LE LETTERE 1, di Giuseppe Gioachino Belli - pagina 30
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Circa al Sig.
Bochet, qualora dietro buona giustificazione tu avrai sborsato del denaro al di lui raccomandato, per altrettanto di meno accetterai e pagherai l'ordine, se mai te lo spedisse per l'intero senza prima essersi con te chiarito sui pagamenti anteriori.
Io mi ricordo assai bene che quando Vulpiani disse di voler venire a Roma, aggiunse che avrebbe seco condotto il figlio Domenico.
Per lo che la nostra offerta non avrebbe oggi cambiato termini.
- Non saresti per avventura stata un po' troppo generosa col Dottore in proporzione del numero delle visite? Nulladimeno non trovo a ridire su quel che hai creduto di fare, tanto più in riguardo alla buona ed amorevole cura da lui usatami.
- In casa Falconieri è difficile che la conversazione si regga.
Co' begli anni fuggirono loro anche tutte le belle e piacevoli cose.
Pure è gente che merita molto pel loro buon cuore e la loro costante amicizia.
- Mi dispiace assai il funesto caso di Angelina, e neppure ho udito con indifferenza la disgrazia dell'amica di Margherita, quantunque non la conoscessi.
- È certo che la pendenza Trivisani può contarsi a veglia!
Ringrazio senza fine il buono amico Stanislao del gentile paragrafo da lui aggiunto sotto la tua lettera degli 11.
Piacevoli mi riescono le cose che egli mi dice circa alla mia salute, ed altrettanto grate le notizie del Torricelli, al quale ha sul mio conto risposto benissimo, ed il vero.
Mi sorprende però di vedere la tardanza del di lui raggiungere il suo.
M.r Delegato di Ascoli.
A quest'ora lo avrei creduto partito.
- Vedendo Biagini salutalo tanto tanto, e dimandagli se è finita la faccenda pecuniaria con Scifoni e Marini.
Saluto tutti gli amici, e ti abbraccio con vera affezione.
Il tuo P.
LETTERA 122.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Veroli, sabato 8 giugno 1831
Non mi fa maraviglia che nel passato giovedì non avessi tu ancora alle 2 pomeridiane ricevuto la mia del 14, n° 4, mentre sai bene che talvolta il portalettere tarda.
Quel che mi fa specie si è come giovedì tu non avessi avuto ancora la lettera che Publio mi torna ad accertare di averti spedita la sera di sabato 11.
In quella egli dice che ti dava discarico a quel che ti doveva dire.
Dentro questa stessa settimana però egli ti ha scritto un'altra volta per mezzo del vetturale Geralico che fa ricapito a Grotta-Pinta; e in questa lettera deve averti parlato della mia dozzina.
Spero che a quest'ora ti sarà arrivato tutto.
- Diverse cose mi vanno passando per la mente riguardo agli ostacoli che tu mi dici insorti nell'affare Corsini.
Non te ne tengo ciononostante proposito, onde non pormi a fare l'indovino.
Mi duole però assai che anche questo sia venuto ad aggiungersi alle altre tue non poche brighe.
- Ciro, ripeto, lo farai scrivere quando potrai: intanto mi basta di sapere che egli, unitamente a te, stia bene.
- A Stanislao replicai nell'antecedente.
- Il Sig.
Dolcibene a te cognito mi fece molte cortesi esibizioni prima della mia partenza: profitterei della sua bontà se mi facesse venire alla prima occasione di un Conduttore di Diligenza (diligente) tre scatolette di terra-cattù di Mondini e Marchi speziali a S.
Paolo in Bologna, delle quali una con aroma, e due senza aroma.
In tutto saranno tre paoli, costando un paolo l'una.
Colla prima occasione poi che si presenterà, dopo venute da Bologna, mi farai il piacere di mandarmele.
- Mi dirai poi qualche cosa in proposito alla mia dozzina di cui non so nulla.
Spero che sarà una cosa discreta.
Alla presente (se non hai cose di somma importanza) non rispondere subito, onde rimetterci in corrente senza incrociature.
Amami, Mariuccia mia, e sta bene.
Il tuo P.
LETTERA 123.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Veroli, martedì 21 giugno 1831
Mia cara Mariuccia
Nella carissima tua di sabato 18 cominci colla mia salute, di un nulla io ti aveva detto nella mia antecedente.
Ma tu hai riflettuto benissimo: niuna nuova, buona nuova.
- Publio, oltre alla lettera ch'egli sostiene averti inviata coll'ordinario degli 11, ed oltre ancora all'altra rimessati per via del vetturale che va a Grotta-Pinta, te ne ha scritta una terza nella quale riepilogò tutto.
Questa poi mi pare sicurissima perché andai ad impostarla io stesso il giorno 18 insieme con la mia n° 5, la quale avrai certamente ricevuta.
Ieri Publio andò a Frosinone e torna questa sera.
Là ci è stata la festa di S.
Silverio Protettore della Città.
Tanto egli quanto l'amico che ve lo ha condotto colla sua carrettella volevano condurvi anche me, ma tu sai se un paio di migliaia di corna di buoi e quattro migliaia di zoccoli di cavallo sieno oggetti di chiamarmi a correre.
E quando vi avrai aggiunto un fuochetto artificiale di 20 o 30 scudi ecco tutto ciò che deve far superare l'antipatia di trovarsi in luoghi strettissimi in mezzo a una confusione di villani.
Vi andrò anch'io a Frosinone, ma a cose quiete: tanto più che amerò di vedere Renazzi e la moglie.
- Vedi che circa ai pagamenti Bochet non accadranno incrociature, e forse questo modo di pagamento a rate potrà, credo, riuscirti più comodo; quantunque tu mi risponderai che se il francese non ti avvisa prima, la dilazione delle rate equivale a zero.
Sempre mi confermo che non giudicai male della certa specie di eccessività nel pagamento del medico: e vedi che tu pure ti eri tenuta agli Sc.
44, che andavano benissimo.
E poiché non mi avevi fatto la storia della discrezione dottorale, io dovetti crederla generosità tua.
Or guarda che lappa che è quel sig.
Medico! Bisogna che creda che durante questa mia ultima malattia abbiamo vinto un terno.
Nella malattia antecedente per 40 visite si contentò di Sc.
10, che tornano a bai: 25 per visita; ed ora ha portato il suo merito sino quasi alli paoli 5 per ogni salita di scale.
Bel guadagnare circa uno scudo al giorno, in venti minuti, con una sola clientela! Per Bacco nuoce quasi più il medico che la malattia!
Se tu vuoi vedere lo specchio delle nostre ipoteche attive, va' al credenzino del mio lavamani, e nei vani che passano tra protocollo e protocollo troverai inserito un mezzo foglio di carta che le comprende tutte, meno quella circa Peppino rimasta in bianco per la indolenza invincibile di Garavita.
Detto foglio, appena tu ti accosterai, ti salterà agli occhi.
Intanto però ti dico che la ipoteca a Fioravanti non esiste tanto perché l'epoca (come apparisce dalla posizioncella che ti ho lasciato) fu privata, quanto perché non si è potuto inscrivere neppure giudizialmente pel non essersi mai presa sentenza circa il debitore.
Di Trivisani però esiste il borderò in posiz.e, mandatomi a mia richiesta l'altr'anno da Giacopetti che ne lo incaricai.
- Ti raccomando a questo proposito la rinnovazione imminente contro Costanzi.
- Questa notte è partito di qui il tenente Onofri venuto quasi inutilmente a far reclute in questa provincia.
Dice che verrà a vederti.
- In Veroli è maritata una figlia della Valdambrini, credo quella che doveva prendere Orlandini.
L'ho veduta una volta qui in casa.
Ora è in convalescenza della rosolia.
Abbraccio di nuovo te e Ciro nostro.
Il tuo P.
LETTERA 124.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Veroli, 25 giugno 1831
Mia cara Mariuccia
Rispondo alla tua de' 23 in cui mi chiedi conto del trattamento che io qui ricevo onde su quello e sulla soddisfazione che me ne risulta stabilire una norma circa la moderazione o eccessività della dozzina proposta in Sc.
12 mensili.
Già in altra mia io ti dissi che quello che in una famiglia casareccia si può sperare io qui l'ottengo.
Per darti però una migliore idea delle cose entrerò un po' meglio nel dettaglio di esse.
La bontà e la premura con cui qui sono trattato sono grandi, e anche somme, e anche diremo eccedenti, trasformandosi assai di sovente in un assedio da far capitolare la resa senza neppur l'onore delle bandiere spiegate.
