STORIE ALLEGRE, di Carlo Collodi - pagina 17
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Vi lascio immaginare se quelle birbe se lo fecero dire due volte! Ridendo e schiamazzando, si schierarono in fila a uso processione: e passando a due per due dinanzi a me, mi strofinarono tutti il loro fazzoletto sul viso! E pensare che fra quei fazzoletti da naso, ve n'erano parecchi che non avevano mai visto in faccia né la lavandaia né la stiratora.
Meno male che, a quell'età, tutti i nasi son fratelli fra loro!
La lezione fu acerba, ma salutare.
Da quel giorno in poi mi persuasi che a fare i molesti e gl'impertinenti, si finisce nelle scuole per perdere la benevolenza del maestro e la simpatia dei nostri compagni.
Diventai un buon figliuolo anch'io: rispettavo gli altri, e gli altri rispettavano me: e dopo un mese di lodevoli portamenti, fui nominato daccapo Imperatore dei Romani.
I romani, però della mia scuola, invece di darmi il titolo di Maestà, continuarono sempre a chiamarmi col modestissimo nome di Collodi.
Una mascherata di Carnevale
ossia i sotterfugi
I.
Ogni volta che Cesarino andava o tornava dalla scuola, aveva preso il vizio di fermarsi a tutte le cantonate per leggere i cartelli dei teatri.
Questa era la sua grande passione.
E se per caso i cartelli annunziavano qualche commedia tutta da ridere, allora Cesarino cominciava subito a spappolarsi dalle risa, tale e quale come se si fosse trovato in teatro.
Un giorno (sul finire di Carnevale) gli venne fatto di leggere un gran cartellone che diceva così:
R.
TEATRO PAGLIANO
Domenica sera gran Festa di Ballo
con ingresso alle Maschere.
La mascherata che sarà giudicata
più bella e più sfarzosa
Riceverà un premio di Cento lire.
Appena letto quel cartello, il nostro Cesare non ebbe più bene di sé.
Nel tornare a casa, andava fantasticando:
«Se quelle cento lire le potessi vincere io!...
Che bel signore che diventerei!...
Metterei su carrozza e cavalli!...
comprerei una bella villa con tanti poderi...
e poi, tutti i quattrini che mi rimanessero in tasca, li darei alla mamma per le spese di casa...
Eppure!...
se avessi coraggio, tenterei davvero la fortuna! Chi mi dice che la mascherata inventata da me non riuscisse la più bella di tutte?...
Per inventare una mascherata non ci vuol poi un gran talento!...
Non è come il latino o la grammatica, ché quelle sono due cose uggiose, e per impararle bisogna essere sgobboni...
Qui basta avere un po' di genio! A buon conto, non bisogna dir nulla a nessuno; specialmente a' miei fratelli.
Guai se Orazio e Pierino sapessero qualche cosa!».
Nel dir così, si trovò quasi senza avvedersene alla porta di casa, e sonò il campanello.
Orazio, per l'appunto il suo fratello Orazio, fu quello che aprì.
«Giusto te!», disse Cesare con aria di gran mistero appena entrato in casa.
«Che t'hanno fatto?»
«Nulla...
Ho detto così per ischerzo.»
«Eppure, a vederti in viso, si direbbe...»
«Nulla, ti ripeto, nulla.
Se fossi matto a confidarmi con te!...»
«Hai forse qualche segreto?»
«Vedi! Se te lo dicessi, saresti capacissimo di andarlo subito a raccontare alla mamma.
La mascherata la farò...
oramai ho detto di farla...
e la farò: ma te e Tonino non dovete saperne il gran nulla.»
«Quale mascherata?»
«Quella per andare domenica al teatro Pagliano, a vincere il premio...»
«E il premio sarebbe?»
«Cento lire alla più bella maschera della serata.
Non lo dire a nessuno...
ma la più bella maschera sarò io...
capisci?...»
«Allora voglio mascherarmi anch'io...»
