LE LETTERE 1, di Giuseppe Gioachino Belli - pagina 43
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Ti abbraccio di cuore, e sono il tuo P.
P.S.
È general voce che il Marchese Ettore Florenzi sia morto al suo casino della Colombella.
LETTERA 175.
A ORSOLA MAZIO - ROMA
Di Perugia, 24 settembre 1833
Carissima Orsolina,
Io già sapeva che tu saresti balestrata in ottobre: ti ringrazio però di avermene data partecipazione tu stessa, e tengo ciò in conto di quella gentilezza che ti distingue.
Sii felice, cara cugina, e felice quanto il mio cuore ti desidera e quanto tu meriti di essere.
Lo sposo che la provvidenza ti ha destinato ha tutti i caratteri da farti presagire una bella vita di pace.
Sii felice, ti ripeto.
Io vidi andare a marito tua madre: vedo oggi il tuo imeneo, e così spero trovarmi un giorno agli sponsali della prima tua figlia.
Allora io era quale ora tu sei, e al futuro matrimonio della tua prole tu sarai quale adesso io mi trovo.
Parlo di età.
Io vo sempre sventuratamente innanzi a te; e quando tu ancora vigorosa abbraccerai i tuoi nipotini, mi sarà forza di bamboleggiare con essi.
Vedi, cara cugina, come ancora fra le gioie possano trovarsi pensieri di malinconia.
Ma e poi perché? Se io sarò vecchio, lo saranno tutti quelli che vivranno di poi, e beato chi guardando sui giorni vissuti non vi troverà vergogna che lo faccia arrossire.
Dunque, innanzi, e ciascuno adempia alla propria missione.
Se le tue nozze accadessero verso la fine di ottobre, o almeno a mese inoltrato, io spererei di trovarmi personalmente ad accompagnarti all'altare.
Se poi dovrà accadere altrimenti, mi contenterò in arrivando di salutarti Matrona.
Avrai avuto in mia casa notizie del mio Ciro, e delle belle speranze ch'egli mi dà.
Salutami testa per testa tutti i tuoi, e in favore della circostanza i saluti pel caro Balestra sien due, e più se ti piace reiterarli.
Sono veramente pago di averlo preso parente.
Perdoni, Signora Sposa, la confidenza cuginale di questa mia lettera, e mi creda sempre
Suo aff.mo cugino G.
G.
Belli
LETTERA 176.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 24 settembre 1833
Cara Mariuccia
La guarigione di Ciro mi ha per due ordinarii trattenuto dallo scriverti, onde, non essendovi più un urgente bisogno di carteggio in tutti i corsi postali, rimetterci in regola.
Rispondo pertanto oggi alle tue carissime de' 17 e 21.
Comincerò dal dirti che Ciro seguita a star bene, anzi mi dice il cameriere che neppure gli fa più i bagnoli.
Io l'ho veduto fin qui ogni giorno, e nel solo sabato scorso che non lo vidi, lo incontrai alla Università dov'è l'esposizione del concorso annuale e triennale delle belle arti.
Giovedì 19 non solo non andò Ciro in campagna ma non ci andò neppure nessuno del collegio, stante il pessimo tempo.
Vi andarono però jeri, ed io li vidi tornare.
Ciro era tutto vispo e contento.
Ti dice egli al solito mille cose affettuose, baciandoti la mano e dandoti i saluti per Antonia, etc.
etc.
- Circa ad Angelica, se i polmoni son tocchi, il parto non la può salvare.
Non so perché tanto strepito per la scoperta del corpo di Raffaello, mentre si è sempre saputo che stava sotterrato in quel luogo.
Se lo volevano fuori lo potevano scavar prima.
In tutti i modi, certamente questa è per le arti una bella reliquia.
- Ora che Biscontini non c'è chi guiderà, il nostro delicato affare con l'avv.
Costanzi? E Biscontini non torna in Curia che ad anno nuovo! Che carte vuoi che abbia occulte Costanzi? Non ne può avere, e se ne avesse, le avrebbe già tratte fuori.
Egli tenta come tanti altri che girano mille tribunali per pagar quattro in luogo di uno.
Ti ringrazio de' saluti di Zia Teresa e Mariuccia, come ancora della notizia del matrimonio di Orsolina.
In questo ordinario ho avuto da lei stessa la formale partecipazione, e vado a risponderle rallegrandomi.
- Bravo Biagini! Birbo quel Pippaccio! - Ho avuto lettera di Corazza il quale dice che gli orribili tempi hanno impedito fino ad ora la consumazione della conta degli alberi, la quale però spera di finire in questi giorni, finita la fiera di Campitello.
I ristauri sono a buon punto.
Secondo i termini del contratto egli e Stocchi vanno ad eseguire un taglio nella Macchietta, e perciò stanno all'ordine quattro prosciutti, che io gli scrivo di mandarteli.
Ho avvisato anche Babocci del mio ritorno a Terni circa il 10 ottobre.
I tempi qui seguitano ad essere bestiali, ed io mi sento tutto indolito.
Come salvarsi del tutto? Hai tempo a star dentro: l'aria fredda e umida penetra per ogni luogo.
Sono abbracciandoti di cuore il
tuo P.
LETTERA 177.
AL DOTT.
RAFFAELLO BERTINELLI - ROMA
Perugia [5 ottobre 1833]
...
La vostra lettera, segnata da Voi col 23 settembre, non giunse a questo uficio postale che il 27, ed in quel giorno io era in letto con febbre di reuma, che per varii altri ha durato ad affligermi.
Nello scorso ordinario io mandai ciò a notizia di mia moglie, di modoché se voi in oggi la vedeste sappiate che questo non è più per essa un mistero.
Tuttavia il male non è stato grave, ed ora me ne trovo libero.
Mi affliggono veramente le novelle che di voi mi date, e veggo con amarezza che non sia ancor sazia la fortuna di perseguitarvi, quandoché nel Mondo avrebbe dove assai meglio e con più di giustizia esercitare le sue persecuzioni.
Ma poiché quasi sempre gli avvenimenti sono condotti dalla mano degli uomini, i quali poi al complesso de' loro maneggi si compiacciono d'attribuire l'astratto nome di Sorte, non è da stupirsi se i mali effetti della lor gravità cadano più spesso sui migliori che non sui tristi, dappoiché o questi raramente mancano di armi di difesa contro gli attacchi de' loro uguali, o gli ultimi amano, piuttostocché offenderli, farseli complici nella eterna insidia che tendono alla odiata virtù.
Comprendo le mie parole dover giungere fiacco balsamo e inefficace alle acerbe vostre ferite, ma poiché so pure che l'esser compatito nella sventura è, se non altro, un male di meno, io intendo che voi, prendiate per ora dalla mia penna que' conforti che non mancherei di apprestarvi vicino onde ajutarvi a sostenere i colpi della disgrazia la quale siccome tutti gli altri mali agenti della terra non sa poi a lungo resistere contro una determinata costanza.
Tenetevi cara la tibi-Seraphina, nella quale veggo più semplicità che mal'animo contro di voi.
Poverina! Sarebbe necessario un cuore di bronzo per tener saldo contro i combinati attacchi di una raffinata malizia, di maniera che fra tante suggestioni perverse non è maraviglia che il di lei nuovo cuore vada fluttuando.
Io parto di qui fra quattro giorni.
Addio, caro Bertinelli: sono sempre il v.ro aff.mo a.co
Belli
LETTERA 178.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Terni, 15 ottobre 1833
Mio caro Ciro
Giunsi in questa Città la sera di domenica 13 dopo un felicissimo viaggio.
Ti assicuro che l'essermi allontanato da te mi ha costato molta pena, la quale è però mitigata dall'averti lasciato in buona salute e così bene affidato qual sei.
Procura di conservarti sano col moderato uso di tuttociò che ti si concede al sollievo dello spirito e del corpo, e fa' che le notizie che io andrò di te ricevendo mi riescano sempre di consolazione sotto ogni rapporto, così di salute, come di condotta e profitto, tantoché col rivederti nel prossimo anno ti ritrovi convenientemente più vicino al perfezionamento a cui ti si va conducendo.
Riverisci per me il Sig.
Presidente, il Signor Economo, e il Sig.
Prefetto.
Amami e ricevi la mia benedizione.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 179.
A CIRO BELLI - ROMA
Di Terni, 24 ottobre 1833
Mio caro Ciro
Mi ha scritto la tua mamma le seguenti cose sul tuo conto.
Io ti copio qui appresso le medesime parole della sua lettera.
Eccole.
"Ieri ho ricevuto una lettera di Ciro, diretta a te.
Credo che abbia sbagliato dirigendola a Roma invece che a Terni, poiché diversamente mi sembrerebbe assai singolare che io non ci sia nominata nemmeno con un saluto.
Mi dispiace peraltro che, ancorché fosse destinata per Terni, non ci abbia messo nessuna parola per quelli di Casa Vannuzzi, nostri parenti, che pure egli conosce, e dai quali ha ricevute molte finezze al suo passaggio per quella Città.
Bisogna che Ciro sia un poco più premuroso sul punto della gratitudine.
Ora dimentica sempre anche Antonia, che è per lui come una seconda Madre; e a me non piace tanta disinvoltura, la quale col tempo diviene durezza ed egoismo.
Debbo pure osservare che le ultime due lettere scritte da lui tanto a te che a me, sono così tirate via e di un caratteraccio così brutto, che fanno nausea: ed anche di questo non sono contenta.
In questo modo egli fa mostra di peggiorare piuttosto che migliorare".
Tu sai, Ciro mio (riprendo qui io tuo Papà) che molte volte ti ho a Perugia rimproverato della tua indifferenza e negligenza nel dimandare nuove della tua tenera Madre, la quale non sarebbe mai stata fra noi nominata se non te ne avessi parlato sempre io pel primo.
Comprendo che circa le lettere che tu scrivi te ne vien data la minuta bell'e fatta, ma chi stende la minuta non è obligato di conoscere tutti gl'impegni del tuo cuore verso le persone alle quali tu devi mostrare riconoscenza.
Devi tu stesso pregarlo ad includerci le debite menzioni.
Riguardo al carattere, badaci un poco di più, caro figlio, e non mostrar di disimparare.
Riverisci per me i Sig.ri tuoi Superiori, e credimi sempre
tuo aff.mo Padre.
LETTERA 180.
A CIRO BELLI - ROMA
Di Roma, 30 novembre 1833
Mio caro figlio
Riscontro la tua graditissima lettera del 19 spirante, e ti faccio stimolo con la presente a scrivermene un'altra quanto prima, onde istruire la tua Mammà e me stesso del tuo stato di salute e di tutto il resto che ti concerne.
Io già sapeva, sin dal mio partir da Perugia, che i tuoi studii pel nuovo anno scolastico dovevano essere l'aritmetica e la lingua latina: mi ricordo anzi che circa a quest'ultima tu mi dicesti essertene già tanto anticipato qualche principio dal tuo buon Maestro Sig.
Felicioni.
Mi piacerà oggi di udire come ti sembri riuscirti difficile questo dotto idioma.
Io però tengo per fermo che le notizie che tu già possiedi di grammatica in genere, sienti per facilitare d'assai i progressi in una lingua così necessaria a chi nel Mondo vuol sapere.
Ed è tanta, Ciro mio, la necessità del conoscere la lingua latina, che non solo la ignoranza di essa ci priva della conoscenza di tanti capi-d'opera originali, ma ci niega altresì il possedere a perfezione la stessa nostra lingua nativa, che, figlia della latina, prende da quella il più bel lustro delle sue forme.
Allorché tu avrai familiare la superba lingua del Lazio, sarai stupefatto delle bellezze sublimi degli antichi Autori; e le stesse carte che tu scriverai, riterranno l'indole delle tue buone letture.
Il Sig.
Rettore sa se io ti dico il vero.
Studia dunque, o mio Ciro: un poco di fatica sarà un giorno ricompensata da infinito piacere e da gloria.
Te lo prometto.
Riguardo alla Calligrafia, mi sembra, Ciro mio caro, che tu vada prendendo qualche difetto, il quale con qualche attenzione potrai facilmente ritoglierti.
Per esempio, la lettera F, che una volta era da te scritta secondo le forme più lodevoli, ora la fai nel seguente modo...
Questa, figlio mio, è una forma un po' sconcia, e disarmonizza nella scrittura colle lettere vicine.
Giudicherai tu stesso della Verità delle mie asserzioni dalle due parole che qui appresso io ti segno
affetto
difficoltà.
Non vedi tu, Ciro mio, che nel modo scritto alla tua guisa le due ff sembrano piuttosto due lunghe zeta, tantoché quelle due parole si leggono meglio per azzetto dizzicoltà che non per affetto difficoltà? Di dove hai cavato questa barocca forma di lettera? - Nel resto poi bada di non tirar via nello scrivere.
Io so che fra gli studii non si può scrivere sempre con tanto agio e tanta attenzione, mentre l'applicazione ed il tempo debbonsi economizzare in favor del soggetto che si scrive, e non già totalmente o in gran parte concedersi al carattere con cui si scrive: ma almeno in qualche particolar circostanza, dove lo studio non entri per primo, sii accurato nello scrivere in modo da non perdere un'abilità che avevi acquistata.
E in quanto alle lettere che mi dirigi, sieno esse più brevi, se vuoi, ma più corrette, imperocché io ci trovo non poca negligenza nella ortografia, e per conseguenza molte correzioni.
Riflessione, Ciro mio, riflessione in ogni cosa, e non si sbaglia mai, o raramente.
Come ti trovi nella nuova Camerata? - La famiglia Fani mi scrisse i tuoi saluti: il Sig.
Biscontini me li ha portati.
La tua Mammà ti dice mille cose piene di amore e di tenerezza, e ti esorta a studiare, esser buono, e stare allegro.
Antonia e gli altri nostri buoni domestici ti salutano.
Presenta i miei rispettosi ossequii ai Sig.ri tuoi Superiori, e ricevi i miei abbracci e la mia benedizione.
Il tuo aff.mo Padre
LETTERA 181.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 dicembre 1833
Mio carissimo Ciro
Non dubitare, non perderti di animo.
La lingua latina, sul principio dello studiarla, suole riuscire un poco difficile a quasi tutti; ed io mi ricordo che anche a me accadeva altrettanto allorché io era della tua età, e, come te, principiante.
Di mano in mano però l'esercizio continuo, e l'abitudine che ne consegue, rendono familiare qualunque più astrusa difficoltà.
A te non manca ingegno.
Non ti dico ciò perché tu ne insuperbisca, mentre il talento e tutto quello che abbiamo al Mondo di buono è dono gratuito della Providenza, e non già nostro merito particolare.
Intendo solamente di dimostrarti che con disposizioni sufficienti di spirito non si deve disperare di buon successo in nulla di quanto s'intraprende con ferma volontà.
Il peggio che possa accadere a uno studente è il diffidar troppo di sé, e lasciarsi sgomentare dalle prime difficoltà, inseparabili da tutti i nuovi sperimenti.
Col coraggio e colla perseveranza ogni giorno si guadagna una vittoria sopra gli ostacoli, e non solamente si superano i presenti, ma si acquista ad un tempo il vigore per superare i futuri.
I più famosi uomini della Terra sono stati fanciulli, niuno di essi era nato istruito: tutti si trovarono nuovi al principio nella carriera del sapere.
Che mai sarebbe accaduto di loro, e quale di tante famose opere avremmo noi oggi, se alle prime difficoltà sbigottiti, si fossero arrestati sulla via che li condusse poi a tanta altezza di gloria? Tu hai detto saggiamente che raddoppiando d'impegno speri di far que' progressi che lo studio non nega mai alla costanza.
Quello che oggi ti sarà sembrato oscuro e spinoso, col ritornarci sopra a mente serena e non divagata ti si farà dimani chiaro, molle e fiorito.
Vedi, o mio Ciro, la natura d'inverno.
Ti parrebbe mai che quel prato sterile, nudo e malinconico dovesse poi ben presto ricoprirsi di tutti i doni della fecondità? Eppure pochi raggi di un benefico Sole di primavera bastano a produrre il miracolo.
Dov'erano nevi e brine sorgono indi a poco pingui erbe e vaghissime; e colorite frutta appaiono sugli aridi rami degli alberi.
Altrettanto accade nell'uomo.
Esso non ha da principio che la capacità di produrre; ma il calor dell'ingegno unito al tempo e alla pazienza lo muta a poco a poco in tutt'altro da quello di prima e dice la Sagra Scrittura che colui che seminerà con lagrime, raccoglierà esultando vale a dire, che le fatiche sostenute nel coltivare saranno premiate dall'allegrezza della raccolta.
Sta' dunque di buon'animo, Ciro mio: studia con fiducia di riuscire, e riuscirai.
Il profitto verrà da sé, senza quasi che tu te ne accorga: e un giorno sarai certo che io ti diceva la verità.
Studio, coraggio, e il successo è infallibile.
Tuo padre non t'inganna.
Ho veduto il Signor Presidente Colizzi.
Egli mi ha dato buone notizie di te, e ti vuol bene.
Procura dunque, mio caro figlio, di non demeritare mai la di Lui grazia, né quella degli altri tuoi buoni Superiori.
Sii umano, gentile, obbediente, assiduo ne' tuoi doveri, e grato alle cure che ti sono prodigate in tante maniere.
Ama pure, e rispetta i tuoi compagni, imita il buon procedere di ognuno e non invidiare la gloria di alcuno.
Sii sempre verace ed umile, e quando mai ti avvenga di fallire, ringrazia chi ti ammonisce.
Questi consigli ti diamo tua Madre ed io, ed intendiamo che siano il miglior regalo che possiamo farti per le imminenti SS.
feste, che desideriamo felici a te, a' tuoi Superiori e a tutto il Collegio.
Fra giorni poi avrai qualche cosetta da goderti per amor nostro.
I giuochi però saranno meno, perché ormai ti fai grande.
Ti benedico di cuore.
Il tuo aff.mo padre.
P.S.
Oltre a Mammà (che ti benedice con me) ti salutano tutti i buoni amici di Casa, e Antonia, e Domenico e gli altri nostri amorosi familiari.
LETTERA 182.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 26 dicembre 1833
Ciro mio
In questa cassetta che, come nell'anno scorso, ti sarà stata mandata dal Sig.
Angiolo Rossi, e che tu dopo averla vuotata gli restituirai, sono i piccoli doni che ti godrai in quest'anno per amor nostro, secondo che io ti avvisai nella mia lettera del 19.
Vi troverai dunque:
1° Un pangiallo, dono di Annamaria.
2° Un torrone, dono di Domenico.
3° Un cartoccio di mandorle attorrate, dono di Antonia.
4° Un'altro di confetti, dono di Antonia.
5° Una cassettina di colori, dono del Sig.
Marchese Ossoli.
6° N.
7 pennelletti con loro bacchettine.
7° N.
6 piattini da stemprarvi i colori.
8° Un cerino.
9° Due trucchi da terra.
10° Due paja guanti.
11° Un pajo straccali.
12° Una piccola scrivania.
13° Le tue carte mimiche.
14° Il bucciotto, rappresentante il Cavallerizzo.
15° La pompa ad acqua.
16° Il ritratto del Buffon.
17° Le Novantanove disgrazie di Pulcinella.
18° Quattro barattoletti di manteca, fatta da Antonia.
19° Ventiquattro aranci.
20° Un pallone da camera.
21° Quattro libre di cioccolata.
Vorrei sapere quando principieranno le recite nel Collegio, quale commedia si eseguirà; e quale parte tu precisamente vi abbia.
Il Signor Presidente Colizzi ti saluta.
Tu riverisci da parte mia e di Mamà il degnissimo Signor Rettore e il Signor Economo, e per mezzo di questi anche il Sig.
Luigi Micheletti e di lui Consorte, augurando a tutti un buon Capo-d'-anno.
Tutti i nostri parenti ed amici ti salutano, e ti esortano a farti onore, per gloria di te stesso, e della famiglia, che un giorno spera da te il suo lustro.
Tua Madre intanto ed io travagliamo per prepararti uno stato che tu poi dovrai consolidare co' tuoi proprii meriti.
Addio, mio caro figlio.
Ricevi la nostra benedizione.
Sono
il tuo affezionatissimo padre
P.S.
I nostri buoni domestici ti dicono mille cose affettuose, le quali tu riceverai con gratitudine.
LETTERA 183.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 1° febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Giunto di notte a Terni, t'impostai le due righe già preparate fin da Roma, le quali avrai ricevute.
Non avrei mai creduto di essere in tanta compagnia nella diligenza.
Eravamo otto.
- Nella prima giornata e nella notte consecutiva si ebbe diluvio.
Jeri poi da Fuligno fin qui un vento agghiacciante e così impetuoso che faceva prova di atterrare il legno.
Oggi è nuvolo, freddissimo, e minaccia neve.
E la bella è che tutti affermano che sino a jeri si era qui avuta una primavera.
Sempre io mi porto appresso il buon tempo.
Arrivai qui jeri sera, e non ti dirò la sorpresa di questa buona famiglia, che ha messo sossopra la casa onde farmi festa e graziosa accoglienza.
Questa mattina poi ho goduto l'affetto prodotto in Ciro nostro dalla mia repentina visita.
È rimasto estatico, e poi colla voce agitata mi è saltato al collo, dicendo: Papà! è Papà! E Mammà è venuta? Poi ha principiato a saltare rosso come un gambero.
Egli sta di un bene da non potersi spiegare, colorito, prosperoso, lietissimo, e con due guancie grosse e dure come due pietre.
Mi ha condotto a vedere la sua camera, dove ha portato zompando la tazza da noi donatagli, e da lui gradita oltremodo.
Oggi dev'essere giunta a Roma la lettera in cui egli ci dava conto dell'esame trimestrale.
I Superiori ne sono restati contenti e mi han detto che Grazioli stesso gli è rimasto di un grado inferiore.
Lunedì sera andrò ad udirlo recitare in una Commedia intitolata: i Golosi.
Dicono che ha una parte non tanto breve.
Se dovessi riferirti tutte le cose da lui dettemi per questo mio viaggio, e per te, e per Antonia, Domenico, etc.
etc.
non finirei mai.
Parlava, saltava, e si stropicciava le mani, battendole quindi per festa che veramente veniva dal cuore.
Di' al Sig.
Dr.
Micheletti che appena arrivato (a tre ore di notte), consegnai a Barbanera pel di lui studio la lettera e il plico.
Circa a questo, è curiosa che smontato io di diligenza mi scomparve dinnanzi il Sig.
Bianconi che doveva consegnarmelo.
Dovetti dunque farlo cercare per le locande di Fuligno per chiederglielo.
Egli, trovato che fu, mi mandò per risposta che nulla doveva egli darmi per Perugia.
Mi fu pertanto forza, mentre io pranzava, di rimandarci una seconda volta il cameriere di Pollo con una ambasciata più viva e circostanziata.
Allora venne indietro il plico.
Col locandiere Pollo ebbi battaglia.
Di questa parleremo e rideremo poi a voce col Dottor Micheletti.
Sappia Biscontini che dallo stesso Barbanera ho fatto avvisare il Dr.
Speroni.
Ancora però non ho veduto alcun di lui messo per ritirare la roba che debbo consegnargli.
(Ecco che arriva il Dr.
Speroni).
Ho incontrato per istrada questo Sig.
Bianchi, la cui famiglia poi visiterò.
Mi ha detto il Rettore che a loro richiesta, otto giorni indietro, condusse in loro casa Ciro, che ne fu ricolmato di finezze.
La sola visita che è stata da me fatta finora è al Sig.
Rossi nel suo sgabbuzzino.
Egli sta bene e saluta te e Biscontini.
Io ho freddo, sto bene, ti abbraccio di cuore e ti prego ricordarmi agli amici.
Sono
il tuo P.
P.S.
- Martedì 4 puoi azzardare due righe di risposta.
È vero che se debbo trovarmi la sera del 5 a Fuligno per la diligenza della notte, non potrei avere la tua lettera; ma in ogni modo sarà bene che me la invii per tutti i casi che in detto giorno non mi facessero ripartire, mentre Ciro non è affatto contento di soli quattro giorni, e questi Signori Fani ne vorrebbero almeno sette.
Basta, vedremo.
Benedici Ciro che lo desidera tanto.
LETTERA 184.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 4 febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Rispondo alla tua del 1° corrente.
- Come ti dissi nella mia dello stesso giorno, io già sapeva l'arrivo a Roma della lettera del nostro Ciro.
Sapeva altresì dell'altra lettera di Casa Fani, e me ne hanno qui manifestato il contenuto.
Ti ringrazio delle notizie che mi dai dell'Accademia del Venerdì 31, e mi rallegro che tu abbia goduto di una bella serata.
Anche io sono qui andato sino ad ora una volta al teatro, e questa volta fu sabato a sera, essendovi stata opera tanto la vigilia che il giorno della Candelora.
La esecuzione della Norma mi piacque ben poco.
La Taccani (meno l'antipatia) è sul gusto della Tacchinardi.
Il tenore cantò come un bagherino, movendosi come un manipolatore di torroni.
Il basso e nella voce, e nella figura, e nella mimica, e nel vestiario, pareva un confratello del Suffragio che siasi alzato il cappuccio.
Del resto non occorre parlare.
Jeri sera fui al teatrino del Collegio Pio.
Le decorazioni e il vestiario sono senza pecca.
I convittori declamano come violini scordati.
Due soli ragazzetti de' più piccoli mostrano qualche disposizione naturale.
Pronunciano tutti alla barbarica, e dicono degli spropositi sistematici, che il Sig.
Direttore doveva prevenire.
Ciro non recitò jeri sera, ma insieme con altri compagni comparve da soldato nella farsa del pitocchetto, e con essi eseguì delle evoluzioni militari, che furono il più bel pezzo della serata.
Erano assai cari que' raponzoli, in uniforme e baffetti, marciare armati a suono di tamburo, ed obbedire con sufficiente precisione al comando di un colonnello, rappresentato da uno de' collegiali più grandi, che aveva parte nella farsa.
Egli, cioè Ciro, recita questa sera, ed io andrò ad udirlo.
Essendo egli uno de' piccoli, spero per questo motivo che sia meno cagnolo degli altri maggiori, perché qui vedo che appunto la natura che inclinerebbe al buono è poi falsata in appresso dalla pretensione che va in sull'esagerato, e dalla direzione di un soggetto, i cui allievi me lo fanno calare di credito.
Ci fu anche un ballo di cinque ballerini, pure collegiali.
Consisteva in una specie di contradanza di un centinaio al più di zompetti e di alzate di braccia concertata per dieci scudi da quel manichino vecchio del Serpos, al quale avrei invece contato dieci nerbate sulla schiena degna di un basto sdrucito.
Ha ridotto questi poveri ragazzi, che sembrano dieci salami attaccati a cinque prosciutti, prendendo il prosciutto per vita e il salame per gamba.
Io domani non partirò più, perché non essendo ancora attivata la diligenza nuova per Todi e Narni, se io andassi a Fuligno onde attendervi la diligenza ordinaria che vi passa nella notte seguente tutti mi dicono che in questi ultimi giorni del romano carnevale si può scommettere cento contro uno che non vi troverei posto.
Che farei allora a Fuligno? E troverei altra vettura subito, quando anche volessi stare in viaggio tre giorni? Sarà dunque più prudente che io parta di qui domenica 9, per profittare del seguente corso di diligenza che arriverà a Roma la mattina dell'11, ultimo giorno di Carnevale, pel qual corso mi soggiungono tutti che si può invece scommettere la testa che il posto vi sarà, mentre chi vorrà correre ai soli moccoletti? Intanto ci riudiremo in seguito.
Ciro sta benone: ti saluta, ti abbraccia, e ti chiede la benedizione.
Nell'aritmetica egli ha fatto in tre mesi quel che gli altri in due anni.
Così precisamente mi ha detto il maestro.
È arrivato a tutti i calcoli delle frazioni e si dispone già ai calcoli superiori, introduttivi alle operazioni algebriche.
Nella lingua latina ha dato anche saggi assai sufficienti.
Circa poi alla sua dolcezza, bontà e modestia, ti assicuro che non solo in Collegio, ma è lodato anche per la Città.
Egli saluta Antonia, Domenico etc.
Di' mille cose per me ai Calvi, a Biagini, Spada, Pippo e a tutti gli amici.
Ti abbraccio di nuovo e sono
il tuo P.
LETTERA 185.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 6 febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua del 4 corrente.
Martedì sera come ti dissi, fu la serata che andò in iscena Ciro.
Recitò egli in una commediola in due atti, della Rosellini di Firenze, intitolata: I Golosi.
I due ragazzi erano Ciro e Grazioli, ai quali accaddero certe avventure spiacevoli, per essere entrati in un orto altrui a spogliare un albero di frutta.
Il carattere però che rappresentava Grazioli era di un giovanetto sprezzatore dei consigli della età matura, laddove al contrario quello dell'Enrichetto, di lui cugino (parte di Ciro) si opponeva alle derisioni e irriverenze dell'altro.
La dissero entrambi benino e con molta disinvoltura, malgrado una ben piena udienza che ingombrava il teatro.
Io non soglio farmi velo alla verità di privati affetti; e perciò qualora ti dica e ti ripeta che que' ragazzetti declamano con maggior naturalezza che i più grandi, credimi.
Una volta Ciro dimenticò due o tre parole di un suo discorso, e senza smarrirsi fece un'alzatina di spalle e tirò via.
Tutti risero.
Un'altra volta, dovendo dare ad una villanella due frutta che aveva in saccoccia, se ne scordò; e dopo qualche momento ricordatosene, disse: ah! a proposito..., e, cavatele fuori, le consegnò.
Que' raponzoletti ebbero molti applausi.
Mi ha dimandato questa mattina il nostro Ciro quando io parta.
Gli ho risposto: domenica mattina.
Egli allora: bravo, bravo, Papà: va benone: così state un po' più: va benone.
E qui due zompetti al solito, e una stropicciata di mani.
Egli ti saluta tanto e poi tanto, ti chiede la benedizione, e ti promette di farsi onore.
Saluta anche Antonia, Domenico, i di lui figli ed Annamaria.
I giuocherelli da noi mandatigli hanno fatto furore.
I tempi sono assai cattivi, e di carnevale qui non ce n'è neppure l'idea, meno il teatro, ed alcune feste di ballo, le quali, come puoi pensare, io non frequento affatto.
Ieri sera incoronarono al Teatro la prima donna Taccani, con molta derisione della più sana parte della Città.
Incoronata per mano d'un genio, che n'ebbe da essa la mancia di uno scudo, fu ricoperta da una pioggia d'oro come Danae, colla sola differenza che gli zecchini si commutavano in un diluvio di pezzetti di talco gettati giù dai cieli del palco scenico.
Al fine poi dell'opera la Signora fu condotta a casa fra bande e torcie in un legno da gala della Regina di Baviera.
E qui notisi di passaggio che questa Signora dell'altissimo canto ha avuto qui la paga di trecento scudi.
Ma una corona, una pioggia di talco, e un trionfo l'hanno posta in Perugia nell'ordine delle dame di fama europea.
Iddio però gliela mandi buona, perché di detronizzazioni in questo malaugurato secolo non è penuria; e le corone che da un paese si danno, spesso da un altro si tolgono.
Povera Taccani allora; e più povera Perugia! La Taccani è una buona donnina di secondo ordine.
Ma a quelle di primo cosa darà il Trasimeno?
Saluta tutti, e ricevi un abbraccio di cuore
dal tuo P.
Alla presente non rispondere, perché io sarò partito allorché arriverebbe il riscontro.
LETTERA 186.
A FRANCESCO CASSI - PESARO
Di Roma, 15 marzo 1834
Pregiatissimo amico
Il corriere del 13 mi portò il vostro manifesto colle due annesse tessere di dichiarazione che voi proponete a' vostri antichi Soci, onorevoli forse tutti come voi dite, ma non tutti per avventura egualmente generosi.
- Coll'ordinario poi di oggi ricevo la cara e gentil vostra del 9, marcata in arrivo il 13, ma non più presto pervenutami, stante la mancanza dell'indirizzo, che io raccomando a tutti i pochi miei corrispondenti al fine di non andare a farmi pestare inutilmente le coste per dieci volte all'inferriate postali, e perder quindi la virtù della perseveranza proprio in quel torno che mi avrebbe fruttato una lettera.
Il portalettere però, che conosce me e le mie mance, trovata oggi la vostra epistola negli scaffali dell'Uficio, ne l'ha tolta, ed ora vi rispondo al momento.
Per soddisfare alla dimanda intorno al numero delle copie che rimangono in essere de' quattro fascicoli sino ad oggi stampati, non parmi poter fare di meglio che riepilogare qui le notizie datevi con due miei fogli del 27 e 29 Luglio 1830, riscontrate prima in vostro nome il 5 agosto seguente dal Sig.
Honory, e poscia da Voi medesimo sotto il 19 del medesimo mese.
In questa anzi e successiva vostra del 16 ottobre, detto anno, mi annunciavate che le carte della gestione Cavalletti, speditevi da me il 29 luglio anteriore, erano sotto l'esame vostro e del Sig.
Vincenzo Bontà, del quale esame mi avreste poi partecipato il risultamento: e a ciò si rimase.
Intanto le notizie eccole qui:
Copie esistenti
dei fascicoli:
In carta
ordinaria
Velina bianca
Velina perla
1°
N.
33
N.
20
N.
1
2°
- " 53
- " 31
--" 5
3°
- " 66
- " 34
-" 10
4°
" 105
- " 57
-" 13
___
___
___
N.
257
N.
142
N.
29
Totale per fascicoli
Totale per qualità
Fasc.° 1°...
N.
54
Fasc.° 2°.
.
.
" 89
Carta ordinaria .
.
.
N.
257
Fasc.° 3°.
.
" 110
Velina bianca .
.
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.
" 142
Fasc.° 4°.
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" 175
Velina perla .
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." 29
_____________
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N.
428
corrisponde al .
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N.
428
Questo è il numero de' quaderni deposti presso di me dal distributore Sig.
Cavalletti, e questo è il medesimo numero che deve al presente esistere, perché quantunque da me non riscontrati prima di scrivere la presente, pure so che da luogo in cui stanno niuno può averne rimossi.
Attenderò dunque il Sig.
Biolchini per mostrargli il detto fondo e per tenere con lui que' proposito che meglio crederà egli giovare alla vostra ristorata intrapresa; e ben volentieri mi recherei tosto io medesimo a visitarlo, dove io sapessi chi sia e in qual parte abbia dimora, cose entrambe a me ignote, dappoiché io, poco al fatto della letteratura romana, niuno mai vedo di coloro che sono da lui segretario assistiti.
Questi Signori arcadisti tengonsi troppo in sull'alto, senza pensare che vien sempre la falce del Tempo a fare di tutto le debite detrazioni.
Isthuc est sapere, non quod ante pedes modo est videre, sed etiam illa quae futura sunt prospicere.
E quando Terenzio ciò scrisse chi sa che in quel futura non volesse anche considerare il giudizio degli uomini.
- La carta mi manca, ma non il desiderio di trattenermi con voi.
Fate dunque che non mi manchi di che trattenermi in questa occupazione.
Sono il vostro aff.mo amico e servitore
G.
G.
Belli
Palazzo Poli 2° piano
Autografo nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro.
LETTERA 187.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 25 marzo 1834
Carissimo figlio
Alle altre tue qualità, delle quali confesso di non saper lamentarmi, va però in te unita una certa malattiola di cervello, di cui desidererei veramente che tu ti guarissi.
E non ti pare difatti di avere il cervelletto un po' guasto, allorché tanto facilmente dimentichi così il tuo dovere di farmi avere le tue nuove, come il desiderio che la tua Mammà ed io nudriamo di riceverle? Te lo ripeterò ancora: io non credo che ciò in te nasca da difetto di cuore, poiché il solo sospettarne mi causerebbe il più grave rammarico.
Ma se in queste tanto frequenti negligenze (condannate dai regolamenti del tuo Collegio, ed accusate dai miei replicati lamenti) si debba far grazia al tuo cuore ed assolverlo sino dalla possibilità della colpa, ritorna sempre più evidente la giustizia del mio dubbio sulla leggerezza di quella tua testina, alla quale non manca altro per volar via che metter fuori due ali come quelle de' passeri.
Tu, in questo rapporto, prendi, mio caro Ciro, una ben nociva abitudine.
L'avvezzar l'anima nostra a troppo spesse negligenze, fa sì che questi atti di trascuranza prendono a poco a poco un carattere d'indolenza su tutti que' nostri doveri, la osservanza de' quali richieda il minimo fastidio e la più lieve fatica.
E sappi, Ciro mio caro, e credilo, e scolpiscitelo bene in mente, che le abitudini contratte nella fanciullezza difficilmente poi si abbandonano in età più matura, anche a malgrado della ragione che persuade e della volontà che stimola a correggersi.
Forse talvolta una risoluzione ben ferma e determinata potrà dare all'uomo avviziato qualche vittoria sopra se stesso, ma sempre le antiche inclinazioni si studieranno di prevalere, e quando anche il trionfo della ragione e della volontà sia completo, quale prudenza è mai quella e quale interesse è di un Uomo, che si riserbi tanti sforzi futuri per combattere un nemico e cacciarlo di casa, quando con sì poca fatica poteva prima impedirgli l'ingresso? Anche in questa mia lettera io conosco il bisogno de' soccorsi del gentilissimo Signor Rettore, onde farti bene penetrare il senso della presente mia morale lezione.
Tu già sai esser mio desiderio che tu rilegga nel tempo futuro le mie lettere, e così la maggior chiarezza ed evidenza che prenderanno allora a' tuoi occhi serviranno tanto a convincerti dello sviluppo del tuo intelletto quanto della verità de' miei avvertimenti, suggeriti dalla esperienza che è la prima e più sicura guida delle umane operazioni.
Ringrazia in mio nome il Signor Rettore della lettera da Lui scrittami il 20, e previenilo (come è dovere) che quanto prima io andrò a mettermi di concerto col Sig.
Vincenzo Fani, onde principiare a darti le preliminari nozioni della Musica, avanti di venire alla pratica dello strumento, il pianforte.
Mammà, che ha ricevuto la tua del 20, ti benedice ed abbraccia.
Altrettanto faccio io, incaricandoti de' miei rispetti a' tuoi superiori.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 188.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
[14 aprile 1834]
C.
A.
Quanti erano gli altri? 75.
Volgi il numero, ed eccotene 57.
Su questi la solita riserva.
Non così sugli altri due non romaneschi, che anzi...
È roba di stagione.
Ne mando anche a Biagini.
Ti abbraccio di cuore.
14 Ap.e
Il tuo B.
LETTERA 189.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
[24 aprile 1834]
Caro Checco
Ieri sera non parlai de' due sonetti qui inclusi perchè, quantunque fatti, mancavano delle note.
Leggitili eppoi me li renderai, non avendone io altra copia, e dovendone fare un certo uso.
Ti abbraccio.
24 aprile 1834
Il tuo Belli
LETTERA 190.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 8 maggio 1834
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua del 6 corrente.
Le nuove del nostro Ciro le avrai già avute dalla mia precedente.
Esse continuano ad essere le medesime.
Questa mattina è venuto in questa Casa Fani insieme alla sua Camerata per veder passare la processione delle Rogazioni che si è fatta un'ora avanti il mezzodì, con un vento che gettava i Cristi per terra, e infasciava le teste de' frati nelle loro tonache.
Oggi dopo il pranzo sono io stesso andato a prenderlo e l'ho portato a spasso con me.
Egli sta sempre colla solita allegria e con due guance che paiono pietre.
Ti chiede la benedizione, ti dà mille baci, de' quali alcuni per Antonia, e ti prega salutargli Domenico, Annamaria, Biagio e Gregorio.
Circa a quest'ultimo, ha riso udendo la di lui speranza di venir qui a trovarlo coi danari del terno.
Compiaciti finalmente di riverire in di lui nome tutti gli amici.
In quanto alla dimanda che mi fai intorno al danaro di cui io creda abbisognare fino al mio ritorno a Roma, ti dico che di non molto più avrei d'uopo; ma poiché nel mio passaggio per Terni vi dovrò pagare almeno otto copie d'archivio d'istrumenti e certe fedi catastali e di registro per la Congregazione del Patrimonio Canale (che te ne dovrà rimborsare, secondoché disse Biscontini essere stato stabilito), così sarà bene che tu mi spedisca una venticinquina di scudi, pei quali però puoi prenderti largo fin verso i venti del mese, quando così ti piaccia.
La mia dozzina è già pagata, e le spese per Ciro e qualche altra per me occorrente alla giornata vado facendole a poco a poco.
Ti saluta la famiglia Rossi, e porzione di questa Casa Fani, mentre le Signore, meno la Madre, partirono jeri per la campagna, a dieci miglia di distanza, dove resteranno quindici o venti giorni in un luogo detto la Spina.
Di ciò peraltro, vedendo Angiolino Vani, non fargliene motto, mentre ignorando io se vogliono che lo sappia, mi spiacerebbe che questa notizia gli andasse per parte mia.
A mano a mano che ti capita l'occasione salutami Checco, Biagini, Pippo, Ferretti, il can.co Spaziani, Casa De Witten, Casa Marini, e gli altri amici della nostra famiglia.
Procura di non scalmarti tanto, se i caldi seguitano.
Qui jeri tirò una fredda tramontana.
Ti abbraccio di nuovo e sono
Il tuo P.
P.S.
Oggi ho scritto a Stanislao Bucchi per avere il Certificato ipotecario onde stipulare con Vannuzzi.
Ieri venne a Perugia espressamente il Sig.
Luigi Micheletti e mi pagò Sc.
1:95 per Biscontini.
LETTERA 191.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
Di Perugia, sabato 17 maggio 1834
Caro Ferretti
Tu mi dicesti: scrivimi; ed io ti scrivo.
E per non venirti avanti con le mani vuote, ti mando quattro ciarle in versi, se vuoi, per lo Spigolatore.
Ho qui letto un serto di sonetti tributati da chiari nomi alla memoria del giovanetto Adolfo Mezzanotte, morto alle speranze della patria e del padre: e ci ho voluto cacciare il naso ancor io.
È temerità ma non sarà né la prima né l'ultima de' poetastrelli miei pari.
L'ultima parola del tredicesimo verso è un predicato che poco anzi nulla conviene al suo subbietto, ma sì al frutto di esso.
Io però ho avuto bisogno di quel traslato, e forse potrà perdonarmi sì in vista de' molti obblighi ai quali mi sono nel sonetto vincolato.
Eppoi in poesia si è talvolta trovato di peggio.
Questa, per verità, non sarebbe una buona ragione, ma almeno m'illude la coscienza.
Come stai? La tua famiglia che fa? Salutamela.
Qui fa caldo e freddo a ore; e si va dal mussolo al borgonzone, come del fritto all'arrosto.
Abbracci: addio
Il tuo aff.mo amico
G.
G.
Belli
LETTERA 192.
AL PROF.
ANTONIO MEZZANOTTE - PERUGIA
[19 maggio 1834]
Amico carissimo
Lessi ieri di fiato la Olimpia del vostro povero Adolfo, nonché i funebri versi dell'amicizia, dai quali è l'opera accompagnata.
Chiuso il libro, scrissi il Sonetto che vi mando in tardo testimonio della mia ammirazione per un giovinetto il di cui corpo deve aver ceduto all'azione dell'anima.
Fra i molti peccati che potrete notare nel mio meschino lavoro accuso intanto io medesimo spontaneamente la poca convenienza che lega il suggetto e il predicato messi in fine del 13° verso, dappoiché tra arbore e precoce abbisogna il grado intermedio di frutto.
Ma poichè a qualche difficoltà mi ha assoggettato il riepilogare con qualità contrarie, e in due versi, le tre proporzioni già sviluppate, spero che l'ardire del translato mi si vorrà da voi perdonare.
Nulla dimeno su questo come sugli altri spropositi, mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.
Dal momento in cui venni da voi giovedì, e vi trovai dormiente, sono tuttora in casa per un reumettaccio preso pel repentino abbassamento della temperatura atmosferica.
Io sono un termometro, un barometro e un igrometro.
Vedete dunque in me in intiero gabinetto fisico.
Vi abbraccio di cuore come meritate; e sono il vostro amico
Di casa, 19 maggio 1834.
G.
G.
Belli
[segue il sonetto: "Fiamma, cui l'esca in gradual misura"]
LETTERA 193.
A MELCHIORRE MISSIRINI - FIRENZE
Di Roma, 18 giugno 1834
Mio carissimo Missirini
Allorché giunse a Roma la Vostra lettera del 4 maggio, a me indirizzata, io ne era da pochi giorni partito e mi trovava in Perugia, dove a brevissimi intervalli torno sempre a recarmi trattovi dall'amore del mio figlio, che sta ivi educandosi in quel buon Collegio Pio, instituito e diretto dal sommo uomo Don Giuseppe Colizzi, romano di nascita ma di fama italiana.
Trovato dunque il caro vostro foglio in mia Casa, avidamente l'ho letto, nuovamente rallegrandomi della vostra amicizia e gentilezza, comunque cose non nuove a me che in tanti anni ne godo e conosco il pregio.
Sulle parole di sconforto, colle quali pure mi avete alcun poco amareggiata la piacevole vista de' Vostri caratteri, io non so che dirvi, al buio qual sono del tenore delle disgrazie onde vi dite travagliato.
Queste, giammai non mancano alla vita, e meno a quella de' buoni e degli innamorati degli uomini e del loro bene.
Di qualunque natura poi elle si siano, molto malagevole riesce il consolare un sapiente, il quale, a malgrado della sua cognizione del Mondo e della trista parte che vi tocca alla virtù, ti dice pure io sono infelice.
Ogni genere di conforto tratto dagli aiuti della filosofia egli già lo conosce, e inutile troppo gli verrebbe da altri quando nol trovi efficace nella stessa propria sapienza.
Vergognandomi io pertanto di assumere gli uficii del consolatore con Uomo tanto a me superiore per animo e senno, vi farò ripetere due parolette da Seneca, del quale niun saggio che viva sdegnerebbe considerarsi discepolo:
Res humanas ordine nullo
Fortuna regit: spargitque manu
Munera carca, peiora forens.
Io però mai non soglio meravigliarmi de' fausti successi del malvagio, sommati in confronto de' buoni eventi del virtuoso, e sempre su ciò vado ripetendo a' miei amici che delle due strade aperte agli umani desiderii per giungere al loro scopo, l'inonesto può batterle entrambe, mentre non avendo scrupoli di mettersi su quella del torto gli è pur sempre libero l'andare per quella del dritto: laddove all'onest'uomo non essendo scelta da fare non può egli giungere al bene che per un solo cammino.
Pare quindi assai naturale in questo, come in tutto il resto delle umane cose, che più sono i mezzi e più facile il fine.
Certo è nulladimeno che a' vostri qualsivogliansi mali peggior rimedio non potevate apprestare che quello di avvolgervi lo spirito fra i sepolcri e fra le tante scoraggianti idee che offre la Morte; seppure bello e virtuoso pensiere di scemare qualche male alla umanità soffrendo non vaglia esso solo a bilanciare in voi tutto il disgusto che deve venirvi dal quadro il più luttuoso della nostra caducità.
Ma io temo che voi leverete quella vostra potente voce, e sarà indarno.
Alcuni radicali pregiudizii, e peggio se fomentati da malinteso spirito religioso, prima di svellersi intieramente dall'indurito suolo della società, deve passarvi sopra gran ferro di tempo, e gran fuoco di filosofia.
Il primo sempre lavora ma nel senso solo di distruzione dove non venga aiutato dalla luce dell'altro.
Il Mondo vi pare filosofo? Appena nelle società più civili io conterei un centesimo di uomini civilizzati.
Altra è la politezza, altra la filosofia: quella investe la superficie e la fa bella: questa penetra la massa e la rende buona.
E il Mondo sinora non è a rigore che bello.
Vero pure è sempre che migliorandosi, per gli sforzi insistenti de' Saggi, il centro delle ramificazioni sociali, i raggi obbediscono al di lui impulso e girano spesso ciecamente attorno a un nucleo di benefica non conosciuta e non meritata influenza.
Levate dunque sempre la voce Voi animosi che avete petto da tanto, e se un sollecito esito non coronerà le vostre speranze sotto i vostri occhi che ne vissero bramosi, vi sosterrà il conforto di quella gran verità: di', di', di', e qualche cosa resta.
Molte forze, tutte cospiranti ad un fine, spesso vincono la stessa natura.
I miei amici ed io abbiamo trovato bellissimi e di voi degni i due vostri sonetti per la Tacchinardi - Persiani e per la Ronzi.
Il nostro Ferretti li riproduce in questi fogli romani.
Non so se questo Architetto Sig.
Gaspare Servi, Direttore de' due giornali artistico-letterarii il Tiberino e lo Spigolatore, vi abbia l'atto avere un libriccino di poesie offertegli dagli amici nella recente occasione del suo matrimonio colla Sig.ra Annetta Contini figlia del Colonnello di questo nome.
Ad ogni modo voglio terminare d'imbrattare questo foglio di carta col trascrivervi lo strambottaccio fattogli da me.
Brutto pagamento io vi do per l'invio de' soavi versi Vostri, ma la botte dell'aceto non può dar greco o Chianti.
Sorbitevi sù questa amara bevanda, e se la vi par troppo amara, serrate gli occhi e la bocca dicendo: transeat a me.
- Prima di passare a' versi, conchiuderò col dirvi in prosa che la gentilezza del Sig.
Camillo Torriglioni vi farà pervenire la presente, e che io sono e sarò sempre vostro amico ed ammiratore.
Giuseppe Gioachino Belli
Palazzo Poli, 2° piano
[Segue l'ode "Il Sole dell'Imeneo"]
LETTERA 194.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 26 luglio 1834
Mio carissimo figlio
Con la massima consolazione la tua Mammà ed io abbiamo letto la tua lettera del 24 corrente; perché ci è il più sicuro testimonio dell'esser tu perfettamente guarito.
Farai molto bene se, come dici, ti avrai per l'avvenire que' discreti riguardi che ti possano preservare da una ricaduta.
Io ignoro come sia andata questa volta; ma se mai avesse contribuito al tuo male qualche soverchia mancanza di cautela, spero che potrà servirti di esperienza pel futuro.
Figlio mio caro, il dolore è il miglior maestro degli uomini; e la memoria di quello che già si è sofferto serve a darci regola nella nostra condotta.
Vivendo, e osservando naturalmente i casi umani, ti avvedrai da te stesso di questa altra verità che ti accenno.
Già al mio partire di Perugia io ti aveva promesso che verso il mese di agosto ci saremmo riveduti.
Ciò dunque accadrà entro la prima dècade dell'entrante mese.
Dal Sig.
Professor Colizzi ha la tua Mammà ricevuto notizia della visita da te fatta alla Sig.ra Principessa di Danimarca.
Questa Signora è venuta oggi verso il mezzodì a trovare la tua Mammà, e, non avendola rinvenuta in Casa, tornerà questa sera per darle nuove di te.
Pel giorno 12 agosto io già sarò di certo a Perugia, ma se mai per qualche imprevista circostanza non vi fossi ancor giunto, ti ricordo di spedire in quello stesso giorno martedì 12 agosto una lettera a Mammà, onde le giunga il 14 vigilia della di lei festa ed insieme del di lei giorno natalizio.
Tu sai quanto devi alla tua buona Mammà, e perciò non fare che essa in quella circostanza, nella quale tutti i parenti e gli amici sogliono congratularsi, manchi di una prova della memoria e dell'affetto di un figlio.