Ma che vuoi fare? L'unica che potesse qui avere una giusta idea del mondo civile e di quanto può fare la vita riposata e paga, sarebbe la Sig.ra Nanna; ma premettiamo anche in lei un certo tal quale guasto procedente dalla operosità insistente ed efficace dell'esempio che la circonda; e se poi ci aggiungeremo in diffalco tutta la parte d'animo che deve ella concedere ai Sagramenti, alle Chiese, alle preghiere, ai digiuni e a qualche altra praticuccia di religione, le cure che le restano disponibili nel cervello e nel cuore possono certo bastare e bastano a farne una eccellente madre di famiglia ed un'ottima economa di una casa, ma non mai una donna, dai cui consigli, e previdenze e providenze abbia a nascerne quel bell'ordine di proprietà e di comodo il quale con gli elementi qui in casa esistenti si potrebbe sperare e ottenere.
Quindi, per dire più specialmente di me, una superba stanza piena di tele di ragno: elegantissime persiane che la furia continua dei venti qui dominanti vuol sempre in agitazione, e in istrepito, e chiuse, per mancanza de' necessari fermagli: dodici ampii cristalli sporchi in modo che non la vista degli oggetti esterni, ma né anche la luce solare può quasi più avervi passaggio: un moderno camminetto di bel marmo bianco affumicato dalle esalazioni interne del bucato del pianterreno: un larghissimo letto dal quale escono i piedi di fuori per la sproporzione delle misure, soffice in modo che o i detti piedi, o la testa, od i fianchi vi s'ingolfano fino agli abissi: una nobile coperta che scopa la terra da tutte le parti: una scrivania alla moda colla zella incozzata in più d'un luogo; due ben modellati comò, con tiratori che vogliono chiudersi da quella parte che loro più piace: una lucerna ricolma d'olio e ridondante come una fontana: un'altra senza boccaglie e i di cui stoppini all'improvviso ti si nascondono e ti lasciano al buio: una tovaglia finissima sparsa di frittelle, una camera da pranzo tutta addobbata di bel parato e di oggetti da cucina: tre gatti che si fanno pagare il loro ufficio contro i topi a furia di saltarvi fin ne' piatti che vi stanno davanti mille mezzi per difendersi dalle mosche, e nulladimeno un milione di mosche per ogni palmo quadrato di spazio: una sostanziosa cioccolata da tagliarsi a fette, una studiata minestra senza brodo e colma di pepe o garofani, un pollo ricercato sparso da un capo all'altro di schiuma: carbone sparso qua e là, caduto dal canestro a chi stira: un'insalata cotta, ma cotta in tanta estensione del termine che non vi rimangono più che le fibre: un solo cucchiarino da caffè per tutta la carovana: neppure uno sgommarello per dar la zuppa, un'acqua calda per la barba e pei denti piena di fuliggine, o di fondi di caffè, o di grasso di pila, o di rimasugli d'ovo sbattuto, o finalmente odorosa di fumo.
Un collo di camicia col baffetto, un gilè colla ciancicatura, un fazzoletto col bughetto rispettato.
Etc.
etc.
etc.
Il trattamento poi di cibarie è quale la estrema scarsezza di questo paese può farlo ottenere migliore e non burlo.
La mattina cioccolata: a pranzo minestra tre cose e talora più: quindi caffè: e la sera si ripeterebbe altrettanto ma io vado assai piano (*).
Onde procurarsi però il vitto da fornire la tavola, dice la Sig.ra Nanna (e la credo) che deve quasi metter gl'impegni.
Le carni scarse e non troppo buone; rarissimi polli, erbe quasi nessuna: insomma un paese senza industria e senza coltura.
Quindi carissime le vettovaglie che conviene disputarsi in piazza un coll'altro e incettarle anche prima che arrivino.
E la Natura pure produce qui come altrove! Or figurati se è ora così che il governatore attuale vi ha in qualche modo provveduto, cosa sarà stato prima, che il forno spesso mancava di pane; non vi era mai mercato, si vendevano con fraude quasi tutte le carni morticine del territorio, e il pizzicarolo non teneva fuorché cacio pecorino, merluzzo salato, e salacche tarlate.
Pure qui tutti contenti in questo paese.
Venendo ora alla dozzina, sul serio, computata colazione, pranzo, cena, e se volessi merenda: computato l'alloggio, il lume, il consumo di biancheria, la lavatura e stiratura, e la servitù, qui dove tutto si ha caro e con difficoltà, non mi pare eccedente.
Già non vi starò neppur molti mesi per mille ragioni municipali, ed atmosferiche, e civili.
Mi basterebbe ricuperarvi perfettamente la salute, e poi ambulo.
Col dimorarvi ho scoperto un clima di un'incostanza infernale: certe strade che sembrano scale dell'ultimo piano del Palazzo Poli; e poi certi abitanti...
e poi certi speziali...
Basti dire che il primo fra questi è un doratore, che di cento medicine ne tiene in bottega una dozzina al più; e spesso manca di cassia; e quando l'ha, se non gli tenete sempre gli occhi addosso e vi divagate un tantino, traffete vi ci ficca la mela cotta, o l'acqua, o il diamine che se lo porti: e ciò per aumentare il peso senza diminuzione del fondo di farmacia.
- Un medico quindi!...
ma che medico! fa' dei pessimi sonettacci satirici, ma pure lo credo assai più abile in quelli che nel conoscer la febbre.
- A proposito, da varii giorni mi ripizzicano de' doloretti al petto, alle braccia, e alle mani: un buon medico di Frosinone progetterebbe una ben saturata decozione di...
di...
(non so se lo scrivo bene) di legno guaivo presa per 40 mattine, sostenendo egli che dopo un male reumatico lungo senza un decotto non si guarisce mai bene.
Che ne direbbe Mazzucchelli? - È finita la carta.
Addio: addio.
Abbraccio di tutto cuore te e Ciro nostro.
Il tuo P.
(*) E se fra giorni volessi mangiare magari, ché anzi questo è un soggetto di angustia il salvarmi dalle continue offerte e dagli stimoli di questa natura.
Publio è andato oggi a Ferentino a seccarsi e perdere il sonno.
Io ho preferito di fare il mio comodo: e questa sera quando tornerà gli darò la tua lettera che ho ritirata per lui alla posta.
LETTERA 125.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Veroli, 30 giugno 1831
Partirò certamente, Mariuccia mia, e con questi di casa non è necessario alcun pretesto, avendogli io già manifestato chiaramente che la stemperatezza di questo clima mi caccia.
Circa all'interesse sono contentissimi che tu lo accomodi con Publio: si potrà ratizzare sulla mia dimora fatta fino al punto della partenza.
- Tu mi dimandi perché non ti ho dato prima un cenno delle cose che ti dissi nella mia precedente.
- Te ne ho parlato quando era tempo di aprir bocca.
Il tempo anteriore fu consumato in esperienza.
Appena qui giunto, e per qualche giorno di poi, ti dava buone nuove di mia salute, e diceva la verità.
Lo stomaco era stato il primo ad accorgersi del mutamento di clima e se n'era mostrato contento.
Dopo sono succeduti ad avvedersene i muscoli, ed hanno collo stomaco fatto causa a parte.
Allora ho aperto gli occhi io, e ho cominciato meglio ad osservare la bisogna.
Questo paese è situato sopra una montagna tutta scogli, e tutta scoperta.
Ieri cambiò temperatura cinque o sei volte, e sempre da un eccesso all'altro.
Me lo avevano dipinto per un paradiso: potrei anche crederlo per l'elevatezza sua, ma pel resto somiglia meglio all'inferno.
Non ti dico che l'aria non sia buona: non può anzi essere che ottima; ma per reggere alle stravaganze delle montagne è necessaria una costituzione meno scompaginata della mia.
Ciò riguarda al fisico.
Circa poi al civile non ti dissi nella mia ultima che la metà.
Figurati tre giorni addietro la Sig.ra Nanna non trovò un uovo per tutta Veroli, onde darmelo la sera.
Ieri mattina fece girare e battere ad ogni porta onde trovare un paio di piccioni.
Li ebbe finalmente a gran ventura, ma grossi come due quaglie le costarono due paoli.
Ieri sera io aveva necessità di un poco di cassia: il povero Publio dové tornare a casa senza averla potuto portare.
Per farmi un poco d'insalata cotta, bisogna ordinare la cicoria un giorno avanti.