«Ma zitto, per carità: e non dir nulla a nessuno: specialmente a Pierino, che anderebbe subito a rifischiarlo alla mamma.»
«Ti pare che voglia dirlo a Pierino? Piuttosto mi taglierei la lingua...
Eccolo!...
è lui!»
In quel mentre entrò nella stanza, ballando e saltando, un ragazzetto di circa nove anni.
Era Pierino, il minore de' tre fratelli: il quale, senza perder tempo, gridò strillando come una calandra:
«Ditemi, ragazzi, si fa a mosca-cieca?».
«Abbiamo altro per la testa», rispose Cesare.
«Giusto a mosca-cieca!», soggiunse Orazio.
Pierino guardò maravigliato i suoi fratelli: e poi domandò:
«Che vi è accaduto qualche disgrazia?.»
«Finiscila, gua', giuccherello!», disse Orazio.
«O dunque?...»
«Tu sei un gran curioso! E a farlo apposta non devi saper nulla!...»
«Nulla! il gran nulla!...»
«E poi, siamo giusti, le mascherate non sono cose per te.»
«Non sono cose da ragazzucci della tua età.»
«Che vuoi che il premio lo diano a te?»
«Sarebbe dato benino, e non canzono!»
«Ma di che premio parlate?»
«Delle cento lire, che daranno domenica sera al teatro Pagliano...»
«A chi le daranno?...», domandò Pierino, spalancando gli occhi.
«A te no di certo.
Ma forse a me...», disse Cesare.
«E a me, soggiunse Orazio.»
«Che andate in maschera, voialtri?»
«Lo dicono.»
«E dove andate?»
«Al teatro Pagliano.»
«E quando?»
«Domenica sera.»
«Oh! bene! oh bene!», gridò Pierino.
«Allora ci vengo anch'io.»
«Ma zitto! E non dir nulla a nessuno: specialmente alla mamma.»
«Per chi mi avete preso? per una spia?»
«A proposito», disse Cesare, «come ci dovremo mascherare?»
«Io non lo so», disse Pierino.
«Neanch'io», soggiunse Orazio.
«Silenzio tutti! M'è venuta in capo una bella idea! Ma proprio bella...»
«Sentiamola.»
«Ditemi, ragazzi; le volete davvero queste cento lire?»
«A me mi pare che tu ci canzoni...»
«Io non canzono nessuno.
Le volete, sì o no, queste cento lire?»
«Io son contento se me ne dai quaranta», disse Pierino, ma le voglio tutte in soldi, perché le mi fanno più figura.»
«Se volete queste cento lire, date retta a quel che vi dico.
Domenica sera ci dobbiamo mascherare tutti e tre, e la nostra mascherata deve somigliare a quella stampa colorita, che portò a casa l'altro giorno lo zio Eugenio...»
«Quale stampa?...», domandò Orazio.
«Quella che rappresenta la famiglia del gobbo Rigoletto.»
«E chi è questo Rigoletto?», chiese Pierino.
«Non lo conosci? Gli è quel gobbo rifatto in musica dal maestro Verdi...
quello che dice:
La donna è mobile
Col fiume a letto...»
«S'è capito, s'è capito», disse Orazio.
«Io, com'è naturale», riprese Cesare, «mi vestirò da Re di Francia, e tu...»
«Mi dispiace di non essere gobbo», disse Orazio, «perché mi vestirei tanto volentieri da Rigoletto!»
«Al gobbo ti ci penso io: lascia fare a me...»
«E io?», domandò Pierino.
«Tu ti vestirai da Gilda, figliola di Rigoletto.»
«Io da figliola? Io per tua regola non faccio da figliola a nessuno: sono nato uomo e voglio mascherarmi da uomo: ne convieni?»
«Benissimo: vuol dire che invece di vestirti da figliola ti vestirai da figliolo di Rigoletto...
Che vuoi che Rigoletto non avesse in famiglia nemmeno un maschio?»
«Così mi piace e ci sto.»