Su questo dunque ci siamo intesi.
Torna a riverire in nostro nome i tuoi Sig.ri Superiori: ricevi i saluti e i rallegramenti di tutti quelli che ti conoscono: seguita a star bene, e fatti onore.
Ti abbraccio e benedico insieme con Mammà, e sono il tuo
aff.mo padre
LETTERA 195.
ALLA MARCHESA VINCENZA ROBERTI PEROZZI - MORROVALLE
Di Roma, 31 luglio 1834
Cara amica,
non mi fate passeggiare per una ridicolezza di sessanta baiocchi.
Nell'ultima vostra, data di Morrovalle, luglio 1834 mi diceste: nell'ordinario ventuno ve li spedirò etc.
Il fatto è però che sino a questo giorno non è venuto niente in nessun ordinario.
Che questa gran somma l'aveste tenuta voi o l'avessi avuta io, era indifferente, ma poiché mi annunziate l'impostamento, in tal caso è meglio che l'abbia io anziché la tenga il pubblico ufficio.
Vedete dunque se la Posta di Macerata abbia spediti questi benedetti sei paoli, e in caso che sì, annunziatemi il giorno della spedizione onde farla nota a questi Ministri che la niegano.
Io vi sto seccando per simile inezia, ma convenite che nella circostanza attuale farei male a lasciar correre, onde regalare dei paoli alla Ill.ma Amministrazione.
Neppure io godo di tener dietro a certa sorta di affaroni.
Al ritorno della vostra risposta io non sarò più in Roma, partendone dopo dimani.
Ma ci sarà chi farà per me secondo che Voi vi compiacerete indicarmi direttamente, di che poi mi si darà avviso dove io potrò ritrovarmi.
Salutatemi tutta la Vostra famiglia, compreso il Sig.
Giuseppe vostro suocero e credetemi il vostro affez.
a.co e serv.re
G.
G.
Belli
LETTERA 196.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 12 agosto 1834
Mia cara Mariuccia
Partito da Terni colla diligenza domenica alle 2 dopo il mezzodì arrivai a Fuligno la sera alle 9 circa, e vi passai la nottata.
Ieri mattina poi, volendo proseguire il viaggio per questa Città, non trovai un posto, e ad un'ora dopo il mezzogiorno dovei prendere un legno, altrimenti andavo a rischio di consumare a Fuligno il risparmio che volevo ragionevolmente fare nella vettura.
Qui pure però ebbi una delle solite porcherie da' vetturini, della quale parleremo in voce, mentre mi preme ora di parlarti di Ciro.
Ieri sera non giunsi in tempo per vederlo.
L'ho però veduto questa mattina, e l'ho trovato estremamente contento della mia visita.
Egli mi ha subito fatto mille dimande di te.
La di lui salute è affatto ristabilita e si è ben rimesso, stando inoltre d'un umore lietissimo.
Interrogato da me sulle probabili cause della di lui malattia, mi ha risposto che forse dev'essere stato qualche improvviso colpo d'aria senza alcuna preoccupazione, lo che mi confermano il Rettore e gli altri.
Mi ha recato nella sua stanza a vedere il pianforte, che mantiene benissimo, e del quale è oltre ogni dire contento.
L'acqua della Scala gli è stata gratissima; ed avendone ancora una caraffina della precedente, ne ha regalato una della nuova al Rettore, che l'ha assai gradita.
La cioccolata pure gli è giunta accettissima; ma dove ha dato in salti è stato al vedere il cannocchiale.
Vedremo poi venerdì cosa dirà dell'astuccio.
Egli si preparava già a scriverti una lettera per la tua festa, e dice che son già varii giorni che faceva i conti sull'ordinario postale che ti facesse giungere la sua lettera il più vicino che fosse possibile al giorno della tua festa.
- Lunedì 18 si dà principio agli esami generali dell'anno scolastico, e durerà il saggio anche il martedì e il mercoledì.
Te ne darò a suo tempo il ragguaglio.
Il nostro Ciro intanto si va preparando per riuscire il meglio che saprà.
Egli ti chiede la benedizione, ti dà mille baci, e ti dice di star tranquillissima sulla sua salute, perché ora si sente assolutamente bene.
In Collegio varii sono stati i ragazzi malati di gola, e lo stesso Cameriere di Ciro, dopo di averlo assistito ebbe anch'egli una angina più forte assai di quella sofferta da lui.
Al Presidente Colizzi non ho ancora fatto la tua ambasciata perchè non l'ho fin qui veduto.
Ho già pagato un mese della mia dozzina, e soddisfatto lo stipendio di giugno e luglio al Maestro di musica Sig.
Fani.
Fra qualche giorno poi gli pagherò il Metodo generale dello studio al pianforte che gli ha fatto copiare, e, per mio ordine, rilegare come un libro onde coll'uso non gli si sciupi nell'adoperarlo.
Questo metodo, dei migliori che si conoscono, era necessario, e la spesa andrà unita alle altre occorse per le cose preparatorie a quest'ornamento che vogliamo dare al nostro carissimo e meritevolissimo figlio.
Qui l'aria è molto più fresca che a Roma, passandovi una differenza di varii gradi, in causa dell'elevazione del suolo e della ventilazione assai libera.
A me però piaceva più il caldo uguale ed unito della nostra Città.
Ho veduto questa mattina in Casa Bianchi il tenente Lovery, che sta bene, e meglio che quando era a Fuligno.
Se vedi la madre, dille che le di lui circostanze di servizio sono ancora le stesse che gli rendono impossibile il lasciare la sua Compagnia, che manca di Capitano.
Un saluto a tutti gli amici, e alla nostra famiglia.
Sta' bene Mariuccia mia, e il Cielo possa concederti mille e mille altri giorni simili a quello del prossimo 15 agosto, che tu puoi credere quanto io ti desideri felice e lieto per mia consolazione e del figlio nostro, acciocché riuniti un giorno tutti e tre godiamo insieme il frutto delle nostre più care speranze.
In questo desiderio ti rinnovo la protesta della mia sincera affezione, e sono di cuore il tuo
P.
P.S.
È verissimo che Ciro fu assistito colla maggior premura ed attenzione, specialmente dal suo buon Cameriere.
Darò per conseguenza mancia doppia a questo bravo giovanotto.
LETTERA 197.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
Di Perugia, 21 agosto 1834
Caro Ferretti
Si dà per certo che Gamurri abbia preso per sei anni il teatro di Tordinona.
Si suppone pertanto che possa essere in Roma persona che lo rappresenti.
Su queste due basi il Sig.
Angiolo Fani, quel medesimo che tu conoscesti in compagnia del tenore Furloni, mi ha pregato di scriverti se sarebbe possibile il trovarsi un impegno per essere scritturato nel prossimo carnevale come prima viola, posto che egli ha occupato in molte orchestre, e fra le altre a Bologna, a Sinigaglia, ed anche a Roma nel carnevale rotto a mezzo dalla morte di Papa Leone.
Io ignoro se tu avresti mezzi da favorirlo.
Se ne hai, spero che vorrai impiegare in suo pro' qualche parola.
Dammi nuove di tua salute, e della tua famiglia.
Il mio Ciro sta bene e si fa onore.
Io sto così così in questo urtantissimo clima.
Ma v'è Ciro e ci vuol pazienza.
Salutami gli amici e credimi sempre
Il tuo aff.mo amico vero
G.
G.
Belli
P.S.
Devi aver avuto una lettera del Prof.
Mezzanotte.
LETTERA 198.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 26 agosto 1834
Mia cara Mariuccia
Per quest'anno non sarà necessario il supplir noi ai torti che potesse soffrir Ciro dalla fortuna nel bussolo dell'estrazione de' premii.
Egli a buon conto ha già assicurato il primo premio assoluto nell'aritmetica ragionata; e pel resto poi si vedrà, mentre per la lingua latina sarà imbussolato nel giorno e nell'atto istesso della premiazione solenne, la quale accadrà nel dopo-pranzo del giovedì 4 settembre.
In questi giorni intanto il Signor Ciretto se la diverte, essendo il Collegio condotto a tutte le feste della Città in luoghi sicuri e distinti.
Fatti leggere da Biscontini il programma de' divertimenti perugini della corrente settimana, esposto nell'Osservatore del Trasimeno di sabato 23, e a tutto quello che vi udrai (meno il teatro) i Collegiali sono condotti.
Perugia in questi giorni è trasformata in una Casa del diavolo.
Io, al mio solito, non vado a veder niente, e neppure mi sono ancora ridotto a recarmi al teatro.
Non ho proprio voglia di nulla, né mi sento il coraggio di esporre la mia vacillantissima salute ad alcun minimo rischio.
Mi trovo già vecchio e fuori quasi del Mondo.
Ho piacere che Antonia abbia poi scritto, e godo di udirla guarita prima di averla saputa ammalata.
Dissi un giorno a Ciro (parlandogli indifferentemente delle visite che di tanto in tanto riceve) che all'entrar di novembre vedrebbe forse qualche conoscente della nostra famiglia.
Quel munelletto mi rispose subito: è Mammà; e ad una mia negativa soggiunse: dunque è di certo o Antonia o Domenico.
Io allora volsi altrove il discorso, perché quel furbo mi avrebbe capito per aria.
- Dopo dimani lo rivedrò al Collegio, seppure non lo incontrerò prima, ed allora lo saluterò e benedirò da tua parte.
(L'ho veduto poco prima di impostare la presente.
Sta benone, e ti abbraccia).
Al mio partire da Terni lasciai Vannuzzi col Chirurgo che stava allora tagliandogli un carbonchio sotto l'ascella destra.
In quest'ordinario mi ha scritto riguardo ad una certa commissione che mi dette la moglie, e mi dice di esser quasi guarito.
Ho avuto una lettera di Ferretti, che mi annunzia nella sua famiglia esser qualche solito malannuccio.
Pover'uomo! Combatter sempre colla salute è un gran ché!
Se pei primi dell'entrante mese fossi in grado di mandarmi un poco di danari, mi faresti piacere.
Avendo speso circa a sette scudi e mezzo pel viaggio da Roma a Terni e da Terni a Perugia, dieci per la dozzina d'un mese, due pel Maestro di Musica di Ciro a tutto luglio, qualche mancia in Collegio, e qualche altra mia spesetta giornaliera, degli Sc.
25:64 da me sin qui avuti poco più ne rimane.
Al mio ritorno in Roma poi faremo la solita distinta della somma totale servita per me, e di quella servita per Ciro, nella quale figurerà la Musica, il vestiario, le mance, la solita scorta annuale nelle mani del Rettore, e qualche altra cosetta che avrò stimato necessario d'impiegare per lui.
Il Sig.
Angiolo Rossi sta male di podagra, i di cui accessi sonogli divenuti molto frequenti.
Egli, la moglie, il Dottor Micheletti, e il Presid.e Colizzi ti dicono mille cose.
Non so se Biscontini sappia che verso la fine di settembre verrà a Roma il Dr.
Speroni.
Se non lo sa, diglielo in mio nome.
Salutami tutti gli amici di Casa, e specialmente Spada, Biagini e Pippo, a mano a mano che andrai vedendoli.
Manda pure i miei rispetti in casa Marini e in casa De Witten.
Dubito che Orsolina e Balestra non torneranno davvero per adesso, ed alla Madre per quest'anno gliel'avranno ficcata.
Procura, Mariuccia mia, di star bene, e credimi sempre di cuore il tuo
aff.mo P.
P.S.
È a Perugia Enrichetto Dedominicis.
L'ho veduto col Marchese Uguccioni, che ti saluta, come ti salutano anche il Conte Solone Campelli di Spoleto, che è pur qui, e Menicucci.
Ho trovato un conticino di medicine servite per la malattia di Ciro.
Io era nell'opinione che anche la spezieria andasse a carico del collegio, ma sul libretto de' regolamenti ho verificato il contrario, e così l'ho saldato.
Ciro mi ha dimandato un giuoco di scacchi.
Gliel'ho preso di poco costo, ma pure bellino.
- Gli ho fatto rilegare alcuni libri di studio, che erano alquanto sciupatelli perché in origine legati in rustico.
Etc.
LETTERA 199.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 2 settembre 1834
Mia Cara Mariuccia
Riscontro la tua del 30.
Nello scriverti la mia precedente non ti parlai della mia vacillantissima salute perché in quel giorno fossi realmente malato, ma per le tristi esperienze giornaliere del disordine del mio temperamento, di che tu stessa da tre anni a questa parte sei pur troppo testimonio.
Tu sai cosa è divenuta la mia povera macchina dopo la breve malattia del 1831, e la non meno terribile del 1832, sofferta da me in Fossombrone, benché di minore durata.
Da quelle due fatali epoche il mio sangue è in continuo stato d'irritazione; e se io voglia esser sincero, non un solo giorno passò mai perfettamente contento di me.
Conosci tu bene tutti i motivi accumulati assieme per mantenere in me vivo questo principio d'irritabilità; e quindi l'aumento dell'umor mio malinconico, al quale non trovo sollievo che nella pace della solitudine.
Solitudine poi senza qualche applicazione per me è impossibile: dunque ecco il quadro delle mie attuali necessità.
Per ritornare all'espressioni sfuggitemi nella mia lettera del 26, ti ripeto che io in quel giorno non era realmente malato, ma purtuttavia già da sei giorni mi sentiva molestato dalle mie accensioni ora alla gola, ora in tutta la bocca, e nel collo, e pel petto, e per la schiena, e per le spalle, e per le viscere: un po' in qua e un po' in là.
Purtuttavia nella stessa sera, che era placidissima e temperata volli tentare di andare ad udire la Straniera al teatro, e, come lo aveva preveduto, mi annojai terribilmente.
Nel Mercoldì stetti così così: il giovedì 28 ci crebbe il mio fuoco, malgrado le grandi bibite che ho sempre fatte, malgrado rigorosa dieta che sempre osservo, e malgrado l'astinenza dal vino.
Così me la passai ardendo sino al sabato 30, nel qual giorno mi si fece trarre dieci once di sangue.
Ma il dolore, particolarmente nel petto cresceva in un grado ben doloroso, dimodoché domenica fu di precisa necessità di cavarmi un'altra libra di sangue che appena caduto nel bicchiere si coagulò in modo, che dopo fasciatomi il braccio io voltai il bicchiere sottosopra, e il sangue vi restò fisso come fosse di cera.
Mi hanno dato dei calmanti e dei purganti: mi han fatto dei clisterii, ma col solito vano successo.
Oggi sto meglio e profitto del miglioramento per scriverti la presente ed assicurarti dell'avanzamento della mia guarigione.
Circa ai danari potevi pure mandarmi quel che per ora potevi.
Volendo tu, per altro, un'idea da me della somma, ti faccio riflettere che dovrò ordinare l'occorrente vestiario d'inverno per Ciro.
E più pagare un paio di calzoni di tela russa ordinaria per lui, mentre il Pres.
Colizzi ha giudiziosamente stabilito di farne un paio a tutti i collegiali onde risparmiare loro i calzoni di scottino neri ne' due mesi della villeggiatura.
Dovrò pagare il metodo di pianforte che ordinai, come ti dissi altra volta.
Pagherò le due mesate di agosto e di settembre al Maestro Fani.
Rinnuoverò il deposito nelle mani del Rettore, e un poco più forte dell'ordinario, volendo io che l'accordatore lo paghi egli mensilmente.
In quanto alle future mesate di Fani non ho ancora deciso come mi regolerò e ne parleremo in seguito.
Pagherò il Medico, il Chirurgo e lo Speziale per me.
Quindi dovrò pensare a qualche altro poco di tempo che mi tratterrò qui oltre il mese, mentre i due mesi intieri non ve li passerò più come avevo divisato, e ciò ond'evitare l'aria pungente dell'approssimarsi di ottobre.
Finalmente dovrò pensare al viaggio del ritorno.
Per tutti questi fini, mandami se puoi una trentina di scudi, che se mai per caso non bastassero a tutto, vi sarà tempo a pensarci.
Io so che tu non vuoi udire da me parlare di conti, ma siccome io mi faccio un gran carico delle spese della nostra famiglia, così non so evitare di entrare in questi dettagli persuaso come sono che la più stretta economia in cui vivo non lascia di esigere delle spese necessarie per tuttociò che ho nominato.
Conosco, ti ripeto, che a' tuoi occhi io non abbisogno di prove e di giustificazioni: contuttociò soffri le mie minuzie come una mia particolare soddisfazione.
Di Devillers va benissimo.
Ieri venne a trovarmi il nostro Ciro col Sig.
Rettore.
Egli sta benissimo, e giovedì sarà premiato.
Io non potrò, credo, andare alla funzione perché finisce di notte, e si fa in una sala che pel gran concorso di gente è caldissima.
A suo tempo però te ne manderò il programma come nell'anno scorso.
Ti ringrazio veramente di cuore delle tue care ed affettuose espressioni e ne riparleremo in voce.
Mi ha scritto Babocci, e di ciò pure parleremo poi.
Intanto si fa quel che si deve.
- Antaldi non ha ancora dato riscontro.
Vedrai che vorranno pagare tutta l'annata assieme.
Regoleremo in seguito anche questa faccenda.
Procura di star bene, e ricevi gli abbracci del nostro Ciro ed i miei.
Sono sempre il tuo
Aff.mo P.
LETTERA 200.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
Di Perugia, 11 settembre 1834
Mio caro Ferretti
Eccoti un'altra mia lettera, la quale spera di trovare te più tranquillo, tua moglie più vocale della Selva di Dodona, Barbaruccia senza tosse, Chiarina smummiata, e Cristina libera della sua piastra di piombo.
Vorrebbe anche trovar guarito Gaiassi che tu mi desti quasi per disperato.
Il Mezzanotte, al quale partecipai il tuo paragrafo, mi disse di salutarti.
Deve egli averti mandato a quest'ora una sua ode sugli esercizii equestri dati dal Guerra in Perugia.
Fani si è diretto a Gamurri per mezzo del Tenore Peruzzi che canta in questo teatro.
Il Sig.
Peruzzi abita nella medesima casa, dove io alloggio, ed anzi dorme in una stanza accanto alla mia.
Avendo io spesso parlato di te con lui, ha voluto che scrivendoti ti facessi mille saluti in suo nome.
Egli partirà, credo, il 16 per tornare a Bologna dove è domiciliato.
Ottimo giovane!
Sull'articolo della mia salute ti dirò solamente che se non mi facevo due sanguignoni in 24 ore, la finiva male; come poi la dovrà finir male con tanti necessari salassi.
Qui è il caso dell'incendio.
O bruciarsi, o gettarsi dalla finestra.
- Io mi dissanguo, e intanto il calore delle mie viscere si mantiene.
E non bevo vino, e ingozzo fiumi d'acqua, e mangio come un grillo.
Ah! bisognerà cercare qualche sistema di cura, altrimenti gli anni nestorei da te auguratimi vorranno essere pochetti!
Ti mando 14 versi scritti ieri dal Sig.
996 per M.ma Enrichetta Meric Lalande che ha trattato i Perugini come cani, malgrado le sue buone varie migliaia di franchi.
Essa, indipendentemente del suo orgoglio che le fa trascurare anche i mezzi restatile, è una stella in tramonto.
Vanta che potrebbe venire a Roma anche con 20.000 franchi.
Se l'impresario gliene dà mille, e la prende (odi Geremia) l'impresario fallisce.
Ma Gamurri ha ben altro pel capo, e ci regalerà piuttosto la Ungher o la Schutz (ho scritto bene?) qualunque delle quali vale in oggi per dieci Madame Enrichette, con tanto minore superbia.
- Del resto i 14 versi del Sig.
996 potranno servire di svegliarino contro l'avarizia di Madama e delle sue consorelle di pretensione.
Sarebbe ora di finirla con queste file di migliaia accanto a poche cifre di quarti-d'ora.
E qui cadrebbero in acconcio due versi di un altro poeta amico tuo:
Che ad estirpar tal musico sozzume
Non basta un secchio ma vi vuole un fiume.
Salutami tanto Maggiorani, Biagini, Spada, Quadrari, ed altri amici che tu vada vedendo.
E sono di te e della tua famiglia
amico vero
G.
G.
Belli
PER FAMOSA CANTATRICE
Questa superba Dea del ciel di Francia,
Che, vana ancor d'un appassito alloro,
Sogna i trionfi e il plauso alto e sonoro
De' più bei dì che le fioria la guancia,
Non paga pur che italica bilancia,
Come al suo Brenno già, le pesi l'oro,
Sprezza la mano che il civil tesoro
Profonde in trilli ed in canora ciancia.
Badi però, che sorgeran Camilli
A rovesciar quella bilancia sozza
Ove senno e virtù cedono ai trilli.
E, per dio, cesseranno i tempi indegni
Che a disbramar la fame d'una strozza
È poco il censo che distrugge i regni.
996
LETTERA 201.
A RAFFAELLO BERTINELLI - ROMA
Perugia, 23 settembre 1834
La vostra lettera del 15, perché mancante del mio secondo nome nell'indirizzo ha passato quella sorte alla quale io volli ovviare allorché assunsi quel distintivo che mi individualizzasse tra la folla dei Giuseppe Belli che corrono il Mondo.
È capitata nelle mani di un Giuseppe Belli nativo (credo) di Città di Castello, e finalmente l'ho io avuta jeri, aperta per colpa dell'equivoco e non dell'uomo.
Io non sono in collera con alcuno: non posso dunque esserlo con Voi, e tanto meno poi in quanto che io manco di que' meriti che abbiano a far correre un amico a vedermi, almeno allorché sono malato.
Vivete dunque tranquillo, e lasciate in pace Esaù e Giacobbe nel Santo seno di Abramo.
La mia salute è sempre vacillante.
Ciro prospera e si fa onore.
Dopo domani io lascio questa Città.
Qui ha cantato la celebre Sig.ra Enrichetta Meric Lalande.
Un certo Sig.
Novecentonovantasei ha pubblicato alcuni versi in di lei onore.
Voglio trascriverli perché han fatto romore, e da quando teatro è teatro non si è mai più udito un simile elogio il quale tende ad encomiare la Signora Lalande e le di lei consorelle nella bell'arte del Canto.
Vi abbraccio e sono
Il V.° Belli
LETTERA 202.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 15 novembre 1834
Mio caro figlio
Ieri tornò Domenico e mi portò la tua lettera del 6.
In questa lettera tu, Ciro mio, ne hai fatta una delle tue solite.
La tua Mammà che tanto ansiosamente aspetta e legge ogni lettera che da te procede, nello scorrere quest'ultima non ci trovò neppure una parola per lei, come se essa non esistesse sulla Terra.
Ma ti pare mostrare un buon cuore col dimenticare così ogni dovere di amore, di rispetto e di gratitudine? Ciro mio caro, tu hai una mente troppo leggiera, la quale non si risente che di momentanee impressioni.
Bisogna dunque studiarsi di correggere una inclinazione naturale che frutta vivi dispiaceri a noi per adesso, e che un giorno ne frutterà a noi insieme e a te medesimo.
Sappi che la tua povera Mammà, la quale non pensa che a te, rimase jeri assai afflitta della tua colpevole dimenticanza.
Per rimediare alla meglio al tuo errore io ti consiglio di diriggere a Mammà stessa la prima lettera che tu scriverai, chiedendole scusa di un fallo che il nostro amore vuole ben credere involontario.
Spero io poi che in quella lettera a Mammà non sarò scordato io alla mia volta.
E scrivila bene.
Circa ai regali, de' quali mi ringrazii, hai preso un equivoco grosso.
Noi questa volta non ti abbiamo mandato che il fazzoletto nero da collo e la Rosa de' Venti.
Tutto il resto fu dono del buon Domenico, il quale non dev'essere frodato della tua gratitudine.
Antonia è ritornata prima di Domenico, molto afflitta dal non aver potuto passare per Perugia onde rivederti.
Ringrazia in mio nome il degnissimo Signor Rettore della di lui lettera e di ciò che in essa mi dice e m'invia: e riveriscilo distintamente, come ancora il Sig.
Presidente Colizzi.
So che quest'anno ai tuoi studi si è aggiunta la Storia, che è la prima maestra della vita.
Applica dunque, sii buono, e ricordati di noi.
Ti benedico ed abbraccio di cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 203.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 23 dicembre 1834
Mio caro e carissimo figlio
Non potevi farmi una più grande sorpresa di quella che ho da te ricevuta nella tua lettera latina, la quale sebbene io medesimo avrei conosciuta improntata dell'opera dell'ottimo Sig.
Rettore, purtuttavia mi è stata una testimonianza parlante dei progressi che ad ogni modo tu vai facendo in una lingua così bella e tanto necessaria a chiunque voglia nel Mondo distinguersi dal volgo degli uomini.
Senza il latino è ben difficile arrivare alla vera sapienza, dappoiché quanto di classico e di sublime si sappia desiderare tutto si ritrova nei libri di quegli altissimi ingegni che resero un giorno famosa la patria nostra, e di una fama che dopo tanti secoli ancora dura e non sarà mai per mancare.
A misura che tu, Ciro mio, ti avvanzerai negli studi, ti innamorerai di questo idioma e delle stupende opere che in quello sono scritte.
Grazie dunque, mio carissimo Ciro, grazie di questo bel dono che mi hai fatto, poichè io lo tengo appunto in conto di regalo e il più accetto che tu potessi mai farmi, e tanto più quanto che in quelle parole meo consilio io leggo una prova della tua intenzione di farmi piacere.
Sulla lettera nulla ho da rilevare, mentre gli stessi errori nei quali eri trascorso nel mettere in pulito la minuta, sono stati dalla mano maestra corretti.
Di un solo piccolo rilievo io mi contenterò, ed è circa all'anno della data.
Lo so che noi siamo nel 1834 e che tu nel 1834 scrivevi, ma pure avendo tu adottato lo stile antico di datare, io crederei che invece di dire XV Kalendas Januarii DCCCXXXIV avresti tu dovuto scrivere XV Kalendas Januarii MDCCCXXXV.
Il Signor Rettore potrà dirti se io abbia torto.
Nel risponderti io aveva divisato farlo in latino, ma poi mi hai dato soggezione, adesso che ti vedo diventato un Ciceroncino: e ho detto fra me stesso: se dio mi guardi io scrivessi qualche sproposito, che bella figura farei io vecchio avanti a un dottore di neppure undici anni? Dunque eccoti una lettera italiana, ma scritta più col cuore che con la mano.
- La tua Mammà ha aggradito il tuo foglio al pari di me, ed entrambi ti incarichiamo di rendere mille e mille grazie al tuo degnissimo Sig.
Rettore per la cortese assistenza prestatati.
La tua epistola ha girato le mani dei nostri più buoni amici, e tutti hanno diviso la nostra consolazione.
Ieri ho consegnato al Vetturale Castellino la solita cassetta diretta in Casa Fani per esserti inviata in Collegio.
Essa dovrebb'essere a Perugia sul finire di questa settimana.
Tu vi troverai qualche piccolo dono per la ricorrenza del nuovo anno.
Siamo stati in molto pensiere su che mandarti.
I giuochi non sono più degni di un Marco Tullietto, nè tu sembri più desiderare bucciotti.
Cose di lusso e di mollezza non ti convengono per le varie disposizioni del Collegio.
Dunque cosa mandarti? Contentati del poco che vi rinverrai: e piuttosto se un'altra volta desidererai qualche cosa, indicamelo, e spero che si tratterrà di oggetti da poterti appagare.
- La scattola non serve che la rimandi ad alcuno.
È troppo vecchia e sciupata.
Se ti serve a qualche uso mettila sotto il tuo letto: altrimenti fanne quello che vuoi.
Un piego color di rosa che vi è dentro, diretto a codesto Sig.
Dottore Ferdinando Speroni, se potesse senza molto incomodo di qualcuno essere ricapitato alla libreria Bartelli ne sarei grato a chi si prendesse gentilmente questo disturbo.
Dimanda al Sig.
Felicetti se hai bisogno di nulla nel tuo corredo, come camicie, calze etc.
ed, avendone bisogno, per quando si dovrà fartene l'invio.
Rispondimi su ciò.
Mammà, gli amici e i domestici (particolarmente Antonia) ti rendono infiniti augurii per le feste e pel nuovo anno; ed io vi unisco anche i miei per tutti gli ottimi tuoi Superiori e Maestri.
Ti abbraccio e benedico di cuore
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 204.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 27 gennaio 1835
Mio caro Ciro
Riscontro la tua del 15 cadente.
- Due ore dopo avere impostato la mia precedente incontrai per la strada il Sig.
Professor Colizzi arrivato in Roma poche ore prima, e lo trovai nella sua solita buona salute, ciò che mi fece sommo piacere.
Dal medesimo, che ho quindi riveduto altre volte, ebbi le buone notizie della tua salute, ed anche sufficienti relazioni intorno ai tuoi portamenti tanto morali quanto scolastici.
Le medesime cose mi conferma il vigilantissimo Sig.
Rettore, il quale mi riverirai e ringrazierai del gentile riscontro da Lui dato alle mie dimande relativamente a codesto Sig.
Tozzi.
Ai primi dunque dell'imminente mese cade nel Collegio il consueto saggio trimestrale.
Procura alacremente, Ciro mio caro, di non restare addietro agli altri.
Ne' soli difetti vorrei che tu fossi l'ultimo: ne' fatti d'onore godrei udirti sempre il primo.
Comprendo benissimo non esser ciò sempre possibile, dappoiché la medesima gara animando anche gli altri, non è più dalla volontà individuale che dipende l'avanzar gli altrui passi, ma sì invece dal vario vigore accordato a cadauno dalla Provvidenza.
In questo caso basta che la coscienza non ci rimproveri di non esser giunti a quel punto a cui le nostre forze sarebbero state sufficienti.
Tu avrai senza dubbio udito a spiegare la parabola evangelica del padrone e de' servi.
Uno ebbe dal Signor suo cinque talenti, e tanto s'ingegnò che al Signore li rese in capo a un tal tempo, con più altri cinque di lucro.
Domine, quinque talenta dedisti mihi, et ecce alia quinque superlucratus sum.
Un altro servo al contrario prese i cinque talenti di sua parte, li seppellì, e, ritornato il Signore a chiedergli ragione del suo traffico, glieli restitui non diminuiti ma neppure aumentati.
Credi tu che il padrone si rimanesse pago al non trovarvi diminuzione? No, figlio mio: l'obbligo del servo era di accrescere e non soltanto di conservare: e così cosa accadde? Il pigro trafficatore fu paragonato a quegli alberi infruttiferi, i quali, non dando di sé che il legno de' rami e del tronco, non sono utili che a far fuoco.
Difatti non mai accade vedere che un Agricoltore getti alle fiamme una pianta feconda.
I talenti della parabola erano monete, ma sotto il velo di quelle monete noi dobbiamo intendere le buone disposizioni dell'anima, colle quali ciascun uomo che vive è obbligato a procacciarsi valore e fama di buon aiutatore della società di cui Iddio lo volle individuo.
Il Vangelo, Ciro mio, è il libro della verità, e il primo Maestro della morale umana.
Quanto dunque in quello si racchiude non dev'esser preso quale passatempo e fuggilozio, ma in senso di guida infallibile delle nostre operazioni.
I pericoli da esso dimostrati sorprenderanno chiunque non modelli la sua vita a norma di que' sapienti precetti.
Sarà buon uficio di cortesia se tu andrai dimandando al Sig.
Maestro Fani notizie della salute della Sig.ra Angiola, caduta in non lieve infermità.
Quella Signora ti ha dimostrato molte premure, e tu non fartene notare per dimentico.
La tua Mammà ti benedice ed abbraccia.
Gli amici e i domestici, specialmente Antonia, ti salutano.
Riverisci i tuoi Superiori e credimi sempre l'aff.mo tuo padre.
P.S.
Amerei sapere a che ti trovi nello studio della musica.
LETTERA 205.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma 3 febbraio 1835
Mio caro Ciro
Colla tua del 29 perduto gennaio mi fai de' rimproveri da' quali debbo difendermi.
Delle tue lettere, alle quali ti lagnavi non avere avuto riscontro, la prima fu da me riscontrata nella mia al Sig.
Rettore a cui in quello stesso ordinario dovetti scrivere, e la seconda te l'accusai il 27, come tu stesso hai veduto.
Mi dirai che questo mio riscontro fu un poco tardo; ma a questo proposito io ti ho già detto altra volta che mi piace scriverti verso l'epoca precisa in cui per le consuetudini del collegio tu devi mandarmi una tua lettera.
Operando in tal modo io vengo a darti come uno stimolo e a risvegliare la tua memorietta, che talvolta si è in questo rapporto addormentata.
Ti pare, Ciro mio, che io saprei dimenticarmi di te? Pure lo sai quanto io e tua madre ti amiamo.
Ho scelto questo giorno per risponderti, stanteché oggi secondo qualche ordinario ecclesiastico ricorre la tua festa, facendosi commemorazione di S.
Ciro Alessandrino, nobile medico.
Tu sei Ciro, potrai conseguire la nobiltà della virtù, ed esser medico di te stesso mediante un regolar metodo di vita: e così, dalla patria in fuori, somiglierai al tuo santo.
Santo poi non ti ci spero: mi basta che sii buono.
La mia presente, oltre a ciò, ti arriverà in punto che i tuoi Saggi saranno bene incaminati.
Io questa volta non posso assistervi; ma chiudo gli occhi, e mi pare di essere presente in codesta sala accademica, e vederti sull'impalcato a far l'obligo tuo.
Da questa mattina fino a tutto il prossimo giovedì rari momenti passeranno ne' quali io non rinnovi nel mio spirito l'idea di questa mia assistenza intellettuale ai saggi tuoi e de' tuoi bravi emuli.
Ne attendo con ansietà i successi.
Dimanda al Sig.
Felicetti se tu abbisogni di camicie e di calze e per qual tempo ti potranno occorrere, affinché vi sia agio di lavorarle.
Rispondimi su ciò.
Il Signor Presidente non ho potuto in questi giorni vederlo: appena lo vedrò gli presenterò i tuoi ossequi.
Tu intanto presenta i miei e quelli di Mamà tua al degnissimo Sig.
Rettore.
Antonia e gli altri domestici ti salutano, gli amici di casa ti abbracciano, tua madre ed io poi e ti salutiamo, e ti abbracciamo e ti benediciamo affettuosamente.
Sono il tuo aff.mo padre
LETTERA 206.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 17 febbraio 1835
Mio carissimo figlio
Riscontro la tua lettera del 7 corrente, il cui ricevimento ti feci già accusare per mezzo del Sig.
Vincenzo Fani che mi saluterai.
Veramente, Ciro mio, di quel mediocre se ne poteva fare di meno.
Il peggio è per me che un mediocre del Maestro significa assai più che uno degli esaminatori, perché l'esito di un esame non sempre prova l'abilità o l'ignoranza di un discepolo: laddove al contrario i voti del precettore sono la vera e precisa manifestazione del merito e demerito dello scolare in tutto il periodo di studio del quale si tratta.
Adesso dunque io vo vedendo che quel benedetto mediocre influirà maluccio sullo scrutinio della premiazione.
Da ciò prendi, Ciro mio, esempio della irrimediabilità del tempo perduto.
Il fatto sarà sempre fatto, e non si può più ripetere indietro.
Se fu fatto bene, ci frutterà utile; se fu fatto male, ci frutterà danno.
È vero che a tutto può darsi un rimedio, ma sempre il passato è passato.
Una volta un bambino aveva perduto un soldo, e piangeva.
Il padre per calmarlo gliene dette un altro, dicendogli: eccoti ricco come prima.
Ma il fanciulletto, possessore della nuova moneta, seguitò a cercare la smarrita, dicendo: se ritrovo quell'altra sarò più ricco di prima.
Così è del tempo e del profitto di esso: potremo riparare al perduto con un novello impiego di volontà; ma se ci fosse dato richiamare a noi quel che fuggì, saremmo felici del doppio.
Studia, Ciro mio caro, studia di cuore e senza interruzione.
Un giorno benedirai, credi a tuo padre, benedirai le fatiche della tua fanciullezza.
Eccoti vicino alle recite carnevalesche.
Reciti tu quest'anno? In tutti i modi divertiti, e col divertimento rinfranca il tuo spirito per le tue applicazioni.
Il Sig.
Fari mi partecipò la tua idea di studiare la introduzione della Straniera: Voga voga etc.
- Bravo Ciro mio, imparala bene.
La tua Mammà ti ringrazia delle amorose espressioni da te usate con lei, ti benedice, ti abbraccia e ti dà mille baci.
Così ti salutano i nostri amici, Antonia e gli altri domestici.
Il Sig.
Presidente sta bene e ti saluta anch'egli.
Tu presenta i miei rispetti al Sig.
Rettore, e credimi, pieno di amore
il tuo aff.mo padre
LETTERA 207.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 5 marzo 1835
Mio carissimo figlio
Nella tua lettera del 21 febbraio, in cui rispondi alle mie riflessioni su quell'importuno mediocre da te riportato negli esami, prometti di fare il possibile affinché il futuro esperimento vada assai meglio.
Intanto mi dici che pel passato ci vuol pazienza.
Hai ragione, Ciro mio: ci vuol pazienza.
Che si può fare di meglio che esercitare questa bella virtù, la quale diviene altronde necessità quando manca affatto un migliore rimedio? Te lo diceva anche io che al fatto, al passato non si può far più ritorno.
Né io ritornerei più su questo punto se precisamente questo tuo confortarmi alla pazienza non mi suscitasse qualche riflessione novella.
La pazienza è un un'amabile dono della provvidenza, destinato a consolare i rammarichi della vita e a contentare l'uomo in quella moderazione d'animo che dà risalto alle sue più belle prerogative.
Ma sventuratamente questo prezioso regalo del cielo cede assai presto ai ripetuti cimenti.
Il nostro caso dell'esame non entra ora fra le cause alle quali io voglio indirizzare la tua attenzione.
Esso è un lieve danno che tu puoi ben risarcire, e ciò basti.
Voglio invece darti regola che può servirti in tutte le occasioni in cui ne' tuoi rapporti colla società sia luogo all'esercizio della tolleranza.
Tu devi agir sempre come se tutti gli uomini fossero impazienti e non ne perdonassero una.
La troppa, buona opinione dell'altrui clemenza e facilità diviene in noi un abito di trascurare soverchiamente l'adempimento de' nostri doveri; e così, oltre il pregiudizio di avvezzarci disattenti e poco curanti della perfezione nostra, a cui l'indulgenza, o l'educazione degli uomini può concedere quel che le manca, si consegue un altro mal frutto, cioè quello di doverci a nostre spese disingannare su quella stessa, benignità che supponevamo negli altri salda a qualunque provocazione.
Non voglio mica dirti con ciò che tu debba principiare dal riputare tutti gli uomini una gabbia di leoni e di orsi rabbiosi, o un eserciti di nemici implacabili, vigilanti sempre per attaccarti nella tua parte più debole.
No, Ciro mio, gli uomini dobbiamo crederli tutti più buoni e mansueti di noi.
Io intendo rimovere da' tuoi giudizi l'eccesso, il quale guasta tutte le più lodevoli qualità della mente e del cuore.
Te lo ripeto: non giudicare impazienti tu devi gli uomini, ma operare come lo fossero.
In questo modo, o abbiano essi o non abbiano questa virtù, tu sarai sempre al sicuro.
Le soverchie lusinghe di trovare in altrui quella bontà per noi che noi stessi ci siamo negata quando abbiamo male operato, ci gettano un giorno o l'altro in un mare di guai dove si affoga.
- Se questa mia lettera fosse al di sopra della tua intelligenza, prega alcun tuo Superiore di dichiarartene lo spirito.
Così, a poco a poco, principerai a meditare da te.
Il Sig.
Presidente, che ho veduto da poco, ti ritorna i tuoi saluti.
Gli amici e i domestici, specialmente Antonia ti dicono mille cose.
La tua buona Mammà ti abbraccia, siccome faccio io.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 208.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 9 aprile 1835
Mio carissimo figlio
Il giorno 12 corrente è il tuo compleanno.
Nella prossima domenica ad un'ora di notte tu termini l'anno undecimo della tua vita e cominci il decimosecondo.
Vedi, Ciro mio, come fugge il tempo! A te ancora non pare così, perché i fanciulli, spensierati per natura, non pongono mente a quel che significa una girata di ago sul quadrante di un orologio; e perché sul bel principio della loro carriera non par loro poter vedersene il fine.
Ma tutto ha termine, Ciro mio, e l'avrà anche il Mondo.
Non vedi tu che a forza di anni, di mesi e di giorni il Mondo si è già invecchiato di circa a sei secoli? E i giorni, che formavano que' mesi e quegli anni, di che sono essi stessi composti? Di ore: di minuti.
Quanto dura un minuto? sessanta battute di polso.
Come il tempo è veloce! Hai tu mai osservato una mostra che avesse la lancetta de' minuti secondi? Ogni oscillazione del pendulo ne fa saltare uno! Nulla è più proprio a far meditare l'uomo sulla fugacità della vita quanto uno di simili oriuoli.
Negli altri il movimento è appena percettibile senza una determinata attenzione, la quale poco vi si presta, poiché, soddisfatto l'intento di veder l'ora in un dato punto del giorno, se ne ritrae subito lo sguardo.
Con molta sapienza è stato rappresentato il tempo sotto le forme di un vecchio, stante l'età che ha percorsa: alato, per indicare la celerità sua: armato di falce, onde simboleggiare la distruzione da lui portata a tutte le cose; e munito di un orologio a polvere, perché siccome gli atometti o granellini dell'avena cadono dal recipiente superiore a quello inferiore, nella stessa maniera tutti gli enti creati precipitano nel nulla per non riaiziarsene più.
La providenza così ha voluto; e niente di ciò che ebbe principio può essere eterno, fuorché le anime coi loro meriti e demeriti.
Da tutte le esposte riflessioni puoi facilmente cavar da te la conseguenza, a cui ti volli condurre.
Impiegar bene il tempo, perché più non ritorna mentre presto trapassa; e farsi un cumulo di azioni meritorie, dalle quali dipender la nostra felicità nel tempo, e nella eternità.
Rifletti seriamente a queste verità gravissime, e principia a fare da uomo.
Nel giorno della tua nascita noi ti vorremmo fare qualche regalo, ma non sappiamo di ché, pei motivi che ti spiegai un'altra volta.
Dimmi pertanto cosa tu potresti desiderare che ti convenga, e noi procureremo di contentarti.
Ne potresti consultare col Sig.
Rettore che mi riverirai distintamente, col Sig.
Prof.
Colizzi, anche in nome della tua Mammà.
In questo preciso momento ricevo la tua lettera del 7.
Le parole che già ti aveva scritto qui sopra tornano bene a proposito anche per la circostanza della comunione che vai a fare per Pasqua.
Ecco un altro passo che ti deve condurre alla perfezione.
Ora la tua Mammà non è in casa.
Appena sarà ritornata farò conoscerle il tuo desiderio di rivederla.
Aggradisco i saluti che mi fai.
Alle Sig.re Fani rimandali per mezzo del Sig.
Vincenzo che riverisco.
Ti abbraccio, mio caro figlio, e ti benedico di cuore
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 209.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 maggio 1835
Mio caro figlio
Rispondo alla tua lettera del 16, la quale tanto la tua Mammà quanto io abbiamo infinitamente aggradita come quella che ci dà una prova del tuo maggiore impegno nello studio della lingua latina, lingua necessarissima a chi voglia far buona figura di dotto nella società.
Bravo dunque, bravo, Ciro mio: tu corrispondi perfettamente alle nostre intenzioni e ti acquisti sempre maggiori titoli alla nostra benevolenza.
Non comprendo però il motivo che possa averti fatto astenere dall'esporti per due consecutivi trimestri all'esame dell'aritmetica, tanto più che mi dici essere stati soddisfacienti i tuoi risultati settimanali, e malgrado che nell'anno scorso tu riuscisti a guadagnare il primo premio assoluto.
Circa alla musica pure son contento.
Ringrazia e saluta in mio nome il Sig.
Fani, e pregalo a coltivarti sempre negli esercizi fondamentali che ti spedii l'anno passato.
Così, eseguendo i pezzi di studio potrai divertirti, ed acquisterai franchezza e profondità.
Non dubitare, Ciro mio caro: nel prossimo giugno qualcuno di noi verrà a vederti.
Ancora non si è potuto risolvere chi verrà, perché la tua Mammà ha moltissimi impicci, ed io faccio una cura il di cui tralasciamento potrebbe nuocere a quella salute che pel mezzo di essa mi pare di andare riacquistando.
Qualcuno ad ogni modo verrà: stanne tranquillo.
Siccome peraltro questa venuta non potrà accadere che intorno alla metà del mese, fammi il piacere di informarti dal guardarobiere se si possa ritardare fino a quell'epoca il rinnovamento degli oggetti di vestiario de' quali mi scrive il Sig.
Rettore aver tu bisogno per la stagione estiva.
Che se di qualche cosa avessi tu urgenza, ad un cenno che tu me ne dia io pregherei qualcuno a Perugia onde se ne incaricasse al momento.
Intanto al principio della ventura settimana credo che potrò mandarti i fazzoletti.
Segui a leggere, Ciro mio, la vita di Cicerone, e fa' di divenire tu ancora un Ciceroncino.
Riverisci da parte di noi due il Sig.
Rettore e il Sig.
Presidente, e ricevi i nostri amplessi e le nostre benedizioni.
Sono il tuo aff.mo padre
LETTERA 210.
A GIACOMO FERRETTI - CIVITAVECCHIA
Roma, 28 maggio 1835
Caro Giacomo, alias Jacopo
Non so dirti quanto e quanto piacevole mi sia giunta jeri sera la tua del 24.
Dopo due giorni dalla tua partenza io mi recai in tua casa in cerca di notizie ed ebbi quelle del tuo proprio arrivo.
Da quel tempo in poi non aveva altro saputo.
Veramente io poteva tornare a dimandarne, ma non l'ho fatto, e mea culpa.
- Chillo strafalario de lo Sig.
Tomasiello Galluzzo mi portò i tuoi saluti una sera prima dell'arrivo della tua lettera.
- Anche qui il Signor Giove si fa onore sotto le invocazioni di tonante e di pluvio.
- De' teatri che ti dirò? Tu ne saprai forse più ancora di me che non vi vo mai.
Sento però che Argentina se la batte con Valle.
Canes cum canibus facillime congregantur.
Circa alla salute della tua buona famigliuola avrei voluto una parola sola: BENONE: ma la spero in seguito.
Già, pel giorno 10 o circa mi prometto di udirla dalle vostre stesse e vive voci.
Io sto piuttosto benacchette col pollastro.
- Il Cianca ti saluta, il Cecco purzì e Mariuccia figùrati.
- Ho scritto pel giornale di Perugia un non breve articolo sui Bagni di Lucca del chiarissimo Conte di Longano, che Iddio tenga lontano.
Udremo che ne dirà la censura.
Ti mando intanto 42 versi di un amico tuo.
Costì siete in cinque preteriti: all'uno o all'altro potranno servire.
Ti abbraccio toto corde, dico mille cose affettuose, alla tua famiglia e sono il tuo
Belli
Quarantadue versi di Novecentonovantasei
AL PRINCIPE MARCO ANTONIO BORGHESE
NEL GIORNO DELLE SUE NOZZE
Io non so qual tu sia, perché la sorte
Tanta, o Marco, fra noi pose distanza
Di quanto cede mia povera stanza
Allo splendore di tua nobil corte.
Ma pur, se il testimon della sembianza
Può del costume far le genti accorte,
Una non t'hai di quelle anime morte
Di codardia nel fango e di baldanza.
Però il secondo de' tre dì solenni
Di tutto il corso dello uman viaggio
Non con lusinghe a festeggiar ti venni.
Prence, ricorda quanto indegno oltraggio
Faresti al mondo, se il valor che accenni
Non scendesse per te nel tuo lignaggio.
PER LA CAUSA SFORZA
Sotto gli auspicii di cotal che adorna,
Bestemmiando, l'umano col divino,
Nell'arena rotal Giulio Sforzino
La quarta volta a battagliar ritorna.
Crede il Mondo però, seppure non torna
Lo inchiostro in latte e l'acqua fresca in vino,
Che don Giulio e donn'Anna e Don Marino
Saran disfatti e n'avran mazza e corna.
E tempo è ben che cessi il vitupero
Di madri e di sorelle snaturate
Che infaman sé per offuscare il vero.
Oh Giudici di Dio, voi le salvate,
Ributtando il rossor dell'adultero
Sull'avarizia e sul mentir d'un frate.
AL PROFESSORE D.
MICHELANGELO LANCI
PEL PREMIO QUINQUENNALE DELLA CRUSCA NEL 1835
Deh, Michelangiol mio, come hai tu posta
La sublime opra tua dentro lo staccio
Di quelle scimie di Giovan Boccaccio
Per cui Monti sprecò tempo e Proposta?
Meglio oh quanto era il fartene una rosta
Da cacciar mosche, o involgerne il migliaccio,
O accenderne un falò pel berlingaccio,
Mal grado delle veglie che ti costa!
Quando, più ch'essa, ha prezzo oggi un sermone,
E sopra un Lanci si solleva un Buffa,
Morto in terra è il poter della ragione.
E i buon messeri della crusca muffa
Dan prova al Mondo omai che il loro frullone
Gira, come il cervel, di buffa in truffa.
LETTERA 211.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Terni, domenica 21 giugno 1835
Mia cara Mariuccia
Con ottima nottata e con mattinata non molto calda siamo qui felicemente giunti un'ora e tre quarti prima di mezzogiorno.
Si è fatto un bel camminare.
Abbiamo trovato tutti di casa Vannuzzi in ottimo stato di salute: ed appunto jeri ed oggi stavano parlando di me e maravigliandosi che io quest'anno ancora non passassi.
Ho detto loro che poco è mancato che rivedessero te: ne sarebbero stati tutti lietissimi.
Or ora mangeremo un boccone (zucche per me), e poi al mezzodì proseguiremo il viaggio che speriamo prospero come lo è stato fin qui.
Se vedi Spada o Biagini, salutali, e chiedi loro notizie del povero Ferretti che jeri sera mi dissero essersi fatta già la seconda sanguigna.
Un saluto agli amici e alla famiglia, anche per parte di Domenico.
Ti abbraccio, cara Mariuccia, di tutto cuore e sono
il tuo P.
LETTERA 212.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 23 giugno 1835
Mia cara Mariuccia
Dalla mia n° 1 avrai avuto le notizie del nostro ottimo viaggio fino a Terni.
La presente ti darà ragguaglio del resto.
Pernottammo a Fuligno, e jeri mattina prendemmo un legno per Perugia uniti ad altre due persone della Diligenza, le quali erano dirette a quella Città, dove arrivammo un'ora e mezzo prima del mezzogiorno.
Smontati alla locanda della Corona, dove abbiamo preso albergo, dopo mezz'ora circa ci recammo al Collegio.
Ciro ebbe un gran piacere di vedermi, ma a prima giunta non aveva riconosciuto Domenico, che stava lì con me in camera del Rettore.
Vedi chi ti ho portato? dissi io a Ciro.
Egli allora Oh! Domenico! e gli saltò incontro.
Ci dimandò subito subito di te, e si mostrò rammaricato del non esser tu venuta come sperava.
Assicurati, Mariuccia mia, che questo Cirone sta di una salute che non si potrebbe desiderar migliore.
Grasso, duro, colorito, allegro e mattaccino ch'è un piacere.
Ci portò in camera sua e ci fece udire al pianoforte il Coro Voga voga.