Purtuttavia questa tavola è molto a sufficienza provvista, ma tutto gronda sudore di chi lo ha procacciato.
La carne di macello si deve comperare quando c'è, e poi metterla in grotta.
- In quanto poi all'interno della casa essa è bella e sarebbe anche assai comoda, ma la poca cura manda tutto in deperimento.
La cortesia de' padroni di casa può dirsi senza uguale, ma è una cortesia campagnola che ti porrebbe la casa in collo senza comprendere che il peso eccederà le tue forze.
Prenda un poco di questo: sono tenerissimi: e saranno cavoli.
- Senta com'è delicato e leggiero questo umido: e saranno funghi, la di cui leggerezza la misurano a peso di stadera, e non a capacità di stomaco.
E mangi qui, e riprenda lì, e assaggi di questo, ma lei non mangia niente, ma lei muore di fame, ma lei fa penitenza: e beva un altro bicchiere: e si sforzi; e faccia un poco di merenda ma i suoi dolori provengono da debolezza, etc.
etc.
Intanto io vado scoprendo certe codiche di porco cotte col lesso, vado sentendo pepe e garofani, bevo un'acqua che sa di terra, benché a questi signori sembri acqua celeste, e debbo tutto giorno lottare contro le cordiali insistenze di chi è incapace di essere illuminato quando certe cose non le capisce da sé.
- Mi dicono: Lei sta sempre solo, e si annoierà.
Come vuoi fare altrimenti? Io ho bisogno di riguardi.
Se scendo all'appartamento della signora, trovo tutto aperto, e spesso per le stanze fischia la tramontana come in piazza.
È vero che qualche volta al mio apparire si chiude qualche finestra in qui e in là, ma io mi accorgo assai bene che quello che giova a me nuoce agli altri, e riesce loro un gran sacrificio.
Figurati, la conversazione è composta di tre o quattro persone che giuocano a calabresella in mezzo proprio di una stanzetta con quattro finestre, due porte e un camminetto, che vale a dire sette buchi tutti spalancati.
La Sig.ra Nanna sta in camera sua a dir le orazioni con le figlie; ed io in camera mia a sbadigliare, ma almeno a finestre chiuse.
A due ore e mezzo ceno.
Publio e il Governatore che fan parte della calabresella, cenano verso le due e vanno spesso a letto coll'alba.
Potrei io far questa vita? - Venghiamo adesso alla mia partenza.
Ho fatto consiglio colla Sig.ra Nanna e con Publio.
Due mezzi vi sono: o la diligenza di Frosinone, o la vettura.
Col primo mezzo eviterei la pessima nottata a Valmontone, ma c'è l'incomodo di andare di qui a Frosinone con tutto il bagaglio; e questo è poi soverchio per la condotta della diligenza.
In vettura porterei tutto con me, ma si fa la tremenda nottata fra le cimici di Valmontone.
Or senti bene.
Dimani torna da Roma quel vetturino che io cacciai via allorché venni qui.
Con esso combinerò il giorno ed il modo del partire, e se egli (come qualche volta lo fa) accudisce a fare tutta una tirata, te ne avviserò, e tu mi favorirai di farmi trovare alla porta la facoltà del Conte Moroni firmata e bollata col suggello di uficio a scanso di dispute.
E se potrai unirci anche un lasciapassare te ne sarò grato.
Ci sentiremo però meglio quando avrò parlato col vetturino.
Intanto ho scritto alla Roberti, ma solamente per prevenirla.
La decisione definitiva la prenderò a Roma, perché vorrei almeno arrivare da quella povera gente senza dolori.
Se mi ripigliano là, pazienza; ma scendere dal legno per così dire onde mettermi a letto, non mi parrebbe coscienza; e neppure mi azzarderei a un viaggio lunghetto se non mi sentissi in forze e in sanità sufficiente.
Oltrediché arrivato a Roma dovrò riformare e mutare faccia al bagaglio per passarlo dal baulle alla valigia, e lasciare tante cose che per la diligenza peserebbero troppo.
Dunque il posto non me lo fissare.
Questo si fa presto; ed altronde non mi parrebbe prudente l'obligarmi così in anticipazione a un proseguimento di viaggio che per qualunque motivo mi potesse riuscire ineseguibile pel già fissato momento.
Non mi dilungo di più, avendo scritto abbastanza, e dovendo presto correre ad impostare perché è tardi.
Abbraccia Ciro nostro, e benedicilo.
Intanto godo anticipatamente del piacere di rivederlo unitamente a te, che stringo al cuore dicendomi
Il tuo Peppetella.
LETTERA 126.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Morrovalle, 31 luglio 1831
Mio caro Neroni
Dove siete? Io son qui, dopo aver passeggiato per molti giorni la provincia di Campagna, troppo bello e sfortunato asilo di ladri.
Mi tratterrò in questa terra alcun poco di tempo, alieno pel corrente anno da' miei giri nel Nord d'Italia: ché tre mesi di mori-e-non-mori; 14 libbre di sangue accordato generosamente alla punta di una lancetta e alle trombe di 65 mignatte; dodici vescicatoi; un paio di dozzine di purghe, un battaglione di lavemens, Monsieur; un codicillo di senapismi; 50 giorni di sole bevande insustanziose; una penitenza, una eucarestia, e un preludietto di crisma; le son coserelle da non menar tanto per l'allegra due gambe di un povero galantuomo.
E così è che mi convenne non ha guari scontare sette anni di perfetta e robusta salute, co' quali era io stato dal 24 al 31 premiato di un altro settenario di patimenti sofferti già dal 17 al 24.
Laude sempre ne sia alla Provvidenza che si degna assaggiarci nel crogiuolo de' malanni.
Basta di me.
E voi, mio stracarissimo amico, come state? come ve la passate? Fra le delizie certo di una consolante famiglia, giunta da età e stato di coronare le paterne sollecitudini.
So de' vostri due figli che han dato soggetto ad encomii pubblici per la loro eccellenza nella bell'arte che vi ha sempre sedotto.
Bravi! Me ne rallegro e con essi e con voi.
I Voltattorni? Li saluto tutti e singoli; e qui sta bene un etc.
Abbraccia Neroni suo
G.
G.
Belli
LETTERA 127.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Morrovalle, giovedì 18 agosto 1831
Mia carissima Mariuccia
Riscontro due tue lettere dell'11 cioè e del 13.
- Circa alla prima ti dico che ho fatto a queste Signore l'ambasciata della coperta: se vorranno ordinarla te ne riparlerò a suo tempo.
- Mi dispiacque di darti disturbo intorno al Cholera Morbus, ma ne fui spinto a parlare dallo stretto interesse civico, familiare e personale, che in casi simili non può certamente tacere.
La storiella delle Monache de SS.
Domenico e Sisto già io la sapeva dalla stessa bocca di Mazzucchelli che la ripete ogni momento: ma malgrado della sicurezza di lui e di tutta Roma in un flagello di questa natura, non è meno vero che ci facciamo illusione miserissima, dapoiché questo morbo desolatore si avvanza sempre a passi di gigante, ed ha già di molto trapassato il Danubio che si sperava potesse esserne una barriera.
E lasciamo stare la strage che mena ne' luoghi da noi più remoti: l'11 luglio a Pietroburgo di circa 500 malati non se ne salvarono 15.
Basta, nella universal cecità che pare sempre destinata ad accompagnare agli occhi umani questa specie di flagelli, l'unico conforto è certo quello di sperare nell'aiuto celeste, benché sarebbe sempre assai meglio sperare nel Cielo e d'aiutarci alacremente, onde i nostri sforzi fossero benedetti di felice successo.
Ma è purtroppo sicuro che dopo aversela presa in canzona allorché il male sarà a porta del popolo, si ordinerà in fretta in fretta una processione.
Non voglio più estendermi sopra un argomento così desolante, il quale non può non affligerti, Mariuccia mia, senza nessun compenso.
Lasciamo fare alla provvidenza: seguiremo la sorte degli altri.
- Intorno però alle perniciose e al vaiuolo che mi dici affliggere attualmente Roma, conosco anch'io la difficoltà di garantirsene; ma pure son persuaso che fra cento affetti, ottanta o novanta apparterranno alla classe di chi si è avuto meno cura: almeno usando delle precauzioni, e poi cadendo pure nel male, questo riuscirà meno maligno.
Dunque, per carità, gran cura a te ed a Ciro, il quale da un momento all'altro aspetto di udirlo vaccinato.
Vengo ora, alla tua de' 13.