E i tre fratelli, contenti di questa bellissima trovata, cominciarono a ballare in tondo per la stanza, come se avessero già guadagnato le cento lire del premio.
Quand'ecco che Pierino, fermandosi tutt'a un tratto, domandò a' suoi fratelli:
«Scusate, ragazzi, e i quattrini per comprare i vestiti da maschera dove sono?».
Nessuno rispose.
E i quattrini per entrare in teatro, chi ce li da?
La solita risposta.
II.
Quella sera andarono a letto mogi mogi.
Cesare dormiva solo, e in un altro lettino accanto al suo, dormivano Orazio e Pierino.
«Peccato!», disse Cesare con un gran sospiro, prima di addormentarsi.
«Quelle cento lire erano proprio nostre! Nessuno ce le poteva levare...»
«Sfido io!...», brontolò Orazio.
In quanto a Pierino non poté dir nulla, perché russava come un ghiro.
La mattina dopo, sul far del giorno, Cesare svegliò i suoi fratelli gridando:
«Allegri, ragazzi, allegri!...
Ho bell'e trovato il modo di far la mascherata!».
«Davvero?», disse Orazio, allungandosi e sbadigliando.
«Quale mascherata?», domandò Pierino, col capo sempre fra il sonno.
«Ora vi dirò tutto.
Volete sapere chi ci darà il vestiario?...
Indovinatelo! Ce lo darà lo zio Eugenio.»
Lo zio Eugenio (un gran capo-ameno) era fratello della mamma dei ragazzi, e stava con gli altri in famiglia, avendo nella medesima casa anche il suo Studio di pittura.
«E come fai a sapere che il vestiario ce lo darà lui?»
«Ne sono sicuro...
perché glielo porteremo via di nascosto.»
«Lo zio, dunque, ha tutto il vestiario per il Rigoletto?»
«Non è precisamente il vestiario del Rigoletto, ma ci corre poco.
Sono strisce di raso rosso, verde, turchino, di tutti i colori: e con quelle strisce noi ci faremo i calzoni, i vestiti e i berretti...»
«Ma se tu fai da Re di Francia, ti ci vorrà la corona di Re», disse Orazio.
«Come sei ignorante!», replicò Cesare con una scrollatina di capo.
«Ma non sai che i Re di una volta, quando andavano a spasso, non portavano in capo né corona né cappello?»
«O quando pioveva, come facevano?», domandò Pierino.
«Pigliavano l'ombrello, o se no, rimanevano in casa.
Anche noialtri si sarebbe fatto così, ne convieni?»
«Tu discorri bene», soggiunse Pierino, «ma nella Storia Romana non c'è detto che gli Imperatori andassero fuori con l'ombrello...»
«E tu ci credi alla Storia Romana? Povero bambino, lo spendi bene il tu' tempo!...»
Per farla breve, i tre fratelli entrarono nello studio dello zio, mentre lo zio era sempre a letto, e da una vecchia cassapanca gli portarono via un grosso fagotto di calzoni di seta, di sottoveste e di giubbe di raso e altre anticaglie d'ogni modello e colore.
Poi corsero a dare un'occhiata a quella famosa stampa che rappresentava - per dir come dicevano loro - tutta la famiglia di Rigoletto: e presi i necessari appunti, si rinchiusero in camera a lavorare.
Pierino, dopo averci pensato ben bene, si rassegnò a vestirsi da figliuola, invece che da figliuolo, e Cesare, avendo trovata una corona reale di cartone dorato, si rassegnò a portarla in capo.
La mattina dopo...
volete crederlo? tutto il vestiario, a furia di spilli, di aghi e di punti infilati a caso, era già in ordine.
Come facessero, non saprei dirvelo davvero.
Io so una cosa sola, ed è questa: che i ragazzi, anche quelli di poca levatura, dimostrano sempre moltissimo ingegno quando lavorano per i loro balocchi.
E i quattrini per entrare a teatro? Dove trovarli? Da chi farseli imprestare?
