STORIE ALLEGRE, di Carlo Collodi - pagina 9
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Bussò, tutto contento, alla porta.
«Chi è?», domandò una voce di dentro.
«Sono un povero cieco, smarrito nel bosco, che cerca un po' di ricovero per passar la nottata.»
«Povero ciechino! Entrate pure!», ripeté quella voce: e la porta si aprì.
Lascio ora pensare a voi come rimase il nostro amico Pipì, quando si accorse di aver ricevuto in casa il suo tremendo persecutore.
12.
Pipì è fatto imperatore
Come mai Pipì si trovava in quella casina solitaria, framezzo ai boschi? Che cos'era stato di lui, dopo la sua famosa fuga dall'Osteria delle Mosche?
Per rispondere a queste domande bisogna ritornare un passo indietro.
Dovete dunque sapere che lo scimmiottino, appena ebbe rinchiuso a tradimento il povero Nanni nella tasca di Golasecca, si diè a fuggire attraverso gli alberi della foresta, senza curarsi dove sarebbe andato a battere il capo.
Il desiderio acutissimo che lo pungeva, era quello di trovare la strada che doveva ricondurlo a casa: ma, invece, correva all'impazzata di qua e di là, dove le gambe e la paura lo portavano.
Ad ogni soffio di vento e ad ogni stormir di foglie, gli pareva sempre di aver dietro ai calcagni il terribile capo-masnada, col gatto in tasca.
Alla fine, sul far del giorno, incontrò una tribù intera di scimmie, che urlavano, strillavano e si picchiavano fra di loro.
Informatosi della cagione di tanto diavoleto, venne a sapere che la tribù era adunata per eleggere il proprio imperatore.
Allora Pipì, entrato in mezzo alla folla, accennò di voler parlare.
Si fece subito un gran silenzio: e Pipì prese a dire così:
«Miei carissimi confratelli! Sento che volete eleggervi un capo, e che a questo capo volete dare il titolo d'imperatore.
Fin qui, nulla di male: perché oramai si sa che tutti i gusti son gusti, come diceva quel filosofo, che provava piacere a farsi pestare i piedi.
Ma finora, fra quanti siamo qui presenti, non ne vedo che uno solo, il quale sia veramente degno di essere nominato imperatore...».
«Chi sarebbe mai questo tale? Pronunzia subito il suo nome», urlarono mille voci.
Pipì abbassò gli occhi, e non rispose nulla.
«Chi sarebbe questo tale?», ripeterono le solite voci, urlando più forte.
«Vogliamo sapere il nome...
il nome...
il nome!...»
«Volete proprio saperlo?», disse allora Pipì.
«Mi dispiace doverlo confessare in pubblico: ma l'unico che sia degno di essere eletto imperatore...
sono io!...»
«Viva Pipì! Viva il nostro imperatore! Viva l'imperatore di tutte le scimmie!», gridò quella immensa folla entusiasmandosi e battendo le mani.
Fu portata subito in mezzo alla piazzetta una vecchia seggiola impagliata che, veduta di dietro somigliava moltissimo a un trono imperiale: e Pipì vi si assise sopra con sussiego e maestà.
Intanto una numerosa fanfara musicale, composta di cento cembali e di cento corni di bove, cominciò a sonare l'inno dell'incoronazione.
Quattro scimmiotti, vestiti da paggi, presentarono al nuovo imperatore un bel vassoio tessuto di giunchi, sul quale vedevasi la corona e lo scettro imperiale.
La corona era fatta di mele lazzarole infilate in un cerchietto di ferro: e lo scettro era una canna di zucchero bell'e candito.
Pipì prese la corona dal vassoio, e dopo averla con molta dignità annusata, se la pose in capo.
Quindi afferrò lo scettro, e non potendo reggere alla tentazione, cominciò a succiarlo e a masticarlo: ma, per buona fortuna, uno scimmiotto, che era lì accanto e che faceva da cerimoniere, gli dette nel gomito per avvertirlo dell'atto sconveniente.
Allora il nuovo imperatore smesse subito di succiare; e per rimediare allo scandalo dato, pensò bene di durare un quarto d'ora a leccarsi le dita.
In quel mentre, si fecero avanti sedici scimmioni, che portavano sulle spalle una magnifica lettiga, adorna di foglie, di fiori e di bellissime frutta.
La scimmia, che faceva la parte di gran cerimoniere, dopo avere strisciato due profondi inchini, disse rispettosamente al nuovo imperatore:
«Maestà, su, da bravo! Ora tocca a voi».
«Tocca a me? E che cosa debbo fare?»
«Per amore o per forza, degnatevi di saltare su quella lettiga.»
«E quando sarò saltato lassù, dove mi condurrete?»
«Al palazzo imperiale, dov'è la vostra residenza e il vostro letto.»
Pipì, a queste parole, fece una certa smorfia, che tradotta in lingua parlata, pareva che volesse significare: "A dir la verità, io dormirei più volentieri sopra un ramo d'albero, come ho fatto finora, che sopra un letto imperiale".
Tant'è vero che rivoltosi al gran cerimoniere gli domandò con tono agro-dolce:
«Scusate, amico: io sono il vostro imperatore, non è vero?».
«Verissimo.»
«E che cosa vuol dire imperatore?»
«Vuol dire che voi siete una scimmia, che comandate a tutte le altre scimmie, e che ogni vostro cenno e desiderio dev'essere immediatamente obbedito.»
«Quand'è così, dichiaro francamente che, invece di andare in lettiga, preferisco di camminare a piedi.»
«Mi dispiace, Maestà: ma voi non potete farlo.»
«Perché non posso farlo?»
«Perché un imperatore, che cammina a piedi, non è più un imperatore.
Camminando a piedi, diventa una scimmia come tutte le altre scimmie.»
«Eppure avete detto che ogni mio desiderio dev'essere contentato.»
«Verissimo.
Ricordatevi però, Maestà, che la più bella prerogativa che abbiano i regnanti, è quella di non poter far nulla a modo loro.»
«Ho capito, e vi ringrazio», disse Pipì.
E, spiccato un salto, andò a sedersi sulla lettiga.
La fanfara, allora, cominciò a sonare alla viv'aria, e l'immenso corteggio si mosse con grand'ordine e con solennissima pompa.
Giunto al palazzo, l'imperatore si assise subito ad una tavola bell'e apparecchiata nella gran sala da pranzo.
Il povero Pipì, sebbene fosse diventato imperatore, aveva un appetito che somigliava moltissimo alla fame, come un fratello potrebbe somigliare a una sorella: ma non riuscì a contentare il brontolio del suo stomaco, perché i vassoi pieni d'ogni ghiottoneria, appena portati in tavola, erano subito vuotati e spolverati dai commensali, che gli facevano corona.
«Il pranzo finì: e lo scimmiottino aveva più fame di prima.»
«Pazienza!», disse fra sé e sé.
«Ora me ne anderò a letto, e dormendo, mi dimenticherò che non ho mangiato.»
Detto fatto, entrò nella camera imperiale: e dopo poco russava come un ghiro.
Quand'ecco che sul più bello, si trovò svegliato da una sinfonia indiavolata di cembali e di corni e da migliaia e migliaia di voci, che gridavano:
«Viva l'imperatore! Fuori l'imperatore!».
«Maestà», disse il gran cerimoniere, entrando in camera, «alzatevi e affacciatevi al balcone.
I vostri sudditi vogliono vedervi.»
«Peccato!», brontolò Pipì, stropicciandosi gli occhi.
«Dormivo così bene!»
E sbadigliando e barcollando si affacciò al balcone.
«Viva il nostro imperatore!», gridò novamente quell'immensa folla di scimmiotti radunati sotto le finestre della reggia.
«Grazie, amici», rispose Pipì, dimenando la testa in atto di salutare.
«Sento che avete una bellissima voce, e me ne rallegro tanto con voi.
E non avendo altro da dirvi, buona notte e ci rivedremo domani.»
A queste parole, la folla si sciolse tranquillamente, e Pipì tornò ad accovacciarsi sul suo letto imperiale.
Ma in quel mentre che stava lì per riprendere il sonno, ecco una nuova sinfonia di corni, di cembali e di urli popolari.
«Che cos'è stato?», domandò alzando il capo.
«Maestà», rispose il gran cerimoniere, entrando in camera «i vostri sudditi desiderano vedervi un'altra volta.
Degnatevi affacciarvi al balcone.»
«Eccomi subito», disse Pipì.
«Pregate intanto i miei amici a concedermi un minuto di tempo, tanto che io possa lavarmi il viso.»
Passò un minuto, ne passarono due, cinque, venti, e l'imperatore non si vedeva apparire.
Andarono allora a cercarlo in camera, e non lo trovarono più.
L'imperatore era sparito.
13.
Pipì riceve una lezione dal coniglio
Che cos'è stato dell'imperatore Pipì? Nessuno l'aveva veduto: nessuno sapeva darne contezza.
Che fosse fuggito via da qualche finestra? Impossibile: perché le finestre, riscontrate a una a una, furono trovate tutte chiuse dalla parte di dentro.
Dunque?...
Fatto sta, che lo cercavano da per tutto.
Lo cercarono nell'armadio di camera, nella dispensa della sala da pranzo, nelle stanze di guardaroba, nei sottoscala, in tutti gli sgabuzzini e perfino nelle cantine del palazzo: ma inutilmente.
Alla fine, fruga di qui, guarda di là, a qualcuno venne in capo l'idea di dare un'occhiata sotto il letto imperiale.
Volete crederlo? Sissignori: l'imperatore era per l'appunto nascosto sotto il letto e se la dormiva saporitamente.
Quale scandalo! Quale orrore!...
«Sire! Che cosa fate costì?», gli domandò il gran cerimoniere, pigliandolo rispettosamente per un orecchio.
«Dormo», rispose Pipì, sbadigliando e allungandosi.
«Svegliatevi, e rizzatevi subito in piedi! Non vi vergognate?»
«A dir la verità, quando ho sonno davvero non mi sono mai vergognato a dormire.»
«Ma perché addormentarsi in quel luogo? Dov'è, o Sire, la vostra dignità imperiale?»
«L'avrò forse dimenticata sotto il letto», rispose ingenuamente Pipì, il quale non sapeva che cosa fosse questa dignità tanto decantata.
Poi, chiamando in disparte il gran cerimoniere, gli bisbigliò in un orecchio:
«Volete, amico, che vi parli francamente? Avevo creduto finora che il far da imperatore fosse il più bel mestiere di questo mondo: ma oggi mi avvedo pur troppo di essermi ingannato.
Oh fortunati gli scimmiottini che si contentano di rimanere semplici e modesti scimmiottini per tutta la vita! Almeno potranno levarsi il gusto di mangiare, quando hanno fame, di dormire quando hanno sonno, e sul più bello del sonno nessuno verrà mai a svegliarli, per costringerli a ringraziare dal balcone una folla di sfaccendati, che non hanno voglia di andare a letto».
Nel tempo che Pipì faceva questa confidenza intima al gran cerimoniere, il cielo s'era fatto nero come la cappa del camino, e l'acqua veniva giù a catinelle.
Allora si sentì sotto le finestre del palazzo imperiale uno strombettio di fanfare e un baccano di voci e strilli scimmiotteschi, che gridavano:
«Vogliamo il sole! Vogliamo il bel tempo!...
Se no, abbasso l'imperatore!...».
«Amici miei», disse Pipì affacciandosi al balcone e parlando alla folla delle scimmie radunate in piazza.
«Amici miei; come volete che io faccia a darvi il sole e il bel tempo, finché dura quest'acquazzone che pare un diluvio?»
«No, no! Vogliamo il sole a ogni costo, e lo vogliamo subito!»
«Confidate in me!», soggiunse Pipì.
«Appena la pioggia cesserà e il tempo si rimetterà al buono, io prometto di darvi il sole e il bel tempo.»
Poche ore dopo, neanche a farlo apposta, la pioggia cessò e venne fuori un bellissimo sole.
Ma quando gli scimmiotti si accorsero che il sole scottava troppo, chiamarono le fanfare e recatisi dinanzi al palazzo dell'imperatore, presero a gridare:
«Vogliamo l'acqua! Vogliamo la pioggia!».
Pipì, annoiato da questa storia, aveva fatto giuro di non affacciarsi: ma poi sentendo che gli urli raddoppiavano sempre più, cacciò fuori il capo e disse:
«Volete proprio la pioggia?».
«Sì, sì! Vogliamo la pioggia, se no, abbasso l'imperatore!»
«Aspettatemi allora costì, e fra un minuto vi manderò la pioggia desiderata.»
A queste parole tenne dietro un gran battìo di mani e il suono della marcia imperiale.
Detto fatto, dopo pochi minuti, Pipì si affacciò novamente al balcone, gridando:
«Eccovi la pioggia: e chi ne vuol di più, se la vada a prendere alla fontana!».
E nel dir così, rovesciò sul capo dei dimostranti una gran catinella d'acqua.
Impossibile immaginarsi il tumulto che ne avvenne.
Il palazzo fu invaso e preso d'assalto.
Si cercò l'imperatore per tutte le stanze: ma non si riuscì a trovarlo.
Che cosa rimaneva da fare? Non trovando l'imperatore, la folla dové contentarsi di bastonare il gran cerimoniere.
È sempre così! Nelle cose di questo mondo ne soffre sempre il giusto per il peccatore!
Intanto Pipì, scappato di nascosto da una porticciola segreta, che restava dietro il palazzo, si era dato a correre per le viottole della boscaglia, come se avesse avute le ali ai piedi.
E dopo aver corso due giornate intere, trovò in mezzo agli alberi una piccola casa senza finestre.
Sulla porta della casa c'era seduto un bel coniglio che aveva il pelame turchino (come i capelli della Fata): il quale, vedendo Pipì, si alzò da sedere e lo salutò garbatamente, portandosi la zampa destra all'altezza del capo, a uso del saluto militare.