Secondo quanto mi avvisi sul ritorno indietro delle lettere a Bondì, quella da me scrittagli il 7 dovrà retrocedere a Macerata, dov'è la Direzione che la spinge a Sinigallia.
Quando potrò avere occasione di farne fare ricerca, ne avrò pensiere; benché non so se a me la renderanno.
Intanto ho oggi stesso riscritto alla M.sa Antaldi ne' termini da te indicatimi; e speriamo vederne un successo.
Forse forse Fioravanti pagherà i frutti in agosto, come promette; ma ecco che anche in quest'anno abbiamo perduto l'occasione del pagamento della sorte la quale è per noi di grande importanza, stante la difficoltà della qualità del contratto.
Più si tarda, peggio è; e però io aveva pensato di assalire il debitore per sorte e frutti senza più parlargliene.
Se ora paga i frutti è certo che chiederà altra dilazione per la sorte.
Tu però che stai al regime della casa, queste cose le vedi meglio di me; dunque fa' tu, che è ben fatto.
Godo della stipulazione con Corsini.
Qui piove sempre, fa umido e freddo: e quando queste tre cose non accadono, vi è invece una quantità di vapori secchi, che tingono il Sole in verde, in bleu, in giallo, e in bianco.
Passa da un colore all'altro come una lanterna magica: e si guarda ad occhio nudo.
Che stagione! Che anno! Tanti saluti di questi signori: io abbraccio Ciro e te di tutto cuore.
Il tuo P.
P.S.
Devi avere avuta la mia degli 11, segnata per equivoco col n.
8: doveva portare il n.
7.
Essa ti faceva mille augurii per la tua festa.
LETTERA 128.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Morrovalle, martedì 23 agosto 1831
Mi approfitto, mia cara Mariuccia del ritorno che fa a Roma Meconi, per inviarti la presente risposta alla tua del 18.
Tanto meglio l'aver lasciato Veroli a tempo! In quest'anno per verità l'atmosfera è minacciata dappertutto; ma sotto il Cielo di Veroli si deve soffrirne assai più che altrove, per la incostanza naturale a cui va quel clima soggetto.
Arrivato io qui, dopo alcuni giorni ebbi una lettera di Publio, in cui, come io già me l'aspettava, si faceva un bello elogio di quel soggiorno, diventato un paradiso terrestre appena dopo la mia partenza! Aria dolce, tranquilla, cielo sereno, sole temperatissimo, e gioia universale! Non so cosa direbbe adesso il buon Publio, seppure l'amor del nido de' suoi morti antichi non lo accecasse sulle bare de' morti moderni.
Qui almeno, se il tempo è strano e veramente imperversa, le morti son rare e colpiscono quasi solamente dei vecchi, o de' giovani di vita strapazzata e per lo più ritornati dai lavori delle campagne romane.
In questo territorio di Morrovalle si vede sì qualche perniciosa, ma poche: nell'altro di Montesanto, dove andai ieri a visitare la famiglia Marefoschi, ne sono scoppiate di più, benché l'aria vi sia tenuta per forse più salubre ancora che questa.
Ed io penso, appunto nella maggiore elasticità di quel clima consistere la principal ragione del maggior numero di malori.
Più elevata, più scoperta, e in conseguenza più incostante nella temperatura.
Ho riso assai e ho fatto ridere la famiglia Roberti sulle 3 avemarie a te e 10 a Ciro.
Bisogna senza dubbio convenire nel tuo pensiero che il nostro nuovo penitente ne avesse un carro a quattro cavalli! Se va avanti con questa proporzione, a 20 anni non avrà più che il tempo di far penitenze.
Spero che queste riflessioni lo persuaderanno di più della necessità di esser buono e far sempre il suo dovere.
Così Iddio lo benedirà, e gli uomini gli daranno lode e riverenza.
Come si conosce bene che in Roma si trascurano affatto tutte le salutari osservanze! Non trovarsi ancora un buon pus! fa meraviglia! Il giorno 20 ebbi riscontro di Macerata non esser là ritornata la lettera che io scrissi il 7 a Bondì in Sinigallia sotto l'indirizzo dei Sigg.
Cave e Bondì: il 21 dunque scrissi direttamente al Direttore della posta di Sinigallia, pregandolo, benché non mi conosca personalmente, di respingere quella lettera o direttamente a me o vero in Roma alla Ditta Sigg.
Cave e Bondì, a cui è diretta.
Vedremo che ne nascerà.
Ti dissi già che avevo ripetuto alla M.sa Antaldi, dalla quale non ho ancora riscontro.
Due Elene avrai avuto tu da complimentare: la Barbèri di cui mi parlasti, e la Lovery che è più secondo il tuo cuore.
Di' a Stanislao che in seguito delle di lui notizie ho scritto a Torricelli, benché da Veroli già gli dassi discarico della procura della cresima di Ciro.
Lo ringrazio intanto senza fine il nostro buon Stanislao, che saluto, e che spero stia in ottima salute.
A proposito, di' a Biscontini, che al mio passaggio da Spoleto, non vidi Plinj ma un di lui giovane che egli mi fece trovare per dirmi che Riochi aveva pagato qualche cosa e si disponeva a pagare il di più.
Do a Meconi un libro che ti passerà: mettilo nel mio studio: è una buona edizione di una ottima storia da me comprata a Macerata per pochi baiocchi.
Saluto tutti, ed Ossoli: e ti abbraccio con Ciro.
Il tuo P.
LETTERA 129.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Morrovalle, domenica 4 settembre 1831
Bramoso, mia cara Mariuccia, di compiacerti, mi accingo all'opera di cercare informazioni sul Collegio di Osimo.
Non mi reco espressamente sul luogo distante di qui circa 30 miglia, perché per convincermi col fatto delle cose che caverò da buone fonti mi bisognerebbe passare del tempo onde assistere alle lezioni, conversare co' Maestri ed acquistare l'esperienza necessaria a conoscere l'abilità di questi e la efficacia de' loro metodi.
Però ti prevengo del molto mio dubbio circa alla preferenza che questo vecchio Collegio Vescovile possa meritare sul rinnovato di Perugia che ha una celebre università, un gabinetto, una specola e un museo, a contatto ed aiuto.
Certo egli è bene che in una Casa di educazione regolata da Vescovi l'influenza de' mirabili sistemi della moderna istruzione arriverà appena dopo un altro mezzo secolo, quando cioè già sarà tarda.
Tutti i lumi che io già posseggo in mente intorno al collegio in quistione si riducono all'aver esso dato ne' passati tempi de' bravi preti, abilità che forse non ha oggi perduta.
I professori saranno eccellenti, ma di oscuro nome son certo.
Le risorse poi di Osimo in fatto di scienza e di ornamenti fanno aggricciare le carni a pensarle.
Non ti aggiungo altro su ciò: queste sono mie idee che probabilmente i fatti potranno smentire.
Rispetto per ciò sempre le ragioni che tu abbia per inclinare alla contraria opinione e quando me le avrai manifestate le valuteremo insieme e le confronteremo colle mie per decidere in un punto di tanta importanza.
D'altra parte io stimo Meconi per un buono e bravo giovanotto: ma non lo ritengo assai competente per dar giudizii di cose che poco riguardano la sua sfera e la sua esperienza in somiglianti materie.
Il nome che può aversi acquistato il Collegio ne' vecchi tempi, tra il vecchio modo di vedere, e tra i passati bisogni del secolo, possono illuderlo come possono illudere molti altri: e se aggiungi a queste considerazioni l'altra dello stare ivi in educazione un individuo della famiglia Marefoschi a lui tanto attaccata, potrai tirare una conseguenza de' suoi elogi con poco pericolo d'ingannarti.
Ma vedremo, e saprai.
Intanto ti prego caldamente di passare urgenti istanze al nostro Biscontini affinché ricerchi presto fra' suoi libri, e ti dia la copia del programma del Collegio perugino ch'egli più volte mi promise in reintegrazione di quella che per di lui consenso mandai a Torricelli.
Se ne avrà bisogno per fare con quella ciò che a suo tempo ti dirò.
- Ho piacere che tu sii andata a visitare i miei parenti.
Povera Costanza! Senza legato! - Va bene de' danari da te dati al francese di Bochet.
La carta bollata per le quietanze non serve a nulla: dovremo forse litigare con Bochet? Spero di no.
Come sono contento all'udire che si speri di aver trovato un buon pus! Così almeno avremo preservato quel caro figlio da un malanno.
E circa a mali, mi rattrista che tu vada ricadendo nella riscaldazione.