Chiederli alla mamma era inutile, perché sarebbe stato lo stesso che scoprire tutto il sotterfugio combinato fra loro.
A buon conto, avevano saputo che il biglietto d'ingresso al teatro costava una lira: dunque, essendo in tre, ci volevano almeno tre lire.
Inventando una scusa di libri da comprare, si provarono a chiederle allo zio Eugenio: e lo zio, famoso per queste burle, rispose subito:
«Volete tre lire sole? Io non faccio imprestiti così meschini! Chiedetemi cento, duecento, mille lire...
e allora c'intenderemo...».
«Gua'», disse Pierino, «se lei ci fida anche cento lire, noi le si pigliano volentieri.»
«Sicuro che ve le fido! E perché non ve le dovrei fidare?»
«Dunque la ce le dia.»
«Portatemi il calamaio e un pezzo di foglio bianco.»
Quand'ebbe l'occorrente, lo zio scrisse sopra il pezzo di foglio:
Pagherete ai miei nipoti Cesare, Orazio e Pierino lire cento, che segnerete a mio debito.
Lo zio
«E ora», domandò Cesare, «da chi si vanno a prendere queste cento lire?»
«Alla Banca de' Monchi.»
«E dov'è questa Banca?»
«Qui svolto.
Appena usciti di casa, tirate giù a diritta, poi trovate una piazza, poi svoltate a sinistra, poi girate in dietro, traversate il ponte e appena fuori della barriera, lì c'è subito la Banca de' Monchi.»
I tre ragazzi stettero attentissimi: ma non capirono nulla.
Fatto sta che Cesare, invece di andare a scuola, girò per tutta la città; e a quanti domandava della Banca de' Monchi, tutti lo guardavano in viso e ridevano.
Tornato a casa, disse a' suoi fratelli:
«Lo zio ce l'ha fatta!».
«Cioè?»
«La Banca de' Monchi è una sua invenzione.»
«E ora come si rimedia?»
«Il rimedio ce l'avrei...»
«Dillo, dillo subito!», gridarono Orazio e Pierino.
«Ci state voialtri a vendere i libri di scuola?»
«Magari!...
e poi come si ricomprano?»
«Con le cento lire del premio!»
«Benissimo! E così li avremo tutti novi.»
«E tutti rilegati...»
A furia di discorrere e di ragionarci su, quei tre monelli finirono per persuadersi che, a vendere i loro libri di scuola, facevano un'operazione d'oro.
Lo stesso giorno, Cesare, con un fagotto sotto il braccio, andò in cerca di un rivenditore di libri usati: e quand'ebbe in tasca le tre lire, gli parve di aver toccato il cielo con un dito.
III.
La sera che dovevano andare al teatro, finsero tutti e tre di avere un gran sonno: e come fecero bene la loro parte in commedia!...
«Io non posso più tenere gli occhi aperti», diceva Cesare.
«Io dormo e cammino», diceva Orazio.
«Un sonno come stasera, non l'ho avuto mai», diceva Pierino.
«Se avete sonno», disse la loro mamma, «è una malattia che si guarisce presto! Andate a letto e non se ne parli più.»
I tre ragazzi non se lo fecero ripetere: presero il loro candeliere e si chiusero in camera.
«È meglio che ci vestiamo subito», disse Cesare.
«E poi?»
«E poi s'entra a letto.»
«E quando viene la mamma a darci il solito bacio di tutte le sere?...
Se ci trova vestiti da Rigoletti?...»
«Che discorsi! Prima di chiamar la mamma, si spenge la candela.»
«E se la mamma entra in camera col suo bravo lume acceso?»
«Hai ragione.
Bisogna ricordarsi di star coperti perbene fino al collo...»
I tre ragazzi, in un batter d'occhio, s'infilarono i loro calzoni e le loro gualdrappe di seta, e si nascosero sotto i lenzuoli, lasciando fuori solamente la testa.
Dopo poco venne la mamma, e dato loro un bacio e la buona notte, accostò la porta di camera.