Lo suona benino, e pel poco tempo dacché studia la Musica, a cui le altre occupazioni più gravi lasciano scarso spazio, ce ne possiamo contentare.
I Superiori si chiamano soddisfatti del di lui studio e de' di lui portamenti.
Ha egli infinitamente aggradito il regalo della moneta d'oro, e te ne ringrazia.
Egli medesimo l'ha depositata in mia presenza nella borsetta ov'è la doppia.
Delle due paia di guanti a maglia uno gli va bene, e l'ha ritenuto: l'altro lo riporteremo a Roma con tutto il bollo, onde vedere se possa cambiarsi in un paio più grande.
Ciro ha fatto una mano e un piede da apostolo.
Al mio arrivare jeri in Collegio trovai che Ciro aveva già preparata la minuta di una lettera per te, onde mandartela per mezzo del Conte Ettore Borgia che va a ripartire a momenti.
Il mio arrivo gli ha reso necessario il farci qualche piccolo cambiamento.
Domenica a sera, dopo tutta la giornata festeggiata in onore di S.
Luigi, ebbero i Collegiali alcuni fuochi di artificio in uno degli spiazzi del Collegio e poi innalzarono un pallone costruito da loro.
Vi fu anche bella illuminazione.
Oltre molto concorso di gente, v'intervenne anche il Delegato.
Questa mattina siamo tornati al Collegio per concretare il da farsi relativamente al vestiario del quale Ciro ha bisogno, ed abbiamo riparlato con lui che al solito stava come un becco cornuto.
Mi ha espressamente incaricato di scriverti le sue notizie, di mandarti mille baci, di chiederti per lui la benedizione, di salutare gli amici che lo ricordano, e di dire mille cose ad Antonia.
- Credo che Domenico scriva a parte ai suoi figli.
Ho veduto il Sig.
Angiolo Rossi, ma non ancora la Sig.ra Chiarina.
Mi dice il marito che essa va soffrendo di un certo gonfiore alle gambe.
Le Sig.re Bianchi sono in Campagna, e così la Sig.ra Cangenna Micheletti.
La famiglia Fani sta bene e ti riverisce.
Così ti saluta il Dr.
Speroni.
Di' a Biscontini che ho ricapitato la sua lettera in proprie mani al Sig.
Brizi.
Speroni gli ha spedito un pacco di fascicoli del giornale per febbraio e marzo, e c'è compreso anche quello per me.
Il 4° volume del Prof.
Colizzi uscirà sui primi di luglio.
Dammi, Mariuccia mia, buone nuove della tua cara salute: dammene anche se ne hai, di Ferretti, e saluta tutti gli amici.
E qui di vero cuore ti abbraccio.
Il tuo P.
P.S.
Fammi il piacere di mandare i miei saluti al mio caro Maggiorani, e gli farai dire che già ho parlato per la sua raccolta.
Bramo udire buone nuove della tua salute.
LETTERA 213.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
Di Perugia, 27 giugno 1835
Caro il mio Cecco
Mi è stato scritto così: "Il Buffa si è portato a Firenze per brigare in Corte a suo prode.
Che non può mai la briga fratesca?"...
Io ho risposto così:
Corri dunque sull'Arno, o cucullato,
Onde alfin l'arciconsole benigno
Ti getti la sustanza nello scrigno
Della mezza corona che ti ha dato.
Corri, e in alta avrai lo Infarinato
E lo spirto gentil de lo Inferigno:
Ch'esser non puote che a te sia maligno
Chi die' rovello all'immortal Torquato.
Ma se avanzo d'onore e di vergogna
Pungesse ancor quegl'incruscati petti,
Tu sai, domenican, che ti bisogna.
Dolci sorrisi, lusinghieri detti,
Arti fratesche: e poi Roma, e Bologna
E Flora e Italia il tuo trionfo aspetti.
Dunque: "E Don Giulio e Donn'Anna e Don Marino
Ne andar disfatti e n'ebber mazza e corna".
Gran Santo Re David! Desiderium peccatorum peribit.
Mi pare che lo dica David: No? Si? Domandalo allo Scultore.
Io tornerò a Roma assai presto.
Credo che partirò di qui domenica 5, e in due salti eccomi alle Convertite.
Apri intanto le braccia.
Salutami Biascio e Ferretti che spero già guarito con Barbaruccia.
Un saluto anche a Lepri, che già ne avrà avuto un altro dal Sig.
Pietro Bettanzi mio compagno di viaggio e di mensa, nel senso però di desco e non più.
Andando in casa Piccardi - Ratti - Ruspoli tocca la mano per me a chi voglia lasciarsela toccare.
Con chi acconsenta fa peggio.
Una ave senza pater e gloria al Sig.
Alessio e alla famiglia di tuo fratello.
A Roma piove, e qui non canzona.
Un frescarello poi che Dio tel dica.
Eppoi un Uomo!...
Ciro sta bene e si fa grosso e sottile.
Salutatemi gli amici di casa, mi ha detto.
Dunque ce n'è la tua buona porzione.
È notte ed ora di cena.
Addio: vado a mangiare il mio empiastro.
Ego sum, io sono, il tuo Belli bello e buono.
LETTERA 214.
AL PROF.
ANTONIO MEZZANOTTE (?) - PERUGIA
Di Roma, 15 luglio 1835
Amico carissimo
Il primo fascicolo, o, per dir meglio, volume delle vostre opere da voi direttomi, si è trovato.
Peraltro il secondo e i successivi mandatemeli colla indicazione del domicilio, non trascurata da me sulla schedola di associazione, cioè
Palazzo Poli, 2° piano.
Stringete la mano con mia procura al gentilissimo ed ottimo vostro prof.
Massari, raccomandandogli quel tal figlio de' sei baiocchi.
A proposito! non vi lasciai il 2° sonetto sulla faccenda Lanci-buffiana.
Avete il primo, dovete avere quest'altro, per mandarli insieme al paradiso delle cartacce.
E perché qui non entra ve lo scriverò alla voltata del foglio.
Dunque abbiatevi un V.S.
da carte di musica, che alcuni spiegano per Vossignoria.
Questo modo d'interpretare io lo conosco, perché vivo nel paese degli antiquari.
S.P.Q.R.
Senatus Populusque Romanus
S.P.Q.R.
Soli Preti Qui Regnano.
Prima del sonetto due altre parole.
Dite al M.se Prof.
Antinori che il cucullato si crede dai linguisti o linguacciuti che siano, possa applicarsi per modo estensivo ad ogni genere e specie di claustrali, essendosi detto da buoni poeti fra i quali il Monti, chiercho e cocolle per preti e frati.
O buona o non buona ragione, io me la ingollo, ché la mia serve d'indulto.
Circa poi all'Arciconsolo, fu egli appunto la pietra dello scandalo.
Ed ora sia il capro emissario solvens pro cuncto populo.
Ditegli anche questo.
Ora trapassiamo al sonetto in nome di Dio.
Intanto stringete il lucchetto e mantenemi schiavo.
Il vostro 996
[segue la copia del sonetto: "Corri dunque sull'Arno, o cucullato"]
LETTERA 215.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma, 16 luglio 1835
Mio carissimo amico
Ritornato appena da una delle mie frequenti escursioni a Perugia, dove ho il mio Ciro in collegio, mi son veduto ricapitare in nome di vostro fratello Filippo due esemplari di una Lettera di Eveno Aganippeo ad un suo amico diretti da voi con sopraffascia uno a mia moglie ed uno a me.
Potete pensare se questo invio mi ha fatto piacere, e se me lo ha fatto per più titoli, tanto come un testimonio del non essere io mai morto nella vostra memoria, quanto pel pregio dell'opera e per l'interesse della relazione che la costituisce.
Ed io che vostra mercè conosco codesti luoghi e li sconosco sì bene, ho, leggendo la vostra descrizione, creduto quasi di rivederli in realtà, e provato un senso di soddisfazione al cui complemento non mancava che la vostra compagnia.
Il racconto poi del rappacificamento tra i due paesi vi so dir io che m'ha commosso sino a inumidirmi gli occhi tanto i generosi atti di virtù signoreggiano il cuore umano.
Intorno al quale avvenimento una curiosità mi rimane da appagare e una preghiera da farvi.
Chi fu quel gentile, sul capo del quale pose Apollo la Corona come al principal promotore della riconciliazione di due popoli? Scommetterei qualunque cosa men preziosa della vostra amicizia essere stato colui che si nomina alle linee 18 e 24 della pagina 6a, due linee degne d'essere incise in bronzo.
Se mi sono ingannato nella mia congettura dovrò credere che in S.
Benedetto viva un altro Voi-stesso.
Vengo ora a dirvi che il vostro dono è giusto venuto a trarmi una spina dal cuore.
Io era con voi in collera.
Seppi un vostro figlio essere stato in Roma, e voi non me lo indirizzaste.
In lui avrei onorato lui e il padre.
Io non voleva più venire a vedervi, con vendetta da buon cristiano rendendo bene per male.
Ora su ciò si vedrà, e allora sarebbe la vendetta più acerba.
Le mie occupazioni sono continue: mi occupo in appianare la futura carriera letteraria di mio figlio.
Attualmente gl'illustro uno dei tre poemi di Virgilio, e gli distendo un ampio piano di Mnemonica, perché se mai dovrà perdere la memoria, come va succedendo a me, abbia pronto un soccorso.
Ho anche scritto uno scartafaccio pel quale ho da un libraio di Parigi offerta di 100.000 franchi, non per l'eccellenza dell'opera ma per la novità della materia e della forma.
Ma i tempi corrono ad essa contraria, e verrà forse in sepoltura con me.
Riveritemi la vostra famiglia.
Salutatemi tutti i Voltattorni, e Pippo Lenti e la moglie.
Che n'è del Comite nostro? Mariuccia vi ringrazia e vi stringe la mano.
Sono il vostro G.
G.
Belli
palazzo Poli.
P.S.
Vi spedisco un mio vecchio ciafruglio, recentemente stampato in un giornale per cui scrivo qualche articolo come Iddio vuole.
LETTERA 216.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 30 luglio 1835
Mio caro Ciro
Rispondo alla tua del 25.
Vedo che non mi hai data risposta alla dimanda che ti feci nella mia precedente, cioè se conservi ancora le vedute e la pianta di Roma che noi ti regalammo.
Non mi ricordo di avertele in quest'anno trovate fra i tuoi impicci.
Mammà ti abbraccia, saluta e benedice.
Come tu sai, il giorno 15 agosto è il giorno della di lei nascita e del nome di casa.
Dunque tu dovrai al solito scriverle, e siccome io dubito di qualche tua leggiera dimenticanza, te lo ricordo.
Eccoti qui appresso la minuta della lettera che le manderai e che dovrai impostare immancabilmente la sera di giovedì 13 agosto - Ricevi i saluti degli amici, della famiglia, e di Antonia specialmente: riverisci i tuoi Signori Superiori, e prenditi i miei abbracci e la mia benedizione.
Il tuo aff.mo padre
Perugia, 13 agosto 1835
Mia carissima Mammà
Scrivo questa lettera e faccio conto che vi arrivi sabato 15.
Se in quel giorno Voi riceverete le congratulazioni e gli auguri di tutti i parenti ed amici, è molto più giusto e doveroso che vi concorrano i voti di un figlio che tanto vi deve e tanto vi ama.
Vogliate dunque aggradire, Mammà mia, questa prova della memoria che io conservo di Voi e della vostra tenerezza, e siate convinta che tutti i miei desiderii sono rivolti al fine di vedervi menare lunga e tranquilla vita, alla felicità della quale io procurerò sempre di contribuire con tutto lo sforzo della mia volontà.
Queste Mammà mia, non sono vane parole di lingua ma sincere espressioni del cuore, giacché io non posso aver cosa più cara che i miei genitori.
Spero non lontano il tempo in cui potrò con le azioni provarvi la verità di quel che oggi vi dico.
- Ricevete i complimenti de' miei Sig.ri Superiori, beneditemi, e credetemi
Vostro aff.mo figlio Ciro
LETTERA 217.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 3 settembre 1835
Mio caro figlio
Alla tua lettera del 29 passato agosto rispondo per mezzo del Signor Evangelisti, cugino de' Sig.ri Fani, e addetto allo studio del Signor Biscontini.
Egli torna a Perugia e ti recapiterà le presente.
Veramente dopo le mie speranze e le tue promesse quel nuovo mediocre mi ha non poco sorpreso e disgustato.
Questa benedetta lingua latina mi pare che tu non la voglia in corpo, ed al contrario senza di essa farai pessima figura nella carriera del sapere, e vedrai più difficili i seguenti tuoi studi letterarii.
Come la nostra Società è costituita, un uomo che voglia distinguersi dal volgo ha necessità assoluta della lingua latina.
- Che farai tu nell'anno venturo? Vorrai seguitare nella medesima classe, e passarci e consumarci tutto il tempo del tuo convitto in collegio? Ciro mio, voglio concederti che questa lingua ti riesca difficile, e realmente non è facile, ma le difficoltà si vincono ad una ad una, come le altezze delle montagne si superano a passo a passo.
Un uomo, al quale venga ordinato di trasportare da un luogo all'altro mille libre di peso, sbigottirò, se il peso non è divisibile in parti, non però se lo sia.
Egli allora ne trasporterebbe anche il doppio, il triplo, centuplo etc.
Il solo tempo a la perseveranza gli basteranno al bisogno.
Anche un bambino, ad once ad once, può eseguire quello stesso trasporto.
Così devi dire di te o della lingua latina.
Se gli ostacoli ti si facessero incontro tutti insieme come un torrente improvviso, io sarei il primo a riconoscer giusto in te e naturale lo smarrimento dell'animo e la mala riuscita.
Ma i tuoi Maestri non ti dividono eglino forse quel torrente di giorno in giorno in sottili facili ruscelletti? Resisti, persisti, Ciro mio, e vedrai la verità del proverbio gutta cavat lapidem.
Circa alla spazzola pel pianforte hai ragione, ma non se ne sono mai trovate da questi spazzini che ci dicevano aspettarle di Germania La ho dunque ordinata, facendone io un modelletto, ad uno di questi nostri stupidi e negligenti artigiani di Roma.
Appena avuta te la spedirò.
Mi hai salutato in nome della Signora Cangiani: m'immagino che avrai voluto dire Signora Cangenna.
Se vedi o Lei o il Sig.
Luigi Micheletti, ritorna loro i miei ossequi.
Riverisci i tuoi Signori Superiori e così i Sig.ri Maestri Speroni e Fani.
Mammà ti abbraccia e benedice.
Gli amici di casa e i domestici, particolarmente Antonia, ti salutano.
Sono di cuore
il tuo aff.mo padre.
LETTERA 218.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 15 settembre 1835
Mio carissimo figlio
Ebbi in tempo la tua dell'8 corrente, e non risposi subito sperando poterti dare buone notizie della scopetta pel pianforte, da me ordinata secondoché già ti accennai.
Ma, siccome io prevedeva, mi hanno fatto una porcheria e una cosa inservibile per tutti i versi, malgrado tutte le più minute mie dichiarazioni intorno alla forma, alla grandezza e all'uso.
Ho pertanto dovuto ordinarne un'altra a un diverso scopettaro, e il cielo me la mandi buona ancor questa volta.
Dovrebb'esser fatta per venerdì prossimo, e in questo caso pregherò il Sig.
Dottor Micheletti di portartela nel suo ritorno a Perugia.
La tua Mammà ed io siamo restati oltremodo contenti de' tuoi successi nella recente premiazione.
Quantunque tu non sii stato nominato ad alcun primo premio, purtuttavia quattro nomine non sono da calcolarsi per nulla, tanto più che esse abbracciano tutte le classi nelle quali ti sei tu in quest'anno occupato.
Abbine dunque, Ciro mio caro, i nostri affettuosi rallegramenti, e ricevi pur quelli di tutta la nostra famiglia, e de' parenti e degli amici, ai quali non ho trascurato di far conoscere i tuoi trionfi.
Forte adesso, Ciro mio, coraggio, e avanti senza arrestarti.
Vedi pur bene che le difficoltà poi si vincono.
Tu entrasti in collegio nel 1832: ebbene che avresti tu detto prima di quell'epoca, se avessi assistito ad una premiazione di fanciulli negli stessi studi che tu adesso coltivi? Ti sarebbe stato impossibile il concepire come quelle tenere menti avessero saputo aprirsi a nozioni secondo il tuo vedere astrusissime.
Eppure ci sei arrivato ora anche tu.
Hai studiato di ora in ora, di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno; ed ecco la intiera somma di tante piccole fatiche e di que' gradati profitti.
Come abbiam detto del passato, argomenta tu pel futuro.
Gli ostacoli si vincono collo stesso progresso con cui la lancetta di un oriuolo percorre il quadrante.
Pazienza, tempo, e perseveranza; e si diviene sapienti.
Benché la sorte ti abbia favorito in due bussoli della premiazione, pure noi vogliamo darti un segno a parte della nostra soddisfazione.
Il Signor Micheletti adunque, ti consegnerà, oltre la scopetta, un altro oggetto col quale speriamo che ti divertirai molto, senza che sia un giuocherello.
Ti prego però fin da ora di tenertelo a conto, perché costa assai e perché merita il titolo di passatempo anche di una età più matura della tua.
Conserva le tue cose, Ciro mio, e pensa che ormai ti disconverrebbe troppo lo sciupio de' fanciulli.
Amerò di conoscere a suo tempo i nuovi studi ai quali ti si farà applicare nel nuovo anno scolastico.
Ormai son principate le tue campagnate.
Si va quest'anno a caccia colla civetta? Cacciatori malpratici, fortuna di uccelli.
I parenti, gli amici, i domestici (particolarmente Antonia) ti salutano.
Ti saluta anche la cognata del Sig.
Bianchi la quale è in Roma.
Mamma ed io ti benediciamo e abbracciamo di cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 219.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 settembre 1835
Mio carissimo figlio
Il Sig.
Micheletti favorisce recarti la presente ed il resto.
Eccoti quanto ti annunziai nella mia antecedente del 15.
- La scopetta pel pianforte mi pare che possa andar bene.
Che se mai i peli sembrassero al Signor Fani forse alquanto lunghetti, gli sarà facile sotto la sua direzione il farli un poco accorciare, ciocché potrebbe compiacersi di eseguire il Sig.
Felicetti che ha pratica del maneggio delle forbici.
Fa' leggere al Sig.
Fani queste mie parole, le quali io però conchiudo con dire che a me, i peli della scopetta non sembrano di lunghezza sconveniente al loro uficio.
Salutamelo il Sig.
Fani, e digli che faccia egli altrettanto con la sua famiglia.
Tieni da conto, Ciro mio, questa scopetta, e non rovinarla col gettarla qua e là, o col giuocarvi.
Essa può essere eterna.
Unito ad essa troverai un libro contenente i costumi civili, ecclesiastici e militari della Corte papale.
Avendo tu (come mi assicurasti) conservato le vedute di Roma che ti furono già da noi donate, questi costumi possono riuscirti piacevoli, e di utile trattenimento intorno alle cose della tua patria.
Non mandarli a male, ché mi dispiacerebbe, tanto pel disprezzo che mostreresti ai nostri regali, quanto per la somma di varii scudi che sarebbero come gettati.
Tu ora sei un ometto, e ti disconverrebbero le negligenze della infanzia.
Hai capito, Ciro mio?
Colla prossima venuta del Sig.
Biscontini avrai le sotto-calze di cotone da inverno, e quindi a poco ti sarà spedito quanto occorre per rinnovare il tuo vestiario per la detta stagione.
Va bene?
Tutti ti salutano al solito, e Mammà ti abbraccia con me e benedice.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, e credimi pieno per te di tenerezza
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 220.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
Di casa, lunedì 21 settembre 1835
Mio caro Ferretti
Tu sai come io per le delicate ragioni già a te manifestate non aveva in mente di scrivere per la Bettini, o, almeno, di non inviarle i versi, onde non far forza alla sua volontà.
Ma che vuoi! un pensiere improvviso mi si è cacciato nella penna e in un momento è voluto venir fuori in inchiostro.
Cotto e mangiato.
Adesso scritto il sonetto, adesso ricopiato, adesso a te diretto; e siamo alle 9 di questa sera.
Ecco gli umani propositi.
Il mio sonetto è un compendio della storia del mondo fisico e del mondo sociale, come la Bettini parmi un compendio del bel sentire degli uomini.
Non dirmi che io ti tenga pel mio portalettere: tu mi sei troppo di meglio.
Dunque, per cortesia del tuo animo, se vedi alcuno pel cui mezzo mandare alla Sig.ra Bettini il mio microcosmo, ti sarò grato del tuo favore, come lo ti fui per risguardo al Sig.
Domeniconi.
E due.
Poi...
ma ascolto Stazio che mi ricorda
Quid crastina volveret aetas
Scire nefas homini.
Amami, saluta la tua famiglia, saluta il povero Zampi, ed abbimi sempre aff.mo amico
G.
G.
Belli
[Retro è aggiunto] Mi ha scritto il Fani se potesse venire per 1° della 2a coppia di viole a Tor di nona, onde per tuo favore parlarsene al Tassinari.
LETTERA 221.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[29 settembre 1835]
Gentilissima mia Signora Amalia,
fra le cortesi accoglienze della sua casa io dimenticai ieri tutto il resto del mondo, perché il mio spirito non sa fare che una cosa per volta.
L'avvocato Biscontini mi aveva, imposto di riverirla, d'intercedere per lui un perdono anticipato alla mancanza che le di lui brighe gli faran forse commettere di non venire ad inchinarlesi prima della di lui prossima partenza per Perugia, e finalmente di chiedere in di lui nome i Suoi comandi per quella città.
Procuro di rimediare oggi alla mia omissione di ieri nello stesso tempo che riparo l'altra mia storditaggine intorno ricapito della lettera di Fani.
Anche per questa potrei però addurre una scusa: la mia fretta di venire da Lei.
In tutti i modi convengo per amore di sincerità, la mia memoria essere abitualmente un po' inferma, e ne' suoi esercizi abbisogna di analogie e di rapporti.
Ecco, per esempio, le tre parole Perugia, Amore ed inferma, poco anzi scritte, mi han fatto mo ricordare che il giornale scientifico-letterario di Perugia stampò una mia novelletta, intitolata Amore infermo.
De gli estratti esemplari mandatimene dal Direttore me ne resta ancor uno, che pare aspettasse Lei in Roma affinché il fondamentale pensiero della novella ricevesse una solenne mentita.
La prego, mia gentilissima Signora Amalia, di riceverlo in piccol testimonio della mia divozione a' Suoi grandi meriti, rapporto ai quali la mia memoria avrà in avvenire poche confessioni da fare e meno assoluzioni da chiedere.
Presenti i miei ossequi alle Sue Signore Madre e Sorella, e mi conservi nell'onore di essere Suo d.mo ed aff.mo servitore
Giuseppe Gioachino Belli
Di casa, 29 settembre 1835.
LETTERA 222.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[2 ottobre 1835]
Gentilissima Signora Amalia,
nella prossima notte parte l'avv.to Biscontini per Perugia.
Facendo io seguito a quanto Le scrissi martedì, La prevengo di ciò, perché, avendo Ella a Perugia fresche relazioni, possa approfittarsi di questo incontro ad ogni Suo piacere.
Verrò io stesso dopo il pranzo a ricevere in procuratorio nome i Suoi ordini.
Sarebbe superfluo ed anche temerario il qui aggiungere che io con simile avviso non presumo disturbare menomamente la Sua libertà.
Ella mi aspetti, non mi aspetti, faccia il pieno Suo comodo.
Basterà, dov'Ella esca mi lasci una parola in Sua casa, benché all'estremo il non trovare pure alcuno lì sarà una risposta anche quella.
Unico male in tuttociò il non poter riverirla.
Le raccomando quel mio povero convalescente.
Gli abbia cura e lo guardi dalle intemperie.
Una recidiva! Dio guardi! Il Tempo non salverebbe meglio della Ragione.
Io però gli spero tanto di vita che possa venire in un baule a fare un viaggio con Lei.
Si dice che i viaggi rimediano a tutto.
Perdoni le mie scipite facezie, e mi creda seriamente
suo Servitore vero G.
G.
Belli
Di casa, venerdì 2 ottobre 1835.
LETTERA 223.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 13 ottobre 1835
Mio caro figlio
Ricevo la tua letterina del 10, e mi maraviglio di non trovarci neppure una parola intorno alla scopetta pel pianforte e al libro di costumi che fin dal 19 settembre ti spedii pel mezzo del Sig.
Dottore Micheletti.
Che egli non ti abbia fatto la consegna di quegli oggetti è impossibile, ed altronde io te ne ho tenuto parola anche nella mia lettera unita alle calze di cotone (e non di lana, come tu dici), di cui mi accusi il ricevimento.
Dunque da che dipende il tuo silenzio sui nostri doni? Da disprezzo non voglio neppure supporlo.
Io dovrei inquietarmene e rimproverartene con qualche serietà; ma prima voglio udire le tue ragioni, se ne hai di plausibili.
Che se mai ciò dipendesse dalla tua solita ed abituale spensieratezza, mi darebbe poco coraggio per continuarti le mie attenzioni.
Basta, ogni prudente giudice deve prima ascoltare le difese e poi condannare od assolvere.
Io ti desidererei innocente perché non so avvezzarmi alla idea che tu possa divenire un egoista e un ingrato.
Nulla io pretendo da te fuorché studio e bontà.
Ma pare a te, Ciro mio, che il non riconoscere le altrui premure andrebbe d'accordo con la bontà che da te desidero? Io so bene che se qualcuno ti percuotesse, tu gli diresti: Mi hai fatto male.
Or bene, allorché alcuno ti usa un favore, non dovrai tu dirgli: Mi hai fatto bene? E quando il beneficente si contenti di questa sola risposta, trascurerai tu il dargliela? Insomma fra la scopetta ed il libro si ritrovava pure una mia lettera.
Bisogna dire che siasi smarrita fra le tue cartacce: altrimenti essa medesima ti avrebbe ricordato il tuo dovere.
Arrestiamoci qui, perché io mi avveggo di trascorrere a quella sentenza che non voleva più ora pronunciare.
Intanto restiamo buoni amici, e diamoci un bacio.
La tua buona Mammà ti benedice ed abbraccia.
Gli amici, Antonia e gli altri domestici ti salutano.
Tu riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e la Sig.ra Grazioli se la vedi.
Mi ripeto colla solita tenerezza
il tuo aff.mo padre
LETTERA 224.
AL SIGNOR ESTENSORE DEL CENSORE UNIVERSALE DE' TEATRI - MILANO
Di Roma, ottobre 1835
Onorevole Signore
La nobile ed assennata risposta fatta da V.S.
ad alcuni rilievi della Gazzetta Piemontese sul Melodramma La Pazza-per-amore del nostro concittadino Sig.
Giacomo Ferretti, avendoci in Lei mostrato un franco amico della verità, ci dà animo a pregarla d'inserire nel suo divolgatissimo foglio queste parole, scritte nello spirito di esercitare un nuovo atto di giustizia contro due laconici articoletti del giornale Il Figaro (N.N.
73, 83) relativi all'Opera di Roma nella corrente stagione autunnale.
Venne in quelli annunziata la caduta della musica del Ricci, Gli Esposti, seguita dalla rovina di uno dei capi-d'opera rossiniani, L'assedio di Corinto; con nuda e secca sentenza se ne addossò la colpa alla prima donna Sig.ra Annetta Cosatti e al tenore Sig.
Alberti.
Noi non sapremmo negare il poco fortunato successo dell'uno, come osiamo sostenere che l'incontro dell'altro pareggiasse la gloria già ottenuta sulle medesime scene allorché fu prodotta sotto gli auspici del valore di un Galli, il cui solo nome è un elogio, e la cui sola comparsa assicurava un trionfo, pria ch'egli andasse a trapiantar nel nuovo mondo i lauri mietuti nel vecchio.
No, per verità e per giustizia diremo tutt'altro.
Ma il ciel chiuda la bocca di chiunque volesse far eco alle accuse del Figaro onde giustificare i motivi di que' disgraziati naufragi.
Perì, è vero, il naviglio del Ricci, meno però per l'imperizia dell'equipaggio che per le forme del legno poco atte a correr queste acque.
Snello, spalmato, elegante, ma non troppo fatto pel Tevere, entro a' cui vortici (stupendo a dirsi) affonda talvolta miseramente ciò che lieto galleggia sul Ticino o sull'Adda.
E, per lasciar le metafore, verremo a conchiudere che l'Alberti non è certo un Rubini, non è un Duprez, non è quel che una volta fu il David; ma neppure è un cantore da chitarrino, siccome al Figaro sembra ch'ei sia.
Né alla Cosatti debbonsi concedere i pregi delle Malibran, delle Ronzi, delle Ungher, e delle altre poche celebrità dell'odierno teatro, chiare in Italia, chiarissime fuori, e rimunerate ovunque in una sera con quanto consolerebbe per un anno numerose e virtuose famiglie.
La Cosatti, più umile di tutte costoro, le quali non sempre si possono avere, non merita purtuttavia di comparire ne' pubblici fogli quasi capro-emissario carico de' peccati del popolo.
Dotata dalla natura di gratissima voce e robusta ed estesa, non povera di sentimento e d'intelligenza, di un aspetto da non mandare le genti in delirio ma neppure da far chiuder gli occhi a nessuno, essa nulla poté aggiungere all'Opera come nulla le tolse.
Non incontrò nella musica del Ricci; ma chi piacque in essa? La Sig.ra Amalia Pellegrini, dice il Figaro.
- Signor Figaro, noi abitiamo a Roma ed Ella a Milano dove fu indotto in equivoco da una romana relazione che guardò agli effetti senza curarsi delle cause.
Sappia Ella dunque che se la sua gentile concittadina riscosse un applauso nella prima sera (e forse lo avrebbe meritato eguale nelle successive) l'uditorio, che era annoiato, volle rallegrarsi un momento.
Questa abbiasi per istoria vera quanto la scoperta delle Indie.
Lungi la malignità da noi che stimiamo la Sig.ra Pellegrini al suo giusto valore.
Ma il solo averla posta sopra alla Cosatti fa scorgere che in quell'applauso ci fosse qualche cosa sotto.
Il pubblico applaudì, la Pellegrini ringraziò, e tutto finì in buon umore.
- Venne poi L'assedio di Corinto, la Cosatti vi trovò canto per lei, e gli evviva salirono al Cielo.
Eppure quel maraviglioso lavoro non si sostenne! Perché? A ciò risponda Maometto.
Terminiamo questo ormai lungo cicaleccio colla seguente appendice.
Il Figaro ha una pagina consacrata ai teatri.
Ebbene, parlandovi delle nostre disgrazie non si scordi di notarvi le nostre fortune.
Ci compiange egli nella musica? Ci invidii dunque nella prosa; e narri alla Lombardia, almeno una volta, come in Roma si trovi adesso e fanatizzi i Romani la comica Compagnia Mascherpa, nella quale per tacer di vari altri, una Bettini, un Domeniconi, un Colomberti e un Gattinelli son quattro colonne da sostenere il peso di qualunque drammatico edificio.
G.
G.
Belli
LETTERA 225.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[Roma, 26 ottobre 1835]
Amabilissima mia Signora Amalia
I nostri discorsi (così come suole accadere conversando, che di uno in altro proposito principiasi talora da un paio di occhiali e si finisce coll'incendio di Troia), ci condussero negli scorsi giorni a parlare di quella romana generazione di letterati, i quali, fra sé ristretti, e schivi di tutt'altri e tutt'altro che non sia loro e in loro, regalansi scambievolmente il modesto titolo di santo-petto, e ciò per la santità del loro amore verso le lettere del Trecento, beate quelle e beato questo per omnia saecula saeculorum.
Ricorderà, gentil Signora, come io le narrassi essere uno di costoro venuto a morte nel 1834, e aver commossa la mia povera musa novecentista a piangerne l'amarissima perdita.
Or bene io Le invio oggi i versi spremuti dal mio dolore in quella lugubre circostanza, e consecrati a tutti i Santi-petti compilatori del giornale-arcadico, giornale profetico che, zoppo più di Zoilo nelle sue pubblicazioni, suole spesso annunziare, con data per esempio del '32, antichità dissotterrate nel '33.
Se questa non è profezia bell'e buona, Dio sa cosa ell'è.
L'illustre defunto ebbe nome Girolamo Amati di Savignano.
Fu veramente buon grecista, buon latinista, buono scrittore italiano.
Molto seppe e moltissimo presunse.
Con pochi usava: degli altri non rispondeva neppure al saluto.
Sordido e senza camicia sotto i panni: di volto satiro e così di parole; e tuttavia ne' suoi scritti, per umana contraddizione, non raro adulatore dei potenti.
Stridulo poi nella voce come cornacchia, e ruvido nel corpo e ne' modi, quanto il rovescio d'una impagliatura di sedia.
A quella corrugata fronte, degnissima di un posto nella commedia de' Rusteghi, profondevano i di lui cari fratelli il nome solenne di fronte omerica in grazia forse del cervello che ricopriva.
Ne' miei 14 versi e nella nota dichiarativa incontransi alcuni fiori di lingua, onde vanno sparse le carte e olezzanti i colloqui de' Santi-petti ai quali il Segato di Belluno niente saprebbe più dare oltre quanto lor concesse prodiga la natura.
Se v'è da ridere, Signora Amalia, rida con me: se poi, anzi che di riso, provi Ella senso di nausea, laceri questi fogli e si rallegri colla dimenticanza e de' Santi-petti e del loro encomiatore
Gius.
Gioach.
Belli
Di casa, 26 ottobre 1835
IN MORTE DI GERONIMO NOSTRO
O Santi-petti, o primi arcadi eroi,
D'ogni savere e gentilezza ostello,
In cui lodiam quanto di raro e bello
Formar seppe Natura e prima e poi:
Spenta è la luce che mostrava a noi
Carità benedetta di fratello
Sulla omerica fronte, ove il suggello
Fu di spregio d'ognun fuor che di voi.
Levate alto gli omei, le genitali
Blandizie vostre, e i modi lusinghieri
Onde fra voi vi divolgate uguali.
E come già rendeste allo Alighieri,
Date suffragio a lui di Parentali
Fra il pianto, i rosolacci ed i bicchieri.
LETTERA 226.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 14 novembre 1835
Mio caro e povero Torricelli
Come è bugiardo il mondo! quanto breve, e mal locata la gioia dell'uomo! Tornato io a casa ben tardi nella mattina delli 12 (?), trovai sul mio scrittoio una lettera, il carattere del cui indirizzo, non visto da tanto tempo, mi rallegrò.
Era tua lettera.
Non fosse mai giunta, o non l'avessi mai letta! E fu ventura la trascorsa ora al rispondere: nel mio sbalordimento ti avrei scritto delirj.
Le prime parole di quella - Martedì Clorinda fu lietissima ad un pranzo di suo cugino - mantennero, accrebbero anzi il mio piacere ingannevole.
E se al tuo dolore, a te ingenuo, a te non seconda vittima del funebre caso si potessero mai da me amico tuo attribuire oratori artifici in mezzo al pianto, ed alla desolazione, parrebbe quel lieto verso destinato quasi a rendere più straziante l'inatteso effetto del resto terribile.
Già dalla seconda linea - quel "tornò a casa in ottimo stato di salute" principiò a gelarmi il cuore, perché nel corso ordinario della vita simiglianti frasi non sogliono usarsi mai, se non, preliminari di funeste notizie.
O la giovane, bella, e gentile tua sposa! piangi, mio Torricelli, piangi, che ne hai ben motivo.
Non sarò io quel freddo spettatore della tua miseria, che venga a tentare il tuo nobile animo colle comuni risorse della sistematica consolazione.
Sì, esala nel pianto, un'angoscia, che, trattenuta, potrebbe fare a lutto sei orfani.
Chiudi gli orecchi agli zelatori del fato, e del cielo: tu ne sai più di loro.
L'umanità ferita chiede oggi, sola, gli affetti del tuo cuore, e le meditazioni del tuo spirito, e l'amore deve farsene il signore assoluto.
Tu molto perdesti: non tutto; e ne hai verità in quei sei volti, copie fedeli della cara immagine, che si dileguò.
Ma la provvidenza albergò nel nostro petto più tenerezze, quella di figlio, di amante, di marito, di padre, di amico tutte le hai tu conosciute, e profondamente sentite.
Una ti fece gemere, e ancora ti fa, sulle ceneri del tuo buon genitore: due altre ti si risvegliano adesso più imperiose che prima, perché la natura oltraggiata dalla morte si vendica sul cuore più prossimo al colpo, e perché nella perdita è più la coscienza, che nel possesso, e nel medesimo acquisto.
Dunque ciò, che ti rimane e di prole, e di amici non è per ora compensato del troppo, che ti mancò.
Tu però offeso dalla morte in quel che ti tolse, saresti ad un tempo offensore di quel che ti lascia, se all'umanissimo e bollente tuo animo volessi imporre di forza, e di slancio il conforto pericoloso degli uomini materiali.
La cristiana rassegnazione non abbisogna per trionfare sulla nostra fralezza, della mentita impassibilità dello stoico.
Umiliare il pensiero ribelle all'onnipotenza è segno di pietà, e di ragione.
Asservire gli affetti, che onorano la nostra specie, è pruova di vizio e di ferina stoltezza.
Così, tu piangi, mio caro, per sollevarti il cuore degnamente, e conservarlo sano a' tuoi amici, e a' tuoi figli.
Il tempo, sedatore di tutti i moti dell'universo, ti restituirà poi quella calma, che, accompagnata ora sempre da dolce mestizia, dà fede perenne di una vecchia sventura patita in chi meritava continuità d'ogni bene.
Intanto io associerò le tue alle mie lagrime, sapendo tu bene quanto quella bell'anima castamente mi amasse, perché tu mi amavi, e come io vi ricambiassi dello stesso affetto, che a te mi congiunge.
Bacia per me i tuoi cari figli, e quando li condurrai ad infiorare la tomba materna, tra le mani tenerelle di quello, che dovrò io tenere al sacramento della confermazione, poni un fiore di più, con l'animo che sia gittato sulla pietra in pietosa memoria della mia afflitta amicizia.
Il tuo G.
G.
Belli
LETTERA 227.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 8 dicembre 1835
Mio carissimo figlio
Rispondo io per la tua mammà alla lettera che tu le inviasti il 28 novembre.
Ad entrambi noi piace assai di udire le tue promesse di un maggiore impegno nell'esercizio delle scale musicali.
Lo conosco, quegli esercizi sono alquanto aridi e poco gustosi, ma senza di essi, Ciro mio, non si può davvero giungere alla perfezione del suono.
Insomma, nella musica come in ogni altra arte o scienza gli elementi riescono sempre duri e difficili, ma, superati quelli, per ogni grado di pena sofferta se ne guadagnano mille di soddisfazioni e di gloria.
Non prevedi tu, Ciro mio caro, il diletto che procurerai a te stesso e agli altri allorché adulto e desiderato potrai far mostra de' tuoi talenti in un adornamento che la moderna educazione tanto aggradisce? Se tu non avessi a sapere che la sola musica, saresti un soggetto molto comune: con la unione però di più solidi fregi, i quali saranno gli studi del tuo collegio, quella della musica farà di te più risalto.
Mi pare avertelo detto altre volte: nei momenti di fastidio per gli ostacoli di qualunque progresso bisogna pensare al riposo e al bene futuro; e questa idea non puoi credere quanto alleggerisca i travagli presenti.
Io parlo per esperienza; ed ho mille volte provato la realtà di quanto ti vo' dicendo.
Spesso anche a me sembra spinoso un lavoro: ebbene, io allora chiudo gli occhi, e con quelli della mente trascorro a vagheggiare i successi che me ne possono derivare nell'avvenire.
Entrato appena in me questa persuasione sento raddoppiare la mia lena e il mio coraggio, e mi pare un prato molle ed ameno ciò che prima mi aveva sembianza di una valle piena di scogli e di tenebra.
Io ti parlo di me perché tu devi essere quel che son io: tu ed io anzi siamo e saremo sempre una medesima cosa; ed allorché, finita la tua educazione, ritornerai a vivere con me, ci aiuteremo scambievolmente dei nostri lumi reciproci, e godremo, spero, giorni tranquilli e onorati nella soddisfazione de' nostri doveri.
Mammà ti saluta, abbraccia e benedice insieme con me, siccome insieme con me ti prega di riverire il Sig.
Presidente, il Sig.
Rettore e gli altri tuoi Superiori.
Antonia e gli altri domestici, non che gli amici di casa, ti dicono mille cose cortesi.
Io sono
il tuo aff m° padre
LETTERA 228.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[14 dicembre 1835]
Cortesissima Signora ed Amica
La cara donna pianta in queste mie rime fu Teresa Sernicoli, sorella del professore di questo nome, il quale acquistò grado e onore di cavaliere non per ventura di natali e di cieco favore, ma per meriti veri nella santa arte che volge a salute della umana vita il ferro, i cui benefici e le offese ebbero forse una allegoria sapientissima nella lancia di Achille, causa e rimedio di aspre ferite.
Amabile per forme e più per costumi, andò colei moglie ad Annibale Lepri, favorito dalla fortuna di agi e dalla natura di alti sensi e raro cuore.
Religiosa, amena, casta e compassionevole formò essa la delizia del marito e il decoro della casa per diciassette anni, e di trentanove morì nel 1833 lasciando il suo sposo non padre, però che fra tanti doni non volle il cielo concedere fecondità, forse per renderle meno penosa la immatura morte.
Molti distinti uomini con soavi carmi ne lagrimarono il fato, fra i quali vi nominerò Giacomo Ferretti e per l'amicizia che a lui ci lega, e perché la prima figliuola di lui, Cristina, ebbe nome e nuova madre per quella benedetta al sacro fonte della rigenerazione: circostanza atta a farne dolce la memoria anche a Voi che non la conosceste, a Voi sì tenera dell'affettuosa famiglia del nostro amico.
Vivete sana e sempre più cinta di gloria.
Roma, 14 xbre 1835.
G.
G.
Belli
LETTERA 229.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 22 dicembre 1835
Mio carissimo figlio
Ebbi la tua del 12, e mi piacque leggervi le promesse che in essa mi fai, tanto più per una specie di convinzione che mi dimostri intorno alla verità dei miei consigli.
Si sta preparando, Ciro mio, qualche cosetta da mandarti secondo il consueto fra le feste e il capo d'anno.
Ho fatto costruire espressamente una scattola per queste spedizioni, ed ho ordinato che vi sia messa una serratura con due chiavi, una delle quali manderò a te perché la conservi, ed un'altra la riterrò io, affinché la scattola possa andare avanti e indietro tra Roma e Perugia come una specie di bauletto, senza bisogno d'inchiodare e schiodare, e senza necessità di rinnuovare tanto frequentemente quest'oggetto di trasporto.
Darò dunque ordine al vetturale che dopo averti lasciata la cassetta venga a riprenderla per riportarmela vuota in un altro viaggio che farà egli per Roma.
Oltre i saluti della Signora Cangenna che tu mi facesti, ebbi una lettera nella quale mi parlò gentilmente di te, e me ne dette buone nuove.
Se tu la vedi riveriscila in mio nome, e dà un bacio al piccolo Cencino.
Presenta gli ossequi della tua Mammà ed i miei a' tuoi Signori Superiori e Maestri, ed in ispecial modo al Sig.
Presidente e al Sig.
Rettore, ai quali farai mille auguri di felicità per le prossime Sante feste e pel successivo nuovo anno.
Gli amici, i parenti e i domestici, fra i quali principalmente Antonia ti dicono mille cose affettuose.
La tua buona Mammà ed io ti benediciamo e abbracciamo teneramente, e preghiamo Iddio perché ti ricolmi l'animo di allegrezza nel tempo natalizio come nell'anno nuovo, e per lunghissima vita, tutta onorata ed utile al tuo bene e all'altrui.
Ricevi queste espressioni dell'amore vero ed ardente del tuo
aff.mo padre
P.S.
Poco prima di mandare alla posta la presente mi è giunta l'altra tua latina scritta il 19 corrente, cioè nel 14° giorno avanti le calende di Gennaio 1836.
Bravo, bravo, Ciro mio; e benchè tu ancora non tocchi a sublimità nel possesso di questo idioma (siccome mi dici), purtuttavia io son contento, e ne ringrazio il gentilissimo tuo Sig.
Maestro, del quale con molto piacere e mio onore trovo i saluti e gli auguri nella tua lettera.
La tua Mammà, benchè meno dotta del suo Ciro, pure presso mia spiegazione ha potuto gustare le tue latine eleganze e te ne rimerita con mille nuovi abbracci.
Così te ne fanno plauso coeteri noti ac affines.
LETTERA 230.
A NATALE DE WITTEN
nel giorno 25 dicembre 1835
Dopo trecensessantacinque giorni,
Ed un giorno di più quando è bisesto,
Torna il Santo Natal con tutto il resto,
Cioè i Magi, il presepio e i suoi contorni.
Io non mormoro già ch'esso ritorni
Bensì mi lagno che ritorna presto.
Perché ad ogni tornata è manifesto
Che ci crescono addosso i capricorni.
E non appena pei caffè in vetrina
Scopro i primi pangialli, io dico: male!
Vedi come l'età passa e cammina.
Basta, lasciam da parte la morale;
E piuttosto gridiam questa mattina:
Viva il Natale ed il Signor Natale!
G.
G.
Belli
LETTERA 231.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 9 gennaio 1936
Mio carissimo Torricelli
La composizione, o, secondo il linguaggio de' tipografi, la pizza della tua inscrizione, è fatta.
Non si può ancora imprimere perché l'incisore non ha fatto il monogramma del Cristo da porvisi in alto, il quale manca al Salviucci nella grandezza proporzionata al nostro bisogno.
Io però non cesso dallo stimolare.
Sul sonetto pel capo-d'anno ecco come la penso io ai versi 5° e 6°.
- Il servo è il servo e il tiranno è a dirittura il padrone: il che si riferisce all'opre: il numero è l'anno 1835: l'appiè del trono è il punto dove si congiungono i rapporti del comando e della obbedienza, e dove l'anno gli accoglie tutti nel suo seno per ritenerveli quasi cosa presente per tutta la durata dell'anno stesso, finito il quale sogliono gli uomini considerare perfettamente passati i fatti in quello accaduti.
Così dicesi è cosa di quest'anno; così fu cosa dell'anno scorso etc.
Terminato l'anno, gli avvenimenti di quello, prendendo di un colpo natura di cosa remota, cadono coll'anno stesso in grembo ai secoli che sono compiuti e riuniti all'eternità, nella di lei parte antecedente al punto del presente, che è il solo momento da cui si possa concepire divisa.
Difatti l'eternità mancando di estremi, neppure dovrebbe di ragione aver parti, le quali suppongono un mezzo.
Quel tal che credo possa ritener più relazioni colle opre che non col servo e col tiranno, mentre costoro in caso obliquo e in vera obliquità di azione non istanno nel verso se non per caratterizzare le qualità dell'opre di servitù e d'impiego; di modo che alle sole opre vien consecrato tutto il resto di quella quartina, dove il servo e il tiranno non figurano più.
Dopo tante ciarle apparirà forse meno dichiarata la matta idea che io pretesi di esprimervi.
Dio guardi però quel sonetto che abbisogna di tanti commenti!
Ti ringrazio del bel sonetto del Sig.
Donini il quale si assapora senza uopo di arzigogoli.
E così ti sono obligato per la cara e stracara ottava del Sig.
Montanari.
Come vi ha preziosamente riuniti i due nomi di Clorinda e Torquato! Ecco un modello rarissimo dell'arte di giuocare sui nomi con severa convenienza al soggetto.
E già che siamo in proposito di sonetti, saprai, o, se nol sai, tel dico io, che il Barone Ferdinando Malvica di Palermo s'è insorato con egregia donzella.
Voleva miei versi.
Gliene scrissi 14, ma un comune nostro amico, il caro ed eccellente Biagini che nel 1830 ti feci conoscere, non ha creduto che gliel'inviassi, onde (son sue espressioni) non fargli cascare il cuore in terra.
Li mando a te, che, povero Torricelli, il cuore in terra già ce lo hai.
Unisci dunque dolore con isdegno, e leggi i miei 14 versi, seppure non debbano chiamarsi meglio 154 sillabe.
Ho letto la pistoletta del Santo-petto S.
B.
- Potrebbe farmi miracoli, getterebbe l'opra ed il tempo.
Caratterizzato un uomo, tutti i suoi attimi prendono il colore del suo carattere.
Io sono irreconciliabile, e chi ha offeso un mio amico ha vituperato me, perché io considero nell'onore tutti i viventi obbligati in solidum.
La lettera è bella e dolce, di quella venustà e mollezza che spiravano le lettere di quel morto capo-di-setta che ti sorrideva e pugnalava.
A proposito del Malvica, nominato più sopra, rimandami per qualche occasione il suo-mio libro di epigrafia etc.
Ti abbraccia il tuo B.
[In foglio a parte il sonetto al Malvica:]
Immagini di vita, o Ferdinando,
Pegni di voluttà fur gl'imenei,
Infin che arriser più benigni Dei
A questo di virtù suol venerando.
Ma da che Italia nostra è messa al bando,
E fra l'onta di barbari trofei
Nacque in lei morte e par viver in lei,
Chi môve all'ara de' môver tremando.
D'onor, di senno e carità ripieno,
Se da sposa feconda avrai tu figli,
Pensa a qual terra li deponi in seno.
Terra povera d'armi e di consigli,
Terra cui mai non sorge un dì sereno,
Terra di servitù, terra d'esigli.
LETTERA 232.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 12 gennaio 1836
Mio carissimo figlio
Ho molto piacere che tu sia rimasto contento degli oggetti da noi inviati per tuo uso pel recente Capo-d'anno.
È stato quel che si è potuto fare tanto in vista delle regole del tuo Collegio che non permettono oggetti di lusso, quanto per rispetto delle circostanze de' tempi in cui la stessa prudenza non concede che si pensi a troppe superfluità, riuscendo anche difficile il far fronte ai puri bisogni.
In ogni modo, abbiti, Ciro mio, in quelle cose un testimonio della nostra premura per te; e vivi sicuro che noi faremo sempre tutti i nostri sforzi affinché non ti manchino oneste soddisfazioni, in premio della diligenza che ti raccomandiamo incessantemente ne' tuoi doveri.
Tu non devi pensare per ora che ad acquistare virtù ed istruzione, e le rimanenti cure per la tua felicità non verranno in noi giammai a diminuirsi.
Tu formi l'unico oggetto di tutti i nostri pensieri, affinché un giorno tu possa benedire la nostra memoria.
Se non avrai ricchezze da sfoggiare e insultare gli sguardi del Mondo, spero che ti avremo preparato un miglior patrimonio di onore e d'istruzione, che ti procacci una vita tranquilla e modesta fra l'approvazione e la stima degli uomini.
Tutto in terra perisce, tutto, Ciro mio, fuorché il decoro di un'anima elevata, schietta ed ornata di salda cultura; e fino l'invidia e la malignità de' malvagi giungono a render poi giustizia ad un merito reale che non si smentisce da se stesso.
Ti voglio convincere della bellezza della virtù e della forza che questa esercita anche sugli uomini viziosi.
Sai tu cosa è la ipocrisia? È un'imitazione attenta e studiosa di tutto ciò che le umane azioni hanno di buono e di lodevole.
Ebbene, la ipocrisia è un vizio perché assume falsamente un esteriore virtuoso onde ingannare.