Badaci, e non trascurarla.
Le migliori notizie del Principe di Piombino mi hanno fatto piacere.
Da tre giorni è qui ripartito il poco di sereno e di caldo che da poco aveva ricominciato.
Tira un vento da gettare per terra, fa freddo e umido: piove e vien grandine in qua e in là.
Quale anno! Con tutto ciò io me la vado passando competentemente.
Oggi è finito il solenne triduo celebrato in questo paese a preservazione del Cholera.
Che dice ora Mazzucchelli? Ci crede che venga? Spero che i medici romani leggano le molte opere, e i moltissimi articoli de' giornali scientifici e letterarj che ne parlano in tutti i sensi.
Ne ristringessero almeno un qualche metodo preservativo e curativo per la povera Roma! Benedici Ciro e abbraccialo come di cuore ti abbraccio.
Il tuo P.
P.S.
Ti rendo i saluti di Casa Roberti.
LETTERA 130.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
Di Terni, mercoldì 5 ottobre 1831
Checco mio
Fra non molto ci riabbracceremo.
Intanto ti fo precorrere la notizia che vengo carico di nuovi versi da plebe.
Ne ho sino ad oggi in 153 sonetti, sessantasei de' quali scritti da dopo la metà di settembre (crescono).
A guardarli tutti insieme, e unendovi col pensiere quel di più che potrà uscire dai materiali già raccolti, mi pare di vedere che questa serie di poesie vada a prendere un aspetto di qualchecosa, da poter forse davvero restare per un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma.
In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i costumi, le usanze, le pratiche, la credenza, le superstizioni, i pregiudizi, le notizie, e tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene, al mio giudizio, una impronta che la distingue d'assai da qualunque altro carattere di popolo.
Né Roma è tale che la plebe di lei non faccia parte di gran cosa, di una Città di sempre solenne ricordanza.
Di più mi sembra non iscomporsi da novità la mia idea.
Un disegno così colorito non troverà lavoro da confronto che lo precedesse.
I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica, come nessun popolaccio n'ebbe mai.
Tutto esce spontaneo dalla natura sua, viva sempre e fresca, perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non mercate.
Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlar loro ciò che può vedersi delle fisionomie.
Perché tanto queste diverse nella plebe di una Città da quelle de' cittadini della Città stessa? Perché non frenati i muscoli del volto alla immobilità che la educazione civile richiede, si abituano alle contrazioni della passione che domina e dell'affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo corrispondente quasi sempre alla natura dello spirito che que' corpi anima e dirige.
Che se ne' cittadini non accade una totale uniformità di fisionomie, ciò si deve alla fondamentale differenza de' tratti specialmente proveniente dalla ineguaglianza degli ossi che le carni rivestono e dal non aver mai la Natura creato nulla di simile, ma di consimile.
Vero però sempre mi par rimanere che la educaz.e che accompagna l'incivilimento, fa ogni sforzo per ridurre gli uomini alla uniformità: che se non vi riesce quanto vorrebbe, è forse uno de' beneficii della creazione.
- Il popolo quindi mancante di arte, manca di poesia.
Se mai una ne cerca, lo fa sforzandosi d'imitare la illustre.
Allora il plebeo non è più lui; ma un fantoccio male e goffam.e rivestito di vesti non attagliate al suo dosso.
Poesia propria non ha: e in ciò errarono quanti mai sin qui vollero rappresentare il dir romanesco in versi che tutto mostrano lo sforzo dell'arte sulla natura e della natura sull'arte.
Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza ornamento, senza alterazione, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza se non quelli che il parlatore romanesco usa egli stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall'uso; ecco il mio scopo.
Il numero poetico deve uscire come per accidente dal casuale accozzamento di correnti e libere parole e frasi; non iscomposte giammai, né corrette, né modellate, né accomodate, con modo diverso da quello che ci può mandare il testimonio delle orecchie.
Che se con simigliante corredo di colori nativi giungerò a dipingere tutta la morale e civile vita e la religione del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non disprezzabile da chi guarda senza la lente del pregiudizio.
Non casta, non religiosa talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma; ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per dare un modello, ma sì una traduzione di cosa già esistente, e, più lasciata senza miglioramento.
A te e a Biagini, ed in voi agli amici di maggior mia confidenza io darò a vedere gli ultimi lavori delle mie ore d'ozio, persuaso che la delicatezza e l'amicizia d'entrambi non ne trarrà fuori che la sola lettura.
Ne rideremo poi insieme; e queste risa ci varranno a prepararci l'animo alle possibili sciagure che ci minaccino.
Abbraccia tutti quelli che mi son cari: addio.
Il tuo Belli
La mia salute è mediocre.
La tua?
LETTERA 131.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
[31 dicembre 1831]
Mio caro Torricelli
La tua lettera del 27 mi ha tutto pieno di dolore.
Vi leggo quanto tu hai dovuto e devi sentire in questo luttuosissimo avvenimento: nel bacio e nel sorriso paterno, di', non hai trovato oggi un premio, un gran premio, della filiale carità? Il tuo padre morendo si è ricordato che tu non gli hai afflitto gli ultimi giorni di vita malgrado qualche piccola durezza che potesse averti usata.
La di lui benedizione discese sul tuo capo e passerà certo ai figli de' tuoi figli.
Ora sii uomo, un uomo filosofo; sollevati e pensa quante vite sono attaccate alla tua.
- Ho delineato oggi un rozzo pensiero da servire per una idea allo scultore in metallo.
Vedilo intanto tu, e rimandamelo, perché non ne ho un doppio.
Io stimerei che la grandezza fosse conveniente così.
Sto pensando che se le lettere ti sembrano grandi al giusto difficilmente si potranno incidere nette nel marmo e più difficilmente riempire il graffito con l'oro in modo che risalti.
Per l'incisione in marmo vorrebbero le lettere essere di taglio più ampio e profondo che non comporta la proporzione del mio modello: e fatte più grandi, ne risulterebbe un tutto di soverchia mole e di soverchio prezzo (benché questo non sarà mai piccolo): l'anello soprattutto vi si smarrirebbe alla vista.
Non si potrebbe dunque tirare la tavola di bronzo oliva-cupo, incidervi le lettere e dorarle? L'annettervele in rilievo costerebbe troppo caro.
Ma son curioso io che ti vo' facendo l'economo.
Ho preso l'ardire di cambiare qualche parola alla inscriz.e: non però con l'animo di preferire la mia alla tua lezione.
Due o tre volte ho posposto la 6a colla 7a linea, ma poi ho lasciato così suonandomi meglio all'orecchio e alla mente.
Circa alla punteggiatura io sarei contento a questo.
Il carattere corsivo, che ne ammetterebbe di più, parmi che sconvenga.
Le parole di tuo padre in diverso colore mi spiacerebbero: la diversa mole le distinguerà assai.
Dopo la linea 12 non è necessario alcun segno di divisione.
Vedo le migliori epigrafi che non ne hanno.
Il ritorno al carattere piccolo, e il senso staccato non lasciano luogo a questa necessità.
Venendo all'affare Consolidato, vedo, sì, un capitale di Lire italiane 4761,27; pel quale il Tassini avrebbe dato Sc.
300.
Questa specie però di offerta egli la fece in quella stessa lettera in cui avvisava tuo padre che il frutto di quel Capitale era stato fissato dal Monte di Milano a Sc.
25 annui.
Nelle lettere posteriori peraltro il medesimo frutto si vede calare invece a 25 lire ital.e, e poi a L.
24,50, aggiungendovi che soltanto per equivoco si era da lui, Tassini, parlato in addietro di scudi là dove s'intendevano lire.
Mi fa gran meraviglia come un Capitale che ridotto a unità romana al cambio del 535 forma una somma di Sc.
889:95, abbia a rendere un frutto di L.
24,50 equivalenti a Sc.
4:57 1/2.
Il Consolidato essendo al godimento del 5, non rappresenterebbe questa somma annua neppure un valore di cento scudi.
Ci deve dunque essere qualche motivo occulto.
Un'altra cosa ho rilevato dal carteggio Tassini, cioè che prima dell'arrivo a lui della procura del q.m tuo padre, pareva che i denari stassero in tasca: dopo l'arrivo della procura (con la facoltà di alienare) si direbbe quasi che neppure il Monte Napoleone o la Commissione mista avessero pensato ancora a liquidare il credito.
Il Tassini assume d'improvviso un certo discorso d'irre orre che non garbeggia molto.