«Ora», disse Cesare, «bisogna stare in orecchio, per sentire quando la mamma va a letto.
Attenti, dunque, e non ci lasciamo prendere dal sonno.»
«Dal sonno?», disse Orazio.
«Io per tua regola, son bono a stare sveglio fino a domani.»
«O io?», disse Pierino.
«Quando devo andare al teatro, non c'è caso che mi addormenti mai.»
Lascio pensare a voi come rimasero la mattina dopo, quando svegliandosi, si trovarono tutti e tre nel letto, mascherati!
«Meno male», disse Cesare, «che domani sera c'è un'altra festa da ballo.
Anderemo a quella.»
«E il premio delle cento lire?», domandarono Orazio e Pierino.
«C'è anche il premio.»
Lesti lesti saltarono il letto, lesti lesti si spogliarono da Rigoletti e si rivestirono da ragazzi, e lesti lesti nascosero tutto il loro bagaglio in fondo a un piccolo armadio a muro.
Arrivati alla sera dipoi, ripeterono la medesima scena della gran sonnolenza e dell'entrare sotto i lenzuoli bell'e vestiti cogli abiti da maschera.
Appena, però, si accorsero che la mamma, dopo averli baciati, era rientrata nella sua camera, saltarono dal letto e si posero a girandolare in su e in giù, tanto per non lasciarsi tradire dal sonno.
Aspetta, aspetta, aspetta, finalmente dopo un secolo sonarono le dieci.
«Dunque si va, o non si va? Se vogliamo andare, questa sarebbe l'ora», disse Cesare.
«E la chiave di casa l'hai presa?», domandò Orazio.
«Eccola qui.»
«E tu, Pierino, a che cosa pensi?»
«Per me, se si deve andare, andiamo: ma il core mi dice che questi sotterfugi ci porteranno disgrazia.
Se la mamma, nel tempo che siamo al teatro, la si svegliasse?...»
«E perché si dovrebbe svegliare?»
«I casi son tanti! E se una volta svegliata, la venisse in camera nostra e non ci trovasse nessuno?...»
«Come sei uggioso! Benedetti i ragazzi e chi ci s'impiccia!», brontolò Cesare sottovoce.
Senza perdersi in altre chiacchiere, aprirono l'uscio di camera e parve loro di sentire qualcuno che si allontanasse in punta di piedi.
«Che sia lo zio Eugenio?», domandò Pierino, rattenendo il fiato.
«Quante paure! Lo Zio, per tua regola, è andato a letto prima di noi.»
E, per esserne più sicuri, nel passare davanti alla camera dello zio, stettero un po' in ascolto, e lo sentirono russare come un contrabasso.
Giunti nella strada, richiusero la porta adagio adagio e senza far colpo.
La serata era freddissima, ma bella: uno stellato, che faceva innamorare a guardarlo!
I tre fratelli, tenendosi per la mano come tre buoni ragazzi che andassero a scuola, camminavano sul marciapiede: quand'ecco che sentirono dietro a loro una vocina di galletto che faceva: Chiù-chiù-chiù!
Si voltarono e videro una figura magra e tutta nera, con un paio di corna in testa, che saltava e faceva mille sgambetti.
«Che sia il diavolo?», domandò Pierino, cominciando a tremare.
«Ma che ti vai diavolando?», dissero i suoi fratelli.
«Non vedi che è una maschera? Fermiamoci e lasciamola passare avanti.»
E si fermarono: ma il diavolo si fermò anche lui.
Allora i tre ragazzi, per non compromettersi, traversarono la strada e andarono dall'altra parte.
E il diavolo, anche lui, andò dall'altra parte.
«Che cosa vuole da noi?» gli domandò Cesare ingrossando la voce e facendo finta di non aver paura.
«Chiù-chiù!» rispose il diavolo facendo uno sgambetto.
«Noi andiamo per la nostra strada, e non si dà noia a nessuno.»
«Chiù-chiù.»
«Si levi di torno, sor impertinente, se no lo dico alle guardie.»