«Che cosa fai costì, mio bellissimo coniglio?», gli domandò lo scimmiottino.
«Stavo appunto aspettando Vostra Signoria.»
«Chi è questa Vostra Signoria?»
«È lei.»
«Sono io? Ah intendo, intendo! Compatiscimi, amico; perché i poveri, come me, quando sentono darsi di Vostra Signoria, credono sempre che si parli di qualcun altro.
Non avresti per caso da offrirmi un po' da mangiare e un po' da dormire?»
«Si degni di passar dentro, e troverà l'uno e l'altro.»
Pipì, com'è facile figurarselo, accettò di gran cuore l'invito: e appena messo il piede sulla soglia di casa, vide nella stanza terrena una tavola apparecchiata e una materassina ripiena di penne di uccello, distesa per terra.
Senza far complimenti, si pose subito a tavola, e dopo aver divorato in un attimo un piatto intero di nespole e di fichi verdini, principiò a dire sospirando: «Ho sofferto tanto, amico mio! La mia vita è tutta un'iliade...».
«Che cosa vuol dire iliade?»
«Non so nemmen'io e non m'importa di saperlo.
Io sono come certi ragazzi figlioli degli uomini: ripeto a caso quel che sento dire e non mi curo d'altro.»
«Non mi pare una cosa fatta bene.»
«Pazienza! Cercherò di correggermi! Se tu conoscessi però tutte le mie disgrazie!...»
«Le conosco.»
«Come fai a conoscerle?», domandò lo scimmiottino maravigliato.
«Le ho lette nel Giornalino dei Bambini, che si stampa a Roma.
Scusi, signor Pipì, la mia curiosità: ma lei non aveva promesso al padroncino Alfredo di tenergli compagnia in un gran viaggio intorno al mondo?»
«Mi spiego: gliel'avevo promesso...
e non glielo avevo promesso...»
«Come sarebbe a dire?»
«Mi spiegherò più chiaro.
Devi sapere che io fui tentato a far quella promessa...
lo sai da chi? dalla gola.»
«Cioè?»
«Il signor Alfredo, per sedurmi, mi fece portare in tavola delle frutta così belle e così saporite...
che io, a quella vista...»
«Ho capito, ho capito», disse il coniglio ridendo.
«Lei fece su per giù come fanno certi ragazzi figliuoli degli uomini, i quali, pur di ottenere dai loro babbi e dalle loro mamme qualche ghiottoneria o qualche balocco, promettono di esser buoni, di studiare e di farsi onore alla scuola...
e poi? E poi, appena ottenuta la grazia, dimenticano subito le belle promesse fatte e chi s'è visto, s'è visto: non è vero?»
«Ho paura, mio caro amico, che tu l'abbia indovinata.»
«Vuol sapere, signor Pipì, come diceva il mio nonno? Il mio nonno diceva sempre che "quando si promette una cosa, bisogna mantenerla, e che quelli che mancano alle promesse fatte, non meritano di essere rispettati dagli altri, né assistiti dalla fortuna".
Ha capito? Arrivedella, signor Pipì.»
E il coniglio, dopo queste parole, fuggì via come un baleno.
14.
Pipì ritrova finalmente Alfredo e parte con lui
Intanto lo scimmiottino si persuadeva ogni giorno di più che quella casina fosse fatta apposta per lui: e dicerto vi sarebbe rimasto per tutto il resto della vita, se una sera, come già sapete, mosso a compassione di un ciechino che domandava per carità un po' di ricovero, non avesse aperto la porta al suo terribile persecutore.
«Potrei sapere», disse Golasecca, appoggiandosi con le spalle alla porta che aveva richiusa dietro di sé, «potrei sapere chi è quel pietoso benefattore, che si è degnato di ospitarmi?»
«Quel benefattore sono io», rispose Pipì, alterando un poco la voce, per non essere riconosciuto.
«E voi come vi chiamate?»
«Mi chiamo...
io!»
"Questa voce la riconosco!", masticò il cieco fra i denti: quindi soggiunse:
«Ditemi, mio caro benefattore, avete mai veduto per questi dintorni uno scimmiottino color di rosa?».
«Degli scimmiottini ne ho veduti dimolti: ma non erano color di rosa: erano tutti di un colore verde e giallo, come la frittata cogli spinaci.»
"Questa è la sua voce!...
è lui dicerto!" «Fra questi scimmiottini ne avete per caso conosciuto qualcuno che avesse nome Pipì?»
«No!...
anzi, sì...
Mi pare di averne conosciuto uno.
Ma quel Pipì era una birba matricolata...
un vero malanno.»
«Pur troppo! Figuratevi che io gli avevo fatto un monte di carezze e l'avevo perfino tenuto a cena con me, alla mia tavola...
e sapete come mi ricompensò? Mi ricompensò col saltarmi agli occhi a tradimento e coll'accecarmi, come se fossi un filunguello!»
«Questo poi non lo credo.»
«Non lo credete?»
«No.
Pipì era una birba: ma non aveva il cuore così cattivo da commettere una simile scelleraggine.»
«Eppure è lui che mi ha accecato.»
«No, no, no.»
«Sì, sì, sì.»
«Credetelo, Golasecca, quello che vi ha accecato non sono stato io; sarà stato Nanni, il gatto di Moccolino.»
«Ah! finalmente ti sei scoperto!», urlò il capo-masnada, con un grugnito di feroce allegrezza.
Pipì si pentì subito della sua imprudenza: ma oramai era tardi!
«Sono bell'e morto!», disse girando gli occhi in cerca di una finestra per poter fuggire.
Quella casina disgraziatamente non aveva finestre!
Intanto Golasecca, brancolando in qua e in là con le mani, riuscì a prendere lo scimmiottino: e dopo averlo acciuffato, lo legò con una catenella di ferro e se lo pose a cavalluccio sulle spalle.
Poi uscì di casa, e prese la prima straducola che gli capitò davanti ai piedi.
«Che mi conducete a morire?», domandò il povero Pipì con un filo di voce che si sentiva appena.
«Fra poco te ne avvedrai! A buon conto, tu che hai gli occhi buoni, mi farai da guida lungo la strada.»
«Dove volete andare?»
«Dove le gambe mi portano.»
Camminando giorno e notte, fecero un lunghissimo tragitto senza fermarsi mai: finché una bella mattina si trovarono in una grossa città posta in riva al mare, e nel cui porto brulicavano cento e cento bastimenti a vapore.
Golasecca, sedutosi sopra una panchina lungo la spiaggia, cominciò a frugarsi tutte le tasche del vestito: ma non avendovi trovato nemmeno un soldo per comprarsi un boccon di pane, si volse verso Pipì che era mezzo morto di fame e di stanchezza, e gli domandò con garbo dispettoso:
«Dimmi, brutto scimmiotto, hai saputo mai far nulla nel tuo mondo?».
«Vale a dire?»
«Vale a dire, sai cantare qualche canzonetta? Sai sonare qualche strumento? Sai fare i salti e le capriole? Sai mangiare la stoppa accesa?»
«La stoppa accesa», rispose Pipì, «la lascio mangiare a voi.
Io, però, so ballare benissimo la polca e so rifare con la bocca il suono della tromba e del violino.»
«Mi basta questo», disse Golasecca: e senza mettere tempo in mezzo, con quella sua vociona, che pareva una cannonata, si diè a gridare sul pubblico passeggio:
«Avanti, avanti, signori! Vedranno il celebre Scimmiottino color-di-rosa, il quale ebbe l'onore di ballare al cospetto di tutti i regnanti, nonché, viceversa, delle principali Corti di genuino emisfero.
Il mio scimmiottino balla, canta, suona e fa mille altre scioccherie, come potrebbe farle un uomo e qualunqu'altra bestia ragionevole.
Avanti, avanti, signori! La spesa è piccola e il divertimento è grande».
Dopo questa parlantina calorosa, ebbe principio lo spettacolo dinanzi a un pubblico numerosissimo e, come si suol dire, molto scelto e intelligente.
Il nostro amico Pipì non solo piacque, ma fece furore: tant'è vero che gli spettatori, a furia di urlare e di gridar bravo, erano rimasti fiochi e senza voce.
Dopo finito lo spettacolo e sfollata la gente che si accalcava d'intorno, Golasecca sentì toccarsi in un braccio; e voltandosi burbanzosamente, si trovò dinanzi un bel giovinetto, in abito di viaggiatore, che gli domandò con graziosa maniera:
«È vostro quello scimmiottino?».
«È mio!...
pur troppo è mio!»
«Volete venderlo?»
«Magari! Con tutto il cuore!»
«Quanto ne volete?»
«Mille lire; se vi pare un prezzo capriccioso, sono qui per accomodarmi.»
«Eccovi mille lire: e lo scimmiottino è mio.»
Quando il giovinetto ebbe pagato, si volse allo scimmiottino, dicendogli:
«Non mi riconosci più?».
«Altro se vi riconosco, mio caro signor Alfredo!...
Vi riconosco e vi voglio sempre un gran bene.»
E il povero Pipì, dalla gran contentezza che sentiva nel cuore, cominciò a piangere come un bambino.
Quella sera medesima, il giovinetto Alfredo e lo scimmiottino (rivestito tutto da capo ai piedi, s'intende bene, come un bel signore) partirono insieme, sopra un bastimento della Società Rubattino per un lungo viaggio d'istruzione.
E quanto a me, confesso il vero, non mi farebbe nessuna meraviglia se, un giorno o l'altro, vedessi annunziato nel "Giornalino dei Bambini", un racconto con questo titolo: Il Viaggio intorno al mondo, raccontato dallo Scimmiottino color di rosa.
Negli annali della stampa, non sarebbe questo il primo caso di qualche scimmiotto che ha la sfacciataggine di far gemere i torchi, e, occorrendo, anche i torcolieri.
La festa di Natale
La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera.
Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.
Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l'Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne' sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata.
La contessa passava molti mesi all'anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de' suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata.
Finita l'ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno!
Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero.
Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati.
E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo:
«Vedo bene che questa sera non hai fame.
Pazienza: i lupini li mangerò io.
Addio a domani, e dormi bene».
E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d'ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.
Alberto, il fratello minore, aveva un'altra passione.
La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare.
Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua.
E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi:
«Buon giorno, Pulcinella», gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto.
«Buon giorno, Pulcinella.»
E Pulcinella non rispondeva.
«Buon giorno, Pulcinella», ripeteva Alberto.
E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui.
«Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.»
E Pulcinella, duro!
«Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso» diceva Alberto un po' stizzito.
E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava.
«Ma perché», gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, «ma perché se ti dico "guardami" allora mi guardi; e se ti dico "buon giorno" non mi rispondi?»
E Pulcinella, zitto!
«Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!»
E Pulcinella alzava una gamba.
«Dammi la mano!»
E Pulcinella gli dava la mano.
«Ora fammi una bella carezzina!»
E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso.
«Ora spalanca tutta la bocca!»
E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno.
«Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno.»
Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno.
Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui.
Indispettito!...
e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba.
«Povero Pulcinella!», disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, «se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti.
Io ti mando vestito peggio di un accattone...
ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale.
Allora potrò rompere il mio salvadanaio...
e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d'oro e mezza d'argento.»
Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l'uso di regalare a' suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s'intende bene, de' loro buoni portamenti.
Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell'Ada.
Otto giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio.
Luigino, com'è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato.
L'Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l'ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo.
In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo.
Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni.
Intanto il Natale s'avvicinava, quand'ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori.
Seduto sulla porta c'era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia.
«Zio Bernardo, ho fame», disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l'interno della stanza terrena.
Nessuno rispose.
In quella stanza terrena c'era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani.
«Zio Bernardo, ho fame!...», ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena.
«Insomma vuoi finirla?», gridò l'uomo dalla barbaccia rossa.
«Lo sai che in casa non c'è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!»
E nel dir così, quell'uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò.
Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo.
Allora Luigino, Alberto e l'Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo.
Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce:
«Grazie...
ora non ho più fame...».
Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito.
Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più.
Alberto, per altro, non se l'era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola:
«Oh come dev'essere cattivo il freddo! Brrr...».
E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh come dev'esser cattivo il freddo!» si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina.
Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l'ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa.
«Sor Albertino, buon giorno signoria», disse la Rosa: «quanto tempo è che non è passato dalla casa dell'Orco?»
«Chi è l'Orco?»
«Noi si chiama con questo soprannome quell'uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.»
«O il suo bambino che fa?»
«Povera creatura, che vuol che faccia?...
È rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di quello zio Bernardo...»
«Che dev'essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?», soggiunse Alberto.
«Pur troppo! Meno male che domani parte per l'America...
e forse non ritornerà più.»
«E il nipotino lo porta con sé?»
«Nossignore: quel povero figliuolo l'ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio».
«Brava Rosa.»
«A dir la verità, gli volevo fare un po' di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo...
ma ora sono corta a quattrini.
Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.»
Alberto stette un po' soprappensiero, poi disse:
«Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.»
«Non dubiti.»
Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de' tre salvadanai.
Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l'Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo.
«Il tuo salvadanaio», gli disse la mamma, «è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest'anno tu hai avuto poca voglia di studiare.»
«La voglia di studiare l'ho avuta», replicò Alberto, «ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito.»
«Speriamo che quest'altr'anno non ti accada lo stesso» soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: «Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi.
In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell'uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio.
Quello poi, di voialtri, che saprà farne l'uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.»
"Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo.
"Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé l'Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola.
"Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella.
Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava:
«Sor Alberto! sor Alberto!».
Alberto scese subito.
Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell'andarsene, ripeté più volte:
«Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!».
Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini.
Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli:
«Oggi è Natale.
Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai.
Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.
Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo».
Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d'una gualdrappa così sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani.
«Non c'è che dire», osservò la mamma, sempre sorridente «quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto...
il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno.
Avanti, Alberto! Ora tocca a te.»
«No, no», gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, «prima di me, tocca all'Ada.»
E l'Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l'ultimo figurino.
«Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!», disse l'Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola.
«Quelle scarpine sono un amore!», replicò la mamma.
«Peccato però che debbano calzare i piedi d'una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!»
«E ora, Alberto, vediamo un po' come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.»
«Ecco...
io volevo...
ossia, avevo pensato di fare...
ossia, credevo...
ma poi ho creduto meglio...
e così oramai l'affare è fatto e non se ne parli più.»
«Ma che cosa hai fatto?»
«Non ho fatto nulla.»
«Sicché avrai sempre in tasca i danari?»
«Ce li dovrei avere...»
«Li hai forse perduti?»
«No.»
«E, allora, come li hai tu spesi?»
«Non me ne ricordo più.»
In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse:
«È permesso?.»
«Avanti.»
Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo.
«È tuo, Rosa, codesto bambino?», domandò la Contessa.
«Ora è lo stesso che sia mio, perché l'ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo.
Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo.
Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi.»
«E chi è quest'angelo di benefattore?», chiese la Contessa.
L'ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta:
«Eccolo là.»
Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare:
«Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!...».
«La scusi: che c'è forse da vergognarsi per aver fatto una bell'opera di carità come la sua?»
«Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!», ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala.
La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto.
Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.
Dopo il teatro
Alfredo, Gino e Ida entrano tutti e tre insieme nella stanza preceduti da Bettina, che va a posare il lume sulla tavola.
ALFREDO (levandosi il cappello e il paletò): Com'hanno recitato bene! ma proprio bene!...
IDA: Quanto ci siamo divertiti, Bettina mia!...
Che bella commedia!...
GINO: E la farsa dove la lasci? Se tu avessi visto, Bettina, il brillante della farsa! Chi sa quanto tu avresti riso! Figurati! gli è venuto fuori in maniche di camicia, e ha detto che dal freddo tremava tutto come un pezzo di gelatina.
Te lo immagini un brillante di gelatina! (Ridendo di genio.)
BETTINA: E la commedia era bella davvero?
IDA: Alfredo, diglielo tu.
ALFREDO: La commedia era bellissima: ma io, dico la verità, avrei sentito più volentieri un dramma.
IDA: Perché un dramma?
ALFREDO: Perché i drammi mi piacciono di più.
GINO: Anch'io mi diverto di più ai drammi: almeno si piange.
Ma, più di tutto, mi piacciono le tragedie.
ALFREDO: Le tragedie? O dove le hai viste tu, le tragedie?
IDA: Povero figliolo, se l'è sognate!
GINO: Hai sentito, Bettina? E' voglion dire che le tragedie me le sono sognate!...
Non è vero che l'anno passato mi conducevi quasi tutte le sere ai burattini nel Parterre?
BETTINA: Verissimo.
CINO: Non è vero che una sera i burattini fecero due tragedie di fila?
BETTINA: Sarà vero, ma io le tragedie non le conosco: a me mi paiono tutte commedie.
ALFREDO: E com'erano intitolate queste due tragedie?
GINO: Ora non me ne rammento: gli è passato tanto tempo! Una mi pare che la fosse intitolata, Filippo Vu Re di Spagna.
ALFREDO (ridendo): Ma che Filippo Vu? Sarà stato Filippo Quinto.
GINO: Sarà stato Filippo Quinto: io però mi ricordo che sul cartellone c'era scritto Filippo, e dopo Filippo c'era un V in stampatello grande come la mia mano.
ALFREDO: Sta bene che ci fosse un V: ma quel V in numeri romani vuol dir quinto.
GINO: Cosa vuoi tu che io sappia dei numeri romani? Non ci sono mica stato a Roma, io.
ALFREDO: E quell'altra tragedia?
GINO: Quell'altra l'aveva un certo titolo curioso...
te ne ricordi te, Bettina?
BETTINA: Che vuol che mi ricordi?
GINO: Mi pare che fosse una specie di Spazzolino Tiranno di Padova.
ALFREDO: Ma che spazzolino, buacciòlo? Vorrai dire Ezzelino tiranno di Padova.
GINO: Insomma, o lui o un altro, io so che a quella tragedia mi sono divertito dimolto.
Ti rammenti, Bettina, che piacere quando tutti cominciarono a dare addosso al tiranno? Giusto te, Alfredo, levami una curiosità: mi dici perché tutti i tiranni hanno la barba nera?
ALFREDO (con serietà): Già: perché se la tingono apposta per far paura.
GINO: Ah!...
ora capisco.
Del resto io so che se domani avessi cento milioni di patrimonio...
IDA: Sentiamo un po': che cosa vorresti fare?
GINO: Prima di tutto vorrei mettere ogni mattina nel Caffè-e-latte più di mezza tazza di zucchero, e poi vorrei andare tutte le sere ai burattini.
IDA: Tutte, tutte le sere?
GINO: Tutte le sere: anche quando piovesse.
IDA: A me poi i burattini mi piacciono, sì, ma fino a un certo segno: io più di tutto mi diverto al teatro, e specialmente a stare in un palco.
ALFREDO: si dice i gusti! Io, invece del palco, anderei più volentieri in una poltrona d'orchestra.
A stare in un palco ci ho rabbia, e sai perché? perché ci guardano tutti.
IDA: Lasciali guardare.
Io so che mi diverto moltissimo a vedermi guardare co' cannocchiali.
ALFREDO: Finiscila, giuccherella! Chi vuoi che perda il suo tempo a guardare co' cannocchiali una moccichina come te?
IDA (risentita): Non cominciare, Alfredo! Tu hai sempre il vizio di offendere!...
ALFREDO (ridendo): Mi dispiace: ho sbagliato a dir moccichina: volevo dire un bel pezzo di donna come te.
IDA (impermalita): C'è poco da canzonare.
Ora sono piccola! ma poi crescerò anch'io.
Il babbo dice che gli anni passano per tutti.
Per noi altri ragazzi, però, questi anni benedetti non passano mai.
La mi pare una bella ingiustizia! Oramai gli è un secolo che ho sempre dieci anni!...
BETTINA: si consoli: fra pochi mesi ne avrà undici.
IDA: Bella consolazione! Prima d'arrivare a quindici anni, figurati se c'è da allungare il collo.
Però, se si guarda alla statura, sono grande quasi quanto Alfredo.
ALFREDO: Cucù! (In canzonatura.)
IDA: Quanto vuoi scommettere che ci corre appena un dito?
ALFREDO: Cucù.
BETTINA: Vediamo un po', Idina: la vada a misurarsi con Alfredo.
ALFREDO (con serietà): Sai, Bettina, potresti anche dire col signor Alfredo: ti ho già avvertito che questo tono di confidenza non mi piace punto.
Capirai che non lo faccio per me: lo faccio per riguardo del mondo.
GINO (in caricatura): Oh! l'illustrissimo signore Alfredo ha mille ragioni.
Da qui in avanti gli darò del signore anch'io.
Anzi, gli voglio dare dell'eccellenza (ridendo).
ALFREDO: Bada, Gino! non far tanto lo spiritoso.
Ti avverto, per tua regola, che le mani mi cominciano a prudere...
GINO (scherzando): Che paura che mi hai fatto!...
Ora non parlo più.
Scusa, Bettina: ma la cena non è ancora preparata? Io ho un appetito che paion due.
BETTINA: La cena è preparata: ma il babbo legge il giornale, e quando avrà finito li farà chiamare.
GINO: Vuoi sapere perché il teatro mi piace tanto? perché dopo il teatro, ci tocca la cena.
BETTINA: O che forse non cena anche le altre sere?
GINO: Sì: ma l'altre sere io e l'Ida ci fanno cenare alle otto, per poi mandarci a letto.
Cenare alle otto mi pare una cena da polli.
ALFREDO: Che cosa vorresti fare tutta la sera levato? Dopo le ventiquattro ti addormenteresti sul canapè.
GINO: Io, anzi, non ho mai sonno.
ALFREDO: Bravo! Meno male che ti sei addormentato anche stasera.
GINO: Dove?
ALFREDO: Nel palco.
GINO: Quando?
ALFREDO: A metà del second'atto: non è vero, Ida?
IDA: M'è parso anche a me.
GINO: Nossignori: sbagliano, non dormivo.
ALFREDO: O allora che cosa facevi?
GINO (un po' confuso): Pareva che dormissi...
ma invece pensavo.
ALFREDO (ridendo): O che per pensare c'è forse bisogno di chiudere gli occhi?
CINO: Secondo i naturali delle persone.
Per esempio, anche il nostro maestro di scuola qualche volta, specialmente nelle ore calde dell'estate, ci dice: «Ragazzi, siate buoni e non fate tanto chiasso, perché ho bisogno di pensare cinque minuti a una cosa»; e quando ha detto così, appoggia la testa alla spalliera della poltrona, chiude gli occhi, apre la bocca e comincia a pensare...
ALFREDO: Ossia, comincierà a dormire.
GINO: Nossignore, non dorme: tant'è vero che, se urliamo troppo forte, si sveglia subito e ci fa una strapazzata di quelle co' fiocchi...
Ma dunque, si va o non si va a cena? Ho una fame che la vedo.
BETTINA: Abbia pazienza altri due minuti.
ALFREDO: Intanto che si aspetta, si fa una bella cosa?
GINO E IDA (insieme): Sentiamo.
ALFREDO: si ripete fra noi tre quella bella scena della commedia, dove il figlio riconosce sua madre?
IDA: Ripetiamola davvero.
GINO: No, no: io voglio prima ripetere alla Bettina il discorso che ha fatto il brillante, quando è venuto sulla scena in maniche di camicia.
Vuoi sentirlo, Bettina? (si leva la giacchettina, la butta sul canapè e rimane in maniche di camicia.)
BETTINA: Perché si è levata la giacchettina?
GINO: Voglio farti vedere il brillante tale e quale.
BETTINA: Io non voglio vedere tanti brillanti.
Io voglio che si rimetta subito la giacchettina.
Ma non lo sa che a questi freddi potrebbe prendere un'infreddatura come nulla?
GINO: Un'infreddatura? non mi parrebbe vero di prenderla.
Almeno il babbo mi comprerebbe le pasticche di lichene.
IDA: Vergognati, ghiottonaccio!
GINO: Mi piacciono tanto le pasticche di lichene!...
E, invece, a farlo apposta, non infreddo mai.
Si vede proprio che sono nato disgraziato! (Rimettendosi la giacchettina.)
ALFREDO: Dunque si fa questa scena, dove il figlio riconosce la madre?
GINO: Scusa, Alfredo: spiegami prima una cosa, che non ho potuto capire.
Nella commedia di stasera, la madre sa fin dal principio che Carlo è suo figlio, non è vero?
ALFREDO: Sicuro che lo sa.
GINO: E se lo sa, mi dici perché aspetta a farsi riconoscere da lui, proprio all'ultima scena dell'ultimo atto?
ALFREDO: Povero figlio! Bisogna proprio dire che non hai nemmeno l'ombra del genio drammatico! O non capisci che se la madre si facesse riconoscere alla prima, la commedia finirebbe subito, e noi a quest'ora saremmo tutti a letto da un bel pezzo? Invece la madre, aspettando a farsi riconoscere proprio all'ultimo atto, costringe il pubblico a rimanere in teatro fino alle undici sonate: e così la gente, quando torna a casa, è tutta contenta, perché sa di avere spesi giustificati i suoi quattrini per il biglietto d'ingresso: mi sono spiegato?
GINO: Ora ho capito tutto.
E io m'ero figurato invece che quella mamma di Carlo facesse un po' di burletta.
ALFREDO: Diavol mai! O che si fanno le burlette anche nelle commedie serie?...
Non ci mancherebb'altro!
IDA: Dunque si recita o non si recita questa scena?
ALFREDO: Lasciatemi distribuire le parti a me.
Io farò da Carlo, ossia da figlio, e tu, Ida, farai la parte della madre.
GINO: E io?
ALFREDO: E tu farai da marito, ossia farai la parte di quello che arriva da ultimo e che tira la revolverata.
GINO: Fossi matto! Io non le faccio quelle brutte cosacce!
ALFREDO: S'intende bene che, invece di tirare colla pistola, tu farai il colpo con la bocca.
GINO: Come sarebbe a dire?
ALFREDO: Tu farai colla bocca: bum!
GINO: E quando lo debbo fare?
ALFREDO: Quando sarà il momento.
GINO: Ho capito.
ALFREDO: Dunque attenti.
Io starò da questa parte: tu, Ida, mettiti là, vicina a quella tavola, per poterti appoggiare, quando dovrà venirti lo svenimento.
GINO: E io?
ALFREDO: E tu nasconditi dietro quella porta: e quando sarà il momento, uscirai fuori tutt'a un tratto e farai: bum!
IDA: Se io faccio la parte di madre, tocca a me a incominciare.
ALFREDO: Comincia pure: io son pronto.
IDA (movendosi e gestendo drammaticamente): «No, Carlo, voi non partirete...
Oh! Dio!...
se voi poteste...
oh! Dio!...
vedere i tormenti...
e lo strazio...
oh! Dio...
di quest'anima!...
Oh! Dio, pietà...
di questa povera infelice...»
IL CAMERIERE (affacciandosi sulla porta): Signorini, il babbo li chiama a cena.
ALFREDO: Eccoci subito.
Su, Ida; riattacca subito la tua parte, ma mettici un po' più di passione...
un po' più di singhiozzo...
molto singhiozzo.
IDA (declamando): «Oh! Carlo! Se poteste leggere...
Oh Dio...
in questo cuore...
Oh!...
Se poteste contare le lacrime...»
GINO (uscendo fuori): Bum!
ALFREDO (a Gino): No, no! Troppo presto, ancora no!
GINO: Spicciatevi, ragazzi, perché io voglio andare a cena.
ALFREDO: Avanti, Ida, avanti!
IDA (declamando): «No, Carlo, ve lo ripeto, voi non partirete...
voi non potete partire di qui...»