Ho già fatti varii quesiti in proposito alla Direz.e del debito pubblico; e se posso averne le risposte, come mi sono state promesse, prima della partenza del corriere d'oggi, te le aggiungerò qui sotto.
Altrimenti ad aliam.
- Circa poi alla alienabilità della vendita, oggi il Governo é poco in credito, e perciò appena si potrebbe ricavare un 75 per 100 capitalizzato il frutto al 5.
Mi spiego? Ogni Sc.
5 di rendita sono riguardati rappresentare un capitale di scudi 100.
Orbene questi scudi 100 oggi diventano 75, ed anche meno per chi vuole evitarli: eppure in commercio era già arrivato il consolidato romano al 105 per 100, e il Milanese al 100, cioè alla pari.
Ma ora...
Aspetterò dunque che tu abbi fatto alla tua elegia, i cambiamenti che stimi convenienti, e, avuti questi, metterò tutto nella sua lezione e busserò alle porte degli Odescalchi.
Va bene così?
Davvero la Circolare mi sa di muffa.
Credi l'A.A.
miglior dicitore?
Mi congratulo teco pel ristabilimento del tuo bel Torquatello che mi abbraccerai, come abbraccerai anche il futuro mio santoletto Amantino dal viso dell'Armi.
È più così serio? Sant'Anna aiuti la tua Clorinda.
Mariuccia ti fa le sue sincere condoglianze e ti esorta con me alla rassegnazione.
Addio, addio.
Ti abbraccia il tuo Belli.
Di Roma, l'ultimo dell'anno 1831
LETTERA 132.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
[4 gennaio 1832]
Mio caro Ferretti
Eccoti la introduzione.
Leggila, e dimmi il tuo parere; perché il criterio tuo mi sta per cosa non comune.
Ti accludo anche due altri sonetti che l'ha fatti chi jje pare e ppiasce.
Riprenderò tutto lunedì 9 verso le 3 1/2 pomeridiane, alla qual'ora sarò da te, purché il tempo non vada all'estremo del cattivo, e neppure a quello del buono, lo che in inverno è peggio forse che il tristo per un cerotto mio e tuo pari.
Il tuo Sig.
Avelloni sarà per avventura scandalizzato da alcuni soprattutto de' miei quadretti poetici: ma tu ripetigli il motto da me tolto ad Ausonio "lasciva est nobis pagina, vita proba," cioè "scastagnamo ar parlà, ma aramo dritto." Eppoi queste cose restano (almeno per ora) nelle menti de' soli amici, i quali, e tu il primo gentilissimo fra essi, mi usano certo la delicatezza di non conservarne altra nota che quella che resti loro nella memoria, lo che solo Iddio potrebbe togliere.
Ti abbraccia il tuo
Belli
4 del 1832.
LETTERA 133.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, sabato 14 gennaio 1832
Mio caro Torricelli
La tua ultima è del 3: ti sei tu forse maravigliato del mio silenzio? Ma
Del vecchio (ladro) guardavam la traccia.
Il vecchio però non si è lasciato trovare.
Potrebbero ben trovarlo gli occhi della giustizia, o criminale, o civile.
Ma che! In certi paesi, la prima, guarda più in cagnesco i buoni che i malvagi, ed altronde il legale probo di cui ti parlai è di avviso che il tuo caso contro il vecchio ladro non presenta tutti i caratteri da aprir l'adito ad una azione contro il corpo, dapoiché sino a tutto il fatto della vendita le cose procedettero regolari: nel resto tuo padre (di troppa buona fede sugli antecedenti) non ti ha lasciato che un credito contro uno inonesto anzi fraudolento procuratore.
Per aver titolo a procedere di crimine, dice il legale, bisognerebbe poter provare una frode sugli antecedenti.
Basta, io legislatore, in certi casi, manderei in galera gli antecedenti e i susseguenti.
Circa poi all'azione civile, ecco come stanno le tue cose.
Il Tassini non più impiegato al Cracas: senza scarpe in piedi, disperato, stoccatore per vivere.
Vivente Leone XII, imprese un giornale ecclesiastico, con sua rappresentanza, ma con occulta opera del P.
Ventura teatino.
Dopo alcuni numeri l'Imprenditore si mangiò le quote anticipate de' Soci, e il giornale arrenò.
Gli ecclesiastici e i filoecclesiastici, a' quali il giornale piaceva, ricorsero al Papa.
Il Papa chiamò il Tassini.
Questi, come puoi credere, era preparato alle ciarle.
Conclusione dell'abboccamento si fu che Leone fece dare al Tassini Sc.
600 per ristorare l'impresa.
Dopo due altri numeri, o meno, la impresa naufragò, e gli Sc.
600 andarono ove poi caddero le somme e i tartufi di Torricelli.
Fu coglionato un Papa, e meno i ferri che non volle imporgli, non seppe che fargli! [....] Non terminarono qui le mie ricerche.
La tua cartella fu venduta il 4 agosto 1829 a un Michele Ajani.
Io, giusta la probabilità, lo stimai l'Ajani Michele del Cracas, nel cui uficio era impiegato il Tassini.
Ma che! Il Michele Ajani del Cracas è già morto da otto anni, e l'uficio Cracas nel 1829 era (salvo i particolari contratti di famiglia) tra le mani di...
Cavalletti e dei cognati suoi Angelo e Pietro Ajani, l'ultimo de' quali è anche egli morto da alcuni mesi a questa parte.
- Ma il Consolidato di Gio.
B.
Torricelli venduto al Michele Ajani (come è scritto in Amm.e del debito pubblico) si possiede almeno da alcuno de' discendenti di lui? Nessuno della famiglia Ajani ha mai comperato rendite pubbliche.
Dunque chi può essere questo Ajani compratore? Il Michele no, perché morto ab antiquo: i due figli di lui no, perché non possessori di vendite pubbliche.
Piano: vi è un quarto Ajani, un Michelino Ajani attuale alunno dell'ospizio degli orfani, procedente da altra linea Ajani.
Ma questo è un fanciullo, è un orfanello; e questa gente non compera.
Però il Michelino ha un tutore.
Chi è questo tutore? Monsignor Ginnasi: peraltro nella intestaz.e di vendita, dovrebbe essere in questo caso stato scritto Mons.
Ginnasi come tutore etc., e non rudamente Michele Ajani dacché un fanciullo degli Orfani non fa certo quello che gli agenti ufficiali di Cambio dovettero presentare al Censore del Debito pubblico insieme col procuratore Tassini quali persone illis notae.
Mi resta dunque di parlare con Mons.
Ginnasi; e poi se il di lui pupillo non fu il compratore, come io credo, dimanderò all'Amm.re del Debito pubblico come sia che si vendano rendite pubbliche a nomi mentiti, ad incogniti.
Ci riudiremo.
Intanto tu vedi se tu avessi costì più fortuna con l'altro baron fottuto amico del baron fottuto Tassini.
Non ho avuto il tuo anello: per ciò non mi sono ancora mosso per la cornice etc.
Conosci tu la seguente sciarada del fu Giulio da Pesaro? La riportava un numero del giornale delle dame sul finire del 1831.
Così mi fu detto da chi me la recitò.
Città Greca è il mio primo illustre al Mondo.
Si fa bianco per gli anni il mio secondo
Penetra il tutto mio dentro il cervello
Od in un buco che il tacere è bello.
Quando avrai tempo e cuore mi manderai la tua variante alla elegia di Properzio, ed io farò fare il rinaccio: pregherò l'Odescalchi perché lo si faccia.
Sei ancor padre in 4°? Come è finita la faccenda Ugolinesca? Sei Deputato? Lo Zurla che disse?
Epigramma di autore a me cognito, per la occasione in cui fu da Bologna mandato oratore alla S.
Sede il poliglotto Mezzofanti, (ora prelato).
Sagacemente invia Bologna a Roma
Un orator che intende ogni idïoma:
Ché a Roma, a farsi onore,
È d'uopo un oratore
Che sappia delle lingue almeno quelle
Parlate nella Torre di Babele.
Il tuo Califfi
alias 996
LETTERA 134.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 2 febbraio Candelora del 1832
Mio caro Torricelli
È vero il tuo precedente annunzio, in fieri, della consegna di un anello a un corriere; ma poiché di tutti i caricamenti de' corrieri si manda dall'Ufficio postale un avviso ai domicilii, la mancanza di questo avviso mi fece supporre che la consegna non fosse accaduta de facto, e tu avessi mutato mezzo di spedizione.