Ma non vedi tu dunque che lo stesso vizio confessa così il bisogno di nascondersi sotto le spoglie della virtù? Non si chiama ciò un vergognarsi della propria bruttura? Non si scopre in quell'artificio la superiorità che tutto il Mondo è forzato a concedere al giusto, all'onesto? Se pertanto la virtù può parere bella talvolta anche simulata, perché non vorremo noi acquistare la realtà che non ha d'uopo di fraudi per sostenersi a fronte di tutti gli eventi? L'ipocrita, l'impostore fatica per apparir virtuoso, ma l'uomo onesto lo sarà e per sentimento altrui e per propria coscienza; e la coscienza è il primo giudice che noi dobbiamo rispettare e temere.
I primi suffragi di noi stessi li dobbiamo ricercare in noi stessi.
Quando un malvagio è scoperto, al disprezzo comune deve necessariamente unire quello del proprio convincimento, nel che consiste il primo e il più tremendo gastigo della colpa.
Lo studio, fatto con cuor retto e col fine di migliorare la propria natura, contribuisce prodigiosamente al conseguimento della bontà, perché chi studia cerca la verità, e la verità è come una fiaccola accesa da Dio per guidarci al possesso del vero bene.
Rifletti, Ciro mio, a queste ragioni, e parlane coi dotti tuoi Superiori che ti sono in luogo di padre.
Io non posso così di lontano che accennarti qualche punto che l'esame e il discorso ti debbono sviluppare in tutta la loro ampiezza e illuminare di tutto il loro splendore.
Dimmi, Ciro mio: come senti freddo? - Reciti al teatrino quest'anno?
Tutti, e specialmente Antonia ti salutano.
Pochi giorni addietro parlai di te lungamente al Sig.
Avvocato Gnoli.
Riveriscimi i tuoi Sig.ri Superiori ricevi le benedizioni e gli abbracci della tua Mammà.
Ti stringo al cuore, e sono il tuo aff.mo padre.
LETTERA 233.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[Roma, 20 gennaio 1836]
Mia gentilissima amica, nulla di più sconcio che le cose fuor di proposito.
Avrei pertanto dovuto non mandarvi oggi le qui unite melensaggini che scrissi ieri pel libercolaccio il quale dovrà usurpare nel Vostro baule uno spazio assai meglio occupabile anche da un paio di calze da scarto.
Ma il desiderio di dimostrarvi che ancor lontana dalla vista non potete esser remota dal pensiero di chi Vi conosce, mi han fatto bravare le convenienze.
Due altre considerazioni contribuiscono pure alla risoluzione, un po' strana per verità in riguardo alla circostanza penosa della Vostra famiglia: l'una cioè riposta nella mia speranza che la Cecchina stia oggi meglio di quello che ieri sera mi annunziò Biscontini: l'altra appoggiata alla vostra libertà di leggere o non leggere le mie sciocchezze, secondo il vario consiglio dell'animo.
Se nulla è al Mondo di che io oggi mi dolga, ciò è il vedere come io sia stato profeta circa alla infermità della vostra buona sorella.
Ah! così avesse voluto ascoltare le insistenze di un querulo amico! Ma non volgiamo gli occhi all'indietro.
Percorriamo invece con ogni specie di voti e di auguri il lieto giorno della ricuperata salute, ed il momento di gioia che dopo quello la attende.
Salutatela in mio nome, e mostratele calma onde trasfonderne in lei.
Riverisco la Signora Lucrezia, e mi confermo con tutti i sentimenti degni di Voi
Di casa, 20 gennaio 1836
Vostro servitore ed amico
G.
G.
Belli
LETTERA 234.
AL CONTE FRANCESCO CASSI - PESARO
[21 gennaio 1836]
Gentilissimo e rispettabile amico
Mi fu il giorno 14 recapitata la obbligantissima Vostra del 7 relativa al passaggio delle vostre stampe farsaliche dalle mie alle mani del Sig.
Pietro Biolchini segretario del Giornale Arcadico.
In quel giorno io guardava il letto per reuma, male da cui pochissimi vanno immuni in questo rigidissimo inverno.
Si dovette pertanto rimettere l'operazione ad altro giorno, e fu infatti eseguita nel Martedì 19.
Poche notizie, come ben potete comprendere, sono io stato in caso di procacciare al Sig.
Biolchini de' fatti antichi, e meno schiarimenti per l'azione futura, dappoiché dopo la transmissione che pel mezzo della Diligenza io vi feci il 29 luglio 1830 di tutte le carte relative alla cessata gestione del Cavalletti, onde fossero da Voi e dal Sig.
Bontà esaminate, io rimasi privo di qualunque documento che potesse aiutarmi a riannodare nella mia mente o avviare nell'altrui un filo qualunque di questa per voi poco fortunata orditura.
Ma se, ripresi in qualche modo i capi della spezzata tela, potesse mai riuscirvi utile in qualche parte la mia meschina cooperazione, Voi, col Sig.
Biolchini e chiunque altro vi rappresenti, mi troverete sempre ilare e pronto a' vostri servigi.
Che poi dirò della cortese liberalità Vostra nel dono di un esemplare del nobilissimo vostro lavoro? Io non so come abbia potuto da Voi meritarmi un sì prezioso regalo.
Ma nel tempo stesso che ho in me vanamente cercato i titoli a tanto favore, non ho saputo pure trovarmi animo a rifiutarlo.
Lo accetto dunque, e l'aggradisco quanto si deve, cioè moltissimo; e, valendomi delle vostre facoltà sulla scelta della carta dell'esemplare, ho creduto tenermi egualmente lontano da' due estremi, e scegliere il mezzo.
Mi sono per conseguenza ritenuta una copia in carta velina bianca di ciascuno de' 4 fascicoli.
Così i quadernetti che vennero presso di me in deposito in numero di 428 sono in oggi da me stati consegnati al Sig.
Biolchini in n° di 424.
Il Sig.
Biolchini poi, che naturalmente era istruito del tratto di vostra cortesissima a mio favore, mi ha promesso che ricevendo egli i mancanti fascicoli del compimento dell'opera, mi farà in Vostro nome tenere quelli che dovranno completare il mio esemplare.
Due occupazioni ho io oggi avute relative a Pesaro.
L'una piacevolissima, cioè questa lettera a Voi che tanto stimo ed amo: l'altra assai ingrata, ma pure indispensabile, cioè la spedizione di una citazione al Sig.
Marchese Antaldi, col quale, avendomici Voi così bene avvicinato nella mia dimora a Pesaro nel 1830, avrei pure voluto conservare per sempre buona ed onesta armonia.
Ma poiché il Sig.
Marchese Ercole, attuale guidatore delle faccende e degli interessi della nobil famiglia, mi ha usato il poco urbano contegno di non rispondere neppure alle mie lettere di molti mesi (lettere, voglio dirlo, cortesissime) non mi resta che la via spinosa che dovetti battere allora.
Comandatemi, mio caro e rispettabile amico e credetemi sempre Vostro aff.mo a.co e serv.e Giuseppe Gioachino Belli.
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 21 gennaio 1836.
LETTERA 235.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[Di Roma, 31 gennaio 1836]
Dacché i primi studi delle storie e della ragione politica dei popoli principiarono a svilupparmi un senso nella parola di Patria, il sommo pensiero che abbia di poi occupato continuamente il mio spirito quello si fu delle cause della italiana decadenza, non che di quella specie di fato che questa già sì potente e pur sempre nobilissima terra mantien vile e derisa.
Vane, se non al tutto ingiuste mi parvero ognora le querele d'Italia contro la violenza straniera, quando la principale vergogna debba ella vederla sul proprio volto, e il roditor verme suo vero cercarlo nelle stesse sue viscere.
Succedute le cupidigie dell'oro all'amor della gloria, all'ardire l'insolenza, agli stenti de' campi l'ozio e le lascivie, e alle magnanime imprese le discipline del fasto e del triclinio, la pubblica vita divenne privata, e, sciolto il gran vincolo simboleggiato sapientemente ne' fasci de' littori, ciascun uomo si raccolse in se stesso, non più cospirando al comun bene ma inteso all'individuale suo comodo.
Surse allora uno scettro su milioni di spade, e la servitù di ciascuno segnò il termine dell'impero di tutti per dar principio ad una nuova grandezza, falsa ed instabile, perché scompagnata dall'universale interesse che è anima e vita delle nazioni.
Or voi, gentilissima amica, rimarrete per avventura stupefatta come e perché da sì pomposo esordio io discenda a parlarvi di tanto esigua cosa quanto pochi miei versi, il cui debole suono si perde e smarrisce per entro al romore di quelle vaste vicende.
Meditava io appunto nell'anno 1825 sui miseri destini di queste nostre belle contrade, allorché l'Amor-personale, vecchia ed eterna origine delle italiane sventure, venne a dividere gli animi di un romano sodalizio, che dal culto de' numeri musicali s'intitolò Accademia Filarmonica.
Il malnato scisma separò l'onorevole instituto in due distinti corpi, né l'uno né l'altro de' quali poteva bastare a se stesso.
Parvemi quella discordia circostanza atta e pretesto per levare alto la voce, e, sgridando i miei sconsigliati cittadini su quello per sé oscuro suggetto, far balenar a' loro occhi una luce dileguatasi in tanta abbiezione e dimenticanza de' civili doveri.
Composi quindi e pubblicai la Canzone che qui appresso vi transcrivo, né volli darle alcun titolo speciale, vagheggiando la speranza che ne' più svegliati de' miei lettori potesse entrare almeno un dubbio che io sotto lievi apparenze avessi forse occultato più sublimi verità, non concesse dalla condizione dei tempi a libero esame.
Varii difatti penetrarono il mio intendimento: il massimo numero però non ne trasse altro giudizio fuorché della sproporzione di que' miei clamori ad una meschina lite fra musici.
Ma a Voi, entrata oggi a parte del mio segreto, cosa rimarrà oggi a dire dei miei poveri versi? Null'altro se non che piacciavi usar loro indulgenza, non minore dell'amicizia con che onorate in ricambio la mia servitù.
G.
G.
Belli
Roma, 31 gennaio 1836.
LETTERA 236.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[1 febbraio 1836]
Carissima, amica,
l'anima umana è come uno strumento musicale, in cui, benché taciti, si nascondono gli elementi di tutti i tuoni, gravi o acuti, malinconici o lieti.
Non aspetta essa che il tocco esterno onde manifestare la sua occulta potenza, e non solo del suono provocato ma di tutti gli altri ancora corrispondenti al sistema della sua propria armonia.
Così tu leggi un di que' libri che colpiscono la immaginazione tosto ti si risveglieranno mille sensazioni di che tristezza forse t'ignoravi capace, e un vortice d'idee nuove e sconosciute sorgerà a far eco a quelle con cui un'arcana legge le pose in analogia, stabilendo fra loro quasi un metafisico magnetismo.
Ecco, io ho letto l'Antony, con tanto sapere e passione da Voi tradotto; e per tutt'oggi è certo che io penso come Dumas.
Ma domani? Maraviglioso ingegno! Il Mondo aveva una nuova faccia, ed ei l'ha dipinta.
La di lui Adele muore assai più sublime di Lucrezia.
Vi rendo il Vostro manoscritto, avvisandovi che per questa generazione esso non sarà mai cosa da Roma.
Conservatemi la grazia della vostra amicizia.
Il vostro servitore ed a.co
G.
G.
Belli
1° febbraio 1836.
LETTERA 237.
AL CONTE FRANCESCO CASSI - PESARO
Di Roma, 4 febbraio 1836
Mio rispettabile amico
Nella vostra lettera 28 gennaio, giuntami contemporaneamente col 5° fascicolo della vostra Farsaglia che graziosamente volete donarmi, ho veduto un novello documento della non simulata compitezza che vi distingue fra i dotti d'Italia, e del come un generoso animo possa di buona fede illudersi fino al punto di attribuire a' giusti suoi ammiratori una parte del proprio merito e la stessa luce che da lui su quelli si spande.
Che sono io? Che so? Cosa ho fatto pel Mondo e per Voi, onde abbiate a prodigarmi sì lusinghiere espressioni, le quali, se io non le sapessi partite da cuore ingenuo, mi umilierebbero dove oggi mi tentano a vanità? Né vogliate già sospettare che così Vi parli per sostenere con Voi una gara di complimento: ché troppo male risponderei alla sincerità vostra, e mostrerei di sconoscere la vera indole dell'amicizia di cui è proprio talvolta il dir falso colla intima persuasione del vero.
Voi mi onoraste a Pesaro della vostra familiarità: avemmo insieme franchi discorsi che ci apersero scambievolmente il fondo del nostro spirito; ma niuna lusinga doveva restarmi che da' quei colloqui, pe' quali io penetrava il vostro ingegno, avesse in Voi potuto passare un concetto di me da esserne in oggi chiamato a mover giudizio sopra una vostra opera già lodata da lodate penne, e da tanti desiderata, e, quantunque ancora incompleta, citata pur già non di rado dove avesse ad allegarsi Lucano.
Nulladimeno, poiché in ogni caso nel negare il proprio suffragio a chi lo richiegga per quanto esso vale, la umiltà assumerebbe forma di scortesia, io Vi dirò brevemente (e lo giurerei, dove fra onesti uomini abbisognasse) poche versioni de' classici essermi sembrate tanto nobili e splendide e veramente italiane quanto questa da Voi intrapresa del difficilissimo poema dell'ardito cantore di Cesare e di Pompeo.
A Voi esperto nella storia delle umane tristizie non parrà maraviglia se le strida delle mulacchie spesso levinsi a soffocare il canto de' cigni.
Ma che perciò? Le poche medaglie de' genii sorgeranno sempre dal fiume dell'oblio per andar depositate dal tempo nel tempio glorioso dell'immortalità.
E questa è già vecchia peste d'Italia che dove balena una luce là molti soffii maligni corrano a spegnerla: contenta piuttosto la invereconda ignoranza alle tenebre universali che non ad un raggio rivelatore della di lei turpitudine.
Ogni opera dell'uomo porta le impronte della frale di lui natura: sufficiente prova lo stesso vostro originale, malgrado delle sue tante parti sublimi.
Ma come le civili critiche, criticabili anch'esse possono avvicinare un lavoro alla perfezione per quanto la perfettibilità umana il consenta, così i sarcasmi e gli oltraggi debbono quasi far credere esservi giunto: perché lo scherno è carattere d'invidia; e quella sozza non morde mai in basso.
A queste parole sono io trasceso per solo intendimento di calmare in Voi una specie di peritanza in cui Vi veggo ondeggiante nel bilanciare il vostro oro colle spade insolenti dei Brenni della Letteratura.
Voi dispregiate, lo so, le ciance di chi non sa usar meglio sua vita che logorando l'altrui; ma nuda di esterni conforti difficilmente la vera modestia non si rattrista in segreto de' tentativi della maldicenza, e non dubita se fra i vani clamori si nasconda alcun germe di giustizia e di meritata severità.
Animo, amico caro e rispettabile: onorate, siccome sempre faceste, gli urbani consigli, de' quali piccol'uopo anche avete, ma ricordatevi insieme che un vasto mare non si solca senza procelle e pirati.
Cercherò di vedere il Sig.
Biolchini per udire da lui se io possa per qualche modo cooperare a' vostri vantaggi, non ostante la mia nullità e l'isolamento in cui di ragione son tenuto e mi tengo.
Se avete occasione di trovarvi col Sig.
Marc.
Antaldo Antaldi Vi prego fargli conoscere i giusti motivi delle mie ostilità.
E con tutti i sentimenti degni di Voi mi confermo
Vostro aff.mo ed ob.mo amico G.
G.
Belli.
LETTERA 238.
AD AMALIA BETTINI - LIVORNO
[27 febbraio 1836]
Mia carissima Amalia,
i versi qui precedenti erano già da dieci giorni destinati a servir di risposta: oggi invece vi verranno come proposta.
Capite? cioè, è meglio dire mi spiego? perché la mala intelligenza è più spesso vizio delle lingue che degli orecchi.
Insomma, facciamoci a parlar chiaro: io aspettava a bocca aperta, ad occhi aperti, a braccia aperte, ad anima spalancata, qualche vostra notizia, e mi era intanto quelle 1595 sillabacce rimate e acciabattate su Iddio sa come, per darvi mala paga a segnalato favore; ma le notizie si sono azzoppicate per via, o affogate fra le nevi dell'Appennino.
Fintanto dunque che non vada il cane di S.
Benedetto a cacciarnele, e tutte intirizzite me le porti a riscaldarsi con me, io voglio mo spedir loro incontro i miei peotici arzigogoli.
Ne già vi fumi pel capo il ghiribizzo di credermi impastato di quella tal pasta perugina che pretenderebbe una lettera per minuto: il cielo ce ne scampi.
Io conosco bene la vostra arte, i vostri impegni, le vostre brighe, i vostri cassoni, i vostri denti, la vostra...
vogliamo dirlo? diciamolo, la vostra poltroneriola, e tutte le altre vostre cosette.
Eppoi, eppoi, non siamo noi già di amore e d'accordo che mi avreste scritto quando il Signore ve ne spedisse la vocazione? Per questa volta però non siamo nel caso.
Voi siete partita contro voglia; avete viaggiato in cattivo tempo; siete andata lontano (al conto ch'io faccio) 13.500 miglia, quante ne corrono agli antipodi del Vaticano; potevate aver sofferto; noi, dico noi, soffrivamo delle vostre possibile sofferenze...
Dunque? Dunque l'aspettazione non è ascrivibile a petulanza; ma sibbene ad piam causam, come diconci sempre i nostri buoni sacerdoti quando vogliono le cose a modo loro.
Ma la Bettini non ha potuto scrivere.
Va bene: scriverà dunque quando potrà, e intanto scrivo io che ho il calamaio bell'e ammannito.
Sapete? Un Ferrettino è nato domenica 21, alle 7 della mattina, a far compagnia alle sorelle; e lunedì 22, alle 6 della sera andò in chiesa a farsi chiamare Luigi.
Fra i sorbetti io dissi:
Servo suo, signor Giachimo.
Date un bacio per me a Vostra Madre, perché sappiate che uno gliene ho dato da me stesso quando partì, e non me ne pento.
In quanto poi alla Cecchina, l'è un altro paio di maniche.
Stringetele la mano con mia procura sino a farle gridare Caino.
E a Voi? A Voi mille affettuose parole.
E quando mi risponderete, ché pure una risposta me la sono promessa, badiamo ai pronomi.
Da Voi a me io non sono terza persona, ma seconda.
Circa poi al numero attribuitemi quello che Iddio v'ispira, benché il singolare.
È più gentile assai, fa più buon bere.
De' saluti di Mariuccia ve ne do colla canestra sì per voi che per la Sig.ra Lucrezia e per la Cecchina.
E quell'angiol di Angiol Biscontini? Si farà i fatti suoi da sé.
Sono il vostro
G.
G.
Belli
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, sabato 27 febbraio 1836.
Mentre io stava chiudendo questa letterina per mandarla alla posta, eccoti una cara epistoletta data di Livorno il 23.
Oh va' a dire che la Mamma del corriere potesse con ragione rimproverarlo d'essersi presa una scalmatura! L'epistoletta è firmata da una Amalia B.
Quanti bei nomi potrebbero portare sulle spalle quella testa del B.! Ma un foglio sì caro e disinvolto e obbligante non saprebbe essere stato scritto che da una Bettini, la più cara, la più disinvolta, la più obbligante donna ch'io mi conosca.
Dunque io rispondo alla Bettini, e vado a colpo sicuro! Quanti orrori mi dipingete, mia amabile amica! Raccapriccio nel ravvicinare per un momento l'idea della vettura rovesciata al pensiero di Voi.
Sieno grazie al cielo a mani giunte perchè in Voi preservò noi da disgrazia.
Qual maraviglia del vostro incontro? Andate a declamare a' Turchi, agl'Irrochesi, e li convertirete tutti in lingua italiana, come gli apostoli convertivano in lingua ebraica i greci e i latini.
Eppoi già avete udito Coleine, e basta.
Ed io povero Daniello grido e griderò sempre: anzi diventerò un Giona, e tuonando alla mia patria, se non vi richiama presto, le intimerò il tremendo quadraginta adhuc dies etc.
Però il mandare d'accordo la sollecitudine del vostro ritorno con quella de' miei desiderii mi pare più lavoro da patriarchi che da profeti.
E voi fate leggere i miei scarabocchi? E non avete più in mente l'epigramma del frontispizio? Va bene; se pel mondo non commetteste qualche sproposito, sareste troppo pericolosa.
Beato il Mascherpa che ha una buona quaresima! e più beati i Livornesi che per voi l'hanno ottima! La quaresima romana è veramente quaresima, specialmente dopo quel carnovale che oggi è fuggito a Livorno.
Voi mi chiedete versi, ed io vi aveva prevenuta.
Un Daniello non si smentisce mai.
Vi saluterò la famiglia Ferretti, con la quale non ho sin qui parlato che di due persone, dell'Amalia cioè e della Bettini, perché voi sola valete per due, e dico poco.
Biscontini vi risponderà nel venturo, mille brighe forensi gli assorbiscono il po' d'ora che rimane alla sera.
A questo punto della mia lettera datele un'occhiatina da capo a fondo come fece Giacobbe a quella tale scaletta, e poi dite in coscienza se non si chiami pagar la posta a ragion veduta.
In un foglio di carta un archivio!
G.
G.
B.
Mi chiedete se vi permetto un abbraccio.
Eh! Figuratevi se questo cuore arde.
Servitevi pure e riprendetene da me cento, e tutti da galantuomo.
C'è più carta bianca?
LETTERA 239.
AD AMALIA BETTINI - LIVORNO
Roma, 29 febbraio 1836.
Alla mia prima celia coleiniana non vi sdegnate, amabilissima amica, se mando appresso questa ingamiense.
Elevato da Voi alla dignità di vostro poeta cesareo, se non di Vostro consigliere aulico, io non posso tradire un ufficio che mi compiaccio confondere con la idea di prerogativa.
Eccomi dunque Vostro Menestrello, Vostro bardo, Vostro trovatore, e con tanta mia maggiore felicità in quanto la religione e la legge non ancora vi posero al fianco un Raimondo di Rossiglione il quale trattandomi da secondo Cabestaing vi desse a mangiare un cuore disposto in tutto a piacervi fuorché nelle pentole di cucina.
Acuta di mente come gentile e tenera per natura, dovete aver penetrato l'unico fine dei miei fabliaux, quello cioè di trastullarvi se mi riesca, a far sì che un pensiere da Voi rivolto a questa vecchia città si accompagni per via ad un sorriso ravvivatore de' brevi diletti che abbiate potuto gustarvi fra le glorie della vostra virtù presa ne' più bei sensi del vocabolario.
Niente di male in Voi, niente di male in me, niente di male in nessuno.
Ridiamo, carissima Amalia, giacché a questo siamo quaggiù condannati, che le gioie dobbiamo fabbricarcele quasi tutte da noi, la spontaneità appartenendo presso ché esclusivamente al dolore.
Ma quale de' due, o l'eroe o il cantore, farà miglior figura in questa poetica mediocrità?
Di ch'io mi vo stancando e forse altrui?
giudica tu che me conosci e lui
(Petr.)
Voleva mandarvi la mia novella intitolata Una storia cefalica, benché il domenicano l'abbia mutilata appunto nel nodo ove andavano a riunirsi le fila e l'intendimento dell'invenzione.
Il di più ve lo avrei scritto a penna; ma al momento dell'addio a questa lettera la stampa sta sotto il torchio.
Il mio Ciarlatano è tuttora sullo scrittoio del Reverendissimo, e chi sa! Sto adesso scrivendo in parecchie favolette la vita di Polifemo.
Forse sarà fatica gettata.
Tout pour le mieux; e che viva Maître Pangloss.
Mettetemi alle ginocchia delle Sig.re Lucrezia e Cecchina, come io mi pongo ai vostri piedi chiedendovi la santa benedizione.
Il V/° aff.mo a.co e s.re
G.
G.
B.
LETTERA 240.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 12 marzo 1836
Mio caro Torricelli
Ti sei mal rivolto per l'emendazione del tuo disegno: io non sono dell'arte; e se pure una volta misi la bocca e le mani nel monumento per l'avello di tuo padre, allora fu mio il concetto, ma lo espresse un artista.
La inscrizione del Muzzi mi pare, almeno nella prima metà, alquanto impicciata, e la tengo per una di quelle belle cose che vengono dette bellissime quando alla mostra di esse preceda quella del nome del loro autore.
È assai difficile, io credo, che gli effetti di una sensazione antecedente non si spargano sulle susseguenti e non le modifichino, allorché vi s'interponga un rapporto unisono con ciò che in noi regna come opinione stabilita.
Da due punti si può partire per misurare una estensione qualunque.
Nella scala proporzionale del merito epigrafico Muzzi sta al sommo grado, come io (se facessi epigrafi) mi troverei al più basso.
Mettiamo per un momento quella inscrizione nel bel mezzo, e ravviciniamo poi ad essa i due nomi: l'uno discenderà per quanto l'altro s'innalzi; e quando si ritrovassero uniti al livello, la perdita del primo equivarrebbe al guadagno del secondo.
Quindi, se l'avessi scritta io, dovrei forse andarne superbo: dal Muzzi peraltro si poteva sperare un po' meglio.
Che se io, inetto al fare, mi azzardo tuttavia al dire, so che il giudizio [...] talvolta sua rettitudine nel solo intelletto aiutato dai confronti dell'esperienza.
Pochi sapranno p.e.
disegnarti una foglia, eppure molti diranno con ragione: quell'albero non me lo presenterebbe la natura quale io qui lo veggo dipinto.
Nel nostro caso concreto, oltre la tua ossequiosa prevenzione in favore del Muzzi, un principio di trasporto verso chiunque accarezzi le tue predilezioni, può in te confondere gli atti del cuore con quelli della mente, ed alterare i termini dell'equazione ne' calcoli della tua stima; cosicché se al Muzzi e alla sua epigrafe si volesse attribuire la formula A+B per esprimere due quantità uguali ad X, tu vi sostituiresti i valori positivi 1+1 = 2 là dove io direi 1 + 1/2 = 1 1/2.
Nulladimeno il tuo giudizio che fosse di tanto caduto sotto la influenza della passione poté essere di altrettanto rettificato dalla conoscenza dell'arte sulla quale si aggirò, intantoché il mio sentimento nato nell'ignoranza dell'arte può anch'esso ravvicinarsi al vero per la opposta via della mia equanimità relativamente al soggetto donde prende la prima origine il tuo trasporto, cioè l'amore: poiché tutte le cose al mondo, ed anche le astratte, son capaci di quantità, e le qualità contrarie insieme si elidono quando fra loro esiste uguaglianza.
Volendo pertanto compromettere in altri le nostre contrarie sentenze, tutta la indagine del nostro giudice dovrebbe, penso, ridursi al sapere se abbiasi a dar più peso nel tuo giudizio all'azione del maggior sapere, o nel mio a quella della miglior tranquillità d'animo.
E qui confesso che non mi presenterei al tribunale con soverchio coraggio.
Ristringerò quindi col ripetere che la epigrafe non mi pare indegna di lodi la quale a te sembrò bellissima; ma al tempo stesso bramerei, per tuo conforto, che tu t'avessi più ragione di me, e che in quella tenera epigrafe non esistesse difetto.
Terminata la cicalata, è tempo di venire agli abbracci.
Il tuo G.
G.
Belli
LETTERA 241.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Roma, 29 marzo 1836
Mio caro Ciro
Mi arreca molto piacere l'aggradimento da te dimostrato al libretto che ti mandai.
Esso alla mole è ben piccola cosa, ma, come tu stesso saviamente dici, può molto e dilettare ed istruire.
Volendo dargli una scorsa di lettura ti servirà ciò per iscandagliare la quantità e qualità di materie in quello contenute; ma non è a questo scopo di lettura seguìta e ordinaria che simili opere sono immaginate e dirette.
Tutti i libri che hanno la forma di un dizionario, tutti i repertorii ordinati col sistema alfabetico non ad altro mirano fuorché a soccorrere uno studioso al momento di qualche speciale occorrenza su tale o tal'altro soggetto.
E chi leggendo solamente dal principio alla fine un vocabolario di lingua si lusingasse di imparare quella lingua a quel modo, farebbe ridere sino Eraclito che in vita sua sempre pianse.
È vero che in quel vocabolario tutte si troverebbero le parole della lingua e le frasi e tutti i modi del dire; ma che perciò? tutto quello che va come per salti nella mente, e non vi si colloca con metodo, e non vi rimane a far parte di una serie d'idee, svanisce presto e si perde, seppure non fa di peggio.
La perdita di qualche notizia acquistata sarebbe un male non tanto grave: il danno più forte consiste nel disordine e nella confusione a cui si abitua la nostra mente nell'afferrare qua e là idee e sensazioni non disposte fra loro con alcuna armonia.
Una catena avrà cento anelli: se tu me li presenti tutti scomposti e isolati in un canestro, non solo io non avrò da te una catena, ma quasi neppure comprenderò a quale uso mi potrebbero quelli servire.
Uniti però essi e insieme collegati, ecco in un momento la lucida comprensione del tutto: ecco la catena: ecco quel corpo unico benché composto di cento parti, delle quali una sola che si afferri tira seco al debito uso tutte le altre compagne.
Perché, Ciro mio, i nomi o i cognomi delle persone si dimenticano così facilmente senza un lunghissimo uso di ripeterli? Perché i nomi delle persoti non hanno alcun rapporto né alcuna connessione necessaria con chi li porta; e tu invece di Belli potresti chiamarti Cambi, e saresti sempre quello stesso uomo che sei.
Il nome dunque non è sì necessariamente congiunto colla tua persona o colla tua effigie che il solo vederti debba a chi ti vede ricordare come ti chiami, quando costui non abbia col molto praticarti supplito per via di abitudine al lieve fondamento su cui appoggiano e riposano l'idea di te e l'idea del tuo nome, accidentalmente fra loro accozzate e senza (dirò così) un cemento o una colla che le unisca insieme per necessità di raziocinio.
Moltissimi uomini si lamentano della loro cattiva memoria, ma se l'avessero presto coltivata e aiutata in gioventù coll'ordine e col metodo, quante e quante cose non piangerebbero poi dimenticate!
Tu dunque leggi per ora, se vuoi, il mio libretto, ma questo sarà un solo passatempo: per rendertelo veramente utile, come qualunque altro libro composto nella forma di un dizionario, è necessario che tu vi ricorra spesso alle opportunità, le quali saranno frequenti.
P.e.
parlerai o penserai ai vantaggi recati all'uomo dalla scrittura? Corri sul libretto a cercare carta e inchiostro.
Tuttociò che allora leggerai di questi due oggetti resterà impresso nella tua mente perché anderà ad ordinarsi in una serie di idee che la mente aveva già disposta e incominciata, né così un'idea caccierà l'altra come una incognita forestiera.
Se questa mia lettera ti riuscirà, come dubito, oscura e duretta, prega il gentile Signor Rettore a spiegartela in mio nome.
- Nella mia antecedente ti dimandai se tu avessi qualche desiderio da soddisfarsi: tu non mi hai risposto.
Rispondimi dunque, ed io procurerò di appagarti.
Il giorno 12 aprile tu compirai 12 anni, cosicché quel dodici del mese sarà il più solenne di tutti gli altri dodicesimi giorni di aprile che vedrai scorrere nella tua vita.
Fa' dunque in quel giorno un forte proposito di essere un uomo virtuoso e onorato.
Io verrò a trovarti verso la fine di maggio, e allora ti porterò quello che lecitamente avrai desiderato e chiesto al tuo Papà che ti ama tanto.
La tua Mammà ti abbraccia e benedice di cuore come faccio io.
Gli amici, i parenti, i domestici e specialmente Antonia, ti salutano.
Tu riverisci da mia parte i Signori tuoi Superiori.
Se il vetturale non è tornato a prendere la cassetta, ci penserò poi io medesimo.
- Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 242.
AL MARCHESE ANTALDO ANTALDI - PESARO
[24 maggio 1836]
Veneratissimo Signor Marchese
Per farmi più breve l'amarezza di questa lettera io Le risparmierò il racconto dei modi coi quali il Signor Marchese Ercole Suo figlio mi strascinò a spedire la citazione per scudi quaranta che in nome di mia moglie Le fu presentata il 9 febbraio pp.to, giorno di martedì e perciò postale per Pesaro.
Fu allora che, scosso il Sig.
Marchese Ercole da quell'atto della mia risoluzione, ruppe il Suo ostinato silenzio e mi scrisse una lettera con data del giorno anteriore (lunedì 8), ricevuta da me il dì 11, nella quale schivando ogni discorso intorno alla citazione venne ripetendo le solite promesse indeterminate e le consuete dimande di nuove tolleranze da aggiungersi alle vecchie così mal corrisposte.
Risposi io il 13 accusando le tante delusioni della mia buona fede e deferenza, e nulladimeno conchiudendo che avrei accordata per gli scudi quaranta una ultima dilazione sino a tutto il mese di Marzo se al cader di detto mese mi avesse pagati scudi sessanta, stanteché coincideva in quell'epoca la maturazione del terzo trimestre di frutti arretrati.
E per tutta garanzia della mia tolleranza e della sospensione degli atti non dimandai che la di lui positiva parola d'onore.
Replicò il Sig.
Marchese e mi richiese di estendere la dilazione sino allo spirar d'aprile, pel qual tempo mi assicurò del pagamento degli scudi sessanta, sulla sua positiva parola d'onore.
Ripetendo io il 23 concessi la proroga alla parola d'onore del Sig.
Marchese, purché il danaro fosse in Roma il dì 30 aprile.
E così, messi da parte gli atti giuridici, io viveva tranquillo sopra un pegno che un Cavaliere stima non solo più della roba ma anche più della vita.
Arrivato però il mese di maggio senza l'arrivo della somma promessa, mi feci lecito il giorno 7 di dirne due altre convenienti parole al Signor Marchese Ercole, aggiungendogli essere io purtuttavia convinto della superfluità della mia lettera imperocché senza dubbio a quel giorno il danaro doveva essere in viaggio.
Eppure io m'ingannava, perché il Sig.
Marchese, accusando un'assenza da Pesaro, non mi riscontrò prima del 15 per dirmi che la diligenza che passerebbe da Pesaro il sabato 21 mi avrebbe portato scudi trenta, cioè la metà, essendogli stato impossibile nel momento (sono le di lui parole) di potere accozzare l'intiero.
Se questo si chiami soddisfare ad una positiva parola d'onore io lo faccio decidere a Lei, uomo di nobil nascita e di più nobile ingegno.
Ma pure v'è di peggio, dappoiché questa mattina è arrivata la diligenza, e i ministri m'han detto nulla esservi di Pesaro per la mia famiglia.
Prima dunque di riaccingermi ad una nuova e durevole guerra, a cui sono spinto da viva forza, io ho voluto dirigere a Lei questi miei ultimi lamenti, affinché Ella, fatta consapevole dei giusti motivi della mia collera, non trovi maraviglioso il mio chiuder d'orecchi ad ogni altra futura proposizione.
Svanita una volta fra due civili persone la parola d'onore, non resta altra garanzia se non quella comune anche ai volgari, cioè la forza della giustizia.
Io mi rammarico assai, e forse più di Lei, di questa asprezza, e tanto più dopo che l'ultimo momento da me passato in Pesaro nel 1830 mi aveva inspirato lusinga che fra noi nulla più di spiacevole si eleverebbe.
Né mi dica al Sig.
Marchese Ercole essere affidata la amministrazione della famiglia.
Ella n'è il capo, ed a Lei perciò mi sono rivolto.
Ho l'onore di ripetermi, Signor Marchese,
Suo dev.
ob.mo servitore G.
G.
Belli
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 24 maggio 1836.
LETTERA 243.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Terni, sabato 18 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Giunto in questa Città alle 4 pomeridiane e avendo buono spazio di dimora sino alle 4 del mattino di domani, ho voluto darti un'anticipazione di mie notizie nel medesimo tempo che tu, come dicesti, mi stai dando le tue dirette a Perugia.
Alla presente tu non rispondermi fino a che non avrai avuta la mia prima perugina.
Il viaggio fin qui è stato felicissimo, e tale spero il rimanente.
Ecco la mia compagnia.
Io sono al primo posto: alla mia sinistra siede una perugina la quale tiene più al basso che all'alto se si deve arguire dallo stia comido che mi va spesso ripetendo a motivo di una figlioletta di cinque anni che dorme tutto il giorno fra noi due e ha scelto me per prestarle uficio di materasso.
Incontro alla donna si trova il tenente Frantz, il quale non pare nemico e molto meno nemico vecchio di lei.
Dirimpetto a me è un Sig.
Francesco Soncino, giovane, ed è quel tal cugino dell'Avv.
Grazioli, che doveva partir giovedì.
Avrai udito ieri il legno a retrocedere sulla nostra piazza: ebbene si tornò a prender lui a SS.
Apostoli, mentre alla prima passata di là non trovarono il palazzo.
Dietro le spalle del Soncino è un frate conventuale, e dietro quelle del tenente, cioè accanto al frate sta il sergente armato di fucile, cosicché sembriamo una carrozzata di dio-sa-chi.
Ho parlato con Vannuzzi e Babocci etc.
Tutti ti salutano.
Io aspetto buone nuove della tua salute e ti abbraccio di cuore.
Il tuo P.
P.S.
Mille cose a tutto il mondo da mia parte.
LETTERA 244.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 21 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Nel riscontrare la tua del 18 mia prima cura e principal desiderio sarebbe di occuparmi delle cose concernenti la tua salute per me preziose sopra ogni altro bene; ma poiché ti suppongo anelante di avere da me un discarico intorno allo stato in cui ho trovato Ciro, principio da questo articolo.
Essendo io giunto ieri mattina un po' troppo tardi per potermi recare a vederlo, mandai subito qualcuno ad avvertirlo del mio arrivo e ad annunziargli la mia visita pel dopo-pranzo.
Fu trovato tutto allegro e in grande occupazione per allisciarsi bene da tutte le parti onde farmi buona figura al mio giungere.
Io dunque ci andai il giorno ed entrai la porta nel medesimo punto in cui terminavano le scuole: erano 22 ore.
All'improvviso vidi da una folla di ragazzi in fondo al corridore staccarsene uno di gran carriera con tutti i libri sotto il braccio e col calamaio in mano, e gettarmisi addosso.
Indovini già chi potesse essere.
Ci abbracciammo e baciammo, e quindi subito mi dimandò: come sta Mammà? Bene mi ripugnò il cuore di dirglielo, nel momento che tu soffri tanto: mi riparai pertanto dietro uno di que' mezzi-termini che giovano al mondo, e gli risposi eh ringraziamo Iddio, nella idea che sempre ci suggeriscono i predicatori di lodare la provvidenza così del bene come del male.
Il povero figlio fu colto al cristiano lacciuolo, e rimase soddisfatto.
Salimmo quindi alle camere del Rettore parlando e di te e della nostra famiglia: ivi feci l'esposizione de' donativi de' quali rimase contentissimo, e te ne ringrazierà coll'ordinario venturo.
Voleva farlo oggi, ma io ho creduto dividerti in due volte le nostre notizie: in questo modo ti parranno doppie.
La di lui salute non può desiderarsi migliore: è veramente un ragazzo che consola a guardarlo, colorito, robusto, vivace, lietissimo.
È cresciuto colla sommità della testa al mio mento: ha fatto una mano pochissimo più piccola della mia, ma più polputa e tenera: il piede poi è da apostolo.
Ora abita una bella, spaziosa e allegra camera con due finestre verso la campagna: quella di prima era più angusta e con un solo balcone che guardava l'interno del collegio.
Il pianforte e ogni altro mobile stanno in questa nuova stanza assai ben situati, e la luce e l'aria che vi si gode han potuto anch'esse contribuire al far sì che io non abbia trovato un baiocco di debito collo speziale a conto di Ciro.
Ne vuoi di più? - Dello studio i superiori son contenti, e così dell'indole amabile del caro nostro figlio che si fa gradito a tutti.
Egli mi suonò un pezzo di musica, in cui dice avere assai faticato per la parte del basso piena di tuoni e di posizioni.
Intanto le di lui dita arrivano già all'ottava in sui tasti.
Ti dico io che poveretto chi avesse uno schiaffo da Ciro! - Le calze nere gli furono ricapitate.
- Del libro dell'adolescenza è rimasto assai contento perchè già lo aveva un di lui compagno, Mosti di Ferrara.
Il Giovedì poi gli è piaciuto a dismisura, e non l'ha nessun altro.
Egli ti abbraccia, bacia, e chiede la benedizione.
Saluta quindi Antonia, Domenico, e tutti gli amici e i parenti.
Il mio viaggio non poteva riuscire più felice se ne togliamo il pensiere della tua salute che mi segue sempre.
La notizia che mi dai del nuovo vescicante mi rattrista per una parte conoscendo il bisogno che te lo procurò; ma dall'altra mi fa crescere la speranza di udirti per esso più presto fuori di queste calamità.
Sii paziente, mia buona Mariuccia, e coopera colla tranquillità dello spirito alla guarigione del corpo.
- Non trovai Bucchi a Spoleto; ma parlai colla moglie e gli lasciai tutto.
Egli partendo il dì innanzi per urgenza di uficio l'aveva prevenuto del mio passaggio.
Io poi lo vidi la sera a Fuligno dove fece ricerche di me.
Farà tutto pulito.
La moglie è rimasta soddisfattissima dello scialle.
Addio, mia cara Mariuccia, ti abbraccio di vero cuore e sono il tuo P.
LETTERA 245.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 25 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Non credo di abbandonarmi alla lusinga se dalla lettura de' tuoi caratteri del 23 io traggo soggetto di vive speranze intorno alla prossima e stabile tua guarigione dopo tanti spasimi coi quali te la sei ricomprata e dopo tutti i sospiri che ce ne costa il ritorno.
La più breve durata degli assalti del tuo male e la loro tanto minore intensità, andando di pari passo col rimarginamento delle piaghette del capo, mi sembrano dover annunziare una generale e assoluta cedenza di tutto il complessivo disordine in cui la tua salute era caduta.
Il tardo momento però, cioè l'epoca della stanchezza del morbo, nel quale io suggerii l'applicazione della nota erba, non può farmi troppo insuperbire sulle vere cagioni del tuo miglioramento circa alla supurazione che volevamo arrestare.
Nulladimeno, se di qualche giorno o di qualche ora avesse quel rimedio per avventura contribuito all'acceleramento del desiderato beneficio, sarebbe sempre questo per me un motivo di viva consolazione, ed anzi io voglio perfino illudermi sulla positiva efficacia della mia ricetta onde accarezzarmi una vanità in armonia colla mia affezione per te.
Lo capisco, il primo merito della tua guarigione, che io già vagheggio assicurata, si deve attribuire alla cura de' tuoi professori; ma pure mi piace di crearmi un orgoglio simile a quello della mosca che arava sulle corna del bue.
Troppo è stato il piacere causatomi dalla tua lettera perché io ti rimproveri l'infrazione del precetto che ti avevo dato di non iscrivermi di tuo pugno.
Ti ringrazio quindi della tua premura in mancanza di segretarii: potevi però esser persuasa che non mi sarebbe sfuggita la considerazione dell'angustia del tempo nell'ordinario di giovedì, tantoché il non aver visto oggi le tue lettere non mi avrebbe messo in pena, per la facilità dell'attribuire questa mancanza al suo vero motivo.
- Il nostro caro figlio sta sempre come un fiore, ed a quest'ora avrai avuto la di lui lettera di giovedì 23.
Nel dopo-pranzo di detto giorno egli stette sempre con me.
Gli ho questa mattina per mezzo del maestro di musica mandati i tuoi saluti, e dimani (domenica) andrò io medesimo a trovarlo e lo abbraccerò e benedirò in tuo nome.
Col Sig.
Bianchi, il quale mi aveva raccomandato Regaldi, ho fatto molte risate sulla maniera di agire di costui.
Bianchi me lo diresse, assediato dalle di lui premure onde venir raccomandato a qualcuno.
- Insomma ha fatto quattrini: ecco per lui l'interessante.
Ora non avrà da far altro che lasciar Roma e trinciarle i panni addosso, parendogli forse di aver guadagnato poco.
Qui fa caldo: figurati a Roma!
Di' a Biagini, se lo vedi, che sto aspettando qualche occasione per mandargli il cerotto da Frontini.
Salutami lui e tutti gli amici, e i domestici, e chi chiede di me.
Abbiti cura scrupolosa, e ricevi mille abbracci dal tuo aff.mo P.
LETTERA 246.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 30 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Malgrado il licenziamento dei professori e la guarigione esteriore della testa, sento purtuttavia con rammarico non essere tu ancora esente dal male primitivo, le cui reliquie ti affliggono ancora e ti tormentano di tempo in tempo.
È un gran destino! Né potendo tu ancora occuparti in nulla, perché Mariuccia mia cara non mi mantieni la promessa già fattami, di scrivermi cioè per altrui mano? A buon conto la tua del 28 l'hai dovuta vergare in due tempi.
Dio lo sa se il vedere il tuo carattere mi consola, ma questo mio piacere è distrutto dall'idea del danno che può arrecarti lo scrivere.
Comprendo che il secco modo che tien Ciro nel suo carteggio può amareggiare una madre amorosa quale tu sei: ti assicuro però, mia cara Mariuccia, che nostro figlio sente ben più di quello che esprime: egli mi chiede sempre di te con molta premura e si mostra gratissimo alle molte prove del tuo amore.
Non affliggerti pertanto di questa apparente tiepidezza: egli ti ama assai e conosce a fondo quanto ti deve: prova di che ti sia l'ardente desiderio ch'egli avrebbe di rivederti durante il suo corso di studi.
Che vuoi fare, Mariuccia mia? È un ragazzo, ed i ragazzi come anche moltissimi adulti quando sono a spiegare colla penna i loro sentimenti non sanno da che parte principiare né cosa dire.
Credimi, il di lui cuore è buono ed affezionato, ma, fintantoché non ristarà in mezzo a noi, difficilmente ne potremo ben conoscere e valutare le affezioni.
Quando questa mattina l'ho rimproverato della di lui freddezza e brevità soverchia della di lui lettera a te, ha fatto gli occhi rossi e mi ha pregato a chiederti scusa in suo nome.
Perdonalo, Mariuccia mia, ed assicurati che Ciro è e sarà un buon figlio.
Il carattere poi più o meno carezzevole dipende dalla natura, né egli n'ha colpa.
- Spero sabato 2 di potere per mezzo di un impiegato di questa posta mandare franco per via della diligenza, o diretto a Parlanti o non so ancora a chi altri, il pacchettino di cerotto per Biagini con sopraccarta al tuo nome e al tuo indirizzo.
Quando lo avrai avuto lo darai a Biagini, vedendolo.
Il prezzo è di bai: 35 che ritirerai o no come più crederai bene.
- Cercherò la cunzia per Rotondi.
- Dimmi quanti mazzi di carte da giuoco vorresti.
- Mi scrive Babucci dicendomi di non averti direttamente ringraziata della procura Olivieri contro Camilli, perché sapendoti inferma ha temuto incomodarti.
Si esprime però verso di te con sensi di estrema gratitudine.
Molte cose mi dice su codesto affare che io non conosco, e credo che ne avrà tenuto diretto proposito con chi di ragione.
- Circa al terreno Marotta ne parleremo al mio ritorno.
Un certo Piacentini ne aveva avanzato qualche parola di compera, ma i di lui affari col fallito Camilli lo hanno per ora fatto desistere da questa intenzione.
In tutti i modi il terreno non resterá abbandonato.
Insomma, ne parleremo.
- Intorno al 15 luglio il Professor Colizzi verrà a Roma, e pensiamo, potendoci combinare, di venire insieme.
Basta, o che egli acceleri o che ritardi la di lui venuta, egli porterà a Roma la cassetta di Ciro, la quale gli ho progettata per un certo di lui trasporto di libri, mentre il sesto ed ultimo tomo della sua opera è finito.
- Ti dico intanto una cosa in segreto: egli mi ha dimandato se io conoscessi qualche prete abile per l'impiego di Vice-Rettore che va a stabilirsi in collegio.
Io gli ho nominato l'Abate Fidanza.
Al mio ritorno li faremo abboccare insieme perché Colizzi prima di tenergliene proposito lo vorrebbe vedere e parlarci.
Se tu credessi intanto di scandagliare il di lui animo, fallo pure, purché però l'Abate Fidanza non si mostrasse inteso della cosa avanti a Colizzi.
- Oggi porterò Ciro con me.
Rendi i miei saluti a tutti, e credimi qual sono di tutto e vero cuore
Il tuo aff.mo P.
P.S.
La povera Nanna Cerotti sarà venuta da noi, eh?
LETTERA 247.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 9 luglio 1836
Mia cara Mariuccia
In questo ordinario non ho trovato alla posta tue lettere, segno che mi hai compiaciuto nel non prenderti la scalmatura di rispondermi giovedì.
Spero però di avere tuo riscontro col corriere presente per avvisarti che la mia partenza di qui accadrà (salvo impiccio) nel giorno del prossimo martedì 12.
Il vetturino col quale ho già pattuito non sa ancora dirmi se potrà partire la mattina o il giorno, né se impiegherà in viaggio tre giornate o tre giornate e mezza.
Per entrambe le dette due varietà di movimento io non posso precisarti se il mio arrivo accadrà nella sera di giovedì 14 ovvero nella mattinata o nella sera del seguente venerdì.
Fra questi due estremi però io dovrei essere a Roma, ove non si dasse qualche ostacolo impreveduto, potendosene frapporre al mondo tanti da non mettere in alcuna pena.
Per Ciro ho fatto tutto, lo lascio in floridissimo stato, avrò al momento del mio partire passato ventitrè giorni presso di lui: è dunque ormai tempo che ritorni vicino a te, dove potrò forse essere un poco più utile che qui.
L'altro ieri condussi Ciro a spasso con me e a prendere il gelato.
Ordinai anche qualche pastarella: il caffettiere ne portò alcune di varie specie: Ciro ne mangiò un paio, e poi disse esser meglio che il resto se lo mettesse in saccoccia per avvezzarsi a mangiar tutto, non potendosi mai sapere gli eventi del mondo.
Così scherzò con molta grazia su quel tutto, sul doppio senso di qualità e di quantità.
È un gran furbaccio: di poche parole, ma pesate.
- Jeri verso sera lo trovai al passeggio, e mi fece una bella scappellatona guardandomi con quegli occhi di fuoco.
Questa mattina l'ho riveduto al collegio, dove sono andato affinché il Rettore mi mostrasse gli altri romani.
Con Ciro erano sette, cioè, tre Sartori, un Caramelli, un Grazioli e un Fiorelli; e tutti in eccellente salute.
Credo che tutti mi daranno qualche lettera per le loro famiglie.
Domani tornerò in collegio, e poi anche lunedì.
Intanto prenditi tanti abbracci e baci di Ciro nostro che ti chiede la benedizione e ti prega de' soliti saluti.
A quest'ora avrai veduto Publio Jacoucci colla mia lettera e coll'involtino pel nostro Biagini.
Se questi verrà da te mercoledì a sera salutamelo e digli che Ferretti si penti del primo elogio fatto a Regaldi, e poi gliene fece un secondo nello Spigolatore (insulso e scorretto) del '30.
Questa notte parte il Delegato che va pro-legato a Ferrara.
Mi pare che la di lui partenza accada tota plaudente civitate.