ALFREDO (declamando): «Sì, o donna, io partirò...
io lascerò
questi luoghi fatali...
io fuggirò lontano, lontano, lontano...»
GINO (uscendo fuori): Bum! bum! bum!
ALFREDO: Ancora no, t'ho detto!
GINO: Ho fame, la volete capire?
ALFREDO: Altri due minuti, e la scena è finita.
(declamando) «Sì, il mio destino vuole così...
noi non ci rivedremo mai più...
mai più!»
IDA: «Voi, Carlo, non partirete!»
ALFREDO: «Io partirò!»
IDA: «No...»
ALFREDO: «Sì: chi potrà impedirmelo?»
IDA: «Io!»
ALFREDO: «Voi?...
e chi siete voi?»
IDA (con molto singhiozzo): «Sciagurato!...
io...
so...
no...
tua...»
GINO (uscendo fuori e interrompendo): Sai, Bettina: penserai tu a fare bum; io ho troppa fame e scappo a cena (via di corsa).
ALFREDO: Quand'è così, si può calare il sipario e andare a cena anche noi.
Chi non ha coraggio non vada alla guerra
proverbio in undici parti
I.
Leoncino è un ragazzetto entrato appena nei dieci anni.
«Perché questo nome di Leoncino?», domanderete voi.
La storia sarebbe un po' lunghetta, ma io ve la racconterò in quattro parole.
Bisogna dunque sapere che quando questo bambino fu portato al fonte battesimale, la sua mamma avrebbe gradito volentieri che si fosse chiamato Luigi: ma il suo babbo, incaponitosi a farne col tempo un guerriero (il babbo era comandante dei pompieri e bisogna perdonargli certe debolezze guerresche) volle a tutti i costi che fosse battezzato col nome di Napoleone.
Napoleone!...
Come si fa, domando io, a mettere un nomone così grosso sulla testa di un tenero lattante? C'è quasi il pericolo di soffocarlo!
Fatto sta che in famiglia, per vezzeggiativo, cominciarono subito a chiamarlo Napoleoncino: ma poi, avvedutisi che questo vezzeggiativo era troppo lungo, gli tagliarono le due prime sillabe (Na-po), e così, di un Napoleoncino, ne fecero per risparmio di fiato un economico e modesto Leoncino.
Il piccolo guerriero crebbe a occhiate, e a dieci anni era già diventato un bel ragazzo.
Correva, ballava, saltava, faceva la ginnastica, e, cosa singolarissima! qualche volta anche studiava.
Di burattini e di altri balocchi non voleva saperne.
L'unica sua passione erano le sciabole di latta con l'impugnatura dorata e i fucilini a saltaleone, da caricarsi in tempo di pace coi lupini secchi, e in tempo di vera guerra, coi sassolini di ghiaia o coi nòccioli di ciliegia.
Il suo babbo poi, per contentarlo e per coltivargli sempre più lo spirito marziale, gli aveva fatto fare anche l'uniforme di generale d'armata, con le spalline di bambagia gialla come lo zafferano e con un berretto di panno scuro, ornato di un bel nastro di tela incerata e rilucente, che, veduto da lontano, pareva proprio un gallone d'argento.
Venuto il tempo delle vacanze, Leoncino fu condotto a villeggiare in casa di un suo zio, ricco possidente di campagna.
Questo zio aveva una nidiata di cinque figlioli, tutti bambinetti fra i sette e gli undici anni.
Figuratevi la contentezza di Leoncino quando si trovò in mezzo a quegli altri cinque monelli.
Com'è naturale, pensarono subito, tutti d'accordo, di fare i soldati.
Arnolfo, il più piccolo dei cugini, nominato trombettiere di reggimento, andava avanti al corpo d'esercito, sonando la tromba con la bocca.
Raffaello, il più alto di tutti, faceva da cavalleria, per cui era obbligato a camminare sempre di trotto o di galoppo e qualche volta anche a nitrire e tirare i calci, a uso cavallo: Asdrubale e Gigino rappresentavano il grosso della fanteria.
Tonino guidava i carri dell'ambulanza, strascinandosi dietro il carretto dell'ortolano per caricarci su, dopo la battaglia, i morti e i feriti, e Leoncino...
Leoncino poi, come potete immaginarvelo, era il comandante generale e marciava sempre alla testa della grande armata.
II.
Tutte le mattine che Dio mandava in terra, i sei ragazzi, dopo aver preso con sé il pane e il companatico per fare il rancio, si mettevano in marcia armati di tutto punto, avviandosi a combattere qualche gran battaglia nel vicino bosco distante forse un chilometro dalla villa.
Arrivati a mezza strada, facevano alto in mezzo a un prato, e lì, sdraiati sull'erba, mangiavano, o, per dir meglio, divoravano il rancio, mentre uno di loro, s'intende bene, rimaneva a far da sentinella avanzata in fondo al prato, per dare il grido d'allarme nel caso che i nemici fossero sbucati fuori all'improvviso.
Ma l'uso della sentinella avanzata durò poco, e vi dirò il perché.
Una mattina toccò a far da sentinella al trombettiere Arnolfo, un ragazzino che non aveva ancora sett'anni finiti.
Arnolfo, ubbidiente ai regolamenti e alla disciplina militare, si rassegnò a fare una mezz'ora di sentinella: ma appena smontato, corse subito in mezzo ai compagni, per farsi dare la sua parte di rancio.
E lascio pensare a voi come restò, quando si accorse che i suoi compagni avevano mangiato tutto, diluviato tutto, spolverato tutto: fino i minuzzoli di pane, fin le cortecce del cacio, fin le bucce del salame! Il povero figliolo, che aveva una fame che la vedeva proprio cogli occhi, trovandosi così barbaramente burlato, cominciò a piangere e strillare; e il suo strillare fu così acuto e ostinato, che in tutta la storia militare, dalla presa di Gerico fino a noi, non c'è l'esempio d'un altro trombettiere che abbia strillato tanto, quanto lui.
Da quel giorno in poi, in quel corpo d'armata composto di sei ragazzi, non si trovò più un soldato che volesse fare da sentinella avanzata durante l'ora del rancio.
Di fronte a un atto così grave d'insubordinazione, la disciplina militare ci scapitò assai: ma lo stomaco dei soldati ci guadagnò dimolto...
e tutti pari.
E le battaglie combattute da questi piccoli eroi, contro chi erano?
Ve lo dico subito.
Appena finito il rancio, l'esercito col suo comandante alla testa si rimetteva in marcia, inoltrandosi a passo di carica dentro il bosco.
Giunti dinanzi a una grossa quercia, che aveva più di cent'anni, il generale Leoncino schierava le sue truppe in riga di battaglia, e dopo aver caracollato dinanzi a loro, figurando di essere a cavallo, dopo avere colle parole e coi gesti incoraggiati i soldati alla pugna, dava l'ordine di cominciare il fuoco.
Allora tutti i soldati, compreso il trombettiere, armati di grossi bastoni principiavano a bastonare furiosamente il tronco della quercia: e nel bollor della mischia si sentiva sempre la voce del generale, che gridava: «Avanti! Coraggio, marmotte!...
Serrate le file!...
Alla baionetta!».
Quando i soldati, stanchi trafelati, non ne potevano proprio più, allora buttavano via i bastoni e la battaglia era finita.
E la quercia?...
La povera quercia si lasciava tutti i giorni bastonare, senza mai rivoltarsi, senza mai mandar fuori una mezza parola di lamento: solo di tanto in tanto scoteva malinconicamente i suoi rami coperti di foglie, quasi volesse dire:
«Poveri ragazzi! Lasciamoli fare! Hanno così poco giudizio!...».
III.
Un giorno, per altro, avvenne un caso orribile e spaventoso; ed ecco come andò.
Il piccolo esercito, secondo il solito, si avanzava a marcia forzata dentro il bosco, in cerca del solito nemico.
Quando, tutt'a un tratto, il general Leoncino, che camminava fieramente avanti una ventina di passi, si fermò esterrefatto, e cacciando un grido acutissimo di terrore, si dette a scappare verso casa.
La sua fuga fu così precipitosa e disordinata, che per la strada perse gli sproni di latta e il berretto di generale, col gallone che pareva d'argento.
Che cos'era mai accaduto di strano?...
Quando Leoncino arrivò alla villa, era ansante, boccheggiante e tutto paonazzo in viso come un cocomero troppo maturo.
E per l'appunto la prima persona, in cui s'imbatté, fu lo zio.
Conoscete, per caso, lo zio di Leoncino? Lo dovete conoscere di certo, perché chi lo sa quante volte lo avete incontrato per la strada: ma ora forse non ve lo rammentate più.
Figuratevi, dunque, un omone lungo lungo, grosso grosso, con un faccione largo come la luna, e con un nasone tutto pieno di nasini, da parere un grappolo d'uva.
Di nome si chiama Giandomenico: ma tutti nel paese lo conoscono col soprannome di Nasobello.
Vedendolo la prima volta e giudicandolo dalla fisonomia burbera e accigliata, c'è da scambiarlo per un orco, per un tiranno, per un mangia-bambini, e invece...
Invece è una bonissima pasta d'uomo, burlone, allegro, di buon'umore, tutt'amore per i figliuoli e tutto premure e attenzioni per il suo nipotino.
Tant'è vero che appena gli capitò davanti Leoncino scalmanato e impaurito a quel modo, il sangue gli fece un gran rimescolone e gridò subito:
«Che cos'è stato? Perché hai il viso così acceso?...
Dove sono rimasti i tuoi cugini?...».
Il ragazzo stintignava a rispondere: pareva quasi che si vergognasse.
«Dunque?...», insisté lo zio, alzando sempre più la voce.
«Ecco...
dirò...
una bestia così brutta...»
«Quale bestia?...»
«Io...»
«Come? tu sei una bestia?...»
«Io, no: quell'altra...
che ho trovata nel bosco...»
«Non capisco nulla: ma spiegati, per carità!...
Dov'hai lasciato i tuoi cugini?...»
«Fra poco verranno...»
«Eccoci qui! eccoci qui!», gridarono di fuori cinque voci argentine e squillanti, come tanti campanelli.
E nel tempo stesso entrarono in sala i cinque ragazzi, che si buttavano via dalle matte risate.
Il babbo, che non sapeva il motivo di questo gran buon'umore, disse allora con accento risentito:
«Finitela una volta! Si potrebbe sapere almeno di chi ridete?».
«Si ride di lui!...» E, accennando Leoncino, dettero in una risata più forte.
«Del nostro coraggioso generale!» E qui una risata più lunga.
«Povero generale, che paura che ha avuta! Diamogli subito un bicchier d'acqua!» E qui una risatona così sguaiata, che non finiva più.
E Leoncino?...
IV.
Leoncino aveva perduto la voce.
Stava ritto in mezzo alla sala, con la testa bassa, col mento conficcato nello stomaco, e di tanto in tanto dava dell'occhiatacce ai suoi compagni, come dire: "Quando saremo fuori di qui, faremo i conti e me la pagherete!...".
«Dunque, si può sapere che cos'è accaduto?», domandò il babbo.
«Te lo racconterò io», disse Raffaello, quello che faceva da cavalleria.
«No: io!», gridò Gigino, il rappresentante la fanteria.
«Nossignori, tocca a me», strillò Arnolfo, il trombettiere.
«Io sono il più piccino di tutti; dunque ho più diritto degli altri.»
«Lasciate parlare Arnolfo», disse il babbo, «e zitti tutti!»
Il piccolo trombettiere, non sapendo lì per lì trovar subito la parola per dar principio al suo racconto, cominciò a fare con la bocca mille versi e a gesticolare con le mani: alla fine poi, trovata la parola, prese a dire come seguitando un racconto:
«Sicché dunque, quando il nostro generale ci disse: "Avanti!" noi tutti si rispose: "Andiamo!".
«Andiamo? Ma dove volevate andare?», domandò il babbo.
«O che non lo sai? S'andava a far la guerra...»
«La guerra contro chi?»
«La guerra contro Cartagine.»
«E chi è questa Cartagine?»
«È una grossa quercia, che rimane a metà del bosco.»
«E perché la chiamate Cartagine?»
«Bella forza! Perché noi siamo i Romani e andiamo sempre a bastonarla.»
«Ora ho capito tutto!», disse il babbo.
«Prosegui pure il racconto.»
«Sicché dunque, quando si fu per i campi, sarebbe toccato a me a camminare avanti, ma siccome Leoncino è un prepotente per la ragione che ha la sciabola dorata e la striscia bianca al berretto, allora mi saltò addosso col dire: "Il Generale sono io, e tu devi venire dietro a me".
Ma questa l'è una riffa; ne convieni, babbo? Scusa, babbino, te che te ne intendi, quando si fa la guerra, chi è che va avanti, il generale o quello che sona la tromba? Io dico che quello che sona la tromba gli è sempre il primo di tutti...
ne convieni?...
Se no la guerra sarebbe una bella ingiustizia.»
«Via! via! via!», gridò il babbo.
«Non ci perdiamo in tante lungaggini.»
«Mi spiccio in due parole.
Sicché dunque, lui, secondo il solito, volle andare avanti, e noi tutti dietro a passo di corsa.
Quando tutt'a un tratto, che è che non è, il nostro Generale in capo si ferma...
fa due salti indietro, e cacciando un urlo che pareva il fischio del vapore, si mette a scappare.
E come scappava!...
Se tu avessi visto come scappava!...
Ti ricordi, babbo, del gatto del nostro ortolano, quando gli si faceva vedere la frusta? Tale e quale.»
«E la cagione di questo spavento?»
«Figurati! Aveva visto fra l'erba una tartaruga!»
V.
Il signor Giandomenico, udito il racconto, sentiva anch'esso una gran voglia di ridere: ma invece, atteggiandosi a giudice severo e inesorabile, si voltò verso i suoi figliuoli, gridando in tono di comando militare:
«Soldati! In riga di battaglia!».
