi farlo, impiego sulla scena.
TER.
Mie favole son greche. Sai di Grecia i costumi?
DAM.
Basta che tu m'impieghi ad accendere i lumi.
TER.
A così vile uffizio non serbo un uom ch'io stimo;
A recitar principia. Puoi divenire il primo.
Valerti delle usate maschere t'apparecchia;
In grazia della voce puoi far da donna vecchia.
DAM.
Vuol dir che far io posso da strega o da mezzana;
Ma questa, per dir vero, sembrami cosa strana,
Ch'entri in ogni commedia la donna da partito,
Il figlio disonesto, il padre sbalordito,
Che abbiano dei mezzani a trionfar le trame,
Che Roma nel teatro soffra una scuola infame.
TER.
Giustamente in te parla della ragione il lume;
Degn'è di correzione sì pessimo costume.
Principio a moderarlo died'io con mano ardita;
Spero cambiarlo affatto, se 'l ciel mi darà vita:
E se poter cotanto i numi a me non danno,
Faran l'opra compita gli autor ch'indi verranno.
Ma del padron ti scordi.
DAM.
Lo cerca un vecchio Greco.
TER.
Sai che voglia?
DAM.
Nol so, poco parlato ha meco.
Del senator Lucano cercava infra la gente;
Sue voci mal intese sentii per accidente.
Per picciole monete m'offersi accompagnarlo;
Guidailo a queste soglie, sperando di trovarlo.
Tu che lo sai, m'insegna 've trovasi il padrone.
TER.
Cercalo dal pretore, da Lelio o da Scipione;
Ma fa che in questa sala passi frattanto il Greco.
Io che la Grecia scorsi, godrò di parlar seco.
DAM.
Vedrai barba ateniese ridicola ed amena;
Godilo, e fa che Roma goda il ritratto in scena.
Poiché (di' quel che vuoi) dai comici perfetti
Si fan di questo e quello ritratti maledetti. (parte.)
SCENA TERZA
TERENZIO, poi CRITONE.
TER.
Guardimi il ciel ch'i' abusi di comica licenza:
So lo scenico frizzo purgar dall'insolenza.
E quando i rei costumi deonsi trattar severi,
Usar deve il poeta rispetto agli stranieri.
CRIT.
Roma, superba Roma, che altera il capo estolli,
Sdegnando gli stranieri mirar dai sette colli,
Lunga stagione invano speri prosperi auspici,
Se barbara a tal segno tu sei cogl'infelici.
TER.
Vecchio, di che ti lagni?
CRIT.
Chi sei tu che mel chiedi?
Sei di Roma, o straniero?
TER.
Servo i' son, qual tu vedi.
CRIT.
Della vista il difetto soffre l'età canuta;
La tunica servile non ti aveva veduta.
Donde sei?
TER.
Africano. Terenzio è il nome mio.
CRIT.
Terenzio?... Anche in Atene nome cotal s'udio.
Dicesi ch'egli merta i lauri alle sue chiome,
Rivivere facendo qui di Menandro il nome.
Se' tu il comico vate?
TER.
Quello son io.
CRIT.
Deh insegna
A Roma dalle scene, che tirannia mal regna.
Cantino i car...
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