Tu, figlia di Curia, devi comprender questa latino: se no, chiama aiuto nella curia domestica.
- Abbiamo a Perugia caldo e qualche tropea periodica.
In questo punto io scrivo fra i tuoni.
Ti dico all'orecchio che Colizzi ha dimandate informazioni dell'Ab.
Fidanza, e le ha avute ottime.
Egli però ha degli impegni con altri soggetti.
Basta, se al Fidanza converrà questo uficio, speriamo di superarli.
Bisogna però non mostrare che io ti abbia fatte queste confidenze anticipate.
Salutami tutti, Mariuccia mia, ed abbiti un abbraccio di vero cuore dal
tuo aff.mo P.
LETTERA 248.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 8 settembre 1836
Perché il Panzieri avesse copia della tua inscrizione era necessario che tu mi dicessi: danne una copia a Panzieri.
Ma tu non mi scrivesti mai quel comando, e posso affermarlo con sicurezza perché tengo attualmente la tua nota sott'occhio.
Se ora dunque hai tu detto a qualcuno: ne incaricai Belli, sostituisci a queste parole le altre: voleva incaricarne Belli; e così mi salverai dal nome di stordito presso il volgo ignaro.
Faremo una cosa: ho ancora la copia che non potei dare al Duca [...].
Manderò quella al Panzieri, e sarai certo che almeno non servirà ad uso di cartoccio per dolci o per fondo a un baule.
Il Cholera fa pensare ogni padre.
Se mai...
dà un occhio al tuo figlioccio.
Tu lo vedi, io ti rimando la tua stessa preghiera che non cadrà come seme in arena.
- Egli, cioè Ciro, ha ottenuto il primo premio in algebra e il secondo in umanità.
A novembre s'inoltrerà più nelle matematiche e nello studio dei classici.
È un buon ragazzo, quieto, cortese, diligente, ma insieme vivace come vuole età e robusta complessione.
Tu rifletterai che vivace e quieto fanno a calci.
No, ha quieto lo spirito e vivace il corpo, o, se vuoi meglio, la quiete e la vivacità regnano in lui come in Cielo Castore e Polluce: ognuna sorge alla sua ora.
I Superiori lo amano, ed io...
se dicessi lo adoro toglierei temerariamente alla religione una frase che neppure starebbe al concetto.
Vorrei inventare un verbo nuovo per condensare in una parola l'espressione di quanto io sento per lui.
Figurati se il cholera verrà, come verrà!...
Te lo ripeto: al caso...
dà un occhio al tuo figlioccio.
Tanto io rispondo alla tua lettera del 30 agosto, che non riscontrai prima d'oggi per un forte motivo.
Da molti giorni mia moglie è ricaduta nel medesimo male, che già non era mai totalmente cessato, e soffre più di prima.
Io non ho un momento di tempo né un filo di cervello, e la mia casa è l'albergo della tristezza.
Se tu mai capiti a Fano, o vi capita qualche tuo amico, dì o fa' dir da mia parte al Prof.
D.
Michelangiolo Lanci che io ho spesso dimandato sue nuove a chi poteva darmene, e così della Sig.ra Vittorina di lui nipote.
Digli o fagli dire ancora essere finalmente pubblicato il 3° volume del Mezzanotte, il quale per averlo ha dovuto litigare collo stampatore, e forse gli sarà necessario di assumere un altro pe' volumi futuri.
Il Conte Cassi terminò finalmente la sua impressione della Farsaglia italiana.
Egli mi fece cortese dono di un esemplare a mia scelta.
Io scelsi la carta velina bianca.
Non ho ancora ricevuto il 6° fascicolo, ma non dubito di esser da lui dimenticato nelle spedizioni che ne farà.
Abbraccia i tuoi figli a mio conto, non esclusa l'Adelina la cui età soffre ancora questo atto di confidenza dal di lei suocero e tuo amico vero
G.
G.
Belli
LETTERA 249.
AL CONTE FRANCESCO CASSI - PESARO
[24 settembre 1836]
Pregiatissimo amico
Per graziosa disposizione della Vostra cortesia mi ha il Sig.
Biolchini rimesso il sesto ed ultimo fascicolo della Farsaglia fatta da Voi pomposa di splendida veste italiana.
Mentre per tutto il caro dono io mi affretto a significarvi la mia gratitudine, non so al tempo stesso tacervi d'esser rimasto attonito nel trovare il mio nome fra quelli i quali, chiari la massima parte di propria luce, sono da Voi destinati all'immortalità sì nelle vostre carte come nel marmo che per quelle sorgerà ad onore della italiana sapienza.
Se peraltro io ve ne movessi querela offenderei certamente il pensier vostro delicato e vi darei forse sospetto di poca veracità, incredibil parendo che senza eroica virtù l'umano amor proprio sinceramente si sdegni di gloria meritata o non meritata, checché poi suoni in parole la modestia convenzionale e fattizia della social civiltà.
Vorrei soltanto farvi riflettere, dove non vi apparissi anche in ciò troppo ipocrita, che la prerogativa di amico Vostro, di cui senza dubbio io vado orgoglioso, potrebbe agli illustri de' quali mi faceste compagno sembrare al più un titolo di domestica benevolenza anziché un dritto a pubblica testimonianza, postoché in me colle doti del cuore, non discare forse a qualche mio contemporaneo, non si accoppiano i requisiti della mente necessarii a figurare fra i posteri in compagnia d'ingegni assai più distinti.
E non sarebbe forse probabile che la generosità dell'amicizia vi avesse fatto illusione sino a cangiar natura e quantità al nulla o al pochissimo da me operato in servizio della vostra nobile impresa? Ma basti, ché lo temo non il linguaggio della verecondia avesse infine a condurmi alle frasi della inurbanità.
A voi piacque associare le mie felci a' vostri lauri (perdonatemi questo marinesco seicentume), ed io in tutti i modi vi ho un debito di gratitudine se non altro per la uficiosa intenzione.
Or che posseggo intiera la vostra versione prenderò a leggerla ordinatamente, onde gustarne le bellezze al loro posto, cosa sino ad ora da me non eseguita, poiché troppo riuscendomi grave il dovere interrompere per lungo tempo una interessante lettura, e avendo pur voluto in qualche modo appagare la mia brama di conoscere il vostro lavoro, sono andato tratto tratto scorrendo alcune parti, provviste tutte dei lor pregi speciali ma prive di quello reciproco della continuità e proporzione.
Un'altra cosa io vi vuo' dire.
Voi avete promesso a' vostri associati il dono di un foglio di varianti.
Io non sono associato, ma spero che il dono maggiore attrarrà a mio vantaggio il minore, verificandosi anche in questo caso per vostra liberalità uno degli assiomi i più divolgati.
E se non mi credessi di soverchio ardito vi pregherei pure favorirmi di quel tale commiato alla vostra traduzione, già son circa due anni dato da Voi in luce, parendomi ricordarlo diverso dalla licenza con la quale chiudeste in oggi il volgarizzamento.
- Sono con sincera stima ed affezione
Il Vostro amico e servitore Giuseppe Gioachino Belli
palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 24 settembre 1836.
LETTERA 250.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 novembre 1836
Ciro mio
Non ho voluto che il Signor Biscontini partisse per Perugia senza recarti una mia lettera.
Spero che l'obligante pensiere del Signor Presidente nel destinarti una ripetizione particolare nell'algebra ti sia riuscito piacevole e consolante.
Ciò ti rafforzerà non poco nella scienza del calcolo, necessarissimo a chi desideri bene avanzarsi e profittare nelle scienze, dalle quali tanto conforto deriva e tanta dignità a chi le coltiva.
Te lo ripeto, mio caro figlio, e tu vedrai verificate le mie parole: questo è l'anno che principierà a scoprirti le dolcezze che sinora ti sono rimaste nello studio nascoste.
La geometria e poi la fisica cominceranno ad aprirti la mente a sublimi verità celate a tanti e tanti uomini, benché la maggior parte dei fenomeni che ad esse si appoggiano vada tuttogiorno cadendo loro sott'occhio.
E altrettanto dico della letteratura.
Le bellezze dei classici non potranno mancare di scuoterti l'anima, imperocché io mi lusingo che a te non manchi una spirito capace di sentire e di sollevarsi a poco a poco dalle scipitaggini della fanciullezza, la quale senza lo studio e perciò senza il sapore rimane in molti uomini eterna, cosicché essi passano dalla puerilità alla vecchiezza possiamo dire di un salto, stranieri quasi al mondo in cui vivono.
Sappi, Ciro mio, che appena tu nascesti io dissi a tua madre: questo figlio un giorno formerà la gloria della nostra vita e l'onore della casa nostra; e tanto io dissi perché era sicuro che dandomi Iddio i mezzi non avrei nulla trascurato per indirizzarti al bene.
Tu devi adesso corrispondere alle mie intenzioni e a quelle analoghe di tua madre, non che alle cure amorose e veramente paterne di chi veglia alla tua istruzione.
Io non credo né pretendo che tu abbia a far prodigi: a questi son riserbati gl'ingegni straordinarii; ma perché Iddio non ti ha neppure negato un mediocre talento, trafficalo, Ciro mio, onde un giorno non ti sia diretto il rimprovero del Vangelo al Serve nequam.
Me n'esco in qualche paroletta latina perché so che a quest'ora tu la debba intendere.
Dunque il Sig.
Rettore ti assisterà privatamente in algebra.
Corrispondi, Ciro mio, con diligenza e gratitudine alle di lui premure, e fammelo udire contento di te.
Mammà ti abbraccia e benedice come faccio ancor io.
I parenti, amici e domestici ti salutano.
Antonia vorrebbe sapere se tu hai bisogno di camicie, calze o altro.
Chiedine al Sig.
Felicetti e rispondimi su questo proposito, affinché si possa principiare a tempo il lavoro delle cose necessarie.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, e credimi
tuo aff.mo padre
LETTERA 251.
AL SIGNOR NATALE DE WITTEN - ROMA
nel di Lui giorno onomastico 25 dicembre 1886
Quando, Signor Devittene mio bello,
Nella Santa mattina di Natale
Sente romor di passi per le scale
E poscia tintinnare il campanello,
Dica pure: ho capito, è il servigiale
Col solito rimato indovinello
Che mi manda quel màghero cervello,
Quel moccicon del mio compigionale.
Ella però, Signor Natal, sa come
Io mi chiami Giuseppe, e qual contatto
Sia fra il suo ne' Vangeli ed il mio nome.
Lascio dunque che il padre putativo
Si rallegri in Natal, benché in quel fatto
Non ebbe uficio totalmente attivo.
G.
G.
Belli
LETTERA 252.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 30 gennaio 1837
Mio caro figlio
Dalla tua lettera del 26 rilevo il gradimento col quale ricevesti i regaletti che il Sig.
Vetturale volle portarti a comodo suo.
Circa ai risultamenti degli esami di prima letteratura, non che ai successi nella stessa facoltà in tutto il trimestre, non vi è stato male: nella geometria però mi pare che si sia zoppicato.
Io so che buona parte della mediocre riuscita negli studi un po' gravi dipende in te da mancanza di sufficiente attenzione.
Tu sei troppo sbadato, ti abbandoni spesso più del dovere e ti distacchi con pena dai passatempi, dai quali Ciro mio, non ricaverai null'altro fuorché pentimento del tempo perduto.
I sollazzi son fatti unicamente per ristorare le forze dello spirito affaticato, e in questo senso anch'essi presentano la loro utilità anche all'ingegno come alla salute del corpo: ma se un infermo volesse prendere due o tre dosi di medicina tutte in un colpo, o accelerare troppo i periodi nell'uso di esse, in luogo di guarire ne morrebbe.
Sii riflessivo, Ciro mio caro, pènetrati de' tuoi doveri, persuaditi del fine a cui son dirette le occupazioni di un giovanetto bennato, e pensa che gli anni passano e non si ricuperano mai più.
In ogni tua lettera (sul fatto degli esami) ho sempre letta questa espressione: speriamo che nel futuro trimestre andrà meglio; ma vorrei che questo benedetto meglio arrivasse veramente una volta.
Se tu non fossi in realtà capace di far più, ti compatirei e prenderei da te quello che si potesse: ma tu l'ingegno lo hai, quando vuoi servirtene: tutto il tuo difetto, e in tutte le cose, consiste in una soverchia leggerezza di carattere che ti rende indifferente quanto merita di venir gravemente considerato.
Ciro, oggimai non sei più un bambino, e fra sei o sette anni (che formano la metà della tua vita già scorsa) il Mondo può già pretendere da te qualche cosa, e chiederti conto del tempo impiegato e dei mezzi consumati per divenire degno dell'altrui stima.
E bada, Ciro, bada, che gli uomini giudicano se stessi con indulgenza ma gli altri con severità.
Se io vivrò nell'epoca della tua gioventù e della tua virilità, sono sicuro di udire da te la confessione delle verità solenni che ti vado ora prodigando con poco frutto e forse con minor tua persuasione.
Avresti un gran torto se non prestassi fede a tuo padre, a un padre che tanto ti ama e rinuncerebbe di buon grado alla propria felicità per la tua, quando lo stesso tuo bene non formasse tutto intiero il suo contento.
Credimi dunque, figlio mio, e abbandona le tue puerilità.
Studia con senno, ed applica di buona fede a quello che fai.
Un altro argomento voglio addurti per ultimo.
Tua madre ti promette di venire a visitarti se riceverà migliori notizie intorno alle tue applicazioni.
Ascolta finalmente i consigli de' buoni tuoi Superiori, e riguardali come voce di Dio.
- Tutti ti salutano.
Mammà ti benedice, ed io con essa.
Son il
tuo aff.mo padre
LETTERA 253.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 22 febbraio 1837
Ciro mio
La tua lettera 9 corrente mi ha cagionato un indicibile piacere, né minore è stata la gioia che ne ha risentita la tua buona ed affettuosa madre.
Io era sicuro che la promessa di una visita di Lei, a condizione di un maggiore impegno in te pe' tuoi studi, ti avrebbe scosso e riempiuto di nuovo ardore nella bella carriera che devi correre onde benemeritare di Dio, de' tuoi genitori e della civil società.
Ma se il novello stimolo ti ha punto, e se i successi de' tuoi studi ne verranno migliori, ciò prova pure che le forze e la capacità di far meglio non ti mancavano.
Godo io quindi che l'amor di figlio sia entrato a far parte di questa tua metamorfosi da svogliato in attivo, ma aggradirò insieme di vederti in futuro zelante de' tuoi doveri non solo per la lusinga delle ricompense (di qualunque natura esse vogliansi), ma bensì per la intima e schietta convinzione che il bene operare è bello e buono in se stesso.
Io voglio assolutamente che tu divenga un ometto di garbo, un individuo un po' distinto dalla turba degli uomini volgari, una personcina insomma da eccitare in altri stima e desiderio, e non disprezzo e nausea: e gl'ignoranti e i viziosi han sempre fatto nel mondo questo bel guadagno di nausea e di disprezzo.
Quanto è dolce, mio caro Ciro, il presentarsi a' suoi simili con tali meriti che ci guadagnino un'accoglienza festosa e onorata! Di qual conforto riesce il girarci gli occhi dattorno e veder dovunque al nostro apparire il sorriso della compiacenza! Non per verità né per orgoglio si vuol procurare questo trionfo, ma pel rispetto che ciascuno deve a se stesso, ma per l'omaggio che da tutti merita la virtù.
Non ti parlo poi dei vantaggi più sostanziali riserbati all'uomo onesto e sapiente.
Per lui non v'è miseria, se però alla onestà e alla sapienza imparò ad accoppiare la umiltà, la piacevolezza e la disinvoltura.
Studia dunque a coltivarti lo spirito e il cuore, e, te lo assicuro, sarai felice; anzi saremo felici, perché la tua formerà sempre la mia felicità.
Fammi il piacere di consegnare la qui unita lettera all'ottimo Sig.
Presidente Colizzi, e riveriscimi i Sig.ri Rettore e Vice-Rettore.
I parenti e gli amici ti salutano: ugualmente i domestici e in ispecie Antonia.
Abbi cura della tua salute e ricevi colle mie benedizioni quella di Mammà che ti abbraccia di tutto cuore come faccio io
tuo aff.mo padre
LETTERA 254.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 21 marzo 1837
Carissimo figlio
Non volli riscontrare a suo tempo la tua del 2 corrente per vedere se mancandoti l'occasione di una mia lettera da rispondervi avresti avuto memoria di scrivermi spontaneamente nella ricorrenza di San Giuseppe.
Mi sono ingannato supponendoti un po' più riflessivo che al tempo passato.
L'unica circostanza che ti scuserebbe da questa negligenza sarebbe una indisposizione di salute.
Questa cosa però mi dorrebbe assai, e perciò non voglio neppure pensare a supporla.
Sarà dunque stata colpa del solito cervelletto vuoto del Signor Ciro Belli, il quale al 12 di aprile termina 13 anni ed entra in 14, e ancora fa il pupazzetto.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, ricevi le benedizioni e gli abbracci della tua Mammà aggradisci i saluti de' parenti, amici e domestici che ti augurano le buone feste, e ricordati un po' più del tuo
aff.mo padre
LETTERA 255.
AD AMALIA BETTINI - LIVORNO
Di Roma, 29 aprile 1837
Carissima Amalia,
18 marzo 1836! Sarà dunque ora di rispondere alla vostra livornese di sì vecchia data; e questa benedetta ora sarebbe giunta molto più presto se io stesso non avessi creduto di ricevere riscontro da Voi ad una mia contemporanea, che s'incontrava con quella in cammino, affidata da me alla casa ebrea di commercio Cave e Bondì, da cui doveva esservi rimessa colla diligenza che meritate voi idol del vecchio e nuovo testamento.
Se Belli risponde subito all'Amalia, io diceva, e l'Amalia risponde subito a Belli, eccoti un altro incrocicchiamento di lettere, ecco altre dimande di cose già dette, ecco un assalto di scherma, di cui le bôtte e le parate si mischiano e si confondono con le parate e le bôtte.
Una buona e regolare corrispondenza deve andar come il giuoco della palla: battuta e ribattuta; ché allora còntansi bene i falli, e guai a chi se la lascia cadere.
Ma voi zitta, ed io quieto: uno aspettava l'altro, e ci ponemmo a sedere perché non avevam fretta nessuno dei due.
Poi partiste, giraste, forse balzata dal cholera qua e là...
chi vi poteva arrivare? Altronde, se pure la colpa esclusiva del silenzio era mia (e me ne voglio persuadere), tanto faceva poi trenta che trentuno: mi buttai alla macchia, a chi s'è visto s'è visto.
Saluti vostri per verità ne sono andato ricevendo; né io, diciamo le cose come stanno, ve ne ho respinti pochi o pel mezzo di Ferretti, o pel canale indiretto di Quadrari, o pel retto organo del buon Coleine, il quale, per parentesi si è messo a fare il fornaio, cosicché quando (e sia presto) tornerete a Roma i più bei maritozzi della metropoli saranno per Voi, benché invece di un maritozzo io vi desidererei piuttosto un marito, né voi, spero mi vorrete dar torto.
Insomma, alle corte, lo riceveste o no quel mio foglio dai figliuoli di Giuda? Esso vi portava quattro ciarle in prosa e più di quattro chiacchiere in versi, strette e stivate sulle tre pagine quanto il popolo tra le panche di Valle quando declamavate la Lettrice e quelle altre diavolerie da farlo singhiozzare più di S.
Pietro al canto del gallo.
Io vi dirigeva una seconda epistola intitolata Niente di male come la commedia di Bon, con la sola differenza che la commedia di Bon è bella, e la epistola dio ce ne scampi.
Se l'epistola é volata nella luna, niente di male anche qui: ne conservo l'originale, e se ne potrà cavare altra copia quando non vi disgusti il rubare un quarto d'ora alle vostre più geniali occupazioni per abbandonarlo alle mie povere cicalate.
Ho saputo le vostre malattie e quelle della Mamma, che sono pur vostre, e me ne sono veramente rammaricato.
Come state ora l'una e l'altra? Ditemi bene, altrimenti vo' in bestia, ciocché accadrebbe senza uscir di me stesso.
Mariuccia, or più or meno, è sempre inferma, ed ha inoltre quasi affatto perduta la vista.
Veramente vive la poverina assai mesta e caduta d'animo.
Io me la passo benuccio e neppure mi ha sino ad ora visitato la grippe, ospite di tutte le case, dazio di tutti i petti, esercizio di tutte le lancette.
Infine dalla vostra ultima lettera, che ho sotto gli occhi, è scritto: Addio, poeta cesareo: un ultimo abbraccio dalla vostra aff.ma Amalia.
La prima frase vale un tesoro, la seconda un Perù.
L'esser vostro poeta aulico potrebbe far battere il cuore anche ad un Byron: il ricevere poi un abbraccio, benché incartato, dalla propria adorata sovrana (e qual sovrana!) deve scaldare il sangue anche d'un rettile fino al grado della ebullizione.
Ma circa al poeta cesareo Voi a Roma mi dicevate di più.
Mi dicevate: Quando io sarò regina (e in un certo senso lo siete sempre stata) voi diverrete il mio poeta e il mio consigliere di gabinetto.
Eh, in quanto al poeta mandiamola buona: quel consigliere però...
quel consigliere!...
Il passato non darebbe gran lusinga per l'avvenire.
Che se voi...
Chissà!...
Ma passiamo a un altro discorso.
Non posso, a rigore parlando, farvi i saluti di anima nata, avendo io afferrata la penna all'improvviso, per modo d'insorgenza, in un impeto d'inspirazione, mezz'ora prima che parta il corriere.
Le vocazioni bisogna ascoltarle subito, Amalia, altrimenti si rischia di perdere l'anima e il corpo: questo almeno è il dogma che popola i nostri conventi: al resto ci pensano i catenacci.
Ciononostante, meno quella povera vittima di Presidente, tutti m'avrebbero empite le orecchie di mille belle parole per Voi se avessero saputo ch'io vi andava a scrivere.
Ricevetele dunque anticipate, e senza scrupolo, perché già son certo che me le restituiscono prima di notte e con qualche cosetta d'usura.
E la Cecchina che fa? quella cara, quell'affettuosa appiccicarella? Ma io che mi era creato suo compare, eh! come vanno le cose de sto monno! Già, come dice quello? L'uomo propone e dio dispone.
- Non se move fojja ch'er Signore nun vojja.
- Matrimoni e Vescovati stanno in celo distinati.
- Chi pecora se fa er lupo se la magna.
- Er lupo muta er pelo, e er vizio mai.
- Acqua quieta vèrmini mena.
- Fidasse è bene, e nun fidasse è mejjo.
- Nun se dice quattro fin che nun sta ner sacco.
E che risponde quell'altro? Chi la fa l'aspetta.
- Le montagne nun s'incontreno.
- Non tutte le palle ariescheno tonne.
- Tanto va la gatta all'onto che ce lassa er pelo.
- Tanto va er secchio ar pozzo sin che ce lassa er manico.
- Dio non paga ogni sabato, ma la dimenica nun avanza un quattro gnisuno.
- Ogni medajja ha er su' roverzo.
- De maggio puro se fa notte.
- Er tempo è galantomo.
- Cor tempo e co la pajja se matureno le nespole.
- La vipera s'arivorta ar ciarlatano.
- Si l'oste ne coce per tutti ce n'è.
- Chi la tira la strappa.
- Ar bervede' t'aspetto.
- Nun sempre ride la mojje der ladro: e via discorrenno.
- Intendiamoci, perché non nascano equivoci: tutte queste belle gentilezze sulle spalle di quel cuor di Bireno e faccia di Bertoldo.
Stringete la mano affettuosamente alla Mamma e alla Sorella, e ponete a mio debito, seppure nel libro-mastro della vostra memoria v'è intestata, la mia partita.
Ricevete finalmente da me un savio e rispettoso...
che cosa?
Quello con cui chiudeste la vostra lettera del 18 marzo 1836.
- Sono il vostro servitore ed amico.
G.
G.
Belli
LETTERA 256.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 11 maggio 1837
Mio carissimo figlio
Dalla cortesia del Signor Avvocato Grazioli ebbi la tua lettera 2 corrente.
So che vai preparandoti per gli esami trimestrali, e ne attendo ansioso il successo.
Nel venturo giugno io verrò a riabbracciarti e a rallegrarmi con te de' profitti che tu possa aver fatti in questo altro anno di studio dacché non ci siamo veduti.
Ciro mio, la tua buona Mamma si ricorda di averti promesso una visita se tu la meritavi con buoni portamenti di studio e di condotta, e la sua voglia di rivederti è sempre ardentissima; ma non credere, mio caro, che se ella non viene ti manchi di parola.
Da qualche tempo la di lei salute è un poco sconcertata, benché in modo non serio né allarmante, e per ora non potrebbe forse esporsi al disagio per lei nuovo del viaggiare.
Non ti mettere perciò in pena, Ciro mio: Mammà non istà veramente male, ma deve soltanto osservare un certo regime che le prescrive un metodo di vita piuttosto uniforme, onde più presto riprendere il suo primiero florido stato e allora con maggior sicurezza e soddisfazione procurarsi il piacere di rivedere un figlio che tanto ama.
Vivi dunque lieto, studia e renditi sempre più degno del nostro affetto che non ha limiti al di qua di quanto in natura è possibile.
Vedrai il Sig.
Biscontini, e ti darà ulteriori notizie di noi.
Egli si trattiene in Perugia pochissimi giorni.
Ritorna i miei rispettosi saluti agli ottimi tuoi Sig.ri Superiori ed alla obligantissima Signora Cangenna allorché la vedrai.
Tutti al solito ti salutano, e fra i primi Antonia.
Mammà ti abbraccia e benedice con me
tuo aff.mo padre
LETTERA 257.
AD AMALIA BETTINI - LIVORNO
Di Roma, 27 maggio 1837
Veramente, mia cara e buona Amalia, allorchè null'altro si abbia ad offerire fuorché scorze spremute di agrumi o vuoti baccelli di fave fa sempre miglior figura chi si presenta colle mani in mano.
Nulladimeno questo modo di farmivi innanzi, quando fosse alquanto frequente, trasgredirebbe di troppo un certo vostro precetto, che, sebbene vecchio e forse da voi stessa dimenticato, purtuttavia di tempo in tempo reclama osservanza, poiché una legge rimane sempre obbligatoria sino a che non venga abrogata dal legislatore.
Prendetevi dunque ciò che posso darvi, e operate da clemente sovrano chiudendo gli occhi sulla entità del tributo di un suddito poverello.
Voi volete qualche volta versi da me: io non aveva altri versi che quelli: sicché o magna sta minestra o sarta sta finestra, dicono le nostre buone lane di Roma.
Attualmente io bado pochissimo alla burrascosa letteratura: sono tornato ai più pacifici studi delle scienze, astronomia, fisica, geologia...
Un animo da cui va fuggendo la gioventù abbisogna di calma; e le lettere, specialmente in certi tempi ambigui, procurano pochissime ed effimere soddisfazioni.
Gloria io non ne cerco, e sarei da legare se ne covassi la pretensione.
Dunque che fare per non traversare la vita fra gli sbadigli e il tedio d'esser nato? Osservar la natura.
La dolcezza, Amalia mia, che si trae dalla contemplazione dell'universo non può trovar paragone ed apre all'uomo una tutta nuova esistenza.
I miei libri di parole sono pertanto ora chiusi per dar luogo a quelli di cose.
Porto rammarico del faticoso stato in cui vivete.
Ma nella vostra professione gran piaceri e grandi pene! E poi quando vi attaccate coll'animo a qualche paese, eccoti le Ceneri e simili altri giorni di tristezza, e da capo in pellegrinaggio.
Avrei voluto inchiodarvi a Roma, ma fatalmente non posso disporre del chiodo del destino.
Non so darmi pace della inutilità dei rimedi che tentate in soccorso della vostra Mamma.
E a Roma con pochissima cura stava tanto benino! Ah! quel chiodo! quel chiodo, ditele mille affettuose parole in mio nome, ed altrettante a Checchina appiccicarella.
E della Marietta che n'è? sta bene? è sempre con voi? Salutatemela se c'è.
Mi faceva lume per le scale con tanta buona grazia! Mariuccia sta un poco meglio, ma non degli occhi.
Essa vi ritorna tutte le cordiali espressioni che le usate.
Ma che tempi, eh? che stagioni! che annate! che secolo!
Teta Ferretti con la figlia Chiara sono a Frascati da varii giorni, e presto ne ritornano col bambino allevato.
Giacomo e le altre due figlie Cristina e Barbara stanno qui e m'incaricano di salutarvi a tutte e tre.
Sono sinceramente il V/°
G.
G.
Belli
Palazzo Poli, 2° piano
LETTERA 258.
AL CONTE FRANCESCO CASSI - PESARO
[3 giugno 1837]
Gentilissimo amico
Tutto avrei aspettato tranne potesse una Vostra lettera giungerrni causa di cordoglio: imperocché, non essendo ciò immaginabile in verun altro contatto con Voi, se non per rispetto a qualche Vostra sventura, avevate negli ultimi anni troppo sofferto per temersi serbata dalla Provvidenza anche una prova, e la più acerba, al Vostro coraggio.
Io che conobbi Colei che piangete, e le virtù sue, e la lieta semplicità che le abbelliva, so apprezzare la perdita da Voi fatta, e tanto maggiormente me ne addoloro con Voi, mio povero amico, quanto meglio m'è noto il vostro cuore affettuoso e l'amor tenero che vi chiudevate per una figliuola amabilissima, esempio delle sue pari, conforto invidiabile de' Vostri giorni in quella parte appunto della vita in cui languendo a' nostri occhi le esteriori attrattive di un mondo pieno di fallacie, ci cresce a proporzione il bisogno delle domestiche dolcezze.
Or come prestarvi consolazione in così desolante calamità? A voi nulla vien nuovo di quanto in simili circostanze san dire la religione e la filosofia.
Abbandonati pertanto i comuni conforti a chi debba toccare animi al Vostro inferiore, io rispetto in silenzio le lagrime che spargete, e Ve ne imploro anzi dal Cielo copia (se è possibile) ancor più larga, dappoiché nell'abbondanza di quelle trovasi pur talvolta dai disgraziati quasi un risarcimento de' mali senza rimedio.
Nulladimeno io desidero che quanti amici godono su me il vantaggio non dell'attaccamento alle Vostre qualità, ma della vicinanza alla Vostra persona, Vi si raccolgono intorno, e con delicate sollecitudini procaccino di accelerare a pro Vostro il momento in cui suol la natura finalmente ai profondi dolori sostituire ne' travagliati petti la pace malinconica della rassegnazione.
Accogliete, infelice amico, le meste parole qual lugubre consuonanza del Vostro giusto lamento; e poiché Vi odo invocare dall'altrui compassione alcun amorevole refrigerio, pensate se debba io sinceramente compiangere al Vostro danno, io padre siccome Voi eravate di unica prole, la cui esistenza fra tanta caducità delle umane cose forma l'incessante pensiero delle mie speranze e de' miei timori.
Sono di vero cuore.
Di Roma, 3 giugno 1837
Il Vostro ob.mo e aff.mo amico
Giuseppe Gioachino Belli
LETTERA 259.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 6 giugno 1837
Mio carissimo figlio
E ti pare che io debba non esser contento di te? Sono invece contentissimo, ed altrettanto è contenta la tua buona Mammà, la quale ti abbraccia e ti benedice mille volte.
Quei tre male e quei sei mediocri in entrambe le facoltà sono così vinti e superati dai 52 bene e dagli 84 ottimi che peccherei forse di sottigliezza se li andassi a pescare nella tanta acqua che li sommerge.
Certo, in questo trimestre hai ottenuto dalla tua diligenza successi ben superiori a quelli del trimestre precedente.
Spero però, Ciro mio, che non vorrai stancarti, ma seguitare alacremente allo stesso modo.
E chi sa? chi sa non possa venire un trimestre di tutti ottimi? Ti parrebbe tanto difficile? Eh, nell'urna dei possibili, c'è anche questa possibilità.
Figurati allora le cioccolate! figurati i premi al fine del corso annuale! Ma ciò sarebbe pur nulla a riscontro colla gloria attuale e il vantaggio futuro.
Basta, ad ogni modo io ti ripeto che sono assai soddisfatto de' tuoi portamenti.
- Se nulla di contrario ci si frappone io conterei di partire da Roma il 24 per venire a riabbracciare il mio Ciro.
In risposta alla presente dimmi con franchezza se tu abbia qualche desiderio che noi possiamo soddisfare.
Ritorna, Ciro mio, i miei rispetti ai Sig.ri tuoi Superiori, al Sig.
Prof.
Mezzanotte e alla Sig.ra Cangenna.
Gli amici, i parenti, i domestici, e specialmente Antonia seguono a dirti mille cose obliganti.
Addio, Ciro mio caro: ti abbraccia e benedice
il tuo aff.mo padre
LETTERA 260.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Terni, 25 giugno 1837
Mia cara Mariuccia
Due righe per dirti che sono arrivato bene in questa Città alle 11 antimeridiane.
Fra mezz'ora si riparte e si deve mangiare.
Sono fuggito a vedere i Vannuzzi.
Ho veduto le donne perché egli non era in casa.
Scrivo in piedi in piedi con un zeppaccio.
Dammi per carità tue notizie, abbiti cura e sii docile nel farti medicare.
Saluto tutti, e ti abbraccio in massima fretta.
Il tuo P.
LETTERA 261.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 27 giugno 1837
Mia cara Mariuccia
Siccome già avrai udito dalla mia di Terni, io arrivai colà ottimarnante, e con pari buon viaggio giunsi in questa Città alle ore 7 1/2 antimeridiane del giorno di ieri.
Non mi dilungherò quindi sulle altre particolarità del viaggio come di troppo lieve interesse, ed anzi piuttosto inopportune pel motivo che ti ritarderebbero ciò che più brami sapere, cioè le notizie del nostro carissimo figlio.
Nessuno ha esagerato nel rappresentarcelo vegeto sano e lietissimo: io l'ho trovato tanto bene quanto avrei saputo desiderarlo.
È forte, è florido, fa consolazione il vederlo.
Va anche molto crescendo, poiché se l'altr'anno arrivava colla sommità del capo a toccarmi il mento, in quest'anno mi tocca il naso; di modo che tu puoi desumere presso a poco una misura, prima di veder la precisa e totale che secondo il solito riporterò a Roma.
Lo trovai nelle camere del Rettore, ascoltando la sua ripetizione di matematiche.
Mi vi condusse il Professor Colizzi, il quale appena udì che io era giunto in collegio corse ad incontrarmi quasi barcollando per le scale, tanta fu la fretta con cui le discendeva.
Buono, ottimo vecchio! Egli sente profondamente il tuo stato, siccome n'è pure rammaricatissimo Ciro benché io abbia con questi tenuto un linguaggio più mite onde non affliggerlo senza utilità.
Ho soltanto detto a Ciro che tu vai soffrendo di qualche febbretta e di un certo mal d'occhi che t'impedisce di venire a trovarlo e di scrivergli di tua mano.
Il resto che gli ho tacciuto passerà poi anch'esso, e allora sembrerò aver detto intieramente la verità.
Ha egli ricevuto la cioccolata e l'acqua della Scala con molto piacere, e te ne ringrazia mandandoti cento baci e chiedendoti la benedizione.
Saluta poi i parenti, gli amici e i domestici, con una speciale commemorazione per Antonia.
Questa mattina sono tornato a vederlo, e l'ho trovato al pianforte col M.stro Fani, a cui ho già intavolato il mio discorso circa al termine delle sue lezioni.
Il Rettore e il Pres.
Colizzi sono meco intieramente d'accordo sulla cosa e sul modo.
Cercherò il M.stro Tancioni per rinnovare con lui le pratiche, che saranno tanto più naturali in quanto è stato questi recentemente assunto dai Superiori in altro Maestro del collegio, a scelta dei padri dei convittori fra lui e Fani.
La Sig.ra Cangenna si è mostrata rapita pel dono del portatasche etc.
Essa, il marito, i coniugi Rossi e il Sig.
Bianchi ti salutano e ti augurano sollecita e perfetta guarigione.
Il Dr.
Micheletti non l'ho ancora trovato in casa; ma mezz'ora dopo il mio arrivo le carte di Biscontini già erano state da me a lui ricapitate.
Di' allo stesso Biscontini che Rossi mi ha passati gli Sc.
33; e che avendo io parlato con esso a lungo (ed anche con altri) dell'affare dell'agenzia parmi che la cosa possa andar bene.
- Dammi buone nuove della tua salute.
Io già le aspetto domani con ansietà.
Io sto alla Corona.
Ti abbraccio di cuore e sono
il tuo P.
LETTERA 262.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 11 luglio 1837
Mio caro carissimo figlio
Hai purtroppo ragione di piangere sulla perdita di una Madre così buona e a te affezionata.
Ah! Iddio ci ha colpiti, Ciro mio, nella parte la più viva del cuore.
Sia fatta la sua volontà.
Prega, prega sempre per la pace di quell'anima benedetta che spargerà su noi dal cielo le benedizioni dell'Altissimo colle sue intercessioni.
Non ti parlo della desolazione mia: essa è al colmo, e solo nel mio dolore e nelle immense fatiche che ora sostengo mi regge il pensiero degli obblighi che mi legano alla tua cara esistenza.
Io ti sarò sempre padre amoroso e sollecito del tuo bene; e se quel che farò per te assoggettando la mia vita ad una continua serie di sacrificii non bastasse ad assicurarti intieramente quella felicità che il mio cuore vorrebbe prepararti, non sarà colpa mia ma dei casi guidati dalla mano divina.
Ringrazia, mio caro Ciro, chiunque ti consola e ti ama, e preparati a renderti sempre più degno della affezione di sì buone genti, e della stima di coloro con cui andrai un giorno nel Mondo in contatto.
Amiamoci, mio caro figlio, e confortandoci scambievolmente della nostra reciproca tenerezza rimettiamo il resto alla benefica provvidenza del Cielo.
Sono il tuo amorosissimo padre
LETTERA 263.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 22 luglio 1837
Mio carissimo figlio
Le tue affettuose lettere mi fanno piangere di tenerezza, e queste soavi lagrime raddolciscono un poco quelle amarissime che io sempre verso per la perdita fatale ed irreparabile da noi fatta.
Sia benedetta la volontà della Provvidenza! Prega Iddio, Ciro mio caro, pregalo sempre pel riposo di quella cara anima che ci ha lasciati nel dolore.
Applica in di lei suffragio le tue orazioni e le comunioni tue, e vivi in modo che essa dal luogo di salute dove al certo la bontà sua deve averla collocata, si consoli nel vedere in te un erede delle sue belle virtù.
Raccomanda poi ancor me a Dio, perché mi regga la salute e la vita in tuo aiuto.
Tu, Ciro mio, sei nel Mondo ancora innocente, e le preghiere della innocenza trovano grazia nel cospetto del Signore.
Siamo onesti, Ciro mio, e forse saremo un giorno tranquilli.
Ti ringrazio delle tenere parole colle quali cerchi di confortarmi ad avermi riguardo.
Mi risparmierò, figlio mio, fin dove mi concede il debito che ho di occuparmi della tua felicità, per quanto se ne possa sperare in questo mondo.
Tu intanto attendi serenamente a' tuoi studi ad allo adempimento de' tuoi doveri; conservati nelle tue buone disposizioni di dolcezza di obbedienza e di gratitudine a chiunque ti fa bene, e pensa al giorno nel quale ci riuniremo per vivere insieme da galantuomini e onorati cittadini.
Tutti, parenti amici e domestici, ti salutano: Antonia fra i primi.
Riverisci tu in mio nome l'impareggiabile Sig.
Professor Colizzi, il Sig.
Rettore e il Sig.
Vice-Rettore e chiunque ti chiede di me.
E allorché vedrai la buona Sig.ra Cangenna dille molte parole amichevoli.
Ti benedico ed abbraccio con tutto il cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 264.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 agosto 1837
Grazie, mio caro Ciro, delle tue cordiali espressioni.
Esse valgono a sempre più spronare il mio già vivo impegno nel procurare per quanto mi è possibile il tuo bene.
Sì, figlio mio, tu finirai un giorno i tuoi studi e Dio vorrà riunirci per non mai più separarci.
Io sarò allora tua guida, e tu mio conforto.
Se avremo fortuna ne godremo a lode della Provvidenza: se ci mancherà, vivremo di fatica e di onore, le due prime glorie dell'uomo.
Nel mese venturo io probabilmente muterò casa; ma tu ne sarai avvertito in tempo.
Questa dimora non é più da me né per me.
Addio, Ciro mio caro: aspetterò notizie degli esami.
Salutami l'impareggiabile Sig.
Professore Colizzi e di' al Sig.
Rettore che fra giorni io farò con lui il mio dovere.
Riverisci anche il Sig.
Vice-Rettore e gli altri tuoi Superiori.
Ricevi gli abbracci e le benedizioni del
tuo aff.m° padre
LETTERA 265.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 26 agosto 1837
Mio carissimo figlio
La tua lettera del 22 cadente mi ha fatto lungamente piangere di tenerezza.
Come non essere contento, Ciro mio, de' tuoi portamenti? Se tu mi fossi vicino, ti stringerei al mio cuore per dimostrarti con quali sensi io abbia ricevuto le notizie sul successo de' tuoi esami generali.
Sappi, mio buon Ciro, che tu sei avviato per una bella strada: io te lo annunzio, e Iddio benedirà le mie predizioni.
Ma che dirai che io non ti mando nessun regalo? Questo era il solito uso, vivente la tua povera mamma.
Mi chiamerai avaro o sconoscente? No.
Ciro mio: non sono né una cosa né l'altra.
I tempi però volgono tristi, figlio mio, e la nostra casa ha ricevuto una grande scossa.
Non dubitare però: io farò tutto il possibile per appagarti per quanto potrò.
Se verrà come spero, Biscontini nel prossimo ottobre a Perugia, ti manderò qualche cosa pel suo mezzo.
Egli poi ti dirà quello che è bene tu sappia.
Vivi tranquillo.
Riverisci, Ciro mio, i Sig.ri tuoi Superiori e la buona Sig.ra Cangenna.
Il Sig.
Bianchi mi ha scritto una cortesissima lettera e in questo ordinario gli rispondo.
Tutti ti salutano e specialmente Antonia.
Ti abbraccia e benedice di cuore
il tuo aff.mo padre
LETTERA 266.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Roma, 9 settembre 1837
Ho ricevuto, mio caro figlio, la tua lettera del 5 corrente e i due libretti del saggio e della premiazione di questo anno.
Vedo con piacere che, avendo tu studiato, ti abbia pure voluto la sorte rimunerare col buon successo in uno de' due bussoli.
Le Vite del Plutarco sono cosa bellissima e classica.
Io ne ho (anzi l'hai tu stesso, perché la roba mia è tua) una elegante edizione fiorentina in un solo volume corredata di bei rami.
- Eccoti dunque, Ciro mio, nuovamente nelle ricreazioni autunnali, per poi di bel nuovo tornare a Novembre alle occupazioni che debbonti fruttare nel Mondo e stato e considerazione.
Questa è la più giusta ed onesta vicenda nelle umane azioni: fatica, riposo, e fatica.
A suo tempo, e quando tu lo saprai, mi verrà grata la notizia de' nuovi studi che ti si preparano pel vegnente anno 1838, che sarà il sesto del tuo corso di educazione e il 14° di tua vita.
Come aumenti e invigorisci il tuo corpo, così maturerà la tua mente e si perfezionerà il tuo cuore.
Ama tutti, Ciro mio, rispetta tutti, e sarai amato e rispettato.
Rendi i miei saluti co' miei rispetti ai Sig.ri Presidente e Vice-Presidente, al Sig.
Bianchi e alla Sig.ra Cangenna, tutte ottime e cordiali persone.
Così, vedendola, mi riverirai la gentilissima Sig.ra Marchesa Monaldi.
Tutti ti salutano e applaudono: Antonia la prima.
Io ti abbraccio e benedico di cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 267.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 23 settembre 1837
Ciro mio
Hai ragione e fai bene.
Le vacanze son tempo di sollievo, per ristorare le forze consumate nelle applicazioni dell'anno e per riprendere nuovo vigore onde poi sostenere le altre del corso di studi consecutivo.
Intanto i più miti esercizi scolastici, continuati tuttavia ne' due mesi di ricreazione, ti serviranno mirabilmente a ritenere il frutto ricevuto negli altri dieci mesi di doppio travaglio.
Sta' di buon animo e tranquillo, mio caro figlio; e come hai sino ad ora trascorsi in collegio cinque anni non totalmente indegno della soddisfazione a della benevolenza degli amorosi tuoi Superiori, vi passerai il minor numero che te ne rimane prima di ritornare con me, che, se Iddio mi conserva la vita e il coraggio, ti guiderò per mezzo alle contingenze del Mondo dove ancor tu dovrai far la tua parte, ma parte di onesto uomo siccome m'ingegnerò di dartene esempio.
Ci affaticheremo allora insieme, e le fatiche onorate di entrambi risulteranno in tuo maggiore profitto.
Tu mi dai dei saluti di care e rispettabili persone, cioè dai Sig.ri Presidente, Rettore, e Vice-Rettore, non che della Sig.ra Cangenna e del Sig.
Bianchi.
Di mano in mano che li vedi ripeti loro i miei più cordiali e rispettosi saluti.
Ti fo intanto quelli de' pochi parenti che vedo e dei pochissimi amici che ci sono restati.
Morta la tua povera Madre la nostra casa è deserta.
Così fa il Mondo, Ciro mio.
Ti abbraccio e benedico di cuore.
il tuo aff.mo padre
Ti salutano Antonia e Domenico che presto non potranno più stare con me.
LETTERA 268.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 10 ottobre 1837
Mio carissimo figlio
Riscontro la tua 30 settembre.
Sono molto contento di udirti applicato all'esercizio epistolare: ti servirà molto il sapere ben comporre una lettera, nel che parecchi anche sommi uomini spesso smarrisconsi.
Non già che importi ciò grande difficoltà, ma perché pochi sanno conservarsi nel bel mezzo dello stile che alle lettere conviene.
Naturalezza, precisione, concisione per quanto il soggetto lo concede, grazia, talora festività, correzione ortografica e sobria interpunzione, sono i principali pregi di una lettera.
A poco a poco ti farai bravo intanto avverti un po' meglio alla ortografia.
Fammi il piacere di dire al Sig.
D.
Antonio Ribacchi che il tuo semestre anticipato di retta che scadrà il primo giorno del prossimo novembre gli sarà pagato o personalmente dal Sig.
Biscontini che a quell'epoca si troverà a Perugia, o per mezzo di qualche suo corrispondente.
Biscontini si è già diviso da me e abita dov'era l'Avvocato Gnoli al Gesù.
Io partirò dal Palazzo Poli al fine di questa settimana ed andrò ad abitare in casa dei nostri parenti Mazio, al Monte della farina n.
18, primo piano.
Tu dunque nelle tue lettere metterai di qui innanzi quell'indirizzo, e bada che la lunga abitudine di scrivere Palazzo Poli non ti trasporti tuo malgrado la penna.
Usaci riflessione.
Quanto mi addolori il lasciar questa casa dove ho passato 21 anni sempre in compagnia della tua povera Mamma, e dove tu sei nato, non te lo puoi immaginare.
Ma son rimasto solo, la pigione è assai cara, e le spese giornaliere troppo superiori alle attuali forze del nostro patrimonio.
Dunque bisogna rassegnarsi alle disposizioni della Provvidenza e benedire gli eventi che a Dio piace di ordinare.
Il separarmi da Antonia e da Domenico è un'altra prova della mia rassegnazione.
Ma essi ci resteranno sempre affezionati.
Ho ceduto a Domenico quelle stanze che per separata locazione da noi si tenevano superiormente al nostro appartamento.
Egli vi albergherà Antonia, ed anche Annamaria la quale io manterrò fin che vive.
Mi farai cosa grata se scriverai ad Antonia una graziosa letterina in cui con brevi frasi ma affettuose tu la ringrazii delle cure da Lei sempre avute per te, e la preghi di dire in tuo nome altrettanto a Domenico.
Né scordarti della buona vecchia di Annamaria.
Ecco un nuovo soggetto d'esercizio epistolare.
La lettera per Antonia Ceccarelli puoi mandarla al solito indirizzo del Palazzo Poli.
Riverirai in mio nome tutti i tuoi Sig.ri Superiori, ed anche il nuovo Sig.
Rettore benché ancora io non abbia l'onore di conoscerlo.
Salutami anche tutti i nostri buoni amici di Perugia, fra i quali la Sig.ra Cangenna sta attualmente occupandosi pel tuo vestiario d'inverno.
Quando la vedrai partecipale il mio nuovo domicilio.
Addio, Ciro mio caro.
Ti abbraccio di cuore e ti benedico.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 269.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 26 ottobre 1837
Mio caro figlio
Alla tua lettera 18 corrente rispondo con questa che ti sarà portata dal Sig.
Biscontini il quale parte questa mattina colla diligenza.
Egli te la farà ricapitare da qualcuno giacché non si ferma per ora a Perugia ma prosegue il viaggio fino a Città di Castello.
Di là tornerà a Perugia pel giorno di tutti i defunti (2 nov.), ed allora ti verrà a trovare e parlerà con te di molte cose a mio nome.
Tu considera che ti parli io stesso nelle sue parole.
Ti mando pel suo mezzo libbre 4 di cioccolata ed egli ti provvederà costì dello zucchero e del caffè per mio conto, se tu come credo lo desideri.
Di più, Ciro mio, non posso regalarti attese le nostre attuali circostanze.
Anch'io faccio a meno di tante cose di cui prima godevo.
Ricordati, Ciro mio, di suffragar l'anima della tua povera Mamma nel giorno della Commemorazione dei fedeli defunti.
Prega Iddio per lei, ed ella intanto lo pregherà per noi onde ci assista e ci consoli.
Pare che sabato 21 tu non abbia poi scritto ad Antonia.
Essa me ne avrebbe parlato.
Se non hai potuto, fallo, Ciro mio, più presto che potrai, e non Le dire che l'hai fatto a mia insinuazione.
Dalle questa prova di gratitudine alla buona Antonia, e nomina nella lettera anche Domenico.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e quanti hanno la bontà di chiederti di me.
Ti abbraccia e benedico di cuore
Il tuo aff.mo padre
Monte della Farina n.
18
LETTERA 270.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma, 2 novembre 1837
Mio caro amico
Non so se da qualche vaga voce e accidentale sia potuto venire a' vostri orecchi la per me terribile disgrazia avvenutami il 2 luglio ultimo.
La mia buona Mariuccia in quel giorno morì.
Già da oltre un anno ella soffriva di mali umorali vaganti dalla testa alla membra, ed ora appena giunti ad una specie di encefalite.
Il 26 giugno io partii di Roma, dovendo necessariamente recarmi presso mio figlio a Perugia, e la lasciai poco bene.
Veramente io non voleva partire, ma ella mi vi spinse, ed io tanto più la compiacqui quanto meno il suo morbo pareva dar serie inquietudini.
Volendo poi trattenermi a Perugia solo dieci giorni non dubitai di andare.
Ma dopo il quarto giorno del mio arrivo, ebbi una lettera d'un amico allarmantissima.
Volai a Roma, e la trovai già morta.
Neroni mio, qual dolore! Ella mi era tutto: moglie, amica, madre, consolatrice amorosissima.
Tutto mi è mancato con Lei.