A questo comando, i ragazzi si posero tutti in fila, rimanendo immobili e col loro fucilino di legno appoggiato sulle spalle.
Allora il signor Giandomenico riprese:
«Visto e considerato che un generale d'armata, il quale si mette a fuggire perché ha paura di una tartaruga, non è degno di comandare uno dei primi eserciti d'Europa (i soldati chinarono il capo in segno di ringraziamento) ordiniamo e vogliamo che il generale Leoncino si dimetta subito dal supremo grado che ha tenuto finora e prenda invece gli scevroni di caporale.
Il prode Raffaello, comandante di tutta la cavalleria, è incaricato di farsi consegnare da Leoncino la sua spada d'onore.»
Raffaello, senza mettere tempo in mezzo, andò subito in fondo alla stanza: e movendosi di là e camminando un po' di trotto e un po' di galoppo, si presentò dinanzi al povero Generale, e fece l'atto di chiedergli la spada.
Leoncino non disse una mezza parola: ma seguitava a tentennare il capo, come fanno i chinesi di gesso.
Alla fine, visto che non c'era scampo, cominciò adagio adagio a sfibbiarsi la spada dalla cintola: e sfibbiata che l'ebbe, figurò di consegnarla in mano a Raffaello, ossia al comandante della cavalleria.
Ma invece di consegnargliela, gliela batté sulle dita.
E pare che gliela battesse piuttosto forte, perché l'altro si risentì tutto inviperito, e ne nacque un combattimento a corpo a corpo fra la cavalleria e il generale.
E chi lo sa come questo combattimento sarebbe finito, se il signor Giandomenico non ci fosse entrato di mezzo con le buone maniere, dando, cioè, un bellissimo scappellotto al generale e pigliando per un orecchio la cavalleria.
E così persuase i due guerreggianti a sospendere le ostilità e a firmare lì su due piedi un trattato di pace.
E la pace fu firmata.
Ma il povero Leoncino non sapeva rassegnarsi a quest'atto d'umiliazione; e giorno e notte si lambiccava sempre il cervello per trovare il modo di dare qualche splendida prova di coraggio, tanto da riguadagnarsi il grado e la spada di generale.
Cerca oggi, cerca domani, finalmente gli parve di vedersi balenare dinanzi agli occhi una bell'idea.
Quella sera andò a letto tutto contento: e prima di addormentarsi diceva dentro di sé: "Domani o doman l'altro sarò generale daccapo...
e allora, guai a Raffaello...
Per vendicarmi di lui, ordinerò subito che la Cavalleria debba camminare sempre a piedi!...».
Eppure è così: i ragazzi vendicativi spesse volte sono anche ridicoli nelle loro vendette!
VI.
Indovinate un po', ragazzi, quale fu la bellissima idea (dico bellissima, per modo di dire) che balenò alla mente di Leoncino, per dare una gran prova del suo coraggio e per riguadagnarsi il grado di generale?
Fu quella di sfidare i suoi cugini a chi avesse fatto il salto più alto e più pericoloso.
Figuratevi che bel giudizio!
«Io», disse subito Arnolfo, «scommetto di saltare gli ultimi cinque scalini della scala di casa.»
«Bella bravura davvero!», replicò Leoncino, con una spallucciata di disprezzo.
«Quello è un salto che lo farebbe anche una pulce.»
«E io scommetto di saltare dalla finestra del fienile», disse Raffaello.
«E noi, se vuoi scommettere, facciamo con te a chi salta meglio la gora del mulino», dissero Gigino e Asdrubale, i due soldati di fanteria.
«Io poi scommetto di saltare una buccia di fico», disse ridendo Tonino, capitano d'ambulanza e nel tempo stesso ragazzino pacifico e tranquillo, che faceva tutte le sue cose con flemma, senza riscaldarsi mai di nulla; prova ne sia che non s'era nemmeno accorto di quella memorabile scena, in cui il suo Generale in capo, dopo essere stato degradato, aveva dovuto consegnare la sciabola in presenza a tutta la soldatesca.
Quando ognuno dei ragazzi ebbe detta la sua, Leoncino si fece avanti e domandò con aria baldanzosa di sfida:
«Chi di voi si sente il coraggio di saltare giù nell'orto dalla terrazza del primo piano?».
«Io no davvero: c'è da rompersi una gamba», rispose uno dei ragazzi.
«Nemmen'io; c'è da spaccarsi la testa», rispose un altro.
«Della testa me ne importerebbe poco», soggiunse Arnolfo ma il male gli è che ci sarebbe da strapparsi i calzoni, e per l'appunto oggi ho i calzoncini nuovi!»
Leoncino sorrise allora d'un risolino maligno e canzonatore e dopo aver dato un'occhiata di compassione a' suoi cugini, disse con aria di smargiasso:
«Dunque voialtri quel salto non avete il coraggio di farlo? Eppure io lo farò, e quando l'avrò fatto, vedremo se continuerete a mettermi in ridicolo...
e poi, perché? perché l'altro giorno all'improvviso ebbi paura di una tartaruga.
Dicerto, gua', se avessi saputo che era una tartaruga, non sarei scappato.»
«O per chi l'avevi presa?», domandò Arnolfo ridendo.
«L'avevi forse presa per un elefante?...»
«Non dico un elefante...
però, quella brutta bestia, a vederla lì fra l'erba, mi fece una certa impressione...
un certo non so che...
Ma questo, siamo giusti, non vuol dire che in quel momento non avessi coraggio...»
«Tutt'altro» replicò Arnolfo col solito risolino «vuol dire solamente che avesti paura!...»
«Paura io? per tua regola, a coraggio, vi rivendo quanti siete.»
«Canta, canta, canarino!»
«Arnolfo, non offendere!»
«Io non t'ho offeso.»
«Mi hai detto canarino.»
«Canarino non è un'offesa: canarino gli è un uccellino con le penne gialle.»
«Ma io le penne gialle non ce l'ho!», gridò Leoncino, iscaldandosi.
«Se non le hai, le potresti avere.»
A quest'ultima uscita di Arnolfo, tutti i suoi fratelli dettero in un solennissimo scoppio di risa.
VII.
Allora Leoncino, lasciandosi vincere dalla bizza, fece l'atto di volersi avventare contro il suo piccolo avversario: ma Raffaello, svelto come uno scoiattolo, lo abbracciò subito a mezza vita, e tenendolo fermo, cominciò a dirgli con una certa cantilena burlesca:
«La si calmi, sor Generale, via, la si calmi! La sia bonino!».
E tutti gli altri ragazzi a ripetere in coro con la medesima cantilena:
«La si calmi, sor Generale, la si calmi! La sia bonino!...».
E lì tanto dissero e tanto fecero che Leoncino, dimenticandosi tutta la bizza che aveva addosso, cominciò a ridere anche lui.
Poi, voltandosi verso Arnolfo, gli domandò:
«Mi dici perché te la prendi sempre con me?».
«Io me la prendo con te? Neanche per sogno.
Eppoi, anche se me la prendessi con te, credilo, ci sarebbe la sua brava ragione.»
«Perché?»
«Perché, volere o volare, fosti tu che mi mangiasti la colazione quella mattina che feci da sentinella avanzata.
E me ne ricorderò sempre!...
ma oramai t'ho bell'e perdonato e non ci penso più.
Però tutte le volte che quella colazione mi torna in mente, sento sempre una certa vogliolina...
o come chi dicesse, una tentazione di ricattarmi...
ma oramai ti ho bell'e perdonato e non ci penso più! E per l'appunto, che fame avevo quel giorno! Una fame da lupi!...
Abbi pazienza, Leoncino, se te lo dico: ma quella celia fu una gran brutta celia e me la rammenterò sempre fin che campo...
Meno male che oramai t'ho bell'e perdonato e non ci penso più!...»
«Basta, basta!» interruppe Raffaello, che cominciava ad annoiarsi.
«Andiamo piuttosto a vedere questo gran salto dalla terrazza?»
«Sì, sì, vogliamo il salto, vogliamo il salto!» gridarono tutti.
Leoncino, a dir la verità, se ne sarebbe tirato indietro volentieri; ma dopo essersi vantato tanto, non poteva più scansare la prova.
Il suo amor proprio non gliel'avrebbe permesso!!! Perché bisogna sapere che c'è un amor proprio anche per i ragazzi: molte volte è un amor proprio falso, un amor proprio grullo e malinteso (come nel caso di Leoncino che, per amor proprio, si metteva al rischio di rompersi il collo); ma i ragazzi hanno avuto sempre il brutto vizio di voler ragionare su tutte le cose a modo loro, e questa è stata sempre una gran disgrazia per loro e per le loro famiglie.
VIII.
Leoncino esitò un minuto...
due minuti...
poi, fatto un animo risoluto, si mosse per andare sulla terrazza: non era per altro entrato nell'uscio di casa, che si trovò davanti lo zio Giandomenico, il quale domandò a lui e a quell'altre birbe:
«Dove andate con tanta fretta?».
«Si va su in terrazza.»
«In terrazza? A far che cosa?»
«A...
a...
a prendere una boccata d'aria.»
«Non è vero, sai, babbo!», disse subito Arnolfo, «non si va a prendere una boccata d'aria: ma si va in terrazza, perché Leoncino, per far vedere che ha più coraggio di noi, ha scommesso di montare sul parapetto della terrazza e di saltare giù nell'orto.»
«È proprio vero che hai fatto questa scommessa?» disse allora lo zio, rivolgendosi al nipote.
«Tu dunque credi che il coraggio, il vero coraggio, consista nell'affrontare senza alcun bisogno, i più grandi pericoli? nel saltare per semplice passatempo dai primi piani? nel montar ritti sulla soglia delle finestre? nel camminare in cima ai tetti? nel correre all'impazzata sulle spallette dei fiumi? nell'arrampicarsi in vetta agli alberi? nell'andare a bagnarsi dove l'acqua è più alta, senza saper nuotare?...
No, carino mio, no: queste non son prove di coraggio: queste sono temerità imperdonabili, queste sono bravure da matti, che provano solamente la grande spensieratezza e il pochissimo giudizio di voialtri ragazzi!»
A questa parlantina fatta co' fiocchi, il povero Leoncino restò così confuso, che non trovava il verso né di rispondere, né di guardare in faccia lo zio.
Intanto, tutto afflitto e mortificato, andava pensando dentro di sé:
"E io che speravo di aver trovato il modo di riguadagnarmi il grado di comandante!...
mentre è proprio un miracolo se oggi non ho perduto anche gli scevroni di caporale!...".
Ma non si dette per vinto! Anzi, il giorno dopo, ricominciò a stillarsi il cervello per trovare qualche nuovo ammennicolo, che valesse a dare una prova di quel coraggio, che egli non aveva, ma che avrebbe voluto avere.
Ora bisogna sapere che, dall'oggi al domani, era capitata appunto nei dintorni di quella campagna una grossa volpe.
Questa famelica bestia, spavento e flagello di tutti i pollai, non solo mangiava i galli, le chiocce, le pollastre e le galline vecchie, ma, occorrendo, divorava allegramente anche i pulcini e i galletti di primo canto, senza nessun riguardo alla loro tenera età.
IX.
Sentendo parlar tanto di quella volpe, Leoncino domandò al guardaboschi dello zio:
«Dimmi, Tonio, come sono grosse le volpi?».
«Le volpi» rispose il guardaboschi «somigliano molto ai cani; con questa differenza, che hanno la coda assai più grossa, un codone che pare una spazzola.
Non le ha mai vedute, lei, le volpi?»
«Mai.»
«Vuol vederne una?»
«Una volpe viva?...»
«No, morta.
La trovai cinque anni fa nel bosco, l'ammazzai con una schioppettata, e poi la volli impagliare...
ossia, riempire da me: ma non lo dico per vantazione, l'è impagliata così bene, che c'è da scambiarla per una volpe viva.
Se lei vuol vederla, venga a casa mia e potrà levarsi questa curiosità.»
«Quando posso venire?»
«Anche domattina.»
«A che ora?»
«Di prima levata, avanti che io vada al bosco.»
Leoncino non intese a sordo.
La mattina dopo si alzò di bonissim'ora e senza dir nulla ai suoi cugini, che erano sempre a letto, andò difilato a casa del guardaboschi.
Quando fu là, l'amico Tonio lo condusse in una stanzuccia terrena che serviva per le legna: e in un angolo di questo bugigattolo c'era una bella volpe accovacciata con la testa alta e minacciosa, con gli occhi di vetro, che parevano vivi e veri, e con la bocca aperta in atto di ringhiare e di mostrare rabbiosamente i denti.
Alla vista di quella volpe, Leoncino ebbe, come chi dicesse, una specie d'ispirazione improvvisa...
e voltandosi al guardaboschi, gli disse:
«Come è bella! Me la vuoi vendere?».
«Vendere? Che le pare! Piuttosto gliela regalo.»
«Davvero?»
«E gliela regalo volentieri: tanto più che starà meglio in casa di lor signori, che in questa stanzuccia umida e senza luce, dove c'è il caso che, una volta o l'altra, me la mangino i topi.»
«Dunque la posso prendere?»
«La prenda pure: ma che la vuole portare da sé alla villa?»
«Sicuro che la voglio portare da me.
La villa dello zio è così vicina!»
«Guà: faccia lei.»
Leoncino, con l'aiuto del guardaboschi, si caricò sulle spalle la volpe, ripeté i suoi ringraziamenti, e se ne andò.
X.
Intanto i cinque cugini, appena alzati da letto, domandarono subito di Leoncino: ma Leoncino non c'era.
Aspettarono un quarto d'ora, mezz'ora, un'ora, e Leoncino non tornava: e già cominciavano a mettersi in pensiero, quand'ecco che finalmente Leoncino tornò.
«Dove sei stato finora?», gli domandarono tutti insieme.
«Sono andato a fare un giro per questi dintorni; e sapete perché? Per vedere se avevo la fortuna d'incontrare la volpe.»
«La volpe non c'è più: è sparita da un pezzo», disse Raffaello.