Ad ogni modo ieri ritirai lo astuccetto con entro l'anello, la cui immagine bellissima è appena distinguibile attraverso di un cristalletto di superficie sfregiata.
Dove tu non fossi affezionato anche a detto cristallo (il cui logoramento ti si può forse affacciare alla mente quasi testimonio del lungo uso che ne fu fatto dal tuo padre), io ti proporrei di farcelo cambiare, nel che la miniatura guadagnerebbe moltissimo.
Dimmene il tuo parere.
Dàgli e ridàgli, ho finalmente parlato con Mons.
Ginnasi.
Mi ha fatto ripetere il discorso quattro volte, e poi non ha capito niente.
In ultimo un po' bene un po' male, con qualche aiuto di fianco sono giunto a mettergli in capo la metà di quel che io voleva: ma, lo vorrai credere? si è perduto tutte le cartelle de' consolidati da lui acquistati pel di lui pupillo Michele Ajani.
Cercò per tutto, a più volte, e non giunse a ritrovare queste benedette cartelle.
Era curioso il vederlo mettersi le mani fra i capelli, e di tempo in tempo domandarmi se fosse danno l'averle perdute! Da un libriccino di ricordi ricavò pure l'acquisto acefalo di un consolidato che comincerebbe col tuo nella data della compera, non però nella cifra della vendita, dapoiché il tuo era di Sc.
4:50 annui ed il suo è di Sc.
6.
Il prelato poi non conobbe né il venditore né il procuratore.
Il tutto passò per le mani di un agente di Cambio.
Ma appena io gli ripetei per la 5a volta il portentoso nome del Tassini, ammutolì, inarcò gli occhi, e mi disse: oh! il Tassini! è mio debitore: quando lo avrà trovato me lo mandi.
Ci dividemmo allora colla intesa che io tornerei nel futuro sabato 4 per leggere la fatale cartella, qualora sia ritrovata.
Gli lasciai memoria scritta e partii.
Intanto il portentoso nome del Tassini segue a farmi scoprire nuovi tratti del suo valore quante volte lo pronuncio nelle ricerche che ne vado facendo.
Ho scoperto mangerie, furti, stocchi, piccoli, grandi, pubblici, privati, e tutti corredati di bellissimi amminicoli.
Te ne risparmio le storie.
Dove sarà egli mai? nessuno lo sa.
L'unico luogo dove non è di certo, benché lì solamente dovrebbe trovarsi, è la galera.
Il Piva non è più impiegato alla Dogana di terra: dicono che ho capito male: è a Ripagrande.
Andrò là ma [....] Avesse ad essere un altro furbo! [....] Anche per questa lettera, mio caro Torricelli, nulla, o quasi nulla.
Ma il male viene dagli spini del fiore che mi hai messo tra mani.
L'appartamentino Belli pe' mesi di aprile e di maggio! Se verrò non istarò tanto quanto tu dici.
Dio ti dia pazienza nel tuo nuovo genere di vita.
Saluto tua moglie, abbraccio i tuoi figli e te affettuosamente.
Addio.
Il tuo Belli
LETTERA 135.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 4 febbraio 1832
Mio caro Torricelli
Per dimenticanza di un mio domestico la qui acclusa non andò alla posta nel suo debito corso.
La riapro pertanto e qui la inserisco in modo che formisi il volume di una sola lettera.
Questa mattina ho riveduto Mons.
Ginnasi.
La vendita ch'egli comprò pel suo pupillo Michele Ajani si fu appuntino la tua di Sc.
4:50 1/2 annui formanti un Capitale di Sc.
90:10, pel quale al Cambio allora corrente sborsò al Tassini Sc.
85:59 1/2.
Il Tassini dunque ha rubato per capitale Sc.
85:59 1/2 e per frutti arretrati a tutto il giorno 30 giugno 1829 Sc.
41:29.
In tutto Sc.
126:88 1/2.
Questo Signore è irreperibile.
Il Piva, che non pare cattiva persona, dice che dal mese di Dicembre, anzi dalla vigilia di Natale in cui cenò il Tassini con lui non lo ha più veduto senza più sapere dove siasi ficcato, perché ha per certo lui aver cambiato casa.
La dimora vecchia era nella via de' Coronari, ma la nuova nessuno la conosce.
Forse si è voluto così questo birbante sottrarre alle ricerche dei molti da lui derubati, che sono assai assai, ed ogni giorno ne discopro di più.
Ti assicuro, Torricelli mio, che io non perderò di mira lo scoprimento di lui, ma intanto non posso dirti di più.
Ma scopertolo poi che ne trarremo? Fa una cosa: scrivigli una lettera dicendogli tutta la cosa netta e tonda quale da me si è scoperta, e finisci per minacciargli una querela criminale.
Vediamo un poco di spaventarlo, se ne potesse cavare un costrutto.
E ti abbraccio di tutto cuore
Il tuo 996
LETTERA 136.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, 10 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Due righe per annunciarti il ricevimento del pacco da te inviatomi.
Esso contiene appunto ciò che io desiderava: e mi pare bene che io errai nel chiedere due paia di stivaletti bianchi, giacché trovo che le due paia più nuove, fatte l'anno scorso, sono le cenerine di tela russa e quelle di nankin naturale.
Sono sempre in attenzione della risoluzione che prenderà Pippo Ricci sull'invio degli Sc.
40 che tengo per lui, siccome gli scrissi il giorno 3 corrente, nel qual giorno ne scrissi contemporaneamente anche a te col mio n.
3.
Domani o dopo domani vado a Pesaro con Torricelli, e ne ritorneremo dopo due giorni conducendo la di lui suocera ad un casino di campagna che Torricelli ha in questi contorni, ed ove passeremo tutti insieme un mese.
Avrai udito che in Ancona accadono de' sussurri, ed i Carabinieri sono rinchiusi e guardati dai francesi.
Pare che tutto provenga dalla imprudenza di un ufficiale di quel corpo, il quale all'istanza un po' viva di certi cittadini che chiedevano la restituzione di un ottonaio carcerato per fabbricazione d'armi vietate, si vuole che corrispondesse con un colpo di pistola il quale uccidesse un uomo che usciva di chiesa pe' fatti suoi.
Il popolo parve molto indignato.
La frequenza di simili sconcerti pei diversi luoghi dello Stato non può essere favorevole al ristabilimento della buona intelligenza reciproca, tanto necessaria pel ritorno di un ordine desideratissimo, al quale ciascuno dei partiti dovrebbe cospirare, cooperando col sagrifizio d'una parte del proprio orgoglio e del sommo diritto che affaccia.
Il Mondo pare oggimai una caldaia di mosto.
Per ora grand'acido si sviluppa: quando ci consoleremo col vino di tanto fermento? Iddio ci tragga da tanti imbarazzi, ci faccia buoni, ci consoli, amen.
Tanti baci a Ciro nostro che benedico di cuore, come di cuore ti abbraccio.
Il tuo P.
LETTERA 137.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, 19 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Apprendo dalla tua del 17 la spedizione della scattola del Sig.
Camilletti, e ne ho parlato a Torricelli, il quale contentissimo di tutto ti ringrazia senza fine delle tue sollecite premure per lui.
Allorché l'invio sarà giunto, ne avrai avviso e ti si spedirà il resto dell'importo.
Gli scudi Trenta che ti spedii martedì 15 gli avrai forse a quest'ora ricevuti, seppure non ti arrivino colla diligenza di martedì 22.
Scrissi giovedì a Pippo dandogli ragguaglio del viaggio Marcolini, e pregandolo di saluti per te e per Ciro.
Torricelli ed io avevamo finalmente risoluto di andare dimani a Pesaro per tornare dopo due giorni, ma chissà se lo stato della Contessa ce lo permetterà.
Di giorno in giorno essa si è ridotta nel modo quasi simile a quello in cui mi ridussi io l'altr'anno.
I tempi qui infuriano invernilmente dopo sentitosi per qualche giorno un caldo veramente da luglio.
- Ti ringrazio rapporto alla Mancini, e riferirò a' di lei parenti le tue parole.
La gita alla Vigna Lelmi mi è un garante che la tua salute del 17 fosse migliore di quella del 16, lo che mi dà molta consolazione.
Venendo a Ciro, godo assai di vedere in lui un certo amor proprio, mentre da questo, allorché è moderato, procedono tutte le virtuose e lodevoli azioni degli uomini.
Benedicilo e abbraccialo per me.
Il sufficiente stato di salute del buon Cav.
Galiano mi dà piacere, e i suoi saluti altrettanto.