E nel mio temperamento cupo, concentrato, malinconico, irritabile, figuratevi il mio stato di isolamento come debba essermi insopportabile.
Voi che avete cuore, e bel cuore, immaginatelo senza che io ve ne dica di più.
Da quattro mesi non faccio che sospirare e piangere e consumarmi.
Ho tutto riperduto ciò che di bene (e gran bene) aveva acquistato ne' tre anni di un rigido regime dal quale mi era stata ridonata perfetta salute.
Dolore di spirito, veglia continua e tormentosissima, dispiaceri gravi e di ogni natura, fatiche nuove e molte, mi hanno ridotto un uomo degno di compassione.
Se un giorno ci rivedremo abuserò della vostra pazienza, col racconto de' miei patimenti.
Povera donna! Morire senza né il figlio né il marito vicini! Lasciar sola la vita e priva de' conforti estremi del sentirsi chiuder gli occhi da una mano amica quanto può esserla quella de' nostri più cari! Non avere io potuto abbracciarla e prometterle, piangendo, di vegliar sempre al bene del figlio! Ella ne sarà stata persuasa, ma il sentirselo ripetere in quegli ultimi momenti deve dar tanta consolazione e tanto coraggio! Ah! pazienza.
Voglio adesso chiedere un piacere alla vostra amicizia.
Da più anni mia moglie esigeva dalla Cassa dell'Amministrazione de' Beni ecclesiastici di Fermo, dove è capo il Sig.
Mons.
Bartolucci di S.
Elpidio, una somma trimestrale di Sc.
14:59 1/2 proveniente da una ritensione mensile fatta in questa Computisteria Camerale sull'onorario del Sig.
M.se Antonio Trevisani, uno degl'impiegati in detta Amministrazione.
La persona che gentilmente favoriva mia moglie, con procura di lei, esigendo ed inviando a Roma le somme trimestrali, non ha più voluto dopo la morte di lei continuare questo favore.
Io manco a Fermo di amicizie.
Una pratica da me usata in Computisteria Camerale, onde far qui voltare di uficio le somme, ha mancato di successo, benché il Computista mi è benevolo, opponendosi ciò alle regole di amministrazione.
Non avreste voi dunque, mio caro Neroni, qualche onesto e gentile amico colà che in vostro riguardo volesse ogni tre mesi ritirare la detta somma e spedirmela? Io gli manderei una procura nella mia qualità di padre e legittimo amministratore di Ciro erede universale della Madre (ab intestato) come apparisce da un pubblico istrumento stipulato in atti Fratocchi il 7 luglio ultimo.
Giace di già inesatto un trimestre senza che io abbia ancora potuto trovare il canale onde ritirare a Roma i denari.
Vedete un poco, mio buon amico, di aiutarmi in questa circostanza, tanto più che ho grandi urgenze da soddisfare.
E vedete la mia temerità! Non potreste voi stesso ricevere la mia procura, e ad ogni trimestre mandare al Sig.
Bartolucci la vostra ricevuta e ritirare l'equivalente? Se ho, così dicendo abusato troppo dell'amicizia, perdonatelo all'amicizia stessa, e diminuite la mia impertinenza colla vostra opera trovandomi chi per amor vostro mi favorisca.
Io ne vivo in isperanza.
Addio, mio caro amico.
Iddio vi conservi lungamente al bene e alle delizie di famiglia.
Io ne sono privo.
Mio figlio è buono, gentile, studioso, ma è piccolo e da me lontano.
Per più motivi non posso ancora richiamarlo con me.
Sono con tutto il cuore
il vostro amico G.
G.
Belli.
Monte della Farina N° 18.
P.S.
Ho dovuto cambiar casa.
LETTERA 271.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 2 novembre 1837
Ciro mio
Ho veduto la tua lettera ad Antonia.
Bravo Ciro! Siamo sempre riconoscenti a chi ci ha fatto del bene.
Antonia e Domenico hanno gran diritto alla nostra benevolenza.
Essi non sono più con noi, ma se ne ricorderanno sempre, e noi ricordiamoci sempre di loro.
Biscontini ti avrà fatto avere la mia del 26 ottobre.
Al di lui ritorno udirò i risultati dei discorsi che avrà tenuti con te.
Temo che tu non saprai leggere la mia presente lettera.
Scrivo con pena perché mi trema la mano.
Ho scritto troppo ieri ed oggi; e poi questo è un giorno che molto influisce sulla mia macchina.
Suonano le campane, figlio mio: per chiamar suffragio ai defunti; e tu sai chi noi abbiamo perduto.
Or via, basti di ciò: Iddio ci darà forza per rassegnarci alla Sua volontà.
Studia, cuore mio, studia di cuore e con mente più serena che puoi: sii buono, dolce, manieroso, e fatti amare da tutti.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, amami sempre come io ti amo, e ricevi i miei abbracci e le mie benedizioni.
Sono il tuo aff.mo padre.
P.S.
La presente ti verrà dalla gentilezza della Sig.ra Cangenna che si occupa tanto di te.
Siile grato, Ciro mio: essa veglia su te come una madre.
LETTERA 272.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 11 novembre 1837
Ciro mio
Il Signor Conte Francesco Moroni, la cui madre Sig.ra Contessa Maria ebbe sempre tanta bontà ed amicizia per la tua, viene a Perugia direttore della posta e mi favorisce recarti questa mia lettera.
Ho ricevuto la tua del 7 corrente.
Il Signor Vice-Presidente Cambi mi aveva già fatto conoscere i tuoi studi per l'entrato nuovo anno scolastico.
Iddio ti mantenga sempre le buone disposizioni che mostri di voler profittare in essi e negli altri che farai in avvenire.
Dallo studio nasce il sapere, e da questo congiunto alla bontà dell'animo e alla gentilezza delle maniere dipenderà tutto il bene della tua vita.
Non acquistata o perduta la stima degli uomini onesti, tutta la nostra esistenza diviene una serie di rammarichi tanto più pungente quanto più ne siamo noi stessi gli autori trovandone le cagioni nelle nostre opere.
Pondera bene, Ciro mio, queste terribili verità, alle quali si suole pensare troppo leggermente dalla comune degli uomini, e perciò si veggono al Mondo tanti falli e tante sventure.
Circa alle tue idee di continuare nella musica vado oggi stesso a scriverne al nostro Signor Biscontini, e ne parlerai nuovamente con lui.
Ho scritto, e consegnata la lettera al Sig.
Conte Moroni, al tuo nuovo Superiore Sig.
Don Fausto Bonacci.
Ti gli ho raccomandato, ed ora raccomando a te di mostrartigli sempre obbediente, sottomesso, riconoscente e gentile.
Riveriscimi gli altri tuoi Sig.ri Superiori, e così la buona Sig.ra Cangenna e la Signora M.sa Monaldi, allorché le vedrai, ringraziandole de' saluti che sì spesso m'inviano per tuo mezzo.
Tu dicesti alla Sig.ra Cangenna di non conoscere i nostri parenti Mazio, in casa de' quali oggi io abito.
Non te ne ricorderai, Ciro mio, ma spesso io ti ci ho condotto allorché eri in Roma, ed anzi (e questo te lo devi ricordare di certo) il marito della mia cugina, Orsolina Mazio, che allora non l'aveva ancora sposata e le abitava incontro, ti fece il ritratto pochi giorni prima della tua partenza da Roma pel Collegio.
Quel ritratto è poi sempre stato il conforto della tua lontananza per la tua povera Madre; ed a tale scopo io lo feci fare.
Ora io lo conservo presso il mio letto siccome essa usava, benché noi non abbiamo mai avuto bisogno di tal segno materiale per ricordarci ad ogni momento di te.
-Questi parenti dunque ti salutano e bramano di presto rivederti.
Così ti salutano i nostri amici, che sono pochi ma ottimi.
Addio, Ciro mio, ama sempre
il tuo aff.mo padre che ti abbraccia e benedice.
LETTERA 273.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma, 14 novembre 1837
Mio veramente gentilissimo amico
Di quanti conforti la pietà umana o la civiltà mi è venuta sin qui prodigando a sollevarmi l'animo caduto in tanta deiezione per la perdita della compagna della mia vita, niuno più dolce ed efficace delle semplici parole da voi adoperate per un fine sì santo quale è quello di consolar gli afflitti.
Voi, Neroni mio, conoscete il cuore dell'uomo, e sapete di più distinguere cuore da cuore: così secondo i casi e le persone versate il balsamo che se intieramente non sana una piaga incurabile, la sparge almeno di salutare dolcezza che fa parere grato anche il dolore allorché lo compatisce un animo cortese e generoso.
Né mai più né meglio conosciamo il prezzo dell'amicizia, che quando vivendo disgraziati ci vediamo attorno persone amorose e bennate, tutte sollecite di attenuarci le pene con cui la provvidenza volle provare la nostra rassegnazione.
Io dunque in mezzo a' miei patimenti benedico Iddio che mi vi fece conoscere dapprima, e poi sperimentare così benevolo.
È vero, mio caro Neroni, io debbo conservarmi pel mio figlio onde non fare di questo povero innocente un orfano abbandonato.
Che sarebbe di lui fra tanta corruttela? Chi lo guiderebbe, chi lo salverebbe dalle infinite insidie e dagli errori innumerevoli dove vanno a inciampare talora anche gli avvisati e gli accorti? Io dunque ho l'obbligo di mantenere la mia esistenza per la sua felicità.
Penerò, veglierò, mi travaglierò, e quando poi avrò di questa povera pianticella formato un albero saldo abbastanza contro le tempeste del secolo, dirò allora a Dio: è compiuta la mia missione: nunc dimittis servum tuum, domine.
Voi siete già sciolto da un tanto dovere; ma ora i vostri figliuoli impegneranno la giustizia eterna a concedervi la retribuzione che vi siete meritata, e così vivrete lunghi anni nel premio maggiore che possa sperare la virtù paterna: quello di vedere il suo sangue senza macchia al cospetto degli uomini.
Troverete qui unita la procura che la vostra bontà mi ha concesso inviare al vostro nome per la trimestrale esigenza, e di cui vi tenni proposito nella mia antecedente, in codesta Amministraz.
dei Beni ecclesiastici di Fermo.
Mi pare certo avervi avvisato essere giacente un trimestre inesatto, cioè quello di luglio, agosto e settembre prossimi passati.
Alla fine del venturo dicembre scadrà il trimestre oggi corrente.
Abbiamo sempre usato di esigere trimestralmente e non mensilmente onde diminuire la noia de' troppi minuti e frequenti dettagli.
Sino a tutto giugno sonosi percetti per cadaun trimestre Sc.
14:59 1/2; ma in seguito può esser più, può esser meno secondo l'entità dell'onorario del debitore e i sequestri de' di lui creditori, benché su questo ultimo proposito l'ultima causa sostenuta dalla fu mia moglie contro alcuni coaspiranti al riparto dovrebbe lasciare invariabile il riparto attuale.
Ad ogni modo Voi prenderete quello che vi daranno, compiacendomi in qualunque caso di accennarmi i motivi addottisi per dichiarazione de' cambiamenti che s'operassero.
Circa alla trasmissione delle somme mediante il proporzionato concambio che avete in mira sulle percezzioni in Roma di vostro fratello, ne sarei contentissimo.
Sul di lui mutamento di stato, che io ignoravo, la penso appuntino come Voi, e credo che quello che in ciò gli è accaduto di meglio sia la erudita, dotta, elegante, disinvolta e giudiziosa epistola che gli avete indirizzata per festeggiare le sue gioie colle glorie della vostra patria comune.
Bella mente sana che avete! Invidio la chiarezza e semplicità de' vostri argomenti sì liberi dagli arzigogoli stiracchiati di tanti archeologi e storiografi che si lambiccano il cervelluzzo per accomodar colori a un disegno che non vorrebbe riceverli.
Voi avete condotto le vostre assennate ricerche sin dove l'ipotesi confina e si confonde colla verità.
Eccovi il mio schietto giudizio.
Se ho errato mi piace aver errato con voi.
Sin qui voi sapete la metà sola de' miei mali, ed è quella che soglio narrare a tutte le gentili persone.
Oggi ne confido l'altra metà alla delicatezza dell'amico.
Voi ne stupirete.
La mia buona moglie, per troppa fiducia e generosità di condotta, ha lasciato al figlio un patrimonio assai offeso.
Quanti anni di pene mi bisogneranno per formare al mio Ciro uno stato! Ed anche chi sa!...
- Io dunque cerco ogni via per sollevarlo, faticando, dal mio peso personale.
Perciò non arrossisco dirvi che se mai udiste in codeste parti che alcun vostro conoscente avesse affari da affidare in Roma a chi non fosse capace di tradire la fiducia de' suoi committenti, io presterei la mia opera in assistenza di ogni discreta persona.
Intendiamoci però: in qualunque vostra occorrenza voi siete il mio padrone e il mio nuovo discorso non vi riguarda.
Non si può dire ciò che io sarei pronto ad operare per voi che mi avete resi sempre tanti favori.
Amate dunque e comandate liberissimamente il vostro servitore ed a.co
G.
G.
Belli
LETTERA 274.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 28 novembre 1837
Mio carissimo figlio
Riscontro le tue due lettere del 10 e del 19 cadente, ricevute da me la prima per mezzo del Sig.
Avv.
Gnoli e la seconda per parte del Sig.
Conte Moroni.
In quella sei tornato ad assumere il pronome ella e lei.
Tu sai che non mi piace.
Amo che tu mi rispetti: godo però meglio che il rispetto vada unito a una moderata confidenza che riesce assai più affettuosa.
Quindi il Voi mi appaga assai più; e mi parla più al cuore.
Io sono tuo padre, e insieme il primo tuo amico e confidente; e il rispetto lo voglio attendere da te più nella corrispondenza dei sentimenti e nella consuonanza delle azioni che non nelle parole, sotto le quali non di rado può celarsi una fallacia tanto maggiore quanto meno apparisce.
Una soverchia familiarità mi offenderebbe perché temerei che, considerandomi tu troppo alla pari, svanisse a' tuoi occhi la gravità e la importanza de' miei consigli e si perdesse così il frutto delle paterne e insieme amichevoli mie insinuazioni.
Il freddo tuono altronde della civiltà di pura convenzione disgiungerebbe di soverchio i nostri animi e potrebbe all'affezione della natura sostituire i vuoti omaggi del complimento.
Amami, Ciro mio, metti in pratica i miei avvertimenti, e questo è il maggior rispetto che io desidero da te.
Odo con piacere i nuovi studi che ti sono assegnati per questo 6° anno della tua educazione.
Iddio benedica le cure de' tuoi Maestri e le tue fatiche.
Mi si dice però che nella lingua latina sei ancora un po' tiepido.
Eppure ne dovrai trarre nel Mondo tanto bene!
Ho parlato di te col Sig.
Biscontini.
Ebbene, poiché lo desideri, acconsento che tu riprenda lo studio della musica, e ne vado a scrivere al Signor Vice-Presidente col quale ne tenni varii colloqui allorché era Rettore.
Col Sig.
Presidente Prof.
Colizzi ho anche tenuto lungo proposito intorno a te e a quanto ti concerne.
Egli ti ama, ed ha per te molta bontà.
In vita della tua buona Mamma era solito il mandarti qualche dono pel Natale.
Oggi i tempi sono cambiati, Ciro mio, ed io non saprei cosa inviarti per detta prossima epoca.
Se tu abbisogni di qualche cosa o nudri alcun particolare desiderio, fammene consapevole, ed io procurerò di appagarti.
- Studia con coraggio e serenità d'animo.
I giorni e gli anni passano, e poi viene il tempo in cui si raccoglie secondo che si è seminato.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, e ricevi i miei abbracci e le mie benedizioni.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 275.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 13 dicembre 1837
Ciro mio
Per mezzo del Sig.
Presidente Colizzi devi avere avuta la mia del 4 corrente.
Ricevi ora quest'altra che favorirà consegnarti il Sig.
Caramelli.
Ho con estrema consolazione udito che di giorno in giorno tu abbandoni quella certa negligenza nella quale avevi ricominciato gli studi, specialmente di letteratura.
Bada, Ciro mio caro, bada: se tu non istudi con fervore e di vero proposito sarai infelice.
Credi a tuo padre.
Se io dovessi un giorno vederti vittima della tua stessa pigrizia e indolenza, ne morrei di dolore, e tu avresti questo peccato sull'anima.
Per carità, figlio mio, non istancarti.
Gli anni passano presto, e presto raccoglierai il frutto delle tue attuali fatiche.
Tu cresci, la tua mente va maturando colla età: è dunque vergogna l'operare senza senno.
Fa', Ciro mio, che allorquando vivremo insieme io abbia a benedire la provvidenza dell'avermiti dato.
La tua povera Madre non ha potuto vedere i tuoi successi, ma adesso prega Iddio in cielo per te.
Renditi degno delle preghiere di quella benedetta che si rallegrerà delle virtù che tu acquisterai.
E riguardo a me, vorresti tu pagare d'ingratitudine le tante mie cure e sollecitudini? No, Ciro mio, dà consolazione a tuo padre che ne ha bisogno per sostenere il carico della tua guida nel Mondo.
Io sono qui solo e senza nessun altro conforto fuorché quello della speranza della tua buona riuscita.
Se questa fallisse mi troverei troppo male ricompensato.
Dunque, sù, coraggio, avanti sempre: bontà, studio e gentilezza: ecco quello che voglio da te.
Me lo prometti?
Spero che sarai contento dell'averti io ripristinato la musica siccome tu desideravi.
Anche questa potrà molto nel Mondo giovarti.
Lo vedrai.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e ricevi da me saluti, abbracci e benedizioni.
Il tuo aff.mo padre.
P.
S.
Ti ripeto, Ciro mio, che se per S.
Natale desideri qualche cosa da poter corrispondere alla nostra facoltà me lo parteciperai onde io procuri di soddisfarti.
Appena ti riesce dà l'acclusa alla Sig.ra Cangenna.
LETTERA 276.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma, 16 dicembre 1837
Caro e gentilissimo amico
Ebbi ieri la obbligante Vostra del 10 corr.
con in seno l'ordine di Sc.
14:54 1/2 tratto da vostro fratello Conte Filippo sopra questo Sig.
Paolino Alibrandi furiere delle guardie nobili, e da Voi speditomi in pareggio netto degli Sc.
14:59 1/2 che vi compiaceste esigere per mio conto da cod.
Cassa de' Beni ecclesiastici di Fermo nell'affare Trevisani pel trimestre luglio, agosto e settembre p.p.ti.
- Il Sig.
Alibrandi me lo ha questa mattina pagato.
Sta ora per maturare l'altro trimestre di ottobre, novembre e dicembre, le quote de' quali mesi giacciono nella medesima Cassa in seguito delle mensili ritenute sull'onorario del Sig.
Marchese Trevisani.
Entrato dunque il prossimo gennaio Vi prego a vostro comodo ritirarne l'importo.
Direttissimi rapporti amichevoli io non ho coi compilatori del giornale arcadico, ma non mi è mancato mezzo di pormi con essi in comunicazione riguardo all'articolo che desiderate inserto nello stesso giornale.
Ieri sera consegnai la vostra epistola a un bravo giovane, amico d'uno dei più influenti collaboratori, onde lo impegni ad appagare il mio nel vostro desiderio.
Non ne ho ancora risposta, né ho voluto che l'indugio di essa Vi ritardasse la notizia che io Vi doveva circa all'incasso dell'ordine.
Presto però deve ripartire di Roma il vostro amico Conte Orazio Piccolomini, il quale vi sarà latore di una mia, e in essa spero annunziarvi il risultamento delle mie premure pel piccolo servizio che mi chiedete.
Favoritemi dire molte parole affettuose per me al caro Pippo Lenti (lo chiamo colla confidenza dell'antica amicizia che ci lega) che rivedrei tanto volentieri, siccome ardente desiderio nudro di riabbracciar Voi dopo così lunga separazione.
Quindici anni! Quanti altri ne passeranno prima di riavvicinarci?
Sono di vero cuore e pieno di sincera stima
il Vostro aff.mo e obbligatissimo amico Giuseppe Gioachino Belli.
LETTERA 277.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma, 26 dicembre 1837
Gentilissimo amico
Per mezzo del nostro caro Piccolomini V'invio questa lettera, annunciatavi fin dalla mia precedente speditavi per la posta il 16 cadente.
La vostra illustrazione archeologica della Città di Ripatransone è ora in mano del Signor Salvador Betti, uno de' primi compilatori del giornale arcadico; e sono stato assicurato da chi gliel'ha trasmessa che o comparirà tutta intiera nel giornale o ne verrà in quello fatta menzione.
Voglio sperare di non esser deluso.
Ieri uscii di letto dopo otto giorni di malattia del solito carattere infiammatorio.
Ah! se non mi posso aver cura!
Circa al mio affare ed a' vostri favori mi riporto alla mia del 16.
Auguro di vero cuore a Voi e a' vostri più cari un felice anno.
Il Cielo lo mandi migliore di quello che cade.
Sono sinceramente
Il vostro aff.mo e obbligatissimo a.co G.
G.
Belli.
LETTERA 278.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 30 dicembre 1837
Mio caro figlio
O l'altro ieri dopo pranzo o ieri mattina dev'essere partito di qui un canestrello al tuo indirizzo.
Il Sig.
Raffaello nipote di codesto Sig.
Angiolo Rossi mi ha favorito consegnarlo a un suo amico il quale viene a Perugia, e così tu lo avrai in breve per mezzo del detto Signor Angiolo.
Avrei voluto, Ciro mio, mandartelo per le sante feste, ma sono stato infermo parecchi giorni colle mie solite accensioni di sangue, impedito perciò di potermene occupare, giacché ora debbo far tutto da me.
Nel canestrello troverai un pangiallo, quattro torroni, un poco di confetti e di mandorle attorrate, e due mostacciuoli di Napoli.
Ti serviranno per addolcirti la bocca il giorno di pasqua epifania.
Non ho potuto né saputo mandarti altro: ho pregato però la eccellente nostra amica e padrona Signora Cangenna Micheletti d'indagare i tuoi bisogni e i tuoi desideri e di appagarli a Perugia senza che io stia ad accrescere il volume della spedizione, giacché per via particolare sarebbe indiscreto il caricar troppo chi ci favorisce, e per mezzo de' vetturali importerebbe un dispendio inutile il trasporto di cose che si trovino a Perugia.
In quanto al pangiallo esso è cosa romana e ho voluto inviarlo da qui.
Conserva il canestrello, potendo servire ad altri usi.
Ho con piacere appreso dalla tua del 19 cadente che il discorso del rispettabile Sig.
Prof.
Colizzi, unito alle speciali mie insinuazioni, ti abbia fatto impressione.
Così è, mio caro Ciro, noi non ci troviamo più nello stato in cui sembravamo posti dalla Provvidenza.
Ma comunque vadano le cose, benediciamo sempre la Mano che regola le sorti degli uomini, vedendo quanti stan peggio di noi benché forniti di molto maggiori meriti che noi non abbiamo.
L'onore, Ciro mio, ci terrà luogo di splendore e di lusso.
Una vita modesta e virtuosa può consolare l'uomo cristiano e ragionevole da tutti gli attacchi e le inimistà della fortuna.
Tu sei determinato a calcare una strada di rettitudine.
Iddio benedica le tue savie intenzioni.
Né io mi stancherò mai nel procurare il tuo maggior bene, assistendoti assiduo e vigilante sino a che il Mondo possa conoscere i frutti de' tuoi travagli e rimunerarli.
Allora io sarò vecchio, e tu renderai a tuo padre le cure ch'egli avrà prestato alla tua fanciullezza.
Questa è la giusta vicenda de' doveri di famiglia: il più debole deve ricever protezione dal più forte.
Il debole ora sei tu: presto lo sarò io, se il Cielo vorrà conservarmi tanta vita da vederti uomo formato ed abile al disimpegno degli obblighi sociali.
I nostri pochi ma buoni amici ti rendono mille saluti e insieme coi nostri parenti ti augurano un felice capo-d'anno.
Fa' tu altrettanto in mio nome co' Sig.ri tuoi Superiori, ringraziando spezialmente l'onorevole Signor Rettore delle confortanti parole aggiuntemi appiè della tua lettera.
Di' anche molte cose amichevoli per me al Signor Tancioni, e fallo contento di te.
Alla Sig.ra Cangenna e al Sig.
Bianchi ho scritto particolarmente nel passato ordinario.
Ti abbraccio, figlio mio caro, e ti benedico di cuore, pregandoti da Dio ogni felicità.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 279.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma, 15 febbraio 1838
Mio caro e buon Neroni
Vi scrivo in letto dove mi trovò l'11 corrente la obbligante vostra dell'8, contenente l'ordine di vostro fratello Conte Filippo sopra questo Sig.
Paolino Alibrandi per scudi quattordici e bajocchi 54 1/2, prodotto netto della esigenza da voi cortesemente fatta per mio conto in Sc.
14:59 1/2 della Cassa de' Beni ecclesiastici di Fermo pel sequestro c.
il M.se Trevisani relativo all'ultimo trimestre del caduto anno.
Jeri mi capitò un amico il quale mi andò a realizzar l'ordine, che fu puntualmente pagato.
Fu una fortuna nel mio attuale isolamento: così posso oggi darvene subito avviso.
Non è poco che finalmente codesti Sig.ri pagatori siensi compiaciuti di dare ciò che da molto avevano in mano; e l'han dato quando già ritengono giacenti le due quote di gennaio e febbraio del corrente anno.
Questa loro renitenza sempre più accresce pertanto le mie obbligazioni verso di voi per moltiplicati incomodi che ne dovete soffrire.
E il mio male qual'è? Il solito, Neroni mio, infiammatorio.
Sto da sei giorni a brodo, e per brodo do sangue.
Son debolissimo di membra e di capo.
Ad ogni nuovo accesso di febbre però mi torna un vigore falso e apparente che debbo poi restituire alla natura nelle ore consecutive.
Ora però sto alquanto meglio de' giorni passati, e per ciò mi è pure riuscito di scrivervi.
Spererei esser presto guarito.
Finisco per rimettermi disteso sotto le coltri e per mandare alla posta la servaccia di casa, seppure saprà ficcare una lettera in un buco.
Che mutazione di scena! Pazienza.
Vi abbraccia di cuore
il Vostro aff.mo amico G.
G.
Belli
LETTERA 280.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 10 marzo 1838
Mio sempre carissimo figlio
Riscontro la tua del 6 corrente.
Credo che a quest'ora potrai aver principiato a sperimentare la verità delle mie passate assicurazioni, colle quali ho in ogni tempo voluto metterti nell'animo il coraggio che nasce dal sapere come gli studi tanto più divengono lievi e piacevoli quanto si allontanano più dagli aridi elementi.
Chi principia a studiare la gramatica non sa fin d'allora prevedere sino a quali belle ed utili conseguenze debba condurre quel non troppo amabile sminuzzamento di parole e d'idee, né quella incomoda ricerca continua giù per le pagine di un vocabolario.
Ma viene poi fuori a poco a poco una bella lingua ed una capacità franca di distinguere non solo e classificarne le parti con esatta precisione dentro le più famose opere de' classici, ma ancora di intendere le alte cose che pel ministerio di quella lingua hanno scritte gli autori stessi onde erudirci ed ammaestrarci in sapienza e in virtù.
Così puoi dire del calcolo.
In origine il più, il meno, e gli y e gli x e le radici e i quadrati etc.
non ti saranno apparsi tanto geniali.
Oggi però che vai e sempre più andrai di giorno in giorno scendendo alle applicazioni di quelle chiavi delle scienze esatte, devi principiare ad accorgerti di quanto conforto ti riuscirà allo spirito l'aver superato il fastidio delle prime fatiche.
E credimi, Ciro mio, troverai presto maraviglie filosofiche morali e letterarie che t'incanteranno e ti faranno benedire la provvidenza dell'averti concesso il gran beneficio dello studio.
Io so che tu mi vuoi bene e sei persuaso del mio amore per te.
Questo mio amore dunque ti convinca della realtà di quant'io ti vo avvisando.
Abbandona, Ciro mio, ogni resto d'inclinazioni fanciullesche, se mai tuttora ne conservi, e seriamente volgendo tutto il tuo animo alla tua cultura ti preparerai la maggior felicità che sia concesso all'uomo di sperare sulla terra.
Non mi ricordo se ti ho mai detto che io ti ho lavorato due eleganti globi, celeste e terrestre.
Ti serviranno quando tornerai a stare con me.
- Ho veduto il Signor Biscontini e gli ho fatto la tua ambasciata.
Tutti di qui ti salutano.
Tu riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e i nostri buoni amici, e ricevi i miei teneri abbracci con infinite benedizioni.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 281.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 20 marzo 1838
Mio caro figlio
L'altr'anno tu ti dimenticasti della mia festa: quest'anno me ne dimenticava io; tantoché se non fosse giunta a proposito la tua lettera del 15 a ricordarmela, forse la festa di S.
Giuseppe mi sarebbe arrivata improvvisa come arrivano i lampi.
Non è più, Ciro mio, il tempo in cui queste giornate riconducevano nella nostra famiglia scambievoli sogni di memoria e di affetto.
Sol tu adesso rimani col quale io ricambii simili atti sì dolci; e tu colla tua lettera amorosissima mi hai per verità dimostrato una tenerezza che molto mi commuove.
Grazie, mio buon Ciro, grazie alle tue care espressioni: mi hai fatto un gran bene, e te ne rimuneri il cielo col farne un giorno a te gustare altrettanto.
E mi rallegro poi specialmente della tua graziosa letterina perché il Sig.
Rettore mi assicura essere ella tutta tua, sentimenti e parole.
Il Signor Rettore merita da me cieca fiducia né voglio credere che tu abbia saputo illuderlo con una fallace assicurazione.
La lettera è molto affettuosa e disinvolta; e, composta da te fa onore al tuo profitto nell'arte di pensare e di scrivere.
Coraggio, Ciro mio caro; tu divieni uomo ogni giorno.
- Ho gran piacere che tu principii a gustare Cicerone e Virgilio, portenti di sapere e di genio.
Ti prego, Ciro mio, di ringraziare caldamente in mio nome il Signor Rettore per le obbliganti cure che prende d'informarmi sempre di te.
Deve avere un bel cuore codesto rispettabile tuo Superiore.
Quando vedrai la gentilissima Sig.ra Cangenna, alla quale dobbiamo tanto, le darai la qui unita mia lettera.
Ringrazia tutti i tuoi Sig.ri Superiori e così gli amici degli augurii cortesi inviatimi pel tuo mezzo, e riveriscili da mia parte.
Questi nostri parenti, e così gli antichi domestici, stanno bene e ti risalutano.
Domenico però è afflitto per la recente perdita che ha fatto della Madre, la quale egli amava moltissimo.
Segui, Ciro mio, a studiare con fervore e diligenza: te ne troverai un giorno contento.
Abbi cura della tua salute, sii buono, amami, e ricevi mille abbracci e benedizioni del tuo
aff.mo padre.
P.S.
Attualmente io sto passabilmente bene.
LETTERA 282.
AD AMALIA BETTINI - VENEZIA
Di Roma, 22 marzo 1838
Cara Amalia,
il mio silenzio, rimproveratomi più volte in vostro nome dal nostro Ferretti, eccolo oggi compensato da una lettera lunga quanto una quaresima; seppure possa chiamarsi risarcimento un infarcimento di ciarle che o spacciate in prosa o in verso non perdono mai la loro papaverica natura.
Troppo mi sono però taciuto con Voi, mia affettuosissima amica, perché in sul primo riaprir della bocca io potessi impedire a tutti questi strambotti il precipitarmisi fuor delle labbra come un branco di pecore o d'altri animali meno innocenti, addensati all'uscio che toglieva loro l'aria e la luce.
Da molto tempo io sentiva il bisogno di consacrarvi esclusivamente un'ora di parole oltre le tante ore che voi occupate nel mio pensiero.
Ma se noti vi sono in parte i motivi dolorosi che tutto han cambiato il tenore della mia vita, mi perdonerete l'esser questa ora giunta sì tarda.
E quando mi sarà concesso il desiderato conforto di rivedervi in questa città e di tornare alle dolcezze della vostra compagnia, vi istruirò allora del mio stato di fatica e di isolamento.
Intanto io non perdo uno de' vostri passi né de' vostri successi.
I comuni amici, i viaggiatori, i giornali, tutti io vo' interrogando per saper notizie della carissima Amalia, sì ricca d'ingegno e di cuore.
Non mi dite lusinghiero.
Perché lo sarei? A un omicciuolo mio pari non sarebbe lecito vagheggiare scopo né premio di adulazione, quando anche foste voi donna da potersi adescare con simili mezzi, troppo inferiori ai meriti degni d'interessarvi a pro di chi, possedendovi, sapesse farli valere con delicatezza.
Oltrediché Voi mi avete forse conosciuto non falso e tanto modesto quanto lo comandava ogni principio e di carattere e di circostanza.
Un po' di elogio anche a me; e questo dopo essermi da me stesso chiamato giustamente omicciuolo! Ebbene? non possono darsi omicciuoli sinceri e rispettivi? Anzi un gran numero, perché quelle sono per solito virtù da minori.
Voglio un poco udire come voi la pensate.
Ma quel povero nostro Ferretti! Sempre malattie, e di tutti i generi e tutte terribili.
Non se ne potrebbe tesser chiara la storia.
Egli vi saluta, come vi saluta il cav.
Rosati che parecchi giorni addietro ebbi occasione di vedere.
Da quando ho perduto Mariuccia abito vicino a Ferretti.
Mi dice Ferretti che voi siete per tornare in compagnia di Mascherpa.
In questo caso mi pare più sperabile il rivedervi a Roma.
Mascherpa non teme tanto questo viaggio come il Nardelli.
Amen, amen, amen!
Come sta la Sig.ra Lucrezia? Quale più le convien, Roma o Venezia? Dite Roma, se non volete farmi arrabbiare.
E la Cecchina? e l'appicciccarella? Si ricorda ella mai del povero Belli? del poeta cesareo di sua sorella? Or bene, allontanate per mezza giornata da Voi le occupazioni e gli amici, e consumate tutto quel tempo a dir loro tutte quelle belle o brutte cose che io loro direi se fossimo insieme.
Adesso poi che vi ho scritto non mi punite del peccato vecchio col voltarmi le spalle.
Rispondetemi quattro parole di quelle che sapete dire Voi quando volete lasciar la gente col cuore inzuccherato.
Vi bacia la mano rispettosamente il vostro
G.
G.
Belli
Monte della Farina n° 18
LETTERA 283.
A FILIPPO GELLI, SEGRETARIO DELL'ACCADEMIA TIBERINA - ROMA
[30 marzo 1838]
Chiarissimo Sig.
Segretario
Con piacere e gratitudine ho ricevuto dalla S.
V.
la cortese partecipazione del general decreto accademico col quale venne dichiarata come non avvenuta la mia rinunzia del 1828.
Così dopo un lungo decennio io godrò di ritrovarmi fra onorevoli e distinte persone dalla cui compagnia mi allontanai per motivi da non esser più ricordati.
Ho tardato due giorni oltre il dovere a riscontrare il Suo foglio del 27 a fine di poter più concludentemente rispondere all'inclusovi biglietto d'invito per un componimento lirico sulla Passione del Redentore.
- Questo sarà da me recitato, avendolo io già espressamente scritto.
Voglia, Chiarissimo Sig.
Segretario, non isdegnare le sincere espressioni di ossequio del
Suo d.mo Servitore e Collega G.
G.
Belli
30 marzo 1838
LETTERA 284.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 5 aprile 1838
Mio carissimo figlio
Ebbi prontamente dal gentilissimo Signor Conte Moroni la tua del 27 marzo, e ti ringrazio dell'esserti approfittato di questa occasione per darmi tue nuove, le quali godo di udir buone, malgrado del reuma di testa che mi dici aver sofferto.
Forse darà una fuggita a Perugia il Sig.
Avvocato Filippo Ricci, Aiutante di studio in questo tribunale della S.
Rota, ed amicissimo della nostra casa da moltissimi anni.
Egli è savio, dotto e gentile, e si compiace per amicizia dirigere le mie operazioni nella guida del tuo ristretto patrimonio.
È partito per Spoleto, e se mai arrivasse a Perugia mi ha promesso che verrebbe a visitarti.
Fagli allora buon viso come a persona degna d'ogni stima e gratitudine.
Oggi ad otto, cioè giovedì 12 corrente, all'un'ora di notte, tu compierai il 14° anno della età tua.
Vedi, Ciro mio, come celermente ti avvicini alla gioventù, lasciandoti indietro l'adolescenza! Nello stesso modo devi abbandonare ogni leggerezza che suole andar compagna di questa.
Io però, mio caro figlio, per quanto ascolto della tua condotta, sono contento di te, e solamente ti esorto a corroborarti nelle tue felici disposizioni ad una buona riuscita.
Rifletti sempre, o mio Ciro, che io andrò invecchiando, e che tu un giorno dovrai non solo condurre te stesso fra le vicende del Mondo, ma assistere e sostenere altresì il tuo padre che tanto t'ha amato e ti ama.
Se allora tu possederai virtù solide e meriti reali, gli uomini te ne daranno il compenso; ed io giunto al termine della mia carriera potrò chiudere gli occhi nella consolazione di lasciarti felice.
Ah! quanto allora benedirai la provvidenza per averti ella concessa la volontà di applicarti all'esercizio de' tuoi doveri! Tranquillo e onorato non dovrai arrossire né di te né de' tuoi genitori.
Segui pertanto con ardore ne' belli tuoi studi, tutti nobili e utilissimi, per non dir necessarii.
Godo molto di udire essere in te venuto il piacere della lingua latina.
Rènditela, Ciro mio, famigliare questa illustre lingua, e sappi che negli esami per essere ammesso a questa romana università si deve rispondere in latino.
Ciò per tua norma.
I parenti, gli amici e gli antichi nostri domestici ti salutano.
Tu riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e gli amici nostri perugini.
Ti abbraccia e benedice il tuo aff.mo padre.
LETTERA 285.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, 12 maggio 1838
ore 6 1/2 pomeridiane
Mio caro Ferretti
Pranzava io questa mattina allorché un famiglio, o bidello, o portiere della Soprintendenza de' tabacchi mi ha recato la tua di jeri piena di liete e di non liete notizie: relative queste ultime alla tua cianca ed alle convulsioni della Sig.ra Rossi.
Il dottore già deve conoscere quest'ultima cosa perché l'ultima volta che lo vidi in di lui casa (e fu mercoledì 9) aveva tra le mani una lettera di Rossi.
Immagino che quell'avvenimento non vi sarà stato obliato dallo sposo scrivente.
In tutti i modi farò di trovare Maggiorani e lo spronerò alla partenza, la quale, accadendo, accadrà in mia compagnia, quandoché sia, e così sia.
- Io entrai in pena per l'acqua di jeri che forse poté sorprendere in viaggio le tue pellegrine che ebbi il piacere di aiutare a salire in carrozza.
Già, si sarebbe bagnato il legno e non esse; ma pure ho udito a dire che i viaggiatori non desiderano acqua fuorché in rarissimi incontri.
Questa volta era superflua.
Prima di rientrare questa mattina in casa mi sono recato a visitare la famiglia Pazzi, ed ho avuto un bellissimo dialogo collo Stortino Pietruccio, egli parlando di dentro ed io di fuori come lo spazzino di Euticchio.
Le ultime parole della scena essendo state: eh, quell'omo, Mamma sta su da Ferretti, la sono andata a vedere dov'era e l'ho trovata bene: bene la figlia: bene il Peppetto.
Costui, ad ogni carrozza che ode passare corre sotto le finestre gridando: ecco Papà e Gigio.
La casa tua va mettendosi in sesto.
Mentre io parlava con Anna Maria l'è stato ricondotto il fuggiasco figliaccio che ieri non si accostò neppure a bottega.
L'ha sgridato la madre; l'ho sgridato anch'io con un vocione da pedale d'organo.
Ma si predica al deserto.
Quello è un mobiluccio da forca, così Iddio ne lo scampi.
Mi sono stati recati i quaderni 21 e 22 de' benefattori dell'Umanità.
Vuoi che li ritiri anche per te?
Checco Spada, presso cui scrivo questa lettera, ebbe da me il brano di foglio dove parlavi di Lepri.
Te ne darà risposta qui sotto.
Tutti ti salutano; e tu salutami tutti, tua moglie, le tue figlie e Gigi, al quale farai un bacio per mio conto.
Ti abbraccio di cuore
il tuo Belli.
LETTERA 286.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, lunedì 14 maggio 1838
Mio caro Ferretti
Tu mi hai mandato due Pattòli, due Rios de la Plata.
Ma io giovedì udii all'Arcadia un altro epigramma giocoso (del medesimo fabbricatore che aveva lavorato quello sull'arte metrica) da incacarne tutti i tuoi poetici fiumi auriferi e argentiferi.
Dopo scritta la mia di sabato 12 la lasciai a Spada affinché aggiuntovi infine quanto dovea dirti del suo, la portasse a Lopez giusta le istruzioni da te lasciatemi.
Quindi passai da Lopez a prevenirlo.
Ma andato Spada da Lopez colla lettera, egli risposegli che pel giorno appresso, cioè per la domenica, avrebbe mancato di occasioni.
Checco allora stimò ben fatto l'impostartela onde non ti tardasse troppo la risposta di Lepri.
Jeri poi venne Checco da me a parteciparmi il suo operato.
Ora io non so se tu mandi alla posta.
Dunque se non ci hai mandato, mandaci e troverai la mia del 12.
Ed ecco nuovamente il tempo che ti dà guerra! ecco l'acqua ecco il freddo, ecco il diavolo e la versiera.
E quel povero Gigio? La febbre?! Pare veramente che siavi un destino deputato a perseguitarti.
Dopo averti assicurato della estrema parte che io prendo alle tue traversie non posso conchiudere se non colla solita parola: pazienza.
Abbici pazienza e coraggio; ché già né di questo né di quella ti manca.
L'abitudine del soffrire ciò in noi produce di buono che ci fa dura la pelle.
Tornai jeri mattina in casa Pazzi.
Tutto va bene; e Carolina, pulita e splendente come un ermellino, mi dette il tuo plico de' tesori albanensi.
Or ve' dove s'è cacciato l'intruso Apollo col plettro in mano e l'archibuso al collo!
Appena piegata la presente passerò da Lopez e gliela consegnerò.
Salutami capo per capo tutta la tua famiglia e raccomanda la prudenza a chi n'ha più di bisogno.
Non è stagione questa, né codesto è clima da prendersela ariosa.
Ti abbraccio di vero cuore.
Il tuo Belli.
LETTERA 287.
GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, 16 maggio 1838
Mio caro Ferretti
Tornato io a casa dall'Accademia Tiberina la sera di lunedì 14 vidi sul mio scrittoio la tua del giorno precedente; ed apertala, e trovatavi in seno l'altra per Annamaria, subito mi condussi alla costei abitazione onde il ricapito non le tardasse un momento.
Annamaria mi disse che le tue lettere, dentro alle sue ritrovate, le porterebbe Michele nella mattina seguente (jeri 15) a coloro cui erano dirette, cioè ai Sig.ri Terziani, Giobbe e Lopez.
Io passai jeri da quest'ultimo, e seppi aver puntualmente ricevuto il tuo foglio, al quale avrebbe risposto pel mezzo del Sig.
Sigismondo, consegnando a lui ancora quante carte avesse per te sino all'istante della di lui partenza.
Vi aggiungo io però questa mia per dirti che jeri mattina, circa alle 3 pomeridiane, partorì Orsolina molto felicemente, e tanto felicemente che la creatura usciva mentre la levatrice entrava: di maniera che tutti i preliminari accadessero senza la cooperazione della Signora Comare.
Quando il feto avrà avuto il battesimo sarà una Cecilia come l'ava paterna.
La famiglia Pazzi sta tutta bene.
A casa tua ogni cosa va in regola.
Giovedì secondo le tue istruzioni sborserò la prima rata ebdomadaria di bai: 15 per sollievo del povero Peppe, che aspetta sempre la carrozza.
Un poco più in là consegnerò il salario alla Carolina.
I paoli 15 gli avrà poi la madre quindici giorni dopo accadutogli quel che accadde jeri ad Orsola.
Tutto andrà in regola etc.
iuxta mentem.
Sul resto riposa.
Nelle due notti scorse ha qui continuamente diluviato.
Se in Albano è accaduto altrettanto, avrai almeno potuto dire: Nocte pluit tota, redeunt spectacula mane.
Ho veduto Maggiorani e te l'ho salutato.
Noi avremmo voluto venire in Albano domani, ma il tempo non è da incoraggiare alle peregrinazioni.
Salutami l'ottimo Rossi e digli tutto questo, e rallegrati con lui per la guarigione della sposina.
Il Boschi è arrivato, o, dico meglio, il Bosco.
Vedrò di sapere quando agirà per avvisartelo in tempo.
Ma se mai si producesse Venerdì, né io arriverei ad avvisarlo né tu arriveresti a' suoi giuochi, che mi dicono essere vere diavolerie.
Lunedì al Caffè nuovo faceva sparire sino direi la panchette e i lampadari.
Vinse poi tutti al bigliardo, giuocando egli a stecca volante.
Tutte notizie datemi da Cencio Rosa, perché sai che io non frequento i caffè.
- Confortato assai dalle migliori nuove che mi dai del tuo Gigio attendo ansiosamente di udirlo al tutto guarito.
E mi dirai come se la passa Cristina.
Già, la stagione non sorride finora ai convalescenti.
E tu, mio Ferretti? E la tua gamba? Sei costretto a tenerle compagnia dentro casa? Voilà ce que c'est que d'avoir des jambes.
Ma il male passa e le gambe restano.
Lunedì il Sig.
D.
Fabio etc.
recitò un Sonetto in Accademia Tiberina, per la morte di un virtuoso suo amico.
Se la prendeva colla Morte perché fura i migliori e lascia stare i rei.
Leggi ora quest'altro, scritto da certa persona che v'era presente.
Jer sera un galantuom di que' cotali
Da ricordar con rispetto parlando,
Siccome il galateo mostraci quando
Ci accada nominar piedi o maiali,
Un Sonetto leggea contro il nefando
Stil che tien Morte nel vibrar suoi strali
Contro la miglior parte dei mortali,
Mentre poi la peggior lascia campando.
Morte, ei gridava, ah intendi a' prieghi miei;
E se pieno vuoi sempre il cataletto,
Risparmia almeno i buoni e ammazza i rei.
Zitto, io gli dissi allor, sii benedetto!
Che se morte t'ascolta, ahimé, colei
Non ti fa terminar manco il Sonetto.
Mille parole amichevoli alla tua famiglia, e credimi sempre il tuo aff.mo Belli.
P.S.
Dicono che sia fuggito per debiti quel Betti che cantava e giuocava di bussolotti.
Tordinona, pieno come un moggio di miglio andò alle stelle.
Argentina fiaccheggia.
La ex Regina del Piemonte va avanti e dietro pel Corso con due carrozze e un battistrada.
E noi a piedi! Seppure.
Torlonia, pochi giorni addietro, pagò settemila scudi in oro sopra bellissima cambiale falsa.
- Vogliono stampare sull'Album il mio Goticismo.
LETTERA 288.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, sabato 10 maggio 1838
alle 9 antimeridiane
Caro Ferretti
Mercoledì sera io fui da Anna Maria, e la lasciai senza indizi di parto.
La mattina appresso udii che aveva partorito.
Lasciai passare la giornata di giovedì, per convenienza, e jeri mi recai a visitarla.
Si lagnava di molti e ripetuti dolori.
Peppe, udendo piangere il bambino, prese un bastone e voleva darglielo in capo, dicendo: Mamma, mandalo via.
Non venimmo, Maggiorani ed io, in Albano giovedì 17 perché il dottore disse che se il mercoledì non si vedeva il tempo disposto al buono non sarebbe stata prudenza l'avventurarsi a una gita incomoda e trista.
E mercoledì fu pessimo tempo, benché neppure giovedì consolasse.
Benché però si fosse avuto nella giornata di venerdì un paradiso, non erasi in tempo di decidere, giacché bisognava partire a buon'ora, e di più doveva il Dottore affidare altrui i suoi infermi sin dal dì precedente.
Hoc dices Rossio, sigaristae praeclaro.
Pare che il Bosco darà la sua prima serata venerdì 25.
- Balestra gli fa il ritratto in litografia.
Jeri mattina venne qui in casa (io non c'era) e fece girare il capo a queste donne, che già non ci vuol molto.
Volava tutto.
Alla trattoria di Lepri sono scene.
Ma lasciamo il Bosco e passiamo alla Casa e alla famiglia.
Mi congratulo con te di vero cuore pel miglioramento di Gigio.
Di te mi davi buone notizie nella tua del 14: nella seguente poi del 17 non me dici parola.
Ne auguro bene; e rispondendo io qui ad entrambe voglio più fidarmi il cuore a questa che a quella.
Tutti gli amici ti salutano senza fine, e fanno sempre voti per la tua tranquillità e per quella della tua famiglia sì amabile.
Biagini e Spada mi dicono sempre mille cose affettuose per te.
Orsolina sta bene.
Da Anna Maria ci tornerò dentro la giornata.
Abbiti cura, e di' altrettanto in mio nome a tua moglie e alle figlie.
Ti abbraccia in fretta il
tuo Belli.
Monte della Farina, n° 18.
LETTERA 289.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, 19 maggio 1838 (sabato)
ore 7 pomeridiane
Mio caro Ferretti
Questa mattina ho risposto alle tue del 14 e del 17.
Lopez non aveva occasione per inviarti il mio foglio.
Dal suo negozio son dunque passato alla casa di Zampi.
Egli non c'era, ma ho lasciato la lettera al servitore raccomandandola etc.
etc.
Dopo il pranzo poi mi è giunta dalla posta l'altra tua di jeri (18).
A questa do immediato riscontro.
Anna Maria sta bene, Carolina bene, Peppe bene, gli Stortini bene, la forca di Checco bene...
peccato! Paradiso Santo! - Il neonato bene anch'esso.
Ho poco fa dato una rivista alla tua casa, aprendo tutte le finestre.
Fra un'ora Carolina le richiuderà.
Si aprono due volte al giorno, motivo per cui non vi è difetto dell'elemento sì geniale à Madame Thérèse Ferretti e a tempo e fuor di tempo.
Avrei voluto trovarmi presente all'asinesco trionfale ingresso a Castello.
Cosa da inginocchiarsi come avanti alla Mula del Papa.
Va bene: così le tue ragazze si scuotono e si divagano.
Ma per!...
ci attaccherei un moccolo.
Questa tua gamba che diavolo ha? Se non fosse gamba tua gliela farei passar bella.
Chi è il Santo delle gambe? Gli vorrei dire un pater noster per te.
Ma ne dimanderò o al Gambalunga o al Gambacurta, o all'Abate Sgambali che lo dovrebbe sapere.
Anche Gamberini e Zampi ne debbono aver conoscenza.
E il Cianca nostro no? E Checco e Cianca e le Pagliari, e la Balestriera e la Mazieria, e tutti ti dicono vale valete et valetote.
Bacia la mano a tutte le tue Signore per me.
Veramente è un po' temeraria questa mia commissione; ma vedi? Anche Anna Maria mi ha affidata Carolina per visitare da solo a sola il tuo appartamento.
Povero quel galantuomo che merita tanta fiducia! Privilegio de' vecchi.
Eppure anche questo è qualche cosa.
Ogni età ha i suoi mali e i suoi beni.