«Come lo sai?»
«Sono cinque giorni che non s'è fatta più rivedere, e tutte le galline hanno già ripreso a dormire i loro sonni tranquilli.»
«E se la incontravi davvero?», disse Arnolfo.
«Se la incontravo? Tanto peggio per lei.
Che avete paura, voialtri, della volpe?»
«Noi, sì: dopo che abbiamo visto quelle povere galline sbranate e poi lasciate per i campi...»
«A me poi», disse Leoncino, «la volpe non mi fa paura.»
«Guarda un po' quanto coraggio hai messo fuori tutt'a un tratto: o chi te l'ha prestato?», disse Arnolfo ridendo.
«Arnolfo, non ricominciare!...
se no, ci guastiamo davvero.
Dunque si va o non si va?»
«Dove?»
«A far la nostra passeggiata militare e il solito rancio.»
«Eccoci pronti!»
«Però, come vostro caporale, voglio che oggi il rancio si debba fare lì, al principio del bosco, dov'è quella foltissima macchia, che si chiama...
aiutatemi a dirlo.»
«La macchia di Tentennino», urlarono i cinque ragazzi.
«Bravi! la macchia di Tentennino.
Dunque sacco in spalla, e via!»
Dopo venti minuti di marcia forzata, erano già arrivati in vicinanza della macchia: quando, tutt'a un tratto, il caporal Leoncino, fermandosi e voltandosi ai soldati, gridò loro con voce sommessa:
«Alto! e fermi tutti!...»
«Che cos'è stato?...»
«Guardate là, fra le frasche della macchia! non lo vedete quel brutto muso, che sbuca fuori?»
«Altro se lo vediamo! Quella è una volpe!...»
«È una volpe davvero!...»
«Per me, torno subito indietro», disse Arnolfo impaurito.
«Anche noi, anche noi!», dissero gli altri fratelli.
«Dunque avete paura?...», gridò Leoncino.
«Marmotte! tornate pure indietro, ma io vado avanti!»
«Leoncino, da' retta a noi, torna indietro anche tu», dicevano i ragazzi, raccomandandosi e allontanandosi a passo di carica.
XI.
Quando furono alla distanza di quattrocento metri si voltarono a guardare, e videro Leoncino, presso la macchia, che tirava bastonate a destra e sinistra, urlando come un tacchino spaventato.
Questa lotta disperata durò un buon quarto d'ora.
Alla fine il valoroso caporale, appoggiatosi il bastone sulla spalla a uso fucile, tutto glorioso e trionfante tornò indietro a raggiungere i suoi compagni, i quali gli si affollarono subito dintorno, ansiosi di domandargli:
«Dunque? Come è andata a finire?».
«Bene.»
«Ti ha graffiato? ti ha morso?»
«Si è provata due volte a prendermi il bastone coi denti per inghiottirlo.»
«L'hai ammazzata?»
«Mi è fuggita sul più bello...
ma è fuggita in uno stato da far pietà...
se campa fino a domani è un miracolo.»
A questo racconto, i cinque ragazzi si erano tanto riscaldati, che non potendo più frenare il loro entusiasmo, saltarono al collo del cugino, lo abbracciarono, gli strinsero la mano, gli fecero mille carezze, Arnolfo volle dargli perfino un gran bacio.
Arrivati a casa, come è facile immaginarselo, andarono di corsa dal babbo per raccontargli la gran prova di coraggio che aveva dato Leoncino, combattendo a corpo a corpo con una terribile volpe che pareva un leone.
Leoncino, sentendo tutte queste lodi, non capiva più nella pelle dalla consolazione: e già si figurava di aver riconquistato il titolo di generale, la sciabola coll'impugnatura dorata, le spalline color dello zafferano e il berretto con quella striscia bianca, che luccicava come un gallone d'argento.
Quand'ecco che sul più bello entrò in sala la serva, annunziando che c'era Tonio, il guardaboschi, il quale desiderava di vedere il signor Leoncino.
«Fatelo passar qui» disse lo zio Giandomenico.
E di fatti il guardaboschi si presentò, tenendo il suo cappello in mano e portando sulla spalla una volpe impagliata, piena di ammaccature e ridotta in cattivissimo stato.
«Che cosa vuoi, Michele?», domandò lo zio.
«Dirò, padrone lustrissimo: stamani ho regalato questa volpe al sor Leoncino, che l'ha presa col dire che l'avrebbe portata alla villa...
ma viceversa poi, l'ho ritrovata per caso nascosta nella macchia di Tentennino...»
«Dove?», gridarono i ragazzi a una voce.
«Nella macchia di Tentennino?...»
E nel dir così, si scambiarono fra loro un'occhiata sbarazzina e maligna, che tradotta in lingua parlata voleva dire: "Ora abbiamo capito tutto!...".
Il povero caporal Leoncino, vedendosi oramai scoperto, diventò di tutti i colori, come i segnali delle strade ferrate.
«E guardi, padron lustrissimo», continuò il guardaboschi, «come me l'hanno conciata questa povera bestia!...
Se sapessi chi s'è preso il divertimento di bastonarla a questo modo, pover'a lui!...»
Leoncino, che aveva le lacrime in pelle in pelle, uscì di corsa dalla stanza e andò a rinchiudersi in camera.
Venuta la sera, disse allo zio che voleva tornarsene subito a casa sua, dal suo babbo e dalla sua mamma.
Lo zio Giandomenico si provò a sconsigliarlo e a farlo restare ancora per qualche giorno: ma non ci fu verso.
Mentre era sul punto di salire in tranvai, i suoi cugini (sempre un po' monelli), lo baciarono e gli dissero addio: ma intanto gli bisbigliarono in un orecchio:
«Continua a combattere con le volpi impagliate: ma ricordati qualche volta il proverbio che dice: "Chi non ha coraggio, non vada alla guerra"».
L'avvocatino difensore
dei ragazzi svogliati e senza amor proprio
Il suo nome era Tommaso: ma, in casa e fuori di casa, lo chiamavano Masino.
Masino aveva tutti i difetti, che può avere un giovinetto della sua età, fra gli undici e i dodici anni: disubbidiente, goloso, pigro, dormiglione, nemico dell'acqua per lavarsi le mani e il viso, coperto di frittelle e di strappi in tutti i vestiti che portava addosso, spacciatore di bugie all'ingrosso e al minuto, ciarliero, impertinente, rispondiero e avversario implacabile dei libri e della scuola.
La mamma lo sgridava: il babbo lo rimproverava: il maestro lo puniva, i compagni di scuola lo canzonavano della sua buaggine; ma il nostro Masino non se ne faceva né in qua, né in là.
«Quando avranno detto ben bene, si cheteranno!» E con queste parole, accompagnate da una spallucciata o da una scrollatina di capo, rimetteva l'animo in pace.
Un giorno, per altro, si ficcò in testa di essere perseguitato ingiustamente, e tenne fra sé e sé questo curioso ragionamento:
"Tutti mi sgridano...
tutti l'hanno con me!...
E la ragione? Alla fin de' conti, io faccio quel che debbono fare tutti i ragazzi.
La colpa, dunque, non è mia.
La colpa è della mamma, la quale non si cheta mai; la colpa è del babbo, che urla sempre...
la colpa è del maestro, che ha bisogno di farmi scomparire tutti i giorni dinanzi a' miei compagni di scuola.
Oh che bella cosa se i babbi e le mamme qualche volta si correggessero della loro smania di brontolare!...
Oh! che bella cosa se i maestri si persuadessero che dai ragazzi si può pretendere tutt'al più che vadano a scuola...
Ma pretendere che vadano a scuola e che studino, mi pare una bella esigenza! Due cose a un tempo, chi è che possa farle?".
Batti oggi e batti domani con questi ragionamenti, Masino ebbe finalmente una bellissima idea, e disse tutto contento:
«Se mi facessi il difensore dei ragazzi come me? Se scrivessi un libro per dare una buona lezione ai babbi e alle mamme, e per correggere questi signori maestri, che sono peggio di tutti? Io non ho mai imparato a scrivere, ma ho sempre sentito dire che si scrive come si parla.
Io parlo bene, dunque debbo sapere scrivere!...
E pensare che il babbo e la mamma si ostinano a mandarmi a scuola! Un momento: e che cosa potrei scrivere? una Commedia col titolo I brontoloni?...
Per la commedia, non toccherebbe a me a dirlo, ci ho avuto sempre molta vocazione.
Anche la mamma, quando invento qualche bugia, dice sempre che somiglio al Bugiardo di Goldoni.
Dunque, se somiglio al Goldoni, vuol dire che le commedie le so fare anch'io.
E poi, quando ho fatto la Commedia, chi me la recita? E se per disgrazia me la fischiano? E il caso c'è, perché i babbi e le mamme, con la scusa di condurre noialtri ragazzi al teatro, vanno sempre alla commedia e alla farsa: e loro mi fischierebbero dicerto.
O non sarebbe più liscia se scrivessi invece un bel raccontino, da mettersi sui giornali? Così mi salverei dal pericolo dei fischi, e se mi scappasse qualche sproposito, nessuno ci guarderebbe, perché il babbo dice sempre che i giornali sono pieni di spropositi e di notizie false.
Sì, sì, voglio provarmi e subito».
Detto fatto, il nostro Masino, si chiuse in camera: e presa la penna e un foglio di carta, cominciò il suo racconto con questo titolo:
UN RAGAZZINO MODELLO
ossia una buona lezione per i genitori
e per i maestri di scuola.
Poi seguitò così:
Masino era il più buon figliolo di questo mondo.
Il suo babbo e la sua mamma lo sgridavano sempre, e lui li lasciava sgridare: il suo maestro, per cavarsi il gusto di punirlo, gli levava la colazione, e lui per prudenza faceva colazione prima di andare a scuola.
Ma venne finalmente un giorno, in cui i suoi genitori e il suo maestro si accorsero d'avere un gran torto a fargli sempre de' rimproveri, e allora le cose andarono di bene in meglio.
Quando Masino qualche volta si dimenticava di lavarsi le mani e il viso, la sua mamma, invece di sgridarlo, cominciò a dirgli:
«Bravo Masino! Vedo che non ti sei lavato né il viso né le mani, e hai fatto bene.
Coll'acqua, bambino mio, non bisogna pigliarsi mai confidenza.
È così facile beccar delle infreddature e dei mal di petto!...
A quanto pare, ti sei alzato ora dal letto, non è vero?»
«Sì, mamma.»
«Sai che ore sono? sono le nove: e tu alle otto avresti dovuto andare a scuola...»
«Che vuoi? Avevo sonno, e dormivo così bene!...»
«Capisco, poverino! Il proverbio dice che chi dorme non piglia pesci, ma tu, carino mio, non devi fare il pescatore: dunque, se ti fa piacere, puoi dormire fino a mezzogiorno.
E la lezione l'hai fatta?...»
«La volevo fare, ma poi me ne sono scordato...»
«Tale e quale come me! Anch'io volevo andare dalla mia sorella, e poi me ne sono scordata.
Si vede proprio che sei figliolo della tua mamma.
E per colazione che cosa prenderesti?»
«Prenderò il solito Caffè e Latte...»
«Ma rammentati, carino mio, di metterci dentro dimolto ma dimolto zucchero.
Lo zucchero si compra apposta per finirlo subito, se no, va a male.»
«E c'inzupperò due fettine di pane.»
«No, angiolo mio, ci devi inzuppare due semelli, e bene imburrati, perché il burro fa bene alla gola e aiuta la digestione.
E a scuola ci vuoi andare oggi?»
«Senti, mamma, non ci anderei...»
«È appunto quello che volevo dirti io.
Per andare a scuola c'è sempre tempo.
Sai piuttosto che cosa farei, se fossi in te? Anderei a giocare a palla fino a mezzogiorno: poi tornerei a casa a fare uno spuntino con una bella fetta di rosbiffe, un piatto di maccheroni con sopra due dita di cacio parmigiano, e una bella torta ripiena di panna montata.
E se dopo lo spuntino, vorrai studiare un po' la lezione...»
«Ecco, mamma, se invece di studiar la lezione, andassi a giocare a trottola nei viali delle Cascine?»
«Benissimo! Si vede proprio che sei un ragazzino pieno di giudizio.
La trottola, alla tua età, è molto più utile della Geografia e della Storia.
Che bisogno c'è di studiare la Storia quando tutto il mondo è pieno di storie? Dunque, addio carino: io scappo a fare una visita alla mia sorella, e tu cerca di divertirti più che puoi, e non studiar tanto!...
(tornando indietro) Mi raccomando: non studiar tanto! (tornando indietro una seconda volta) Non studiar tanto, perché a studiare c'è sempre tempo!...»
Fra babbo e figliolo
Masino, pochi giorni dopo, andò in camera a cercare il suo babbo (il quale si era corretto del bruttissimo vizio di brontolare) e gli disse:
«Sai, babbo, che cosa mi ha fatto il maestro?».
«Che ti ha fatto?»
«Con la scusa che ho sbagliato a rispondere nell'Aritmetica, mi ha messo in penitenza...»
«Ma queste son cose orribili!...
Lo racconterò ai carabinieri!...»
«Senti, babbo; io non voglio più andare a scuola.»
«Io farei come te.
A che serve la scuola? La scuola non è altro che un supplizio inventato apposta per tormentare voialtri poveri ragazzi.»
«Capisci? Mettermi in penitenza perché l'Aritmetica non vuole entrarmi nella testa! Sta' a vedere che un libero cittadino non è padrone di non saper l'abbaco? Perché anch'io sono un libero cittadino, ne convieni, babbo?»
«Sicuro che ne convengo.»
«Il mio maestro è un buon omo: ma è un omo piccoso.
Figurati! pretenderebbe che i suoi scolari dovessero studiare!...»
«Pretensioni ridicole! Se viene a dirlo a me, non dubitare che lo servo io.»
«Dovresti andare a trovarlo!»
