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«Che cosa c'è di nuovo?», gli domandò il giovinetto.
«C'è di nuovo», rispose Pipì, «che questo sole sfacciato mi dà una gran noia e mi fa abbarbagliare gli occhi. Non potrebbe, di grazia, prestarmi un ombrellino di tela da pararmi il sole?»
«Volentieri.»
Alfredo chiamò il cameriere: e il cameriere portò subito un grazioso parasole, dipinto con grandi fogliami di bellissimi colori azzurri e verdi.
Pipì prese l'ombrellino, l'aprì, e cominciò a girare intorno alla stanza, dando continuamente delle lunghissime occhiate al canestro delle nespole giapponesi.
«Amico mio», disse allora Alfredo, «se indugi un altro poco, farai notte senza avvedertene, e ti toccherà a viaggiare al buio.»
«Io di giorno non so camminare», rispose Pipì. «O non sarebbe meglio che partissi questa sera dopo cena?»
«Padronissimo di fare come credi meglio.»
E nel dir così, Alfredo lasciò balenare in pelle in pelle un risolino canzonatorio, che pareva volesse dire:" Caro il mi' ghiottone! Ho bell'e capito qual è il tuo debole: lascia fare a me, che ti domerò io!".
Quando fu l'ora della cena, Pipì, senza nemmeno aspettare di essere invitato, andò a sedersi alla tavola dov'era seduto Alfredo: ma questi pigliando un tono di voce serio e padronale, gli disse:
«Che cosa fate costì?»
«Vengo a cena anch'io.»
«Le persone che vengono alla mia tavola, le voglio veder vestite decentemente. Andate subito a mettervi la giubba.»
«Io... con la giubba... non so mangiare. La giubba non me la metto.»
«Allora ritiratevi là , in fondo alla sala, e contentatevi di assistere alla mia cena.»
Quando Pipì si accorse che Alfredo diceva sul serio, si dette a piangere e a strillare: e piangendo e strillando scappò dalla stanza: ma dopo poco tornò.
Quando rientrò nella stanza, aveva la sua giubbettina infilata e tutta abbottonata, come un piccolo milorde.
«Così va bene», disse Alfredo. «Mettetevi ora a sedere, e buon appetito!»
Il canestro delle nespole fu portato in tavola.
Inutile starvi a dire che, dopo un quarto d'ora, il canestro era vuoto, e lo scimmiottino era pieno, da non poterne più.
«Ora poi me ne vado davvero», disse alzandosi da tavola con grandissima fretta.
Ma nel mentre che stava armeggiando per levarsi di dosso la giubbettina, il cameriere si presentò in sala con un magnifico vassoio di melagrane.
«Che odorino!», gridò Pipì, annusando e lasciando gli occhi sul vassoio delle frutta. «O quelle melagrane per chi sono?»
«Erano per la tua colazione di domani. Ma ormai tu parti, e le mangerò io.»
«Io... partirei volentieri, ma di notte non so camminare. O non sarebbe meglio che partissi domattina, dopo fatto colazione?»
«La tua camerina è già preparata. Buona notte.»
La mattina dopo, all'ora di colazione, lo scimmiottino si presentò puntualmente vestito con la giubba di panno nero: ma il signor Alfredo, dopo averlo squadrato da capo ai piedi, gli disse con accento vivace e risentito:
«Chi vi ha insegnato a presentarvi alla tavola di un gentiluomo, senza scarpe ai piedi e senza fazzoletto al collo? Andate subito a mettervi le scarpe e la cravatta.»
Pipì, confuso e mortificato, cominciò a grattarsi la testa e il naso, e piagnucolando disse:
«Ih... ih... ih... le scarpe mi fanno male... e il fazzoletto mi serra la gola. Piuttosto voglio andar via subito... voglio tornarmene a casa mia.»
«Levatevi dunque dalla mia presenza.»
Pipì si avviò mogio mogio verso la porta della sala: ma prima di uscire, si voltò per dare un'ultima occhiata al vassoio delle melagrane. Poi se ne andò.
«Questa volta è partito davvero», disse Alfredo tutto afflitto. «E me ne dispiace. Gli volevo bene a quello scimmiottino. Che cosa dirà la mia buona fata, quando saprà che l'ho scacciato? Eppure, era lei che me l'aveva fatto capitare fin qui, proprio in casa, consigliandomi a prenderlo per mio segretario e per mio compagno di viaggio!... Ma oramai quel che è fatto, è fatto, e ci vuol pazienza.»
Mentre Alfredo parlava in questo modo fra sé e sé, gli parve che fosse bussato alla porta della sala e nel tempo stesso si udì una vocina di fuori che disse:
«Signor Alfredo, che mi ha chiamato?»