Eppoi che dice Barbara? Anche Quadrari è un buonissimo galantuomo.
A momenti viene la carrozza per battezzare questa Cicilietta.
Ho fatto l'ambasciata segreta ad Anna Maria.
Ne ha molto goduto.
E come no? Bona signa! Io plàudite, io!
Sono andato questa mattina a trovare Maggiorani e la moglie per salutarli in tuo nome e della tua famiglia e de' coniugi Rossi! Verremo in questa settimana? Uhm! De futuribus contingentibus e quel che segue.
Ti ringrazio delle notizie dei piselli, delle fave, del pesce, delle provature, della ricotta, del maiale, delle aringhe, dell'acqua, del vino, e di padron Paciocco portabandiera di Bacco.
Ma come scrivo eh? Altro che i bei caratteri
Nati di gota e longobarda lega!
Ma che vuoi? La fretta sempre mi si divora, né ho pur tempo di temprare la pena.
Tu sei buon lettore come scrittore.
Dunque leggi quel che trovi e buona notte.
Fra le tue istruzioni c'è Dare Sc.
2 ad Annamaria 15 giorni dopo partorito.
Se non hai ragioni particolari in contrario non si potrebbe accelerare qualche giornetto? Potrebbe, povera donna, averne bisogno.
Benchè non ne sappia nulla gli arriveranno come due angioli.
Ti abbraccio, e tu abbraccia
il tuo Belli.
LETTERA 290.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, martedì 22 maggio 1838
ore 4 1/2 pomeridiane
Mio caro Ferretti
Rispondo a tre tue lettere, due cioè di domenica 20, ed una di jeri 21.
- Portai io stesso la tua lettera a Firrao.
Egli non era in casa ma parlai colla madre e colla nonna, le quali con molta ilarità mi ricevettero, e, parlando di te, mi ripeterono più e più volte che se tu dai una sfuggita a Roma ti voglion vedere.
Jeri al giorno venne da me Carolina in fretta in fretta.
Dice: Sig.
Giuseppe, Lanari ha mandato questa chiave pel Sig.
Giacomo.
Io l'ho presa, ma crede mamma che abbia fatto male a non dire che il Sig.
Giacomo non è a Roma.
- Dico: Dunque? - Dunque, dice, mi ha detto mamma che la portassi a Lei.
- Ed io, dico, che n'ho da fare? - Dice, eh faccia un po' Lei, Perché il Sig.
Giacomo dovrebbe venire a Roma stasera.
Per veder chiaro in questa faccenda e per regolar la cosa in modo che non ti spiacesse il rifiuto della chiave nel caso che tu venissi, io me n'andai dal Sig.
Sigismondo, dicendogli: Sig.
Sigismondo, la cosa sta di qui fin qui.
Eccole la chiave in anima e corpo.
Se Ferretti viene, come anch'Ella crede, gliela dia: se Ferretti non viene, Ella se la tenga: e se Ella non se la vuol tenere la rimandi a Lanari onde Ferretti non contragga obbligazioni senza suo frutto dentro.
Egli mi rispose: è quasi certo che Giacomo verrà, ma se pure non venga, in tutti i modi voi ritenete la chiave e andate al teatro.
Con questa autorizzazione mi misi in giro e procurai che se tu venissi all'improvviso ti trovassi nel palco in mezzo a' tuoi amici: Biagini, Spada, Zampi e me.
Poi eccoti che mi pianto a casa d'Annamaria ad aspettarti.
A mezz'ora di notte non eri arrivato.
Intanto arrivò il battezzato Sante Luigi seguito da un bel fiasco di vino e da un piattone di biscottini.
Ci fu anche la parte mia, ma sul vino feci passo.
E mi godetti i bei propositi delle varie commari, fra le quali la commare nera.
A 3/4 di notte me ne andai lasciando ordine a Michele che se tu arrivassi venisse a chiamarmi.
All'1 1/2 eccoti Michele ad avvisarmi che sul mio portone v'era Zampi.
Mi vesto e discendo.
E Ferretti? Uhm! - E Ferretti? Eh! E ce ne andiamo insieme al teatro ad aspettarti.
Suonò mezzanotte, e tu stavi ancora in Albano.
Questa mattina mi ha detto Pippo Ricci: hai veduto Ferretti che venne a Roma ieri sera? - Non è venuto.
- Ma come?! Mi disse ieri che partiva a 21 ore! - Che vuoi che io ne sappia? non è venuto.
Annamaria così mi ha detto un'ora fa.
- All'1 e 1/4 pomeridiane da capo Belli da Annamaria.
Nessuno.
Rientrato in casa trovo la tua di ieri dove non si parla di viaggio, ma di progetti di viaggio etc.
etc.
Adesso torno da Annamaria ad ordinare il preparamento dei tre articoli di vestiario da te indicatimi.
Bosco è inquietissimo per le ebreate del Sig.
impresario Iacoacci.
Gli frulla di andarsene senza far giuochi, e piuttosto dare accademie fra qualche mese quando sarà vuoto Argentina.
Alibert è troppo lontano; Tordinona...
eh, Tordinona...
è Tordinona...
e non so se Tordinona, o Torlonia, o che so io...
basta: Bosco è colla mosca al naso.
L'ho veduto poco fa da Balestra che gli ha fatto il ritratto in litografia.
Bello.
Procurerò di veder Maggiorani.
Ma potrà egli, ma vorrà egli venire giovedì? Chi lo sa? Credo che a Rossi converrà aver pazienza, e rivederlo a Roma.
Io verrò (se non con lui) in altra compagnia e in altro giorno, quando me lo permettono l'atmosfera, la salute e gli impicci.
Tutti i salutati ti risalutano.
Tu di' mille cose amichevoli per me alla tua famiglia ed a' coniugi Rossi.
Consola Gigio, compatisci la tua gamba, sopporta me e le mie ciarle e prega Iddio che ti mandi piselli a scafare in compagnia delle tue buone figliuole.
- La famiglia Pazzi sta meglio de' suoi parenti della Lungara.
Sono con la testa imbrogliata e il sangue acceso.
Il tuo Belli
P.S.
La Pia, musica assai iona.
Adesso trovo in casa d'Annamaria un'altra tua del 20, recata ora dal Sig.
Nicola.
Vado a portare a Lopez la striscetta scritta per lui.
So che Bosco vuol venire a trovarti in Albano.
Ho fatto le ambasciate sui 3 articoli di vestiario.
LETTERA 291.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 22 maggio 1838
Mio carissimo figlio
L'esito de' tuoi esami, notificatomi dalla tua lettera 19 corrente, mi ha pienamente soddisfatto siccome tu prevedevi.
L'ho voluto confrontare con quello del trimestre antecedente, e vedo che gli corrisponde.
La sola differenza consiste in ciò che nell'altro trimestre ottenesti da' Signori esaminatori un bene con più in umanità, e invece nella stessa scuola ti è oggi toccato dai medesimi esaminatori un bene semplice.
Ma a questa lieve differenza è pronta un'ampia compensazione nella totalità de' voti da te riportati in tutto il trimestre, imperocchè in un numero di lezioni minore di quello del trimestre antecedente la relativa proporzione degli ottimi è maggiore, e di più non vi si trova alcun male, mentre in febbraio me ne annunziasti pur due.
Ecco il confronto, da me ricavato esaminando le tue lettere, perchè, come tu sai, io le conservo tutte, e così bramo che tu custodisca le mie.
So peraltro che tu in ciò mi compiaci.
Nel primo trimestre
Trigonometria:
Ottimi N.
28
Beni.........
11
Mediocri...
1
_________
Voti....
N.
40
Nel secondo trimestre
Geodesia:
Ottimi N.
19
Beni...........
3
Mediocri...
1
_________
Voti....
N.
23
Umanità:
Ottimi N.
63
Beni.........
42
Mediocri...
6
Mali..........
2
_________
Voti N.
113
Umanità:
Ottimi N.
63
Beni.........
23
Mediocre..
1
Male.........-
_________
Voti N.
87
Riepilogo totale fra le due scuole:
Ottimi in tutto N.
91
Beni.......................
53
Mediocri................
7
Mali.......................
2
_______________
Voti in tutto N.
153
Riepilogo totale fra le due scuole:
Ottimi in tutto N.
82
Beni.......................
26
Mediocri.................
2
Male.......................
-
________________
Voti in tutto N.
110
Dal soprascritto specchio risulta dunque una crescente proporzione di buon successo ne' tuoi studî ed io te ne sono gratissimo.
Bravo, Ciro mio.
Mi è piaciuto di vedere il Conto delle spese semestrali fatto da te stesso per ottimo consiglio del prudentissimo Sig.
Rettore.
Nulla trovo a ridire su quelle partite e tutto va benissimo.
Ti prego dire al Sig.
Rettore che un poco più in là manderò qualche altra cosa per ristorare l'assottigliato deposito.
La tua forchetta va spesso soggetta a rompersi.
Quando verrò a Perugia, ciocché sarà forse nel futuro agosto, vedrò di rimediarci stabilmente facendola cambiare in altra intiera e più solida.
Io sono persuaso, mio caro e buon Ciro, che tu abbia sempre viva la memoria della tua eccellente madre; ma pure voglio per tempo riavvalorarti il pensiero circa al giorno in cui ella ritornò fra le braccia del Signore.
Ciò accadde nella domenica 2 luglio.
Vorrei dunque che nella domenica 1° luglio di quest'anno tu facessi le sante divozioni in suffragio di quella bell'anima, se mai a Dio piacesse di tenerla ad espiare qualche sua fragilità.
Ritorna i miei ossequi rispettosi a' tuoi Signori Superiori e a' nostri amici di Perugia.
Questi di Roma, e così i parenti e gli antichi domestici, fanno altrettanto con te salutandoti affettuosamente.
Fra gli altri ti dice mille cose il Sig.
Avv.
Grazioli, padre di Pietruccio tuo antico compagno.
Ti abbraccia e benedice
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 292.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, 29 maggio 1838
Caro Ferretti
Ieri al giorno, nelle sale dell'Accademia tiberina mi fu da Zampi consegnata una tua del 27; ed io già dalla mattina ne aveva depositata una mia per te presso il gobbo.
Il Rosso ebbe i tuoi bai: 40, dicendo ruvidamente: mbè.
A proposito del piccione amico del tuo Gigio, il Padre Secchi lesse all'accademia un mezzo migliaio d'ottave nelle quali si parlava di un certo angiolo che Sisto V° voleva acchiappare per le ali.
Non fu chiaro se lasciò nessuna penna fra le mani del Papa, ma anch'esso come il tuo piccione si sottrasse alla divota persecuzione.
L'angiolo raccontò a Sisto V° la storia romana e gli dipinse tutte le brutte morti degl'imperatori cattivi: e tutto questo affinché il Papa innalzasse la guglia di S.
Pietro.
Ci vedi chiaro? Degli astanti non poté vedere chiaro alcuno, perché tutti finirono con gli occhi serrati.
L'accademia fu affollata di gente e di versi.
Della prosa Salviana parleremo a voce.
Moltissimi tiberini, primo fra' quali il Padre Rosani, mi dissero di salutarti, e fan voti per la tua povera cianca.
In questo però i primi voti sono i miei.
Finora resta ferma la Zampiano - mia venuta per domenica 3.
Il tempo però potrebbe imbrogliarla.
Oggi è nuvolo e puzza di cacio.
Raccomandati i canarii e il gatto.
Parlato dei letti pel 26 giugno.
Salutati e salutandi.
Contraccambio di tutti.
Di cholera in Roma non si parla, almeno per ora.
Il neonato di Annamaria si è gonfiato nelle parti sessuali.
Vedremo che sarà.
Per me direi: paradiso santo.
Bosco altercava domenica, al giuoco del pallone, con Iacoacci e Mitterpoch e Tassinari etc.
Povero Bosco! - Lo udì Biagini.
Addio, addio, a te e alla tua cara famiglia.
Ti abbraccia
il tuo Belli
P.S.
È venuto Chimenz a visitare il bambino di Annamaria.
Non ne pare spaventato affatto.
Ha ordinato frequentissimi bagnoli di bollitura di malva e papavero.
LETTERA 293.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, 30 maggio mercoledì 1838
ore 9 1/2 antimeridiane
Mio caro Ferretti
Alle ore 7, cioè due ore e mezza fa, ho avuto due visite contemporanee e relative entrambe al mio buon Ferretti: la prima era dello stalliere di Mandrella con un tuo plico di ieri 29, contenente lettera per Zampi e lettera per Cavalletti: la 2a dell'esattore di Torlonia (era il Sig.
F.co Costantini) il quale mi disse: È lei il Sig.
Belli? Ego sum.
- Fa lei gli affari del Sig.
Giacomo Ferretti? - Distinguo.
Li faccio e non li faccio.
Cose di famiglia sì: cose patrimoniali no.
Ma perché questa domanda? - Perché ho qui una cambiale di Sc.
329:40 tratta dai fratelli Giacchetti di Prato a carico di Lorenzo Magni e pagabile dimani 31 al domicilio eletto presso il Sig.
Giacomo Ferretti.
È dunque necessario il sapere dentro domani 31 se il Sig.
Ferretti abbia o no fondi del Magni, e se possa fornir notizie al Banco Torlonia su chi abbia o dove si abbia a pagar la cambiale.
Partito l'esattore ho pensato recarmi presso tuo fratello se mai avesse qualche cognizione di questo affare.
Nulla me ne ha saputo dire, se non che dubitava esserci forse un equivoco di nome (altra volta accaduto) fra te e Giovanni Ferretti libraio alla Minerva.
Ed io troccola dal Sig.
Giovanni alla Minerva.
Non c'era.
Sta qua, sta là: da Ercole a Pilato: da Caifasso ad Anna.
Finalmente l'ho trovato.
Il Sig.
Giovanni si è stretto nelle spalle ed ha fatto il nescio-nescionis.
Non ha egli alcun fondo, non conosce il Sig.
Magni (che se lo mangi il demonio) non sa nulla né di cambiale, né di Torlonia, né di domicilio.
Se ne avesse avuto sentore io correvo subito da Torlonia per risparmiarti questo fastidio, benché poi il debito non è tuo, e se un matto si è dato commercialmente per tuo ospite, senza manco avvisartene, suo marcio danno.
Intanto però correrà il protesto, ci sarà la multa della cambiale non bollata: nasceranno spese, conti di sconti: conti di ritorno ed altre simili bancarie gentilezze.
Io te ne scrivo subito.
Se tu mai (ciò che non credo) ne avessi sentore fa che domani 31 Torlonia ne sia avvisato.
Intanto mi raccomanderò al gobbo che la presente per costà non ti manchi.
La tua per Zampi l'ho consegnata alla Sig.ra Teresa.
L'altra pel Cavalletti, l'ha presa dalle mie mani il Franceschini in assenza del principale.
Ma vedi mia insolente temerità.
I nomi rapprossimati di Bosco e di Cavalletti, il ravvicinamento delle due idee Accademia e Giornale mi hanno messo in pizzicore di Tiresia o di Trofonio.
Tu dovresti aver parlato a Cavalletti del Bosco, perché del Bosco parli poi Cavalletti a noi altri profano volgo.
Eh? ho imparato la divinazione col metodo angloamericano in 12 lezioni.
Che se ho fatto cecca indovinerò una altra volta.
Neppure i profeti del vecchio testamento erano sempre di vena.
Tuo fratello mi ha dato la qui inclusa pel Sig.
Vice-governatore.
Eccotela: dagliela.
A casa tua va tutto in regola.
Annamaria presto andrà a darci le mani attorno.
Questa mattina il bambino di lei è più gonfio di ieri sera.
Si è mandato a richiamare Chimenz.
L'edema è montato all'umbilico.
Me ne dispiace, ma pure un fanciullo di pochi giorni, in una famiglia di tanti fanciulli e quai fanciulli! Con mezzi di fortuna equivalenti a centesimi...
Non è meglio il paradiso Santo? Io lo ripeto convinto del sì.
Ma la madre è sempre madre.
Visaj nulla ancora ha per te.
Pippo Ricci ti saluta e ringrazia.
Lopez l'ho visitato adesso: ti saluta anch'egli.
I Balestra? gli Spada? i Biagini? Ti salutano.
E tu non vorrai salutarmi alcuno? Sì.
Salutami tua moglie, e Cristina, e Chiara, e Barbara, e Gigio, e il piccione di Gigio, e Rossi, e la moglie di Rossi, e Albano, e il lago di Albano, e Ferretti e il cuor di Ferretti: la miglior cosa che sia nel mondo.
La carta è finita: dunque finisca la lettera; ma non finisca no mai l'amicizia e gli amplessi del tuo frettoloso
Belli
LETTERA 294.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, giovedì 31 maggio 1838
ore 7 1/2 pomeridiane
Mio caro Ferretti
Mezz'ora fa ho ricevuto da Annamaria, e Annamaria da Belardini, la tua del 29 con entro l'Ode del Borgo pel Bosco, soggetti spessissimo confinanti.
È bella.
In un paio di luoghi mi pare un po' contorta; ma, ti ripeto, è bella, e te ne ringrazio.
A proposito di versi il R.S.P.M.
mastica alquanto sulle mie ottave antigotiche.
Il P.
Rosani ha assunto di aprirgli gli occhi, e sarebbe meglio la testa.
Manco male che mi dai una volta buone notizie della tua gamba, oltre quella sulla miglior salute della tua famiglia.
Che la prosperità tua e la loro imiti il suono della fama che crescit eumdem, come si spiega il ch.
Tommaso Manzini.
E Gigio ha ragione: il sole è callo.
Avrà anche ragione un altro giorno quando dirà è tonno e sbrilluccica.
Bisogna mandare questo ragazzo a Greenwich.
Ho pagato bai: 05 invece di 03 per la canapuccia.
V'era un conto vecchio per derrata canepucciaria che finiva questa sera.
Dunque ho fatto come Giano: ho guardato dietro e avanti.
Il Peppe Pazzi, più pazzo di cervello che di cognome, ha ricevuto oggi la sua sportula e il suo congiario settimanale.
Sta bene, salta e bastona.
Annamaria è afflittarella.
Il povero suo bambino, il Sante già sta fra i santi del Paradiso.
Però intende anch'essa il favore che può averle in ciò fatto la provvidenza.
Dunque si rasserenerà presto.
L'edema progrediva.
Ieri mattina, chiamato, tornò Chimenz e disse: Ma siete curiosa! volete voi che il gonfiore passi tutto in un colpo.
Ci vuole il suo tempo.
E il tempo infatti l'aumentava.
Verso sera cessò il bambino di poppare.
Nella nottata è uscito da questo pantano senza imbrattarvisi un'unghia di piede.
Cielo rubato, e furto senza gastigo.
Credo che questa morte equivalga a vita per Peppe.
Con quel Santino di mezzo lo vedevo brutto.
Difatti le due comari (la nera e la gialla), (coccarda austriaca) dicevano oggi: stà alegri, Peppe, ch'ai arisalito lo scalino, e abbada de nun riscègnelo.
A questo però ci deve badar più la madre e il Sig.
Michele.
Spero che la mia di ieri, 30, consegnata da me stesso in propriis manibus gobbi-met, ti sarà giunta.
V'era dentro una lettera di tuo fratello, pel Vice governatore, e v'era il mio avviso della faccenda Torlonia.
Non ci vedo più a scrivere.
Suona l'ave Maria e il lume non è acceso.
È ora di finirla e andare a visitare padron Giuseppe il gibboso per mettergli la presente sulla coscienza.
Vammi salutando le tue donne e il tuo cavaliere astronomo.
Non trovo mai Zampi in casa onde combinar per domenica.
Cercherò Rossi per dargli il ben tornato.
E mi sa mille anni di darlo a voialtri, tutti rossi come cardinali e grassi come fornitori.
Sono il tuo Belli
Orsolina ha il petto indurito a destra.
Teme.
LETTERA 295.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, 1 giugno 1838 al mezzodì
Mio caro Ferretti
Ieri sera, a due ore di notte, un quidam in abito verde-aspetta, col pistagnino di velluto nero-pallido, bussò alla porta di mia casa.
Io dimandai: chi è? - Amici.
- A questa bella risposta aprii e mi udii chiedere se fosse in casa il Sig.
Luogotenente Belli.
- Belli sì, e il luogotenente no, io risposi.
- Dopo non poche parole si venne a concludere che il quidam aveva in tasca una lettera per me, trovata da lui (egli diceva) all'albergo della Palombella.
Trovata! Come! Trovata! - Insomma era la tua del 30 maggio.
Fatta la consegna il Sig.
latore non se ne andava, ma si diffondeva sulla porta in complimenti disinvolti franchi e sugosi, come quelli del figlio del Sig.
padre.
Mi venne l'inspirazione di offrirgli la mancia per l'incomodo, ma una altra inspirazione non meno persuasiva mi diceva: non gliela dare, perché infine l'esteriore del quidam tanto poteva imbarazzare una offerta quanto poteva compromettere un vado-liscio.
Vinse la inspirazione del no, e in compenso feci lume per le scale, onde colui non si facesse male.
Buggiarà la tua gamba e glielo dico di cuore.
Ah! se ne avessimo quattro da far due leva e due metti!
Annamaria si va tranquillizzando.
Sta bene e così tutti.
Quando questa mattina mi enumerava i saluti da darti per tutta la famiglia, quel biricchino di Peppe ha finito il discorso dicendo: e a Gigio.
Pare fermo che verremo domenica: Zampi, la moglie ed io; e per compiere la carrozzata pensa il tuo compare di aggiungerci il Goto-Checcomaria.
Tuo fratello mi darà un involtino per te, forse.
Ho visitato Rossi.
Come è vegeto! La moglie non era vestita, perché son ito mattino.
Mi ha mostrato la cartella o il portafoglio del Mago.
Ti saluta.
Le notizie della vecchierella Firrao le ho dalla bocca del Canonico che ti riverisce a nome di tutti.
Sta meglio, povera vecchietta.
Insomma bussa bussa e non le aprono mai.
Meglio così.
Vivano le tue gagliarde camminatrici! Salutale sino alla noja, che abbiano a dire: basta per carità.
Checco, Menico, e questi miei ti mandano mille vale e valete.
Pigliali per moneta fina e spendili meglio che puoi.
- Sono di cuore
il tuo Belli
LETTERA 296.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, sabato 2 giugno 1838
ore 9 antimeridiane
Mio caro Ferretti
Dal sig.
Bennicelli, a condotta di un garzoncello in grembial da cucina ravvolto attorno al capo, ho in questo momento ricevuta la tua lettera del 31 maggio.
Lode a Dio che non la è un uovo da bere: altrimenti sarebbe giunta un poco stantìa.
Dunque allorché tu la scrivevi ignoravi la fine del povero Sante Luigi, il quale appena affacciatosi allo spettacolo del Mondo ha richiuso le finestre e non ne ha voluto più sapere niente.
Io te ne parlai appunto nella mia del 31, e te ne ho replicato nell'altra di ieri.
Annamaria benché avente viscere di madre, va a conoscere il bel cambio fatto dal figlio, e la diminuzione de' propri imbarazzi domestici.
Solo de' patimenti di nove lune non le resta un compenso.
Lo avrà nelle intercessioni di un angioletto.
Ora io esco di casa e vado a trovarla.
Se nulla v'è oggi di nuovo lo aggiungerò appresso in lapis.
Peppe Pazzi accenna grandi disposizioni per l'arte del pionnier o direm noi del marrajuolo.
Carolina è rubizza: Checco, vassallo; Vincenzo e Pietruccio storti de cuore.
E per essi il paradiso non verrebbe come l'anello al dito? Eppure campano! Ma di qual vita! Ah! qualche volta sarei tentato di trovar pietosa la legge di Sparta.
Ma volgiamoci a idee liete, e parliamo della tua cara famiglia.
La comare-di-ferro dello Zampi, che all'alimento del Camaleonte sa talora accoppiare anche il più sostanzioso delle umane mense, che fa? dev'essere venuta invidia di Misuratori e maraviglia di peso.
Iddio la dilati in peso e misura di salute: amen.
La Cristina, nostro bilunare spavento, che dice? È ella contenta dell'atmosfera di Ascanio? Le gambette sue fanno più cecca? Credo di no, e mi aspetto di trovarle domenica (domani) sulle guance due belle tinte di rosa e di ligustro.
Ligustro! Mercanzia arcadica.
La buona a casereccia Chiaruzza ha ella mandato a baboriveggioli i suoi pedicelli? Le voglio veder domenica (domani) una pelle liscia e tirata come quella di un timballo, ma strategico e non gastronomico.
La Barborin speranza d'ôra, come disen i milanesi, si divora libri come Saturno figliuoli? Le vuo' portare i volumi di V.
Tomaso, operetta istruttiva e dilettevole da passare il tempo in oneste veglie e piacevoli conversazioni.
Ed eccotela fare il suo significativo sorriso, e dire a mezza bocca quel Caro.
Mi sta in testa che Barbaruccia è più allegra delle altre.
Quella sua viva mente si commuove ad una lieve scintilla.
Buona ragazza! Ma già in casa tua chi non è buono? Io quando ci capito.
E Gigio? E il faccione, guancione, capoccione, scapiglione? Come vanno gli amor col suo piccione? Tengo dieci dozzine di buchi belli e fatti da applicarglieli domenica (domani) attorno al collo come una collana di coralli.
Dunque, sissignore, domenica verremo.
Zampi e la sua Teresa,
Belli, uom di poca spesa,
E il teutonico Piave
Da tenerselo caro e sotto chiave.
Tuo fratello mi parlò dell'agosto albanese.
Peccato che le tue Dame non veggano per quest'anno il lago di piazza Navona! E peggio sarà che, quando torneranno, Belli...
ohé, ohé, ho sbagliato mese.
Si trattava di luglio e non di agosto, Ebbé? che male c'è? Si sbaglia tanto sugli uomini, che può perdonarsi un quivico da lunario.
Sono il tuo Belli
Della tua cianca mi vengono i fumi.
LETTERA 297.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, giovedì 7 giugno 1838
ore 7 1/2 antimeridiane
Caro Ferretti
Riscontro quattro tue lettere ricevute da me ieri nel seguente ordine di consegna:
1a 5 giugno 1838 - portata dal gobbo-met.
2a 4 giugno 1838 - Ore 2 1/2, a cena - portata da anonimo
3a 4 giugno 1838 - datami da Lopez
4a 6 giugno 1838 - ricapitatami dal viaggiator Menico Cianca.
Nella prima mi partecipavi la sospensione di un viaggio metu israeliticae societatis, epperciò il ritardo di un'altra tua lettera.
Portai subito le incluse a Zampi e a Piave.
- Fa' tesoro delle voci e neologie del tuo Gigio.
A suo tempo se ne potrà formare una nuova Proposta.
Vedrai che il ragazzo a poco a poco scioglierà i passi.
Io credo che la difficoltà del camminare dipenda soltanto dal modo di voltar le gambe colle punte de' piedi troppo in fuori.
- Son persuaso che nella collezione Leonardiana di farfalle avrai trovato di che divertirti.
Come godo che la buona Cristina azzardi già valorosa non lievi passeggiate! A questo proposito falle vedere gli acclusi versacci N.
14 e quindi accendici il lume.
Nella 2a trovo le cose non lette nella precedente pel detto motivo ebraico.
- Come sarebbe?! Aspetti le cerase dei cinquanta scudi?! Me ne rido.
Me le sono volute mangiar io.
Non son uomo da buttar via un piatto di quella spesa.
Pareva che lo stomaco nel digerirle si accorgesse di quel che teneva sullo stomaco.
Va a smaltire 50 scudi in una sessione! Non ci voleva che il budello di Marcantonio e la perla di Cleopatra.
La 3a mi istruisce dei rapporti fra il Divino amore e l'amore di vino, cose che in certi individui, in certi giorni, e in certe applicazioni, si ristringono dal binario al monadico e divengono un unum et idem.
Quale barbarie! e qual colpa in chi non la dissipa! Invece del cerusico io metterei in affare, per adesso, il boia, e quindi precettori e Catechisti di sociali doveri, e Iddio e la patria meglio dei crocesegnati.
Il tuo Petrarca in due tomi fu subito alloggiato al suo posto dietro al capezzale della tua cara risorta.
Ed eccoci alla 4a lasciata jersera chez-moi dal Biagino rivale del Gemelli-Carreri perlustratore del mondo.
Io non era in casa perché passai la serata presso il nostro Maggiorani rimessuccio in salutella piuttosto benino.
Eravamo in sette a dir minchionerie intorno ad una tavola, rotonda niente meno che quella di Arturo; cioè Maggiorani, Tavani, Luchini, Feliciani, Pasquali, Baroni e me infrascritta sagratario.
Mi son messo in ultimo per amor di Galateo; ma là eravam tutti eguali e a perfetta vicenda come già i grotteschi intorno al circolo bollettonario, salvator delle reciproche teatrali convenienze.
Aspettavasi il Rossi colla sposa, ma avranno preferito il riposo e qualche altra faccenda non simile.
Tutti que' signori, con più la moglie del Maggiorani,
...la sua sposa pudìca,
La Costa del suo seno, Elena bella
Diversa tanto da quell'altra antica,
ti dicono salve ed ave a bizzeffe.
Or ora porterò a Piave la letterina che per lui desti a Menico Cianca, siccome consegnerò la presente ad Annamaria onde la passi alle bisacce de' due pellegrini Michele e Giuseppe, i quali vengono a visitarti e sciogliere il voto nel vero santuario d'amicizia e d'onore: a casa tua.
Orsolina dovrà soffrire un taglio per mano del Savetti.
Vedo molta indifferenza in chi se ne dovrebbe disperare.
Eh mio Ferretti! Non omnes omnia.
Abbracci e saluti di tutti gli amici.
Il Lanci mi ha incaricato dirti aver lui preparato un colpo di scudiscio pel Betti, nominandolo e per Rosani non nominandolo, detrattori della Lanciana interpretazione sulla inscrizione della statua etrusco todina.
Cioè, Rosani non alluse nel suo Carmen alla interpretazione del Lanci, ma disse che il senso della inscrizione resterà misterioso per molti anni.
Longumque manebit in aevum.
Questo al Professore è dispiaciuto perché i poeti non debbono giudicare del valore dei paleografi già entrati in lizza, né presagire sui successi degli altri futuri dichiaratori di cose archeologiche.
Circa al Betti, che parlò chiaro e con poco rispetto del Professore D.
Michelangiolo, questi stamperà che colui è imbisognato di sparnazzare articoluzzi da giornale etc.
- Entrate le vacanze parte Lanci e va a Venezia a stampare.
Addio, addio: ho cento cose che mi tirano fuori di casa e mi tolgono alla tua compagnia.
Questa notte sono stato in letto tre ore.
Salutami perciò le tue Signore.
Il tuo Belli
LETTERA 298.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, venerdì, 8 giugno 1838
Ora 1 pomeridiana
Mio caro Ferretti
Con un solo quarto d'ora d'intervallo mi sono giunte questa mattina di buon'ora le due tue lettere della vigilia d'oggi, una per mano di Carolina, primogenita della famiglia antimedicea, e l'altra a condotta di un valoroso sans-culottes, vice-gobbo commesso del superior dicastero Mandrella.
Mezz'ora dopo le due accluse pel copricapo e quella pel capo-copri (Lopez cioè e Quadrari) giacevano tranquillamente ne' loro luoghi di salvazione.
La Pazza e non matta Carolina ebbe il prospero da 20 fichi largitogli in tuo nome da me cassiere, elemosiniere, complimentario, depositario, f.f.
etc.
della Maestà Sua Giacomo primo, secondo, terzo, sino al millanta.
I prosperi - Lambertini, alias papetti, commuovono i cuori e rallegrano le pupille.
La Carolina impapettata, con tanto più di rassegnazione soffrirà il tardato materno regresso.
Oh la tua appetitosa colezione castellana! I lattarini dentro la tua padella potevano dire ciò che testé ha detto morendo il Principe di Talleyrand, nel mostrare a dito un suo pronipote presso al suo letto di morte.
Vedete o signori, cos'è il mondo! Quello è il principio; questo è il fine.
Infatti i lattarini vedevano ancora il lago e già si trovavano nella padella.
Mi rallegro della letizia di tua casa allo sbarco di Peppe, il cui accompagnatore (nuovo Tiresia) mutò sesso, forse per opera di Bosco o dell'arco-baleno: diverso però in questo dal pupillo viaggiatore itacense, che a lui una Minerva femmina divenne un Mentore maschio, laddove al pellegrino de' Pazzi un maschio Michele si trasformò in una puerpera Annamaria.
Nè la bussolottata fra' due generi avrà certo prodotto fra voi che la haec trovasse minori accoglienze che l'hic.
Ai soli hoc mala ciera per tutto.
Ma [...].
Suggellisi questa scombiccheratura e passi dal mio scrittoio al pluteo del famoso gobbo di corte: che afferra i fiaschi e li condanna a morte.
Quindi fumeranno le Maziesche minestre,
E in quelle brodosissime lagune
Disseterem le nostre epe digiune.
Addio Giacomo più mio che tuo: ama il più tuo che mio
Geggebè
Mandoti di saluti una bisaccia
Da sparnazzarne in casa un tanto a testa
Ne' giorni di lavoro e in que' di festa
Quando si lava ogni cristian la faccia.
Così buon pro vi faccia
Il tempo, e l'aria e il cielo del paese,
E possiate campar cent'anni e un mese.
Dio facciavi le spese,
E d'adipe e pinguedine v'abbotti
Che sembriate ortolani e passerotti.
Vuotate anfore e botti:
E se volete i dì più lieti e belli
Toglietevi a compagno il Bassanelli.
Tanto vi dice il Belli,
E v'augura dal ciel pioggia di manna
Da gridar: pancia mia fatti capanna.
LETTERA 299.
A TERESA FERRETTI - ALBANO
Di Roma, lunedì 11 giugno 1838
un'ora di notte
Gentilissima ed estenuatissima e macilentissima
Signora Teresa Ferretti
I gobbi sono persone amabilissime, e servizievoli più ancora di un servizievole, ma quando manca la materia cosa può fare un gobbo, fosse anch'egli un dromedario o il famosissimo Gianni? Quel povero Sig.
Giuseppe vice-Mandrella ha sudato una camicia, se l'aveva indosso, per trovare almeno un paio di mesenterii che si potessero adagiare su due cuscini tanto che servissero di pretesto a far partire una vettura per Albalonga.
Ma non signora; non c'è stato verso di raccapezzarli; e le fatiche e i pensieri del vostro e mio caro Ferretti han dovuto rimanere immobili come un'eredità giacente sotto curator giudiziario.
Alzatosi col canto del gallo erasi egli posto in giro perché la canestra contenente tutti gli oggetti da spedirsi fosse pronta ad ogni fischio del gobbo; ma il gobbo non ha fischiato, e la canestra bell'e ammannita e condizionata sta qui sotto i nostri occhi aspettando la misericordia de' vetturini.
Ma non andrà sempre così, diceva un giorno la spidiera all'arrosto; e dimani a bella punta di giorno speriamo che una carrettella, una carrozza, un carrettone, un landò, un tilbury, un drosk, uno strascino, una barrozza, una lettiga, una carriuola o un altro qualunque canchero locomotivo vi depositerà a' piedi dieci foderottone, mezza libra d'amido, uno scuffino verde, dieci borchie con dieci ferri, un sapone da macchie, un cappelletto per Cuppetana, diversi pezzetti di cotone, altro cotone di due specie, e 14 matassine economiche da mezzo baiocco l'una.
Ne volete di più? Manco la discrezione.
Dopo le promesse passiamo alle ammonizioni.
Badiamo alla salute, Madama e Madamigelle, perché la salute non si compera dal pizzicarolo, e starei per dire neppure dallo speziale, benché gli speziali sieno d'opinione contraria.
La verità al suo luogo.
Giacomo sta bene e meglio di me che sto come un toro: Sempre attivo e fervido accoppia i santi pensieri di padre di famiglia ai dolci riguardi dell'amicizia.
- Sono colla compiuta mi' stima etc.
etc.
Il V.
aff.mo ed obb.mo Belli
LETTERA 300.
A TERESA FERRETTI - ALBANO
Di Roma, martedì 12 giugno 1838
all'Angelus Domini nunciavit Mariae
Madama e gentilissima amica
È suonato.
- Chi è? - Il giacchetto del gobbo (Tuttociò accadeva questa mattina alle 9 antimeridiane).
- E cosa cerca il giacchetto del gobbo? - Porta una lettera: - Una lettera di dove? di chi? - D'Albano: di chi poi ve lo dirà il carattere della sopra-scritta.
Leggo al veramente chiarissimo e, appresso a tanto chiarore il mio nome e cognome e domicilio, scritti in buona grammatica e ortografia da una penna capace di squisitissime gentilezze.
Questo, dico fra me, è della Signora Teresa Ferretti.
Si spezza il suggello, si spalanca la lettera, e...
carissimo consorte! Diamine! Di questi farfalloni vi scappano? Presto si richiuda il foglio e si spinga al padrone.
Posso accertarvi che non ne lessi più in là ritenendo che Voi, di due lettere preparate e chiuse, una per Giacomo e l'altra forse per me, aveste errato l'indirizzo, scambiando per equivoco i nomi.
Ma poi il nostro Ferretti ha spiegato il busillis significandomi siccome egli stesso vi avesse commesso il dirigere la lettera a me.
Ma potevate rimediarci con una sopraccarta.
Diamine! Cimentare la umana curiosità e metterla a repentaglio di leggere sillaba per sillaba tutti i fatti di cosa vostra! Il mio terrore dunque di diventare un intruso contro il voto vostro e del galateo mi ha tenuto al buio dell'incomodo da Voi sofferto: sino a che, vedutici insieme Ferretti ed io presso lo Zampi (alle ore 2 pomeridiane) non mi è stato da esso il tutto narrato spiegato e comentato.
Una parola, in grazia, Signora Teresina garbata.
Parliamoci qui fra noi all'orecchio, sotto-voce e senza testimoni.
Ci sarebbe pericolo che questa improvvisa indisposizione sia derivata da qualche diremo cipolletta od aglietto di più del solito e consueto? A un affezionato Maggiordomo, tenerissimo della conservazione de' suoi padroni, sia perdonato l'ardire della dimanda e la temerità del sospetto.
Ah! quando io stesso, povero servitore senza livrea, vi scriveva jersera quelle memorabili ammonizioni sulla salute, pareva che uno spirito delle mezzane regioni mi andasse sobillando al cuore que' consigli presaghi quasi del bisogno loro e della attuale opportunità.
Siete stata male? Se vi sentite in ciò la coscienza netta, e tanto netta da fare in guazzetto il mea culpa, vi compiangerò assai e più cristianamente.
Ma se mai quel benedetto quinto peccato ci avesse cacciato per entro una puntarella di coda, allora poi compassione sì, perché la nostra santa religione ce lo comanda, purtuttavia pregherò il caro Dott.
Bassanelli di correre su e giù per Albalonga o corta che sia, e di ordinar man bassa su quanto di cipolle ed agli vi abbiano esposto al femminile appetito, il commercio e l'agricoltura collegate in bel modo dalla moderna politica economica.
E tutti mandi al diavolo gli aglietti e le cipolline, senza alcun rispetto a qualunque nume egiziano che per entro vi alberghi.
E pare a voi che i numi d'Egitto gli Osiridi, le Isidi, i Tifoni, e i Canopi, e gli Anubi e tanti altri simili inquilini d'obelischi e piramidi perdano mai la lor natura indigesta allorché fannosi più modesti abitatori d'agli e cipolle? Sono essi oggi tutti numi dannati; e voi vorreste cacciarvi in corpo tutta una casa del diavolo in una sola boccata?...
A proposito di boccata, Ferretti ed io abbiamo pranzato presso lo Zampi.
E che bocconi! e tutti senz'aglio né cipolla per grazia di Dio.
- Questa sera poi Monsieur Jacques e Monsieur Joseph assisteranno gratis (la più bella parola del vocabolario latino) ai giuochi del Mago Bartolomeo, previo il dono di due polizini d'ingresso fatto dal Mago al mio padrone.
Ecco una giornata bene spesa, siccome ecco una lettera terminata all'oscuro.
Ci vedo appena per depositarci i saluti per le ragazze e per Gigio Cuppetana.
Sono il vostro aff.mo amico
G.
G.
Belli
LETTERA 301.
A TERESA FERRETTI - ALBANO
[Giovedì 14 giugno 1838]
Fra l'amarezza de' sofferti danni
S'io mi ti mostro mai lieto e faceto
Bada, donna, e non dir: quest'uomo è lieto;
Che dicendo così troppo t'inganni.
Né dal cuor vien quel riso né al segreto
Giunge del cuore ad alleviar gli affanni,
Come per foco e sovrappor di panni
Un umor non si espelle acre ed inquieto.
Schietta natura crederai tu spesso
Là dove l'uomo per ingegno ed arte
Illuder tenta e lusingar se stesso,
Se conoscer mi vuoi vieni in disparte
Mentre io sospiro in suon cupo e dimesso,
Né giudicar di me dalle mie carte.
Ciò premesso ha la Signora Teresa torto marcio e cappotto e prende grilli per buffali nel suppormi di ilare umore per quattro facezie e ribòboli e passerotti che mi sono scappati di penna in un momento di ubriachezza suscitata dal vapor d'aglio e cipolla di Madama Ferretti.
Senza burle vi assicuro che il mio spirito tutt'altro è che tranquillo, e se qualche frizzo mi si affaccia alle labbra procede più da natural bile e mordacità che non da voglia di fare il lèpido o il mattaccino.
Anzi vedete quanto la mia stessa natura impertinente ha perduto del suo vecchio taglio, spuntandosi come un ago d'Inghilterra.
Ieri sera fui amorevolmente condotto al rinnovato Argentina dal caro nostro Giacomo.
Ebbene fra quelle melodie birmane, o samoiede, o cufiche, o caldaiche, o sonnambule che le siano, se io mi fossi trovato sveglio in petto il prurito di puncicare, la messe non mancava per certo a farmi divenire un vero cannibale.
Bravo il mio signor Lillo! Io lo consiglierei a fare l'ortolano ed innestare il popon nella zucca.
Una pompa sibaritica e più asiatica forse che francese, uno splendido scenario e tre voci da paradiso non bastare a render soffribile ciò che in altre circostanze di vestiario di pennello e di gole avrebbe forse rinnovato in iscena la strage degl'innocenti.
Mentre il reo sarebbe stato uno solo! Ci divertimmo dunque assai assai assai, e beato chi di noi cinque (che cinque eravamo) poteva star più prossimo al catenaccio.
Passiamo ad un altro soggetto.
Il signor Filippo Zampi il Zumalacarregni del pozzo delle Cornacchie, a me cognito e qui presente ed accettante, m'incarica di dirle un Mondo gentilissimo d'impertinenze e tutte annodate a quell'antico filo neppure spezzato dal favor della pizza diretta e dedicata alla Comare di ferro.
Perché, Signora mia Teresa garbata, dopo quella sua trascuraggine di saluti donde nacque la guerra di Troia, si compiace Ella di ripetere i suoi silenzî ingiuriosi? S'immagina forse che il Sig.
Zampi sia un bamboccio da imbonire colle sculacciate? Lo Zampi è offeso e arrabbiato come un idrofobo, è un furioso all'isola di San Domingo (Piave non vuole andar via se non metto un codino, siccome egli saggiamente si esprime.
E il codino vuol dir saluti).
Se non fossi io ve lo vedreste a cavallo a una canna venirvi a dare un mozzico al naso, rinsellare il cavallo e partire.
Dunque salutatelo o finisce male davvero.
Il Sig.
Lopez sta invitando Ferretti a pranzo per domani (venerdì 15) e gli promette di dargli da mangiare a spilluzzico perché non ha quattrini da buttar via; e Ferretti allettato da queste seduzioni ha promesso d'andarci.
La Signora Regina e sue figlie son qui e vi salutano, e così il pittore del Monte della Farina e così il Felicetto Quadraro che naturalmente ha da venir dopo il pittore.
- Piave se n'è ito: dunque vi posso dire a quattr'occhi e in confidenza che egli conserva ancora in una scatoletta i quattrini destinati al gresso e regresso per venirvi a trovare.
Eh? che vignaccia! Aver fra voi un Goto-chiomato senza spesa d'imballaggio e dogana! E non gli è mica un goto da affogarsi in un gotto.
Se ne ride l'amico d'una masnada di Mirmidoni bell'e cresciuti, ed armati di picche, cori, fiori e denari, benché di questi ultimi un po' meno degli altri nonostante la scattoletta del sacro deposito del gresso e regresso:
Mi chiamo gesso
Con una mano scrivo e l'altra casso
E chi fidasi a me per Dio sta grasso.
Via non fate fracasso
Perché suoni cotanto il campanone
È segno che vien fuor la processione.
È venuto il garzone
Di Messer gobbo mentr'io vi scriveva
Blandizie da compar di Adamo e d'Eva;
E per questo la leva
Vi son ito a levar della campana
Perché voi la trattaste alla marchiana.
Quest'altra settimana
Vi scriverò di peggio, Iddio vi guardi.
Per ora parte il gobbo, e adesso è tardi.
Saluto le ragazze e sono il vostro
aff.mo amico Belli
che non ha paure delle vostre minacce
LETTERA 302.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma, 14 giugno 1838
Carissimo e pregiatissimo amico.
È finalmente pubblicato questo volume del giornale arcadico, da me atteso con tanta impazienza perché doveva esso contenere l'articolo sulla vostra dissertazione intorno a Cupra marittima oggi Ripatransone.
Il giornale cammina già sempre con molta lentezza, ma questa volta si è fatto anche più aspettare essendosi trattenuto sotto i torchi quanto bastasse per dar tempo alla stampa di tre fascicoli mensili tutti in un corpo.
Pubblicatosi appena il volume, il Cavalier Fabi Montani, autore dell'articolo che vi riguarda, conoscendo la mia premura per esso me ne ha inviato a casa una specie di estratto che io vi spedisco oggi sotto fascia onde possiate leggerlo subito e vedere con qual rispetto vi si parli della vostra opera e de' vostri talenti.
De' quali persuaso io quanto e più che tutt'altri vi esorto e prego di continuare a spendere il fino vostro criterio e la vostra non comune erudizione in aiuto delle archeologiche ricerche italiane, sin qui non poco strapazzate da menti o poetiche troppo, o preoccupate o leggiere: salve le eccezioni comandatemi dalla giustizia.
Ed io che faccio? Se voi mi dirigeste questa mia dimanda colla quale talora da me stesso io m'interrogo, dovrei rispondervi: nulla.
Io ho lo spirito agghiacciato e quasi che morto.
La memoria mi va sempre ogni dì più languendo in guisa che né solamente dimentico le poche cose da me già lette e sapute, ma le scarse letture permessemi in oggi dal nuovo e penoso mio stato d'isolamento non mi lasciano pur traccia delle notizie che di pagina in pagina io ne venga o ricuperando o acquistando.
Ciò per un uomo che sapeva di non esser creato di sola materia deve riuscire assai sconfortante e gettarlo in una deiezione di spirito tormentosissima e in un tedio assoluto di una vita resa affatto vana ed inutile.
A sollevarmi dal mio visibile abbattimento i pochi miei amici di Roma vollero negli scorsi mesi far violenza alla mia restìa volontà ripristinando il mio nome nell'albo dell'Accademia tiberina da me già fondata, ed a cui per amor di quiete ragionevolmente rinunziai nel 1828.
Ma cosa posso più fare in pro di questo instituto? Per la prosa, giusta esigenza del secolo, mi manca oggi il tempo, la serenità e la suppellettile del sapere, stante che lo scarso che io potessi già avere acquistato ne' miei studi letterarii e scientifici, mi equivale adesso per la perduta memoria ad un patrimonio alienato, e per conseguenza a miseria più aspra perché non stata sempre sì intiera.
Circa i versi, mi son questi venuti da buon tempo in fastidio, come allettamenti d'una gioventù che m'è fuggita, e come cose pochissimo in oggi soddisfacienti alla età in cui viviamo.
Purtuttavia, siccome più facile riesce il rimare che non il severo parlar da Oratore, qualche verso l'ho pure composto in questi ultimi mesi, rubando qualche ora al sonno e al riposo onde non violare il tempo reclamato dalle mie sacre occupazioni di padre.
Tre de' miei amici (Sig.ri Francesco Spada, Domenico Biagini e Avv.
Filippo Ricci, dotti tutti e amorosi) han voluto far pubblico uno di que' miei pochi e cattivi componimenti intitolato il Goticismo.
Esso vedrà per loro cura la luce in uno de' prossimi numeri del romano Album: e poiché eglino ne faranno estrarre degli esemplari a parte, io ve ne spedirò uno sotto fascia appena verrà fuori dalle stampe.
Vi servirà a solo fine di conoscere che io di più vi darei se avessi di più e di meglio.
Intanto, avendo io dovuto donare al Cav.
Fabi Montani il vostro libretto vorrei pregarvi mandarmene un altro colla stessa memoria di vostro carattere che ricordi sempre essermi da voi stato donato.
- Il nostro Orazio Piccolomini sarà contento della promozione del fratello alla carica eminente di Presidente delle Armi.
Presto vedrete passare di costì la lor Madre.
Il vostro silenzio dall'8 febbraio in poi mi è stato sufficiente per conoscere che codesti Signori addetti all'amministrazione de' Beni ecclesiastici non hanno creduto bene di sborsare le quote dovutemi sul sequestro Trevisani pel trimestre di gennaio, febbraio e marzo passati, malgrado che il danaro sia colato in loro mani ad ogni principio di mese.
Vorrei sperare che scadendo un altro trimestre fra pochi giorni si compiaceranno essi di sborsare contemporaneamente tutto il cumulo del semestre dal 1° gennaio a tutto il corrente giugno, somma che giace di già intiera in cassa.
Io mi sono sempre astenuto dall'avvertirne Mons.
Tesoriere sul dubbio che ciò possa spiacervi pei rapporti di conoscenza che voi abbiate con codesti Signori.
Assicuratevi però che essi mi arrecano molto danno con questa loro non retta condotta.
Sono di vero cuore abbracciandovi
Il Vostro vero amico e servitore
G.
G.
Belli
Monte della Farina N.
18
LETTERA 303.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 14 giugno 1838
Mio caro figlio
Mentre mi giungeva la tua del 31 maggio andava viaggiando verso di te una mia lettera dello stesso ordinario.
Essendo ormai corso d'allora buon tempo senza che noi ci siamo dati scambievoli notizie, rompo io il silenzio per seguitare a darti prove della mia memoria, la quale tanto più volentieri e spesso a te rivolgo in quanto che il mio cuore è sempre più disposto ad amarti per conseguenza degli elogi che mi pervengono della tua condotta.
Non superbirne però, Ciro mio, di queste lodi: ricorda sempre che la bontà e l'adempimento de' nostri doveri è un altro dovere esso stesso.
Ha scritto un famoso autore: Vitavi culpam non laudem merui.
Così astenendosi dal male e praticando il bene si evita più la colpa che non si meriti la lode.
Ma se questa ci viene pure tribuita si riceve con gratitudine e quale nuovo stimolo a sempre meglio operare.
E guai a quell'uomo che per un falso sentimento ed abbietto, onorato a torto del santo nome di umiltà, si rendesse insensitivo alla lode.
Da quella bugiarda umiltà passerebbe a degradare del tutto la sublimità della umana natura.
Io non parlo qui del desiderio di biasimo e di mortificazione stato sì vivo ne' santi.