«Vi anderò sicuro: e gli dirò che i maestri possono pretendere che i loro scolari sappiano la lezione...
ma obbligarli a studiare, no, no, mille volte no.»
«La volontà è libera, ne convieni, babbo?»
«Sicuro che ne convengo, e quando un ragazzo dice: "Io non voglio studiare" nessuno può costringerlo.»
«Figurati! Pretenderebbe che, durante la lezione, i suoi scolari stessero tutti zitti! Com'è possibile di stare zitti quando si sente la voglia di parlare?»
«Hai mille ragioni! Che forse la parola venne data all'uomo, perché a scuola stesse zitto? Lascia fare a me: domani vado a trovarlo, e gli dirò il fatto mio.»
A scuola
E il babbo andò davvero a trovare il maestro, e gli fece una bella lavata di capo, da ricordarsene per un pezzo: tant'è vero che quando Masino tornò a scuola, il maestro gli si fece incontro tutto mortificato, e tenendo il berretto in mano, gli disse:
«Scusa, sai, Masino, se l'altro giorno ti messi in penitenza.
Fu uno sbaglio, perdonami: tutti si può sbagliare in questo mondo.
Che cosa avevi fatto, povero figliuolo, da meritarti quel gastigo? Non avevi imparato la lezione...
Ma è forse questa una mancanza? Che forse gli scolari hanno l'obbligo di saper la lezione? Non ci mancherebb'altro! Animo, via, perdonami e non se ne parli più! Fammi intanto vedere i tuoi quinterni! Benissimo! Sono tutti coperti di scarabocchi! Gli scarabocchi sui quinterni provano che lo scolaro è un ragazzino pulito e che studia bene.
Ti darò sette meriti per gli scarabocchi.
I ragazzi di buona volontà, come te, vanno sempre incoraggiati.
Vediamo ora i tuoi libri.
Arcibenissimo! Questi libri tutti strappati e sbrindellati, sono una bella prova che sai tenerne di conto.
La prima cosa che deve fare uno scolaro perbene e veramente studioso, è quella di sciupare i libri di scuola.
Ti darò cinque meriti per i libri sciupati.
Se domani poi, venendo a scuola, ne perderai qualcuno per la strada, ti aggiungerò altri cinque meriti, perché la cosa possa servir d'esempio a' tuoi compagni.
E questa macchia, che hai qui sul davanti della camicia, come mai te la sei fatta?».
«Me la son fatta stamani, nel leccare lo zucchero in fondo alla chicchera.»
«È una macchia che ti torna benissimo a viso.
Io ho avuto sempre a noia gli scolari con la camicia pulita.
Gli scolari mi piacciono, come te, tutti coperti di macchie e di frittelle.
Ti darò sei meriti per quella bella macchia di caffè e latte.
Ne meriterebbe di più, ma per oggi tiriamo via.
Dimmi, Masino: hai studiato la lezione di Grammatica?»
«Sissignore.»
«Dimmi, dunque, quante lettere ci vogliono per formare una sillaba?»
«Così, all'improvviso, non saprei dirlo...»
«Benissimo.
Me lo dirai un'altra volta.
E l'Abbaco l'hai studiato?»
«Sissignore.»
«Che cosa rappresenta una crocellina così + posta fra due numeri?»
«Ecco...
dirò...
che rappresenta una croce...»
«Oggi non sei in vena a rispondere.
Mi risponderai un'altra volta.
E la Geografia l'hai imparata?»
«Sissignore.»
«Sentiamola.
In quante parti si divide comunemente l'Italia?»
«In quattro parti: Italia di sopra, Italia di sotto, Italia nel mezzo, e Italia...»
«Italia come?...»
«Italia...
da una parte.»
«Non è precisamente così, ma mi risponderai meglio un'altra volta.
Eccoti intanto dieci meriti per la franchezza, con la quale hai risposto a tutte le mie domande.»
Agli esami della fin dell'anno, il bravo Masino si fece moltissimo onore, e il suo babbo e la sua mamma gli regalarono venti pasticcini e un panforte di Siena.
La morale della Favola
L'autore offrì questo suo Racconto a parecchi giornali, ma nessuno volle accettarlo.
I più benigni si contentarono di ridergli in faccia.
Allora il nostro amico si consolò dicendo:
«Peccato che nessuno abbia voluto pubblicarmi questo Racconto! Che bella lezione sarebbe stata per i genitori brontoloni e per i maestri tiranni!...
Ma oramai ci vuol pazienza! e i ragazzi, con la scusa di farli studiare, si troveranno sempre perseguitati!...».
Quand'ero ragazzo!
Mille anni fa, anch'io ero un ragazzetto, come voi, miei cari e piccoli lettori: anch'io avevo, su per giù, la medesima vostra età, vale a dire fra gli undici e i dodici anni.
E com'è naturale, dovevo ancor'io andare tutti i giorni alla scuola, salvo il giovedì e la domenica.
Ma i giovedì, nel corso dell'anno, erano così pochi!...
Appena uno per settimana! E le domeniche?...
Le domeniche era grazia di Dio, se ritornavano una volta ogni otto giorni.
Anch'io andavo a scuola: ma non saprei dirvi se la mia scuola fosse elementare, o ginnasiale, o liceale, perché mille anni fa, ossia a' miei tempi, la scuola si chiamava semplicemente scuola, e quando noi altri ragazzi si diceva scuola, s'intendeva parlare di una stanza piuttosto grande e quasi pulita, nella quale eravamo costretti a passare circa sei ore della giornata, e dove qualche volta s'imparava anche a leggere, a scrivere e a far di conto.
La scuola, alla quale andavo io, era una bella sala di forma bislunga, rischiarata da due finestre laterali, e con un gran finestrone nella parete di fondo, il quale stava sempre chiuso, rimanendo nascosto dietro una grossa tenda di colore verdone-cupo.
Presso le due pareti, a destra e a sinistra della cattedra del maestro, ricorrevano due lunghissimi banchi per gli scolari.
Gli scolari seduti a destra si chiamavano Romani, e quelli a sinistra, avevano il soprannome giocoso di Cartaginesi.
Tanto gli uni che gli altri erano capitanati da un imperatore: e per la dignità d'Imperatore si capisce bene che venivano scelti i due scolari, che nel corso del mese avevano ottenuto un maggior numero di meriti, sia per buoni portamenti, sia per lodevole prova fatta nelle lezioni giornaliere.
Una volta, me lo rammento sempre, il posto d'Imperatore dei Romani, toccò anche a me: ma fu una gloria passeggera.
Dopo due ore appena di regno, per una delle mie solite birichinate, il maestro mi fece scendere dal seggio imperiale, e fui riconfinato in fondo alla panca.
Eppure, sia detto per la verità, ebbi tanta forza da sopravvivere a quella sciagura, e in pochi minuti seppi darmene quasi pace.
Si vede proprio che, fin da ragazzo, io non ero nato per far l'imperatore.
E ora indovinate un po', in tutta la scuola, chi fosse lo scolaro più svogliato, più irrequieto e più impertinente?
Se non lo sapete, ve lo dirò io in un orecchio: ma fatemi il piacere di non starlo a ridire ai vostri babbi e alle vostre mamme.
Lo scolaro più irrequieto e impertinente ero io.
Non passava giorno che non si sentisse qualche voce gridare:
«Signor maestro, che fa smettere Collodi?».
«Che cosa fa Collodi?»
«Mangia le ciliegie, e poi mi mette tutti i nòccioli nelle tasche del vestito.»
Allora il maestro scendeva dal suo seggio: mi faceva sentire il sapore acerbo delle sue mani secche e durissime, come se fossero di bossolo, e mi ordinava di cambiar posto.
Dopo un'ora che avevo cambiato posto, ecco un'altra voce che gridava:
«Signor maestro, che fa smettere Collodi?».
«Che cosa ti fa Collodi?»
«Acchiappa le mosche e poi me le fa volare dentro gli orecchi.»
Allora il maestro, dopo avermi dato un altro saggio della magrezza e della durezza delle sue mani, mi faceva mutar posto daccapo.
Fatto sta che a furia di mutar posto tutti i giorni, sulla panca dei Romani non c'era più un romano che volesse accettarmi per suo vicino.
Fui mandato, per ultimo ripiego, fra i Cartaginesi: e mi trovai accanto al più buon figliolo di questo mondo, un certo Silvano, grasso come un cappone sotto le feste di Natale, il quale studiava poco, questo è vero, ma dormiva moltissimo, confessando da se stesso che dormiva più volentieri sulle panche di scuola che sulle materasse del letto.
Un giorno Silvano venne a scuola con un paio di calzoni nuovi di tela bianca.
Appena me ne accorsi, la prima idea che mi balenò alla mente fu quella di dipingergli sui calzoni un bellissimo quadretto, a tocco in penna.
Tant'è vero che quando l'amico, secondo il suo solito, si fu appisolato coi gomiti appoggiati al banco e con la testa fra le mani, io, senza mettere tempo in mezzo, inzuppai ben bene la penna nel calamaio, e sul gambale davanti gli disegnai un bel cavallo, col suo bravo cavaliere sopra.
E il cavallo lo feci con la bocca aperta in atto di mangiare dei grossi pesci, perché così si potesse capire che questo capolavoro era stato fatto di venerdì, giorno in cui generalmente tutti mangiano di magro.
Confesso la verità: ero contento di me.
Più guardavo quel mio bozzetto, e più mi pareva di aver fatto una gran bella cosa.
Così, però, non parve al mio amico Silvano: il quale, svegliandosi dal suo pisolino e trovandosi sui calzoni bianchi dipinto con l'inchiostro un soldato e un cavallo che mangiava i pesci, cominciò a piangere e a strillare con urli così acuti, da far credere che qualcuno gli avesse strappato una ciocca di capelli.
«Che cosa ti hanno fatto?» gridò il maestro, rizzandosi in piedi e aggiustandosi gli occhiali sul naso.
«Ih!...
ih!...
ih!...
Quel cattivaccio di Collodi mi ha dipinto tutti i calzoni bianchi!...» E dicendo così, alzò in aria la gamba, mostrando il disegno fatto da me con tanta pazienza e, oserei dire, con tanta bravura.
Tutti risero, ma il maestro disgraziatamente non rise.
Anzi, invece di ridere, scese giù dal suo banco, tutto infuriato come una folata di vento; e senza perdersi in rimproveri e parlantine inutili...
Basta! per un certo sentimento di pudor naturale, rinunzio a descrivervi i diversi argomenti maneschi, che egli pose in opera per farmi guarire dalla strana passione di dipingere i calzoni de' miei compagni.
Peraltro, finita la scuola, il povero Silvano non voleva a nessun costo tornare a casa, vergognandosi a farsi vedere in mezzo alla strada con quella pittura, a tocco in penna, sulla gamba sinistra.
Allora che cosa immaginai? Tanto per abbonirlo, gli appuntai sul davanti un foglio di carta bianca: il qual foglio, scendendogli giù fino al ginocchio, a guisa di grembiule, nascondeva agli sguardi indiscreti del pubblico e dei ragazzacci di strada il mio bellissimo capolavoro.
Il giorno dopo fu per me una giornata nera, indimenticabile.
Appena entrato nella scuola, il maestro, con un cipiglio da far paura, mi disse, accennandomi un banco solitario in fondo alla scuola:
«Prendi i tuoi libri e i tuoi quaderni, e va' a sederti laggiù! Così ti troverai sempre solo e isolato da tutti...
e così pagherai caro il bruttissimo vizio di molestare i compagni, che hanno la disgrazia di starti vicini».
Mogio, mogio, come un pulcino bagnato, chinai il capo e ubbidii.
Per il primo e il secondo giorno tollerai con rassegnazione la mia solitudine: ma il terzo giorno non ne potevo più: proprio non ne potevo più.
I compagni mi guardavano e ridevano: mi pareva di essere in berlina.
Dietro le mie spalle, come sapete, rimaneva un gran finestrone sempre chiuso e sempre coperto da una tenda di grossissima tela verdone-cupo.
In un momento di gran noia e mentre cercavo qualche passatempo per divagarmi, ecco che mi venne fatto di accorgermi che in quella tenda e precisamente all'altezza del mio capo, c'era un piccolissimo bucolino.
Appena visto quel bucolino, il mio primo pensiero fu quello di allargarlo un poco per giorno, e di allargarlo fino al punto, da poterci passar dentro con tutta la testa.
Questo lavoro durò quasi una settimana, perché la tela della tenda era molto ruvida e resistente.
Alla fine, quando il bucolino diventò una buca, feci subito segno ai miei compagni di scuola di stare attenti, perché avrebbero visto un magnifico spettacolo.
Detto fatto, approfittando di quel momento che il maestro stava rileggendo i nostri componimenti, entrai dietro la tenda e cominciai a lavorare col capo.
La buca era grande: ma il mio capo era più grande, e non ci voleva entrare: io, però, pigiai tanto e poi tanto, che finalmente il capo c'entrò.
Figuratevi la risata sonora che scoppiò in tutta la scuola, quando la mia testa fu vista campeggiare in mezzo a quella tenda verdona, come se qualcuno ce l'avesse attaccata con quattro spilli.
Ma il maestro, al solito, non volle ridere: e invece, movendosi dal suo banco, venne verso di me in atto minaccioso.
Io, come è naturale, mi provai subito a levare il capo dalla tenda: ma il capo, che c'era entrato forzatamente, non voleva più uscire.
La mia paura in quel punto fu tale e tanta, che cominciai a piangere come un bambino.
Allora il maestro si voltò agli scolari, e in tono canzonatorio disse loro:
«Lo vedete là, il vostro amico Collodi, tanto buono, tanto studioso, tanto garbato co' suoi compagni di scuola? Non vedete, poverino, come piange? Movetevi dunque a compassione di lui: alzatevi dalle vostre panche e andate a rasciugargli le lacrime!».