«Chi è?», gridò il giovinetto rizzandosi in piedi.
«Sono io.»
La porta si aprì e comparve lo scimmiottino.
Aveva in piedi le sue scarpettine scollate e portava la testa ritta e impalata, perché il fazzoletto da collo, moltissimo inamidato, gli segava terribilmente la gola.
A quella vista inaspettata, è impossibile immaginarsi l'allegrezza di Alfredo. Andò incontro a Pipì, lo abbracciò, lo baciò, gli fece un mondo di carezze, come si farebbero a un carissimo amico, dopo vent'anni di lontananza.
Giurarono di non lasciarsi mai più e di fare insieme questo gran viaggio intorno alla terra.
Il bastimento sul quale dovevano imbarcarsi, era aspettato di giorno in giorno.
Finalmente il bastimento arrivò.
La sera della partenza, Alfredo e Pipì pranzarono insieme, come erano soliti di fare. E durante il pranzo parlarono di mille cose, dissero un visibilio di barzellette, e risero e stettero allegrissimi come due ragazzi alla vigilia delle vacanze autunnali.
Alzatisi da tavola, Alfredo disse guardando l'orologio:
«Il bastimento parte a mezzanotte. Dunque abbiamo appena un'ora di tempo per dare un'occhiata ai bauli e per vestirci tutti e due in abito da viaggio».
In cinque minuti io son pronto, disse Pipì, e ballando e saltando entrò nella sua camerina.
E quando fu lì, cominciò subito a levarsi la giubbettina di panno nero per infilare una piccola giacca di tela bianca; invece delle scarpine calzò un paio di stivaletti a doppio suolo, e invece del solito cappello si ficcò in testa un elegante berrettino di seta celeste.
Poi andò a guardarsi allo specchio: ma nel mentre che se ne stava tutto contento, pavoneggiandosi e facendo con la bocca e con gli occhi mille versacci grotteschi, sentì un piccolo rumore, come se qualcuno di fuori si arrampicasse per salire fino alla sua finestra di camera.
Da principio ebbe una gran paura: ma, fattosi coraggio, aprì la finestra e vide... vide due zampe che lo abbracciarono stretto intorno al collo e intese una voce soffocata dalla consolazione e dalla gioia, che mugolava teneramente.
«Oh mio povero Pipì!... Finalmente ti ho ritrovato.»
6. Pipì mancando alla sua promessa, corre a far baldoria
Pipì riconobbe subito la voce di suo padre e tutto commosso gridò:
«Che cosa fate qui, babbo mio, a quest'ora?»
«È un mese che ti cerco da per tutto.»
«E la mia mamma, dov'è?»
«È laggiù!»
«Dove?»
«In fondo a questo campo.»
«E i miei fratellini?»
«Sono laggiù anche loro.»
«E che cosa fanno in fondo al campo?»
«Ti aspettano a braccia aperte.»
«Oh come li rivedrei volentieri!»
«Vieni dunque a vederli!»
«Se ci verrei!... Figuratevelo voi! Ma in questo momento non posso... proprio non posso...»
E dicendo così lo scimmiottino cominciò a piangere dirottamente e a graffiarsi per disperazione gli orecchi.
«E perché non puoi?», gli domandò singhiozzando il vecchio genitore.
«Perché ho promesso a un amico...»
«E che promessa gli hai fatto?»
«Gli ho promesso di partire questa sera con lui, e di accompagnarlo in un gran viaggio che egli deve fare intorno al mondo.»
«E tu, per tener compagnia a un amico, avrai il coraggio di abbandonare la tua povera famiglia? Senza di te, noi moriremo tutti di dolore!»
«Oh! non dite così: se no mi metterete al punto di mancare alla promessa...»
«E a che ora dovresti partire?»
«Fra pochi minuti.»
«Vieni almeno a dire addio a' tuoi fratelli, che ti aspettano in fondo al campo.»
«E se il signor Alfredo in questo frattempo mi chiamasse?»
«Chi è il signor Alfredo?»
«È l'amico.»
«Se ti chiama... e tu lascialo chiamare.»
«E se il bastimento partisse?...»
«E tu lascialo partire.»
Lo scimmiottino, tutto contento di aver trovato una buona scusa per non mantenere la sua promessa, rispose scotendo il capo:
«Sarà quel che sarà ... A buon conto prima di partire per questo gran viaggio, voglio rivedere la mia mamma e i miei fratellini.»
Detto fatto, montò sulla finestra, e spiccando un gran salto, si buttò di sotto. Allora si sentì un tonfo, come quello di un grosso pietrone cascato in un fosso pieno d'acqua e di mota.