Essi però bene e santamente operarono, e la umiltà loro fu un eroismo soprannaturale, dono miracoloso del cielo.
Intendo io di ragionarti de' sentimenti connaturali all'uomo in risguardo soltanto de' suoi rapporti col Mondo, dove la lode modesta deve necessariamente commovere un modesto animo a maggior compiacenza delle azioni virtuose e lodevoli.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e saluta gli amici come ti salutano questi amici e parenti di Roma, nonché i nostri antichi domestici.
Di' alla Signora Cangenna che mi è giunta la sua del 9 corrente, intorno a cui la ringrazio e le risponderò.
Ti abbraccio di cuore e benedico.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 304.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, venerdì 15 giugno 1838
Mio caro Ferretti
È sembrato un destino! Il diavolo ci ha ficcato la coda.
Ti avevo promesso di vederti prima della tua partenza e di metterti in carrozza, e non ho potuto.
Fra tutte le procellose giornate trascorse dopo il mio cataclismo, niuna forse più arrabbiata di oggi.
A mille impicci disparatissimi affollatimisi sul capo questa mattina aggiungi il lasso di tre ore dovutesi da me passare alla sperella del sole sotto il Gianicolo, a motivo di certa differenza che va a divenire forense circa una descrizione e consegna di fondo appartenente allo slabbrato patrimonio del mio figliuolo.
Pieno di fuoco nelle viscere e grondante sudore ho finito di mangiare un boccone per darmi ad intendere di aver pranzato, né prima delle 4 1/2 mi è stato possibile di fuggire in tua casa e in quella d'Annamaria.
Il Sig.
Giacomo è partito proprio in questo momento, mi ha detto la madre di Peppe; e ho da lei saputo che tu hai dimandato più volte di me.
Lo so: avevi a dirmi qualche cosa.
Ma che faresti? Scrivimela e ti servirò.
Si danno circostanze per le quali si è costretti a mancar di parola senza colpa del proprio carattere.
Salutami la tua famiglia.
Colla testa svanita e dolente mi ripeto
Il tuo Belli
LETTERA 305.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, sabato 16 giugno 1838
Ore 10 antimeridiane
Mio caro Ferretti
A primo uscire di camera ho questa mattina trovato sul mio scrittoio un plichetto a me diretto col subito di grazia.
Dalle informazioni poi prese in famiglia ho rilevato esser provenuto il plichetto da mani odorose di stabbio; dimodoché dovendo forse venire da Albano e null'altro contenendo fuorché una lettera da consegnarsi a te subito di grazia, il latore qualunque ci ha subito serviti entrambi in mezzo alla rognonata.
Delle cose scritte nella lettera, suggellata a fuoco sotto marchio di targa [...] fra un caduceo ed un ramo di quercia sotto corna d'alloro, devi a quest'ora saperne più forse tu stesso che non io, benché m'abbia il tutto fra mani.
Nulladimeno ti rispingo la lettera quasi
Anima che là torna onde partìo.
Ma se la mia poca arte araldica non mi ha cuccato nella interpretazione della parte blasonica del plichetto, quasi voglio invelenirmi come la vipera dello stemma per ciò che il cultore dell'arte salernitana m'abbia suggellato una lettera senza neppure scrivervi dentro: asino d'Arcadia, consegna l'inserta al tuo Maestro, e va a fiume.
A fiume non ci sarei forse andato, malgrado della mia propensione alla santa ubbidienza, ma in modo avrei disposto le cose che fossimo tutti rimasti contenti come tre pasque, fra le quali entra anche quella della befana.
Ma al mio Signor dottore El Bassanelli
E' non cale del Belli una bucciata,
Bench'egli si trarrìa sino i budelli
Per fargli onore e il chiamerebbe Tata.
Ed io sotto quell'Egli intendo il Belli,
Come sotto quell'El ho sconsagrata
La gran parola che l'arabe arene
Salva udirono un giorno al sommo bene.
E sconsagrata l'ho perch'io discreto
Dar non potendo il gran valore antico
Al decimo segnal dell'alfabeto
Nella inizial del nome d'un amico,
L'ho ridotta a indicar Luca o Loreto
O Lazzaro, o Luigi, o Ludovico
O Liborio o Lorenzo o Liberato
O altro nome del libro del curato.
Che se poi la targa del suggello, laureata, roverata e serpeggiata, non appartiene al Bassanelli, tutti i miei castelli in aria essendosi dileguati come le uova fra le mani di Bosco,
confesso e riconosco
che la bestialità di mia scienza
merita pentimento e penitenza;
e quando tornerò ad Albano, se più tornerò ad Albano, il nostro Dottore guardimi pure in cagnesco, che gliene dò amplissima licenza.
Perch'io merto dolore e penitenza.
Oh abbiateci pazienza
Signor Ferretti mio, s'io scrivo male:
Non è colpa del nostro naturale.
Ho una penna animale
Ed una certa carta e un certo inchiostro
Che ne bestemmieria sino il Cagliostro,
Il quale a tempo nostro
È stato come dire un santarello
Da pigliarne a biografo il Burchiello.
Voi avete cervello,
E conoscete pur che quando io scrivo
Sembro un Mastro Bodoni redivivo.
Non mi fate il cattivo
Dunque in veder le zampe di civetta
Di questo foglio scribacchiato in fretta.
Poi, chi la fa l'aspetta,
E voi mi spedirete letterine
Come san farne i galli e le galline.
Ma è tempo di por fine
A tutto questo anfanamento a secco,
Perché ho vuota la vena e asciutto il becco.
Vi saluta Ser Cecco
E il Deramone e il Balestriero e il Cianca
In quest'ultimo fil di carta bianca.
Voi passate la banca
Dei saluti alle vostre quattro donne
Per le quali io vi mando un eleisonne.
E qui col come e ronne
E busse ed altro sustanziale addobbo
Io mi vi inchino e vò a trovare il gobbo.
G.
G.
Belli
Bene le Anne Marie, le Caroline, i Peppi, e le due scale-a-lumaca dei Vincenzi e Pietrucci.
Dei Checchi non me ne occupo un [...].
LETTERA 306.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, domenica 17 giugno 1838
Ben ch'abbia afflitti di dolor la gola
E gli articoli tutti e i segnacasi
Pur mi ti faccio a dir qualche parola.
Erano ott'ore, od otto e un quarto quasi,
Quando stamane il vice-gobbo amico
Venne, ed io lieto al suo venir rimasi,
Poiché seco recava un tuo gran plico
Gravido d'altro plico per colei
Che s'ha de' Pazzi il bel cognome antico.
Ed oltre al plico destinato a lei
V'era pure un listel pel copri-testa
Di me e gran parte de' consorti miei.
Tosto io con gamba studiosa e lesta
Portai l'uno alla buona Annamaria
E l'altro al Lopez, benché fosse festa.
Trovai Madama Pazzi in compagnia
Della figlia e dei figli piccoletti:
Ito era il grande a qualche birberia.
La salutai e il tuo plico le detti,
Mentre Peppe, quel furbo farfarello,
Veniami intorno a dimandar confetti.
Pel Lopez, alla luce d'un portello
Lo sorpresi mentr'era sbacchettando
La cupola dell'ultimo cappello.
Mi lesse il tuo biglietto sghignazzando,
Aggradì i vale della tua famiglia,
E altrettanti suoi vale io ti rimando.
Or sono al mio scrittoio ed ho le ciglia
Fise in sul foglio tuo a me diretto,
Che ha di stabbio più odor che di vainiglia.
Tu dopo il pranzo e pria d'irtene a letto
Me lo scrivesti il sedici di giugno,
Cioè ier, se il lunario il ver m'ha detto.
Del tuo Gigi in talare codicugno
Odo i passi più franchi, e omai mi credo
Che n'avrem certa la vittoria in pugno.
Correr per casa e sgambettar lo vedo
Giù pe' laureti della villa Doria
E trascorrerli tutti in men d'un credo.
Canta, Ferretti mio, canta vittoria,
Né dell'aria vivifica d'Albano
Fia per noi questa la men bella gloria.
Quanto a Cristina tua cui va pian piano
Restando il capo ignudo di capelli,
Non si sgomenti, o si sgomenti invano.
A giovanetta mai non mancâr quelli,
E presto ella n'avrà morbidi e lunghi,
E belli come i primi e ancor più belli.
Ma è forza che da questo io mi dilunghi
Per dire un prosit alla tua mogliera
Per le ingollate fragole ed i funghi.
Làscialene mangiar tutta una fiera
Con cipolle e con agli e citrïuoli,
In casa e fuori, e di mattina a sera.
Lenti aggiungavi pur, ceci e fagiuoli,
E cicerchie e con simili civaje,
Buona lega de' funghi prataiuoli.
Quelli son cibi, e non ti dico baje,
Da impinzarne la pancia a crepa-pelle
E da cuocerne pentole e caldaie.
Qual prò ti fanno i manzi e le vitelle?
Qual prò l'acquaccia che diciam noi brodo,
Da maledirlo in tutte le favelle?
Porri mangi e radici, e ne la lodo,
E vi rimangi su radici e porri,
E rincacci così chiodo con chiodo.
E se mai credi ch'io faccia lo gnorri
Parlando come dire a badalucco,
Ben fuor del vero, o mio Giacomo corri.
Esser bestia vorrei come Nabucco
Pria di dir cose che smentisce il cuore,
Vorre' in bocca serrar lingua di stucco.
Dopo il foglio del gobbo, a dodici ore,
O, per parlar romano, a mezzogiorno
N'ebbi un altro da incognito latore.
Il qual, tuttoché giunto al mio soggiorno
Dopo quello del gobbo di Mandrella,
Pur m'apparisce più vecchio d'un giorno.
Sotto la luce della prima stella
Me lo scrivesti tu, Giacomo mio,
Disceso appena giù di carrettella,
Onde mandarmi affettuosi addio
Per quanti amici tu lasciasti a Roma,
Compreso il Maggiordomo che son io.
D'Orsola chiedi tu? Porta la soma
D'aspri dolor e molti al casto seno,
E, infelice, ne geme attrita e doma.
Se tu meco ne soffri anch'io ne peno,
E per lei vo' pregando a giunte mani
Il Signor Gesù Cristo Nazzareno.
Buone nuove ti do del Maggiorani,
Ma il polso della sua buona compagna
S'oggi è tranquillo nol sarà dimani.
Ieri calcai per te piazza di Spagna
Per sapere in tuo nome della vecchia
Che un giorno muore e un altro giorno magna.
La morte halla tirata per l'orecchia:
Venerdì le fu dato il sagramento,
E a novo banchettar già s'apparecchia.
Ed io povera coda di giumento
Forse avrò appena il cinquantesim'anno
Mentre alla ghiotta sarà dato il cento!
Cesare intanto n'ha tutto il malanno,
Pagar dovendo il medico e il chirurgo
C'ogni otto giorni a sentenziar la vanno.
Grazie all'alvino ubbidiente spurgo,
Pari la vecchia all'araba fenice
Può dir morendo: post fata resurgo.
Quella signora Emilia viaggiatrice
Che insieme al Carbonarsi hai tu veduta,
Di te gran bene e di tue donne dice.
Ella pel Corpus-domini è venuta
A Roma, e presto tornerà alla Fratta,
Ma pria pel mezzo mio la ti saluta.
A' tuoi due fogli la risposta è fatta:
Non manca ora che darla al dromedario
Perché ti giunga difilata e ratta.
Né credo, o mio Ferretti, necessario
Dir ch'io m'inchino alla fama corusca
Dell'inventor del gran vocabolario
Che farà un giorno disperar la crusca.
Il tuo G.
G.
Belli
LETTERA 307.
GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, lunedì 18 giugno 1838
Ore 10 antimeridiane
Amice mi
Domi tuae scribo, ed ho davanti gli occhi, e fra momenti sotto le mani il volume Celsiano.
Te lo spedisco oggi pel solito famoso canale Mandrelliano.
Ho ricevuto, e già l'hai capito, la tua del 17 unita al pacco libri (Hugo e Byron) da riporsi nelle scancie.
Insieme col Celso avrai dai vetturini del Mandrella due altre spedizioni, cioè una mia epistola di ieri e un paio di scarpe di jeri sera.
Non è partita stamane alcuna vettura.
Dunque, io ho detto, chi porta 30 può portare 31.
Il vetturino (lo credo tale e tale disse di essere) che portò il tuo pacco di libri girò tutta la contrada, si scontrò in Annamaria, etc.
etc.
ma diligente come un cane da caccia volle fiutar proprio la quaglia, e sapeva egli il perché.
Aveva più fiducia nella borsa del Signor Belli che non in quella della Signora Pazzi pel grande argomento del porto, o buona-mano, o beveraggio che sia.
Però è stato puntuale.
La lettera al De Belardini va adesso.
O la porto io, o Carolina in mia vece.
Leggerò questo gran sonetto di quello strafalario del Fumasoni.
Ma i Luigi decimiquarti non vi son più.
Peccato! Il Fumasoni si comprerebbe un palazzo; ed oggi potrebbe appena acquistarsi una a palazzina.
Abbi cura del tuo ventre; metti in bagno il piscione Prof.
Cuppetana; saluta e le tue donne e il Bassanelli, e credimi il frettoloso tuo amico
Belli.
LETTERA 308.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, lunedì 18 giugno 1838
Ore 6 pomeridiane
Mio caro Ferretti
Al Sig.
Belli soprannominato G.
G.
è arrivata due ore dopo il mezzodì una tua lettera unita ad altra per Annamaria, contenente quest'ultima un pacco pel Sig.
Servi.
La moglie di Michele ha situato il pacco Serviano sulla sua toelettina, specie d'altare inviolabile donde nessun'altra mano ardirà rimuoverlo se non la destra del compagno di Baldassare e Melchiorre.
E Annamaria e Carolina in lingua semicristiana, e Peppe in lingua strona, dicono salute a te, alla tua fungofaga, alla tua dischiomata, alla tua pidiscellosa e st'antr'anno sposa, alla tua astratta e al tuo novello Pergamino
Perso - etrusco - caldaico - latino.
Tutte le quali impertinenze, uscite dalla boccaccia sprocedata di coloro, io intendo non approvare, e ci protesto sopra e sotto, e di qua e di là, e dentro e fuori,
Però ch'io non vuo' guai co' superiori.
Io venero, stimo e rispetto tutti i singoli miei padroni e le mie padrone, e prima di metterli in ridicolo
O mi fo sbudellare o infilo un vicolo.
Bada, Ferretti mio, al tuo colon, al retto, al cieco, al digiuno, etc.
E se credi che alcuni cibi ti faccian male
Non te li far venir su per le scale.
Orsolina ha acquistato un altro buco per una nuova suppurazione.
Savetti dice che la faccenda vuol esser lunga.
Ella soffre, il marito tarocca, la balia dà mezza zinna, e presto forse la darà intiera.
Progetti svaniti: guai a cavaceci.
Ho raccolto una sporta di saluti, rispetti, inchini, sorrisi, parolette, di qua, di là, da donne, da uomini, amici, parenti e benefattori.
Te li mando tutti in un fascio, come sarebbe un pot-pourri, un millefiori, un cappon di galera.
Danne uno spicchio a cadauno de' tuoi, serbando la tua porzione per te oltre le mollichelle del piatto.
Piatto fa rima a Gatto.
Ebbene il tuo gatto vive in tranquilla e anacoretica solitudine, fornito a dovizia di vettovaglie o vittuaglie, secondo le varie lezioni del Cesari, del Cecilia, e del Marola e dell'Azzocchi, quattro pinacoli di Monte-Glossario.
Né a' tuoi canarini vien penuria di canapuccia per consolarli del cantar tuttodì senza che orecchio gli ascolti, siccome ballava la ebrea di Balzac nell'eternità del deserto teatro.
Orribile condanna!, ma che io pure affibbierei a certi arcadi amici miei e tuoi.
Sonettare per omnia saecula saeculorum senza una bocca che dicati bravo, senza due mani che ti battan le nacchere! E chi sa che nel codice di casa non sia qualche articolo di tal fatta da vendicare il genere umano dai misfatti Fumasoniani, Barberiani, e via discorrendo? Ah! se il cielo m'avesse privilegiato della cistifellea dello Scannabue, vorrei scorticar loro quelle orecchiacce e far loro strillar caino peggio che non accadde ad Agarimante-Bricconio e ad Egerio-Porco-Nero.
Ama il tuo Belli.
Lo Spada nostro ti chiederebbe il Tibullo del Biondi per leggerlo, secondo che gli promettesti, e poi letto restituirtelo.
L'hai in Roma? Vuoi dargliene? Profitto di questo cantoncello ch'era destinato all'ostia pria che la materia crescesse sotto la penna.
LETTERA 309.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, martedì 19 giugno 1838
ore sei pomeridiane
E sai tu, Giacomo mio, cosa ho fatto? Trovandomi fra le mani i libri da te inviatimi per riporli a dormire sino al suono di novella tromba, ed avendoli già installati a domicilio, un secondo pensiero più persuasivo del primo me li ha fatti ricavar fuori onde appagare il mio desiderio di paragonare la Tudor alla Borgia, e la Maria alla Lucrezia: non già per pescarci dentro le metafisiche simiglianze trovate dall'autore (o prima o poi che la penna sua gli avesse scritti) fra i drammi della Lucrezia e del Triboulet, ma sì coll'unico scopo di confrontarne i meriti letterarii fra i due lavori della Regina di Inghilterra e sulla Duchessa di Ferrara, sulla figlia di Enrico VIII e sulla bastarda d'Alessandro VI.
Io aveva fatto conoscenza con quelle due famose eroine d'Hugo in tempi distanti e senza intenzione di metterle una accanto all'altra per vedere qual fosse più alta di spalle.
Ebbene, oggi ti dico, e, se vuoi, dammi torto, che l'inglese cede d'assai alla inspirazione italiana; e giudico di tanto superiore il lavoro della Lucrezia a quello della Maria di quanto l'obelisco del Laterano sovrasta ai pinoli granitici piantati per paracarri lungo la nuova strada del Corso.
Io credo in quel volo veder Hugo perdersi fra le nuvole, e in questo dibattersi fra le cupole e i tetti, sempre a vista di chi non s'alza da terra che per la virtù muscolare di un salto.
Pochi certo sapranno anche sollevarsi all'altezza che il fantastico francese seppe segnare nella sua Tudor, ma fra que' pochi alcuno può lasciarselo sotto e fargli cader pietre sul capo; laddove sembra a me che, fatta estrazione dalle morali mostruosità e dalle sregolatezze della fantasia, il concetto della Lucrezia e la macchina di quella scenica azione stancherà sempre ed ali ed areostati di chi tentasse seguirlo pel cielo immenso in cui si lanciò lo scrittor temerario.
Riderai, buon Ferretti, dell'ardire di un povero rettile par mio nel misurare i voli, e stabilir quasi una metrologia delle letterarie ascensioni.
Eppure io ho una macchinetta ad hoc, uno strumentuccio assai attivo che in simiglianti speculazioni rade volte mi inganna: il cuore.
Quando esso ha fortemente battuto, provo spesso la soddisfazione di trovare i suoi moti meccanici e naturali in armonia coi giudizi de' più riveriti cervelli della letteraria comunità.
Nella Tudor io volevo commovermi: la Borgia mi commosse: là il mio cuore si agitava, qua mi balzava dal petto.
Grazie intanto alla tua spedizione di libri: vi ho sopra instituito un esperimento in qualità d'uomo-spirito.
Ciò mi darà un po' d'energia per sopportare il peso de' travagli come uomo-materia.
E sissignore, la tua lettera di jeri 18, fa or parte del fascicolo della tua cara corrispondenza, mentre il plico pel Vera aspetta il padrone in casa de' Pazzi senza congiura.
Annamaria la vedo in buonina salute: Carolina in buonona.
Il Checcaccio tiene la testa fasciata, perché un solito umoraccio annuale gliel'ha fessa come un granato.
Quattro capelli tagliatigli per forza, quattro unzioncelle d'unguento, ed eccotelo già fra poco in istato di correre per Roma a salta-la-quaglia, e di cozzare sin colle corna del diavolo suo aio e maestro.
Gli Stortini tirano via come possono.
Ogni pelo un bozzo: ogni passo una cantonata.
Peppe poi, oh in quanto a Peppe l'è un altro paio di maniche.
Dà più di quel che promette, e con un martello alla mano va picchiando alla spietata
Mollia cum duris et sine pondere habentia pondus.
Costì moderato, dici tu: costà smanioso, rispondo io.
E lo scoliaste nostro aggiungevi caldo, benchè il reverendo Prof.
Cuppetana legga callo, cioè sostanza cornea del derma.
Ebbene? Come e quanti si raccolgono nuovi vocaboli dai fornelli di quell'al-glotto-chimista? Tesaurizzi tu Padre? Oh te beato! Sì presso alla fonte! Io poverello in questo avido fondaccio non m'ho soccorso che ne' putenti arcaismi d'una favella fradicia per quasi sette secoli di vita.
Il tuo Cuppetana te ne dà di sì rigogliosa e fresca da starne fresco come la paretaria.
Capo-basso avanti le sei Signorie vostre e schiavottiello.
Il tuo G.
G.
B.
LETTERA 310.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 20 giugno 1838
Mio caro Ciro
Dimani parte di qui la gentilissima Signora Maddalena Caramelli, madre del giovanetto Augusto che va a visitare nel Collegio ov'è insieme con te convittore.
Ebbe ella la bontà di parteciparmi questo suo viaggio perché io potessi approfittarmene se mai ti dovessi scrivere.
Eccomi infatti a valermene onde riscontrare la tua del 12, che ritardata al solito di un ordinario non mi giunse prima del giorno 16.
Così mentre questa tua lettera veniva verso di me andava camminando verso di te l'altra mia del 14 che avrai avuta dal degnissimo Sig.
Rettore.
Riverisci lo stesso tuo buon Superiore, e ringrazialo in mio nome della cura ch'egli si prende di non lasciar passare occasione senza darmi buone notizie di te.
Credo che a Perugia, siccome qui, benché colle debite proporzioni, sarà tornato il caldo.
Ho aggradito i saluti della obbligatissima Signora Cangenna, alla quale ti prego far giungere la qui unita, o dandola a Lei stessa se la vedi, o facendola passare nelle mani del Sig.
Luigi Micheletti allorché si rechi alla Computisteria del Collegio, ovvero usando un altro mezzo che ti venga possibile.
Non so se tu ricordi aver qualche volta udito che io nella prima mia gioventù fondai a Roma un'Accademia letteraria col nome di Tiberina.
Nel 1828 me ne ritirai per savii motivi che un giorno ti spiegherò.
Intanto sappi che dopo dieci anni alcuni miei ottimi amici e sapientissimi han voluto che io tornassi a quell'instituto da me abbandonato, sperando essi che ne trarrei sollievo al mio spirito malinconico.
Io gli ho soddisfatti, ma con tutt'altro scopo, che è il seguente.
Siccome la mia vita sempre solitaria mi ha fin qui reso a tutti ignoto, ho in oggi conosciuto che ciò non potrebbe essermi più conveniente nel nuovo stato della nostra casa.
Quindi l'idea di acquistare buoni ed utili rapporti pel tempo in cui dovrò presentare te al Mondo e aprirti una strada di stabilimento, mi persuase al riprender parte nelle cose che accadono in detta ragunanza di uomini dotti e influenti.
Fra gli scritti da me finora letti colà, i miei amici han voluto stamparne uno entro un certo giornale romano, e me ne faranno estrarre alcuni esemplari.
Ciò accadrà fra due settimane.
e allora io te ne spedirò un paio di copie, una per te e l'altra pel Sig.
Rettore dal quale ti farai spiegare ciò che vi si contiene.
Il componimento è in versi, ed ha per titolo Il Goticismo.
Vi si sferzano le nuove mode nelle arti e nelle lettere, con cui si fanno oggi ridicoli gli uomini.
E poiché tu sei vicino ad entrare nel Mondo mi pare bene che principii a conoscere qual sia il lato dal quale si debba esso schivare o almeno non imitare.
I miei soliti rispetti a' tuoi Sig.ri Superiori e agli amici.
Ricevi tu poi i consueti saluti da tutti.
Ti abbraccio e benedico
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 311.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, mercoledì 20 giugno 1838
Ore 6 pomeridiane
Eccomi qua, Sig.
Giacomo, o Giacopo, o Jacopo, come Le pare.
Sono a darle conto del mio servizio dopo l'arrivo della sua di ieri 19.
- Il pacco Vera sta a far compagnia al gemello, finché il Vera non tolga e questo e quello.
- Il Tibullo-Biondi è passato dalla biblioteca Ferretti a quella Spada.
E costui ringrazia colui.
- Il Manzoni completato passò dalle mani del Raggi a quelle del Belli.
- Il Visaj nihil habet per ora.
- Il Servi, da me fatto ieri avvisare per mezzo del Padre Ascenso, ritirò iersera il caricamento giacente per lui in casa Pazzi.
- Il Quadrari, avvisato da me-me, ha levato la sua lettera dal Caffè di S.
Luigi.
- Anna Maria de-universis fa la madre di famiglia.
Carolina fa il bucato in via della Farina N° 36 secondo piano.
- Peppe grida, corre, martella.
Degli altri uno a sedione uno a stampella.
Checcaccio ritorna alle sue onorate occupazioni.
- Michele va a caccia forestieri, ma...
fa caldo e i forestieri vengono col passaggio dei tordi.
Questo episodio non l'avrà il gobbetto
Ma il Signor Sigismondo l'architetto.
Ei si parte diman da' sette monti
Per veder certe cose a Tor-tre-ponti.
Dàgli le figlie tu perché pian piano
Le meni all'infiorata di Genzano.
Son ben fidate e torneran la sera
Sotto la scorta della tua mogliera.
E se tu non ci vai pon tutte sotto
Alla giurisdizion del Poliglotto.
Chi lor vorrà dar guai, Muccio mio bello,
In compagnia d'un uom come gli è quello?
Rispetteran la femminile gualdana
C'abbia a capo il Maestro Cuppetana.
Egli con due vocaboli de' suoi
Farà Celti fuggir, Senoni e Boi.
E se tornan, con quattro paroloni
Farà Boi rifuggir, Celti e Senoni,
Che cacciandosi dentro alla foresta
Diran: chi è mai quest'uom? Qual lingua è questa?
Tu studia, amico mio, giaci e t'impingua:
Le tue donne a scortar basta una lingua.
Mangia, o Iaco, piselli e lattarini
E insalata de' Padri Cappuccini;
E dai Conventuali abbiti pure
Per un soldo un canestro di verdure.
Niun qui a Roma ortolano manigoldo
Te ne darebbe tante per un soldo.
I nostri rivenduglioli son ladri
E non fan come i reverendi padri,
Che ti danno l'erbucce, e che so io,
Men per danar che per amor di Dio.
Questo è un paese, o mio caro Ferretti,
Che non ti puoi salvar manco sui tetti:
Cerca ognun di campare a spese tue,
E per uno che dan chiedono due.
Io mi son fatto un paio di stivali
Che rassembran due veste d'orinali.
La suola vi sta in lita col tomaio,
E quattro pezzi sono anzi che un paio.
E pure quel ladron del ciabattino
Tre scudi vuol da me d'argento fino,
Dicendo che un pochetto di sconquasso
Non è cosa da far tanto fracasso.
Dunque statti in Alban, Giacomo, e credi
Che qui nulla cammina co' suoi piedi.
Basta il detto; ma innanzi ch'io suggelli
Pregoti riverirmi il Bassanelli;
E per me bacia il lembo delle gonne
Di quelle quattro perle di tue donne,
Teresa, Chiara, Barbara e Cristina,
Degne d'andar in voce anche alla Cina.
E tu, o Terpandro dalle quattro corde
Da me t'abbi un amplesso ex toto corde.
Il tuo G.
G.
B.
LETTERA 312.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, venerdì 22 giugno 1838
Ore 5 pomeridiane
Caro sor Padrone
Passando io questa mattina dal negozio di Lopez vi ho trovato la vostra lettera di mercoldì 20, lasciatami secondo l'indirizzo dall'amico Zampi.
Per vedere il gran pesce non era più tempo.
Già vendevasi a fettine e fettone per baiocchi 18 la libbra ed anche per 20 o 25 secondo il genio de' compratori.
Dicono che fosse uno sterminato storione, ma che insieme vi si trovassero due smisurati tondi.
Così mi ha detto una certa Signora Dorotea della quale ecco le precise parole: ci suono un storione molto grandissimo e un tondo o due salvo il vero, e lo so dalla Signora Malta delli gipponari ch'è persona che lo puole sapere, e tutto assieme pesa settecento e passa libbre tra tondo e storione che nissuno ha possuto mai vedere una cosa accossì tale come questa di pescaria d'oggi, che s'assicuri certo che non si va più in là nemmeno per le mille.
A tanto bel tratto e fiorito non mancava alla Signora Dorotea che inzepparci dentro (per fàs e Caifàs) il Maggiorasco dell'Achillini Marinese che ad ogni modo vi avrebbe fatto sempre miglior figura che non in quel beato sonetto dedicato a S.
Barnaba profligatore de' contagii e del roco terremoto.
Bisogna dire che il roco terremoto si fosse infreddato e accatarrato per qualche colpo d'aria sofferto fra quelle pericolose colline Marinesi o Frascatane.
Ma se il Sig.
Fumasoni-Biondi, anziché porre in ridicolo il povero terremoto per un po' di cimurro di testa e per un tantin di catarro, gli avesse fatto amministrare una o due once di siroppo di viole, avrebbe operato più da cristiano; e il mordace sonetto camminerebbe altrimenti.
E, a proposito di terremoto, a Costantina in Africa si sono sentite alcune scosse.
Un dotto Ulema ha spiegato al comandante francese la cagion naturale di quel fenomeno.
Il globo, dice il dottor Musulmano, è sostenuto da un gran toro sulla punta di un corno.
Allorché il toro è stanco, da un corno fa saltar il globo sulla punta dell'altro; ed ecco il terremoto chiaro chiaro come la sperella del sole.
Si sa che la nostra terra deve stare appoggiata a qualche cosa.
Il toro poi si appoggia dove può, e tutto va in regola.
Ah! quel costume di dare al tuo Gigio il sobriquet di Cuppetana mi fece saltar via dal capo il suo vero nome e la sua festa di ieri.
Ne avrei fatta onorevol menzione nella mia N° 9.
Ad ogni modo mille anni ed accetti il voto infra octavam.
Bada dunque di non calcare il capo al serpente.
Guardati attorno ne' tuoi passeggi.
L'ipsa conteret caput tuum non fu detto per la suola delle nostre ciabatte.
Qui non piove acqua ma raggi di fuoco.
È da tre giorni un caldo sufficiente alla graticola del diacono S.
Lorenzo.
Ammiro Bassanelli e compiango Cristina: l'uno per togliere, l'altra per perdere il primo fregio di una testa femminile.
Ma capelli e guai non mancano mai.
Lo sanno pure la Signora Malta e la Signora Dorotea.
I due plichi pel Vera mi giunsero; e se a te giunsero tutte le mie dal N° 4 al N° 9, ne avrai in alcuna d'esse avuto contezza.
Orsola sta così così.
La bambina dimani parte per Calvi colla balia.
Ti dò tutti i saluti di tutti per tutti, e fra tutti fa' che valgano quelli del tuo
Belli.
P.
S.
Prima di casa Gobbi rivedo casa Pazzaglia.
Saluti e saluti di maschi e femmine per femmine e maschi.
Prenda ciascun la sua parte e l'intaschi.
Vera non si vede.
Se avrà voglia verrà, come si è d'intelligenza.
LETTERA 313.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, sabato 23 giugno 1838
Ore 4 pomeridiane
Così, mio caro Ferretti, la lettera tua di ieri 22 come il pacco libri ch'eravi annesso, mi sono giunti questa mattina.
Il Triboulet, ossia Le Roi s'amuse di Victor Hugo mi è già altrettanto noto quanto io conoscevo prima d'ora la Lucrezia e la Maria.
Trovandomi in mano queste due ultime allorché tu me le spedisti da Albano onde riporle nella tua biblioteca mi nacque il desiderio di confrontarle, cosa da me non mai praticata per averle lette in separati tempi, e con diverse disposizioni d'animo.
Oggi però rileggerò ancora il Triboulet, onde vedere quale impressione mi lasci nell'animo alla seconda lettura, in un'epoca assai amara della mia vita, lo spettacolo di un misero padre subissato sotto i minuti piaceri del trono.
Le tue segrete resteranno impenetrabili sino all'aria ed al sole.
Io ti compatisco quanto può cuore umano compatire le sventure non meritate.
Ti chiamo io sempre povero martire, che tal sei per motivi estrinseci ed intrinseci a te: fortuna nemica troppo, ed animo troppo sensitivo.
Ottimo uomo e padre ottimo di famiglia meriteresti assai più benigni riguardi dalla provvidenza.
Anche a Roma, e forse più qui che costì, il caldo crescit eundo come la Fama.
Guai a chi abbia affari nella mattina! e gli affari si trattano quasi tutti in quelle ore.
E Vera non si mostra.
Michele col quale ho parlato in casa sua tra mezzogiorno ed un'ora, si propone di andarne a far ricerca domani.
Io glie ne ho ben insegnata la casa, benchè attualmente stante l'assenza delle donne, credo non ci si trovi mai alcuno.
Maggiorani sta benino: la moglie non troppo.
Pochi giorni indietro alla di lei vignuola a porta Cavalleggieri ebbe una colica e fu riportata a casa.
Pensano entrambi di assaggiare l'aria di Campagnano, per unire lo scopo della villeggiatura a quello di provvedere a certi affari di famiglia.
Pel primo punto io dissentirei altamente, non potendo comprendere come (a quanto essi dicono) il clima di Campagnano possieda migliori qualità di quello di Roma, quando a sole due miglia di distanza Baccano avvelena sino le rane ed i passeri.
È stato male il nostro buon Rossi con una gastrichetta.
Oggi è uscito.
Egli e la moglie, ingenua donnina, salutano caramente te e la tua famiglia.
Il Marchese D.
Luigi Del Gallo Roccagiovine mi ha mandato in dono (credo lo manderà anche a te) il suo stampato progetto per migliorare la navigazione del Tevere, col motto di Brindley: Iddio non ha fatto i fiumi che per alimentare i canali.
Così i fiumi senza derivazioni di canali non servono, non servirono, e non serviranno mai a niente.
- E un Del Gallo fa un dono a un Belli!
Lunedì 25 giugno 1838, prova del Sig.
Cav.re Gaspare Servi all'Accademia tiberina, annunziata con nuovo esempio sui pubblici fogli: ci sarà dunque tutta Roma, anzi tutta la Comarca anzi tutto lo stato e qualche fetterella di estero sin dove giunge il Diario.
Vedi quale apprensione per noi poveri legittimi suppedanei! - Non vi vuol niente a trovarsi faccia a faccia coi 40 di Parisi e di Orciano, sotto la presidenza d'Arago e di Betti.
Altro avvenimento.
Giovedì 21 alla sera, nel Caffè Atenaico di Valle, fu aspra sanguinosa e tragica lacerazione di denti canini ed unghie gattesche contro la fama del povero Costantino Mazio per certo articolo sulla musica di Lillo, anzi sulle musiche in genere, anzi (meglio) sui libretti in massa.
Otto o dieci lingue di vipere fecero il loro dovere dalla ora 1 1/2 alle 3 1/2 di notte.
Finirono la fiera carneficina col trasformare a penna il nome di Mazio in quello di Matto; e così restò il foglio sui tavolini del Caffè, e vi rimarrà fino al futuro giovedì, ad publicam comoditatem.
Avverti però che i giudici, o i manigoldi, ne sapevano meno del reo.
Chi dice: Bosco passerà ad Argentina; chi dice: Bosco passerà a Sinigaglia.
Sono fra i secondi coloro che dubitano della licenza vicariale per la novena di S.
Pietro, mentre si crede che dopo S.
Pietro l'incantatore vada a Sinigaglia onde operarvi di concerto con Lanari.
Intanto però il demonio di Bosco si riposa, e giuoca alla Mora con quello di Socrate fra un cancello e l'altro del Castello di Plutone.
Ti debbo i ringraziamenti di Spada pel prestito del Tibullo di Biondi.
La presente ti giungerà pel mezzo di Monsieur Felichet qui va partir demain pour Albano.
Nous sommes dejà d'accord que je lui laisserais ma lettre au café de Saint Louis a Ripetta e mò pozzo chiamamme romano peggio de lor'antri.
Casa Pazzaglia, non parente degli Zelli, riverisce e saluta.
Gli amici riveriscono e salutano.
Io saluto e riverisco Padre, madre, figliuole e figliuolo.
Il tuo G.
G.
Belli.
LETTERA 311.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, 27 giugno 1838
mercoledì ore 8 pomeridiane
Dal solito Triboulet di Mandrella mi si è ricapitata la tua di ieri con entro due letterine per tuo fratello, che io stesso ho lasciato in mano di Lopez.
Costui teneva presso di sé una lettera (non so di chi) al tuo indirizzo: e così un giornale da inviarti.
Ho io ritirato entrambe le cose e te le spedisco qui unite.
È comperata la pezza di fettuccia bianca inamidata e tesa dalle sorelle Piccirilli che salutano il Sig.
Giacomo Ferretti.
I dettagli tuoi su Cristina e sulle tue angustie per lei mi stringono l'anima.
Son padre anch'io e d'un cuor paterno non d'ultima qualità: quindi comprendo il tuo dolore e ne partecipo.
Povero Ferretti! Quando avrai pace? Quando l'avremo?
Vidi Zampi ieri sera al caffè e lo avvisai della consegna da me fatta alla moglie della lettera che tu mi avevi compiegata per lui.
Mi dimandò dello stato sanitario di tua famiglia; ma io, benché quasi persuaso che tu stesso gliene avrai scritto qualche cosa, purtuttavia legato dal segreto da te impostomene risposi irre orre come rispondo a tutti onde non mentire nec citra nec ultra dal vero.
E bisogna davvero badarci a quel lutin de ton fils.
Di giorno in giorno i fanciulletti vengono imitando più e più i capriuoli inerpicandosi dove meglio ne viene il destro o la voglia: pericolosi in ciò più i maschi delle femmine, parendo quasi che la natura abbia destinato il nostro sesso alle temerarie imprese ed ai gesti d'ardire.
Dunque, sì, badaci e facci badare; ma già questi consigli miei vengono superflui alle sollecitudini della paterna e amorosa tua vigilanza.
Stampagli un ben sonoro bacio per me su cadauna di quelle belle guanciotte buone da servire per due cuscinetti da macchina elettrica.
Biagini dev'essere in viaggio tornando da Frascati per dove partì ieri una cum variis pistoribus vel panicocolis aut frumentariis sive etc.
e non altrimenti etc.
Laonde i tuoi saluti li farò quando etc.
Orsolina omiopatizzata sta...
come sta? Chi lo capisce? Io no pel dio Ercole sul cui altare si giura la verità.
Il medico si porta appresso in una scattolina da anelletti
La spezieria con tutto il necessario
Per medicar l'esercito di Dario.
Che ne caverà? Indovinala grillo.
Intanto per non farla morir di fiamma l'ammazza di fame.
Il Signore benedica questo discepolo del sublime Hanchemann (che non so se si scriva così, non ricordandomi delle lettere componenti il suo nome da me letto sulle sue opere), e dia tempo al moscerino di portarsi in aria la colonna traiana attaccata a un'aletta.
Io ignoro come a questo proposito la pensino i Ch.
Dottori Carbonarsi e Bassanelli; ma il sangue bollente non mi par brodo da raffreddarsi con una gocciola d'acqua tolta da un secchio in cui ne fu infusa altra gocciola d'altro vecchio, e così di gocciola in gocciola e di secchio in secchio da trovarne la quantità e le proporzioni nelle tavole logaritme.
Essa, la povera paziente, ti saluta senza fiato.
Qui troverai nel pacco:
1° Lettera responsiva di Vera
2° Lettera datami da Lopez
3° Giornale come sopra
4° Lettera di Quadrari (che non ho veduto)
5° Pacchetto di cerotto
6° Fettuccia bianca
7° Calze nere, paio uno
8° Un fagottello di pezze bianche
N.
B.
I ventagli non si mandano perché Quadrati non gli ha portati.
Al momento di chiudere la presente e impacchettarla ricevo le altre tue del 26 e 27 coll'involto de' libri.
Annamaria e Carolina e Peppe sono qui meco e gioiscono al pari di me delle buone disposizioni postergali della tua cara Cristina.
Dieu en soit loué et vous tienne en joie.
Non conosco l'opera di Gioia di cui mi parli.
Ne farò ricerche e se la troverò l'avrai: altrimenti perde la Chiesa.
Saluti inchini baciamani etc.
etc.
Il tuo Belli.
P.
S.
Vincenzone aspetta il sonetto per S.
Pietro.
LETTERA 315.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma 28 giugno 1838
Mio carissimo amico
Ho ricevuto una lettera senza firma e senza data; ma quando anche non me ne manifestasse l'autore un ordine di Sc.
14:50 che vi ho rinvenuto in seno, bastava il carattere della scrittura, e la cordialità delle espressioni per annunziarmela vostra.
Ma vi prego, mio caro Neroni, di non parlarmi più di esattezza.
Dopo i disturbi che vi prendete per me sarebbe pur bella che io ci andassi facendo il sofistico! Purché la cassa abbia pagato e paghi dietro la vostra richiesta, sul resto che passa fra voi e me nulla è da dire.
Voi non dovete pensare più a me che alla vostra salute, non solo preziosa all'amicizia, ma alla famiglia di cui siete il capo e l'onore.
Vi accludo dunque la esazione da me già fatta degli Sc.
14:50 sulla Cassa di questo D.
Paolino Alibrandi foriere delle guardie nobili, e con ciò io sono soddisfatto del trimestre di gennaio febbraio e marzo pagati per la ritenzione sull'onorario Trevisani.
Le mie 21 ottave sul goticismo sono già stampate e usciranno in luce sabato 30.
Appena quindi avrò avuti gli estratti promessimi ve ne spedirò per la posta due esemplari, poiché vi siete compiaciuto non isgradire la mia povera offerta.
Ricordatevi, Neroni mio, che io dovetti donare al Cav.
Fabi Montani la vostra dissertazione archeologica.
Ne vorrei una copia per me arricchita del vostro nome a penna a memoria del dono.
Abbiatevi cura.
Voi lo potete più di me.
E fraternamente vi abbraccio
Il V°.
Belli.
LETTERA 316.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, il giorno di S.
Pietro 1838
Ore 5 pomeridiane
Mio caro Ferretti
La tua del 28, cioè della vigilia d'oggi, fu da te spedita al mezzodì, ma il Sig.
Gobbo riverito non me l'ha portata che questa mattina due ore prima del mezzodì.
Dunque quasi da un mezzodì all'altro.
Quindi l'inserta per Vincenzone non è arrivata a tempo, come a tempo sarebbe al contrario arrivata se la Compagnia Gobbo e cointeressati me l'avesse fatta avere jeri sera.
In mancanza di Michele è corsa Carolina, ma il chichìbio di M.r Silvestri, stato in isperanza sino a jersera aveva dimesso ogni idea di complimento poetico e gastronomico.
Servirà pel 1839, se saranno tutti vivi in cucina e in cenacolo.
E Quadrari? Uhm! Periit memoria eius cum sonitu.
Mi spiace pe' tuoi ventagli; ma io non ne ho colpa, perché non è stato affare affidato a me.
Tutto dunque sulla coscienza del Sig.
Felice Campacent'anni.
Non so se congratularmi o dolermi della repentina chiusura nella ferita di Cristina.
Sembra anche a me che qualche giornetto di spurgo non ci stesse male e la natura non l'avrebbe aborrito.
Insomma quel dubbio di un nuovo taglio mi disturba, non parendomi troppo comode queste benedette operazioni in duplicata a guisa di lettere di cambio.
La povera ragazza pagò a sufficienza sulla prima senza che vi fosse bisogno di fare onore anche alla seconda, con più il conto di ritorno del complimentario Sig.
Pietralata autore di molestissimi complimenti.
Mi fo carico del malumore della poverina: mi penetro dello stato d'orgasmo in cui devi tu vivere: valuto al giusto segno il rammarico della madre e delle sorelle della tua interessante figliuola.
E se io aggiungendo una angoscia di più alle non poche delle quali mi sento oppresso e vinto lo spirito, potessi divenir atto a sollevar voi tutti dai vostri patimenti, credi, Ferretti mio, che non esiterei un momento a caricarmi di questa giunta onde asciugarvi sul ciglio una lagrima.
Ma abbiamo bel dire e bel fare: colle ciarle non si paga l'oste; e per solito chi più compatisce meno può consolare, siccome i più consolati son quelli che più si commuovono alle altrui sofferenze.
Altronde poi, mancando di mezzi di consolazione, si dovrebbe quasi tacere per non parere spacciatori di parole che poco costano a dirsi, e meno ancora a scriversi non essendo neppur necessario in questo ultimo caso il corredo mimico e tonico di boccacce e occhiacci a sghembo e di tuoni elegiaci da picchiapetto.
Tu però che da molti anni hai conoscenza del mio animo, mi presterai, spero, quella fede che pure le nude parole hanno talora merito di conseguire quando le suggerisca il cuore piuttosto che l'universale vocabolario dove è libero di pescare tanto ai sinceri quanto ai bugiardi e a' traditori.
L'esperienza è sola maestra di verità, né basta la mensa e il rosario e il digiuno per conchiuderne: - costui tien religione nell'anima.
Altrettanto deve dirsi degli ufici scambievoli fra l'uomo e l'uomo.
Vuoi conoscere la lealtà? Chiedila al tempo.
Non volendo ho cambiato indole alla mia lettera trapassando a comunissimi luoghi di morale.
I miei discorsi si risentono dell'amarezza del mio spirito.
Io, sempre malinconico, in questi giorni mi trovo anche più afflitto perché in questi medesimi giorni accadde or fa un anno l'avvenimento distruttore del mio riposo.
Né lunedì 2 luglio io so vedere dove mi caccerò a sospirare.
Qui nessuno m'intenderebbe.
Lasciamo fare alla provvidenza che manda le brine in proporzione col fuoco da dissiparle.
- Ora per dire il vero, m'accorgo d'aver proceduto ben poco delicatamente in questa sfilata di piagnistei.
Invece di procurarti qualche sorriso fra le tue pene son venuto a funestarti colle mie inopportune lamentazioni da geremia.
E davvero mi par d'essere un geremia.
Quomodo sedet sola civitas plena populo, ripeto io talora fra me quando mi trovo tra la folla di tante liete o apparentemente liete persone.
Per me è deserto quel luogo dove nessuno m'appartiene ed io non appartengo ad alcuno.
Non è vero legame dove manca vera contemperanza di sensazioni.
I pochi miei buoni amici mi amano, ma cosa possono fare per me? Darmi teorie che io già conosco senza saper condurle a pratica malgrado de' miei continui sforzi.
Eppoi i miei pochi amici non possono vivermi sempre vicini; e allorché essi mi lasciano io tosto rientro nella mia desolazione fossi anche immezzo a un festino.
Ma basti di ciò.
Perdonami tante inutili querimonie.
Sei però degno di ascoltarle perché la natura ti privilegiò di un cuor tenero, che la sventura ha poi migliorato.
Ho parlato a diversi del Gioia sulla influenza de' climi etc.
A farlo apposta nessuno conosce quest'opera.
Va' mo intorno salutandomi tutti.
Orsolina così così.
Gli amici e i Pazzi m'incaricano delle lor solite litanie.
Sono il tuo Belli.
LETTERA 317.
A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
Di Roma, l'ultimo giorno di giugno 1838 (sabato)
Ore 5 pomeridiane
C.
A.
Dal Professor Silvagni ebbi il plico col tuo Foglio e Compagni.
(Il foglio principale restò meco e i compagni vennero diramati unusquisque in provincia sua.
I due allo Zampi e al De Belardini gli ho portati subito io: l'altro al Terziani l'ho inviato a spese delle gambe pazzesche.)
Te Deum! Laus Deo! Agimus tibi gratias! Sit nomen Domini benedictum! Quando dal divieto di discendere quattro gradini e calare di un piano si trapassa al permesso di transferirsi a un Duomo e ad una villa Doria, convien pur dire che le faccende dalla parte de' cortili sien così quiete e rassicuranti che un professore igiaco possa smargiassarla da Giulio Cesare, esclamando: Veni, vidi, vici.
E colga il malanno chi teco non se ne rallegra.
Per questo motivo non cresceranno le mie sventure.
Anzi non saprei su chi potrebbe cader l'imprecazione, andando io persuaso che quanti ti conoscono ne proveranno molta gioia e sincera.
E se noto a Cristina è che i sodali
Di casa tua (brava e discreta gente)
San che fra i quattro punti cardinali
Le apparve una meteora all'occidente,
Ah dille ancor che in cento carnovali
Non istarebber mai sì allegramente
Com'oggi che il fenomeno scortese
Ratto disparve e serenò il paese.
Viva mo' il tuo Messer Ciancarella! Oh cecitate delle menti umane! Tu lo prendevi per testuggine e quello era un cerbiatto.
Vedi come te la lavora? Per carità, Ferretti: dàllo in mano a chi nell'uomo tiene il cervello da più che le gambe; che un popo' l'amichetto trovi d'ansa, di gammone o di levatura, ti scappa da casa e te lo vedi con una torcia inalberata precedere la diplomazia europea.
Come un giorno le furie anguicrinite
Correan squassando le sulfuree tede
Innanzi alla quadriga di Plutone.
Trecentottantasei mortaletti! altro che la romana girandola! Con ventun botto di meno e sparandone de' restanti, uno per giorno, avrebbero contentato S.
Pietro un anno intiero senza scucir le tavernelle a tanti bravi galantuomini che amassero meglio le botti che i botti.
Io non posso vedere i quattrini consumati in faville.
Eppure non par gioia se non viene in compagnia di quella cara polvere che il diavolo si porti chi l'ha inventata.
Né so perché Ariosto non mandasse un Colaimme al Rev.
Schwartz, il frate nero, come ne scagliò sugli archibusieri che pure senza la invenzione della polvere avrebbero fabbricato innocenti ferri da calzette e da ricci.
E Biagini con tutto il pagliaro; e Spada con tutto il fodero, e Lopez con tutti i cappelli; e Zampi colla mojje e col fijjo, e col fijjo del fijjo; e la pazza co' pazzerelli suoi, ed Orsolina colla sua febbriciattola etc.
etc., hanno aggradito le tue salutazioni e te ne rendon pariglia.
Cercherò Maggiorani quanto prima e gli leggerò il tuo paragrafo.
Per dirti un'altra parola di Orsolina, la spacciano per isfebbrata del tutto.
A me non sembra così.
Aspetto però di tastarle il polso a guarigione perfetta, per iscoprire se in istato di salute normale il polso di lei mantenga normalmente una certa frequenza di pulsazioni, come qualcuno sospetta.
Tutto è possibile.
Sinora penso il contrario.
Videbimus infra.
1° alla Sig.ra Teresa
2° alla Sig.ra Cristina
3° alla Sig.ra Chiara
4° alla Sig.ra Barbara
5° al Sig.
Luigi
Saluti e riverenze per ordine di anzianità.
Il signor Bassanelli venga extra ordinem e n'abbia anch'egli la suo porziuncula.
Rido per ubbriacarmi.
Ti abbraccio di cuore
Il tuo Belli
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