«E io lo dico alla mamma», urlò Pierino piangendo dalla paura.
«Chiù-chiù! Chiù-chiù! Chiù-chiù!...»
E il diavolo cominciò a urlare e a saltare in un modo spiritato.
I tre ragazzi impauriti si dettero a correre: e corri, corri, corri, arrivarono finalmente alla porta del teatro.
Entrati in platea, fra mezzo alla folla, credevano di essersi liberati da quel diavolaccio che li perseguitava: ma invece, dopo due minuti, sentirono intronarsi gli orecchi da un chiù-chiù che parve una fucilata a bruciapelo.
Che cosa dovevano fare?...
A furia di spinte e di spintoni, e passando magari fra le gambe della gente, arrivarono a mettersi in fila davanti al palco della Commissione, che doveva giudicare le mascherate più belle.
Poveri figliuoli! Non l'avessero mai fatto!...
Appena arrivati lì, furono salutati da un fischio acutissimo e da una vociona che strillò:
«Chiù-chiù!...
Fuori i ragazzi! Via i ragazzi! A letto i ragazzi!»
A questo grido sonoro e ripetuto, tutto il pubblico dei palchi e della platea si voltò: e vedendo quelle tre mascherucce, che pretendevano al premio, cominciò a sbellicarsi dalle risa e a ripetere in coro:
«Fuori i ragazzi!»
«Via i ragazzi!»
«A letto i ragazzi!»
Figuratevi il chiasso, il baccano e lo scompiglio, che nacque da un momento all'altro.
In mezzo a quel pigia-pigia si sentì una voce di donna, che gridò:
«Mi hanno rubato il vezzo!»
Corsero subito le guardie: le quali, in tanto tramestìo, non sapendo su chi mettere le mani addosso, arrestarono le tre mascherucce che scappavano spaventate verso la porta del teatro.
«Ma perché ci arrestano?...
Noi siamo innocenti!...» gridavano piangendo quei poveri ragazzi.
«Fra poco ne riparleremo», risposero le guardie, incamminandosi verso la Questura.
«Lo creda...
noi non siamo ladri», diceva Cesare.
«Di chi siete figlioli?»
«Del nostro babbo e della nostra mamma.»
«Che mestiere fanno i vostri genitori?»
«Il babbo gli è fori di Firenze a far l'ingegnere e la mamma l'è a letto, che dorme...»
«E che cosa siete venuti a fare al teatro?»
«A vincere il premio.»
«Il premio ve lo daremo noi.
Come mai siete scappati di casa?...»
«L'è una storia lunga...»
«I ragazzi, che scappano di casa, non possono esser nulla di bono...»
«Su questo l'ha ragione lei...
non c'è nulla da dire...
Ma la creda che siamo ragazzi perbene...
e incapaci...»
«Lo vedremo fra poco.»
Nel dir così, le guardie spinsero i tre ragazzi dentro la porta di Questura: e un po' con le buone e un po' con le cattive, li fecero entrare nella stanza del Delegato.
Il Delegato per l'appunto dormiva.
Quando lo svegliarono, domandò:
«Che c'è di nuovo?»
«Tre ragazzi arrestati al veglione...»
«Ragazzi?», ripeté il Delegato, sbadigliando.
«Metteteli in prigione.
Domani ne riparleremo.»
Que' poveri figliuoli piansero, pregarono, si raccomandarono...
Ma inutilmente.
La guardia aprì una porticina e tutti e tre furono cacciati in gattabuia.
Trovandosi soli e al buio, si presero l'uno con l'altro per la mano, stringendosi forte forte, per farsi fra loro un po' di coraggio.
E intanto che Cesarino e Orazio si sfogavano a piangere dirottamente, Pierino balbettò singhiozzando:
«Io te lo dissi, Cesarino...
ma tu non mi volesti dar retta....»
«Icché tu mi dicesti?...»
«Quel che diceva la nostra povera nonna...
che i sotterfugi portano sempre disgrazia.»