«Babbo mio, aiutatemi, se no son morto!» grido Pipì con urlo disperato.
Che cos'era avvenuto?
Era avvenuto che la terra di quel campo, a cagione delle grandi piogge dei giorni precedenti, era così rammollita e fangosa, che lo scimmiottino, cadendovi sopra, vi era rimasto affondato fino alla gola.
Per buona fortuna suo padre fece in tempo a salvarlo: ma quando Pipì uscì fuori dal pantano, non aveva più in piedi gli stivaletti. Gli stivaletti erano rimasti seppelliti un metro sotto terra.
«Pazienza!», disse ridendo. «Me ne ricomprerò un altro paio, prima di montare sul bastimento.»
E senza stare a perder tempo, babbo e figliolo presero una viottola lungo il campo, e cominciarono a correre. Ma non avevano ancora fatto venti passi, che Pipì sentì volarsi al disopra della testa un uccello notturno, il quale con una beccata gli portò via il berrettino da viaggio.
«Uccellaccio del mal'augurio, rendimi subito il mio berretto», urlò lo scimmiottino.
«Cucù!», fece l'uccello, e continuò il suo volo.
«Pazienza! Mi ricomprerò un altro berrettino prima di montare sul bastimento.»
E babbo e figliolo ripresero a correre: ma sul più bello, un grosso pruno uscito dalla siepe, afferrò co' suoi spunzoni i calzoncini e il giubbettino di Pipì, e li ridusse in minutissimi stracci.
«Ora eccomi qui senza calzoni e senza giubbettino!...»
«Pazienza!», gli disse il suo babbo. «Te li ricomprerai prima di montare sul bastimento.»
«Oh povero me! povero me!», gridò lo scimmiottino simulando un gran dispiacere. «Di tutto il mio bel vestiario da viaggio, non mi è rimasto altro che la camicia e il fazzoletto da collo.»
E nel dir così, fece l'atto di cercarsi la camicia, ma invece della camicia si trovò addosso un camiciotto di foglie d'ortica. Tastò con le mani per accertarsi se almeno il fazzoletto da collo c'era sempre, ma invece del fazzoletto sentì sgusciarsi fra le dita una serpe grossa come un'anguilla di mare.
7. Pipì comincia a pentirsi di aver mancato alla sua promessa
Il povero Pipì, nel toccar quella serpe, che si trovò avvoltolata al collo invece della cravatta, fu preso da uno spavento indicibile.
Avrebbe voluto urlare, ma la lingua gli era rimasta appiccicata al palato: avrebbe voluto correre e fuggir via, ma le gambe gli facevano giacomo-giacomo, ossia gli ciondolavano avanti e indietro, tale e quale come se fossero le gambe d'un morto, che si fosse provato a camminare.
Alla fine, non potendosi più reggere in piedi, si lasciò cascare per terra come un cencio, dicendo con un fil di voce:
«Muoio!...».
«Che cosa ti senti?», gli domandò suo padre, tutto sgomento.»
«Un gran male!...»
«E dove lo senti?»
«In tutta la persona.»
«E che male sarebbe?...»
«Il male della paura!...»
«Un gran brutto male, bambino mio: l'unico male per il quale i medici non abbiano saputo trovare ancora una medicina. Prova a farti un po' di coraggio...»
«Ho provato.»
«E ora come ti par di stare?»
«Peggio di prima.»
«Ma qual è la cagione di tutto questo spavento?»
«Una gran disgrazia, babbo mio, sta per cascarmi addosso!»
«E come fai a saperlo?»
«Ho avuto, in pochi minuti, troppi indizi... troppi segnali. Vi ricordate i miei stivaletti nuovi rimasti affogati nella mota? E il giubbettino e i calzoni fatti in pezzi da quel dispettosaccio di pruno? E la camicia di tela fina diventata, tutt'a un tratto, di foglie di ortica? E quella brutta serpe, che or ora mi è scappata di mano? Eccola sempre lì, eccola sempre lì!... Guardatela!...»
«Chi?»
«La serpe...»
Il babbo di Pipì si voltò a guardare verso il punto indicato, e vide difatti in mezzo alla profonda oscurità della notte, una grossa serpe, che risplendeva tutta di vivissima luce rossa, come se fosse stata una serpe di cristallo, con in corpo un lampione acceso da tranvai.
La serpe, stando a collo ritto, teneva i suoi occhi fissi in quelli dello scimmiottino.
«Che cosa vuoi da me?», gli domandò Pipì, facendosi un coraggio da leone.
«Vengo a ...
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