Vi lascio immaginare se quelle birbe se lo fecero dire due volte! Ridendo e schiamazzando, si schierarono in fila a uso processione: e passando a due per due dinanzi a me, mi strofinarono tutti il loro fazzoletto sul viso! E pensare che fra quei fazzoletti da naso, ve n'erano parecchi che non avevano mai visto in faccia né la lavandaia né la stiratora.
Meno male che, a quell'età, tutti i nasi son fratelli fra loro!
La lezione fu acerba, ma salutare.
Da quel giorno in poi mi persuasi che a fare i molesti e gl'impertinenti, si finisce nelle scuole per perdere la benevolenza del maestro e la simpatia dei nostri compagni.
Diventai un buon figliuolo anch'io: rispettavo gli altri, e gli altri rispettavano me: e dopo un mese di lodevoli portamenti, fui nominato daccapo Imperatore dei Romani.
I romani, però della mia scuola, invece di darmi il titolo di Maestà, continuarono sempre a chiamarmi col modestissimo nome di Collodi.
Una mascherata di Carnevale
ossia i sotterfugi
I.
Ogni volta che Cesarino andava o tornava dalla scuola, aveva preso il vizio di fermarsi a tutte le cantonate per leggere i cartelli dei teatri.
Questa era la sua grande passione.
E se per caso i cartelli annunziavano qualche commedia tutta da ridere, allora Cesarino cominciava subito a spappolarsi dalle risa, tale e quale come se si fosse trovato in teatro.
Un giorno (sul finire di Carnevale) gli venne fatto di leggere un gran cartellone che diceva così:
R.
TEATRO PAGLIANO
Domenica sera gran Festa di Ballo
con ingresso alle Maschere.
La mascherata che sarà giudicata
più bella e più sfarzosa
Riceverà un premio di Cento lire.
Appena letto quel cartello, il nostro Cesare non ebbe più bene di sé.
Nel tornare a casa, andava fantasticando:
«Se quelle cento lire le potessi vincere io!...
Che bel signore che diventerei!...
Metterei su carrozza e cavalli!...
comprerei una bella villa con tanti poderi...
e poi, tutti i quattrini che mi rimanessero in tasca, li darei alla mamma per le spese di casa...
Eppure!...
se avessi coraggio, tenterei davvero la fortuna! Chi mi dice che la mascherata inventata da me non riuscisse la più bella di tutte?...
Per inventare una mascherata non ci vuol poi un gran talento!...
Non è come il latino o la grammatica, ché quelle sono due cose uggiose, e per impararle bisogna essere sgobboni...
Qui basta avere un po' di genio! A buon conto, non bisogna dir nulla a nessuno; specialmente a' miei fratelli.
Guai se Orazio e Pierino sapessero qualche cosa!».
Nel dir così, si trovò quasi senza avvedersene alla porta di casa, e sonò il campanello.
Orazio, per l'appunto il suo fratello Orazio, fu quello che aprì.
«Giusto te!», disse Cesare con aria di gran mistero appena entrato in casa.
«Che t'hanno fatto?»
«Nulla...
Ho detto così per ischerzo.»
«Eppure, a vederti in viso, si direbbe...»
«Nulla, ti ripeto, nulla.
Se fossi matto a confidarmi con te!...»
«Hai forse qualche segreto?»
«Vedi! Se te lo dicessi, saresti capacissimo di andarlo subito a raccontare alla mamma.
La mascherata la farò...
oramai ho detto di farla...
e la farò: ma te e Tonino non dovete saperne il gran nulla.»
«Quale mascherata?»
«Quella per andare domenica al teatro Pagliano, a vincere il premio...»
«E il premio sarebbe?»
«Cento lire alla più bella maschera della serata.
Non lo dire a nessuno...
ma la più bella maschera sarò io...
capisci?...»
«Allora voglio mascherarmi anch'io...»
«Ma zitto, per carità: e non dir nulla a nessuno: specialmente a Pierino, che anderebbe subito a rifischiarlo alla mamma.»
«Ti pare che voglia dirlo a Pierino? Piuttosto mi taglierei la lingua...
Eccolo!...
è lui!»
In quel mentre entrò nella stanza, ballando e saltando, un ragazzetto di circa nove anni.
Era Pierino, il minore de' tre fratelli: il quale, senza perder tempo, gridò strillando come una calandra:
«Ditemi, ragazzi, si fa a mosca-cieca?».
«Abbiamo altro per la testa», rispose Cesare.
«Giusto a mosca-cieca!», soggiunse Orazio.
Pierino guardò maravigliato i suoi fratelli: e poi domandò:
«Che vi è accaduto qualche disgrazia?.»
«Finiscila, gua', giuccherello!», disse Orazio.
«O dunque?...»
«Tu sei un gran curioso! E a farlo apposta non devi saper nulla!...»
«Nulla! il gran nulla!...»
«E poi, siamo giusti, le mascherate non sono cose per te.»
«Non sono cose da ragazzucci della tua età.»
«Che vuoi che il premio lo diano a te?»
«Sarebbe dato benino, e non canzono!»
«Ma di che premio parlate?»
«Delle cento lire, che daranno domenica sera al teatro Pagliano...»
«A chi le daranno?...», domandò Pierino, spalancando gli occhi.
«A te no di certo.
Ma forse a me...», disse Cesare.
«E a me, soggiunse Orazio.»
«Che andate in maschera, voialtri?»
«Lo dicono.»
«E dove andate?»
«Al teatro Pagliano.»
«E quando?»
«Domenica sera.»
«Oh! bene! oh bene!», gridò Pierino.
«Allora ci vengo anch'io.»
«Ma zitto! E non dir nulla a nessuno: specialmente alla mamma.»
«Per chi mi avete preso? per una spia?»
«A proposito», disse Cesare, «come ci dovremo mascherare?»
«Io non lo so», disse Pierino.
«Neanch'io», soggiunse Orazio.
«Silenzio tutti! M'è venuta in capo una bella idea! Ma proprio bella...»
«Sentiamola.»
«Ditemi, ragazzi; le volete davvero queste cento lire?»
«A me mi pare che tu ci canzoni...»
«Io non canzono nessuno.
Le volete, sì o no, queste cento lire?»
«Io son contento se me ne dai quaranta», disse Pierino, ma le voglio tutte in soldi, perché le mi fanno più figura.»
«Se volete queste cento lire, date retta a quel che vi dico.
Domenica sera ci dobbiamo mascherare tutti e tre, e la nostra mascherata deve somigliare a quella stampa colorita, che portò a casa l'altro giorno lo zio Eugenio...»
«Quale stampa?...», domandò Orazio.
«Quella che rappresenta la famiglia del gobbo Rigoletto.»
«E chi è questo Rigoletto?», chiese Pierino.
«Non lo conosci? Gli è quel gobbo rifatto in musica dal maestro Verdi...
quello che dice:
La donna è mobile
Col fiume a letto...»
«S'è capito, s'è capito», disse Orazio.
«Io, com'è naturale», riprese Cesare, «mi vestirò da Re di Francia, e tu...»
«Mi dispiace di non essere gobbo», disse Orazio, «perché mi vestirei tanto volentieri da Rigoletto!»
«Al gobbo ti ci penso io: lascia fare a me...»
«E io?», domandò Pierino.
«Tu ti vestirai da Gilda, figliola di Rigoletto.»
«Io da figliola? Io per tua regola non faccio da figliola a nessuno: sono nato uomo e voglio mascherarmi da uomo: ne convieni?»
«Benissimo: vuol dire che invece di vestirti da figliola ti vestirai da figliolo di Rigoletto...
Che vuoi che Rigoletto non avesse in famiglia nemmeno un maschio?»
«Così mi piace e ci sto.»
E i tre fratelli, contenti di questa bellissima trovata, cominciarono a ballare in tondo per la stanza, come se avessero già guadagnato le cento lire del premio.
Quand'ecco che Pierino, fermandosi tutt'a un tratto, domandò a' suoi fratelli:
«Scusate, ragazzi, e i quattrini per comprare i vestiti da maschera dove sono?».
Nessuno rispose.
E i quattrini per entrare in teatro, chi ce li da?
La solita risposta.
II.
Quella sera andarono a letto mogi mogi.
Cesare dormiva solo, e in un altro lettino accanto al suo, dormivano Orazio e Pierino.
«Peccato!», disse Cesare con un gran sospiro, prima di addormentarsi.
«Quelle cento lire erano proprio nostre! Nessuno ce le poteva levare...»
«Sfido io!...», brontolò Orazio.
In quanto a Pierino non poté dir nulla, perché russava come un ghiro.
La mattina dopo, sul far del giorno, Cesare svegliò i suoi fratelli gridando:
«Allegri, ragazzi, allegri!...
Ho bell'e trovato il modo di far la mascherata!».
«Davvero?», disse Orazio, allungandosi e sbadigliando.
«Quale mascherata?», domandò Pierino, col capo sempre fra il sonno.
«Ora vi dirò tutto.
Volete sapere chi ci darà il vestiario?...
Indovinatelo! Ce lo darà lo zio Eugenio.»
Lo zio Eugenio (un gran capo-ameno) era fratello della mamma dei ragazzi, e stava con gli altri in famiglia, avendo nella medesima casa anche il suo Studio di pittura.
«E come fai a sapere che il vestiario ce lo darà lui?»
«Ne sono sicuro...
perché glielo porteremo via di nascosto.»
«Lo zio, dunque, ha tutto il vestiario per il Rigoletto?»
«Non è precisamente il vestiario del Rigoletto, ma ci corre poco.
Sono strisce di raso rosso, verde, turchino, di tutti i colori: e con quelle strisce noi ci faremo i calzoni, i vestiti e i berretti...»
«Ma se tu fai da Re di Francia, ti ci vorrà la corona di Re», disse Orazio.
«Come sei ignorante!», replicò Cesare con una scrollatina di capo.
«Ma non sai che i Re di una volta, quando andavano a spasso, non portavano in capo né corona né cappello?»
«O quando pioveva, come facevano?», domandò Pierino.
«Pigliavano l'ombrello, o se no, rimanevano in casa.
Anche noialtri si sarebbe fatto così, ne convieni?»
«Tu discorri bene», soggiunse Pierino, «ma nella Storia Romana non c'è detto che gli Imperatori andassero fuori con l'ombrello...»
«E tu ci credi alla Storia Romana? Povero bambino, lo spendi bene il tu' tempo!...»
Per farla breve, i tre fratelli entrarono nello studio dello zio, mentre lo zio era sempre a letto, e da una vecchia cassapanca gli portarono via un grosso fagotto di calzoni di seta, di sottoveste e di giubbe di raso e altre anticaglie d'ogni modello e colore.
Poi corsero a dare un'occhiata a quella famosa stampa che rappresentava - per dir come dicevano loro - tutta la famiglia di Rigoletto: e presi i necessari appunti, si rinchiusero in camera a lavorare.
Pierino, dopo averci pensato ben bene, si rassegnò a vestirsi da figliuola, invece che da figliuolo, e Cesare, avendo trovata una corona reale di cartone dorato, si rassegnò a portarla in capo.
La mattina dopo...
volete crederlo? tutto il vestiario, a furia di spilli, di aghi e di punti infilati a caso, era già in ordine.
Come facessero, non saprei dirvelo davvero.
Io so una cosa sola, ed è questa: che i ragazzi, anche quelli di poca levatura, dimostrano sempre moltissimo ingegno quando lavorano per i loro balocchi.
E i quattrini per entrare a teatro? Dove trovarli? Da chi farseli imprestare?
Chiederli alla mamma era inutile, perché sarebbe stato lo stesso che scoprire tutto il sotterfugio combinato fra loro.
A buon conto, avevano saputo che il biglietto d'ingresso al teatro costava una lira: dunque, essendo in tre, ci volevano almeno tre lire.
Inventando una scusa di libri da comprare, si provarono a chiederle allo zio Eugenio: e lo zio, famoso per queste burle, rispose subito:
«Volete tre lire sole? Io non faccio imprestiti così meschini! Chiedetemi cento, duecento, mille lire...
e allora c'intenderemo...».
«Gua'», disse Pierino, «se lei ci fida anche cento lire, noi le si pigliano volentieri.»
«Sicuro che ve le fido! E perché non ve le dovrei fidare?»
«Dunque la ce le dia.»
«Portatemi il calamaio e un pezzo di foglio bianco.»
Quand'ebbe l'occorrente, lo zio scrisse sopra il pezzo di foglio:
Pagherete ai miei nipoti Cesare, Orazio e Pierino lire cento, che segnerete a mio debito.
Lo zio
«E ora», domandò Cesare, «da chi si vanno a prendere queste cento lire?»
«Alla Banca de' Monchi.»
«E dov'è questa Banca?»
«Qui svolto.
Appena usciti di casa, tirate giù a diritta, poi trovate una piazza, poi svoltate a sinistra, poi girate in dietro, traversate il ponte e appena fuori della barriera, lì c'è subito la Banca de' Monchi.»
I tre ragazzi stettero attentissimi: ma non capirono nulla.
Fatto sta che Cesare, invece di andare a scuola, girò per tutta la città; e a quanti domandava della Banca de' Monchi, tutti lo guardavano in viso e ridevano.
Tornato a casa, disse a' suoi fratelli:
«Lo zio ce l'ha fatta!».
«Cioè?»
«La Banca de' Monchi è una sua invenzione.»
«E ora come si rimedia?»
«Il rimedio ce l'avrei...»
«Dillo, dillo subito!», gridarono Orazio e Pierino.
«Ci state voialtri a vendere i libri di scuola?»
«Magari!...
e poi come si ricomprano?»
«Con le cento lire del premio!»
«Benissimo! E così li avremo tutti novi.»
«E tutti rilegati...»
A furia di discorrere e di ragionarci su, quei tre monelli finirono per persuadersi che, a vendere i loro libri di scuola, facevano un'operazione d'oro.
Lo stesso giorno, Cesare, con un fagotto sotto il braccio, an
...
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