«Allora vuol dire che tutta la colpa è tua», gridò Cesare, arrabbiandosi.
«Sissignore, tutta la colpa è tua!», ripeté Orazio stizzito.
«Ma perché la colpa è mia?...»
«Perché dovevi raccontare il fissato della mascherata alla mamma, che ci avrebbe sgridato ben bene...
e così ora, invece di trovarci qui in prigione, si sarebbe a casa a dormire ne' nostri lettini.»
«E se dopo mi davi di spia?...»
«Che spia e non spia? Se tu avessi raccontato ogni cosa alla mamma...
ci avresti risparmiato un monte di dispiaceri.
La colpa è tutta tua.»
«Sissignore, tutta tua, tutta tua!», ripeté Orazio.
«Bella forza! Ve la pigliate con me, perché sono il più piccino!...»
E chi sa mai questo dialogo quanto sarebbe durato, se la porticina della prigione non si fosse aperta, e una vociona di fuori non avesse gridato.
«Su, su, ragazzi! Potete andarvene a casa vostra.
Sveltezza nelle gambe e via!»
Come mai questo cambiamento di scena all'improvviso?...
Si fa presto a capirlo: essendo stato scoperto e arrestato il ladro del vezzo, i tre ragazzi, riconosciuti innocenti, venivano lasciati in libertà.
Figuratevi la loro contentezza, quando si trovarono in mezzo alla strada, padronissimi di tornarsene a casa! Non sapendo che cosa dire, piangevano, ridevano e si abbracciavano.
E strada facendo, borbottavano fra loro:
«Ora, appena arrivati a casa, si sale le scale in punta di piedi....
E poi s'entra in camera...
E adagino adagino ci spogliamo...
E nascondiamo questi panni sotto il letto.»
«E domani si fa vista di aver dormito tutta la notte, e ci leviamo...»
«E poi di nascosto si riportano questi cenci nella cassapanca dello zio...»
«E poi si fa colazione come tutte le altre mattine...»
«E poi si va a scuola...»
«E i libri?...»
«Si dice alla mamma che li abbiamo perduti...»
«E così di questa brutta nottata, che c'è toccato a passare...»
«Nessuno ne saprà nulla...»
«Nemmeno la mamma.»
Con questi e con altri discorsi, si trovarono quasi senza avvedersene davanti alla porta di casa.
Ma sugli scalini della porta c'era seduto...
indovinate chi?...
C'era seduto il diavolo, quel diavolo, loro accanito persecutore.
«Chiù-chiù! Dove andate?», domandò l'omo nero.
«Si vorrebbe andare in casa.»
«Di qui non si passa.»
«Scusi, sor diavolo», disse Pierino, «ma queste non sono azioni da persone di garbo.»
«Se volete passare, pagate il dazio.»
«Ma che dazio! La si figuri che in tutti e tre, non abbiamo un centesimo.»
«Chiù-chiù! Mi contenterò di questo spillone d'oro.»
E nel dir così, il diavolo prese un bello spillone che Pierino teneva appuntato sul petto.
«La mi renda lo spillone», gridò il ragazzo.
«Lo spillone non è mio, e lo voglio rendere alla mamma...»
«Lascia correre, Pierino, se no ci rovini tutti!», dissero i suoi fratelli.
Il diavolo si tirò da parte, e i ragazzi entrarono in casa, richiudendo subito la porta.
La mattina dopo, lo zio Eugenio, prima di uscir di camera, chiamò Pierino e gli disse ridendo:
«Questa notte il diavolo è venuto a trovarmi e mi ha lasciato questo spillone d'oro per te.»
«Come?...
quel diavolo?...»
«Io non posso dirti altro, perché non so altro.»
Il povero Pierino rimase di stucco.
Raccontò subito il fatto ai fratelli: e tutti insieme, a furia di ragionarci sopra, finirono per persuadersi che il loro diavolo persecutore doveva essere stato lo zio Eugenio.
FINE
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