Intendi già che io li contraccambio sempre che tu possa farglieli ricevere.
La mia salute è buona, ma gli stessi riguardi che osservo per conservarla tale mi tengono moscetto moscetto, dappoiché sappi che dal mio arrivo a questa parte due sole volte ho potuto azzardare di uscire di Casa, oltre la visita a Marcolini: ed altronde qui dentro non vi sono attualmente motivi di sollievo, stante la malattia della Contessa e la insociabilità del paese.
Che vuoi fare? Vedo bene che da qualche tempo un destino avverso perseguita i miei viaggetti: ma
Purché non venga
Madonna Morte
L'iniqua sorte
Si stancherà.
Saluto tutti, e abbraccio affettuosamente la mia Mariuccia.
P.
LETTERA 138.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, 22 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Di pienissimo gusto di Torricelli e di tutti è riuscito il monumento mandato dal Sig.
Caminetti, per dare al quale io ti spedisco oggi franchi i residuati scudi quindici che gli consegnerai dietro la quietanza di saldo in Sc.
45.
Detta quietanza inseriscila in una tua lettera e mandamela.
S'intende già che il Sig.
Camilletti faccia il suo ricevuto a favore dirett.e di Torricelli per le tue mani.
Torricelli torna nuovamente a renderti le maggiori grazie che sa pel bel modo con cui l'hai in questa circostanza favorito.
Della Sig.ra Mancini va benissimo tutto ciò che tu dici, e ne feci parte a' di lei parenti.
Intanto ti ringrazio anche di ciò nuovamente.
Io non volli farti nessuna specie di rimprovero circa la regolarità delle cose che possa io dirigere a favor tuo: soltanto intesi di metterti su ciò l'animo in quiete per questa e per tutte le altre possibili circostanze future.
Va bene di Lazzarini e di Paniani.
- Le stesse parole che Piccolomini ha risposte a te le rispose a me prima della mia partenza: ciò vuol dire che non ha più pensato da quel tempo a far nulla.
Se vedi il Sig.
Perozzi, salutamelo.
Domenica scorsa, vedendo una ottima giornata, detti una corsa a Pesaro, viaggio di tre sole poste, e ne tornai ieri, lunedì, conducendo meco la Madre della Torricelli che sta molto aggravata.
Antaldi mi pagò Sc.
20, frutti a tutto marzo pp.to.
i quali sono in mie mani.
Il buon tempo dura ancora: oggi è il terzo giorno: Dio ce lo conservi.
Delli Sc.
10 che mi facesti ritenere sui denari di Ricci ti risposi in globo nella lettera a Ciro.
Andò benone così, e torno a manifestare la mia soddisfazione.
Povero Ciro! Non poteva ancora vedere i Cavalli! Ma pure egli ricorderà che una volta ci si addormentava e straniva.
Ora però è più grande e giudizioso, e troverà più gusto in quel divertimento.
Io lo abbraccio e benedico col maggior affetto.
Così faccio con te, dalla benedizione in fuori.
Sono il tuo
P.
LETTERA 139.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, giovedì 24 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Ricevo la tua carissima del 22 e la riscontro.
Non è già complimento che mi ha ritenuto in casa tanto tempo, ma come ti accennai, la malvagità dell'atmosfera.
Oggi è il 5° giorno che si respira, benché pare già che si vada un poco rannuvolando.
Io sto bene in genere, perchè mi sono avuto riguardo, ma vado sentendo de' doloretti agli articoli dei diti delle mani e de' piedi, ai polzi, ai gomiti, alle ginocchia etc.
Passeranno.
- La Contessa Torricelli sta molto male: le cavano gran sangue: insomma ricordati di me nel 1831: tale è ella ormai: di modo che qui v'è tutt'altro che allegria.
Ci vuol pazienza.
Godo della buona salute di Ciro, e della tua competente vado sperando meglio.
Dunque Borghese è stato trasportato da Firenze a Roma?
Non avrai trovato alla diligenza gli Sc.
15 che ti avvisai in predizione nella mia del 22.
Il motivo fu perché andato alla posta la mattina non ci trovai nessuno, e tornatoci dopo il pranzo trovai che allora passava il corriere, e non fu più tempo di depositare.
Depositai però ieri, e martedì 29 gli Sc.
15 per Camilletti saranno in Roma all'ufficio.
È un ritardo che a nulla nuoce.
La ricevuta del Camilletti per gli Sc.
45, come ti dissi la spedirai a me.
- Dimanda a Biscontini se ebbe poi la risposta di Plinj sul suo conto di stragiudiziali nella causa Marcotte a Ricchi.
Benedico e abbraccio Ciro nostro, e ti abbraccio affettuosamente
il tuo P.
LETTERA 140.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, 29 maggio 1832
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua 26 cadente.
Io sto meglio de' miei doloretti reumatici.
Per tre sere ho fatto de' pediluvii con acqua aceto e senape: per due mattine ho preso cremor di tartaro etc.
- Anche la Contessa sta meglio, benché da quattro giorni sieno qui riprincipiati i venti e le pioggie.
Godo del divertimento di Ciro nostro alla Commedia de' ragazzi; e mi spiace che i Cavalli ti abbiano annoiata.
- Dici benissimo: ho avulso Sc.
40.
Mariuccia mia, la posta sta per partire, ed io chiudo la presente per arrivare in tempo.
Do mille baci a Ciro e a te, saluto tutti e sono
il tuo P.
LETTERA 141.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, 7 giugno 1832
Mia cara Mariuccia
Ricevo la tua del 5 e mi sorprende che Pippo non ti abbia riferito le cose che io gli scrissi per te coll'ordinario del 2 corr., relative alla tua del 29 p.to Maggio.
Nello scorso ordinario del 5 ti aggiunsi qualche parola a piè di una lettera che volle scriverti il nostro Torricelli.
- Qui ancora il tempo segue ad essere alternato da fitto estate e fitto inverno: piove quasi sempre, e quando non piove tira un vento furioso; insomma è una diavoleria.
La Contessa segue al solito: io me la passo.
- Mi fa gran pena il sentirti così convulsa; ma spero che finalmente questo infame tempo si placherà.
- Di' a Spada che un po' più in là risponderò alla sua lettera.
Abbraccia e benedici il nostro caro Ciro, e credimi sempre affettuosam.e
il tuo P.
LETTERA 142.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, 16 giugno 1832
Godo assai, mia cara Mariuccia che finalmente questa tua da sì lungo tempo sospirata gita di Monte Cavi sia pure accaduta.
Ma se io debbo dal tempo che qui fece giovedì 14 arguir quello che avrà fatto in que' paesi, dovrei temere assai del buon esito della tua allegriata, imperocché qui soffiò tutto il giorno un turbine furiosissimo.
Basta, voi altri non sarete stati sciocchi di avventurarvi.
Lo avrei voluto vedere quel caro Ciro sul somarello! Ci fu alcuno che prendesse possesso? - La Contessa cominciò ieri ad alzarsi per una oretta.
Essa ti saluta e così Torricelli.
Anche egli è stato alcun poco malato.
Un po' più di lui lo è stata una di lei figlietta, e più di questa la cameriera della Contessa: tutti contemporaneamente.
- Il mio dito si è sciolto e scrivo bene da me.
- Bravo Cardinali! me l'aspettavo! - Salutami tutti gli amici, dà mille baci a Ciro nostro, e ricevi da me il solito affettuoso amplesso.
Sono il tuo P.
LETTERA 143.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, 19 giugno 1832
Mia cara Mariuccia
Il racconto della tua gita mi ha fatto passare una bella mezz'ora, benché avrei amato udire che ti avesse fatto lo stesso buonpro che al nostro amatissimo Ciro.
- M'indovini per aria e poiché lo comandi, ecco per ora in succinto la narrazione del fatto.
Il pretesto del dito e tutto il resto fu un puro artificio per non metterti in pena.
Ora pare tutto finito.
Il 4 mi posi in letto con febbre ed infiammazione di gola, presa collo star sempre in casa e in vetrina.
Dal 4 all'11 mi fecero 9 sanguigne dalle braccia e una dal piede.
Il giorno 17 mi attaccarono 17 mignatte alla gola e il giorno 11 altre 53 nel medesimo sito.
Jeri al giorno mi alzai un poco dopo di avere avuto per 15 giorni a' miei fianchi sempre il medico il chirurgo e lo speziale.
La mia Camera era trasformata in un arsenale di caraffe, di caraffine, di acque, di olii, di cassie, di cartine, di sciroppi, di spugne, di ghiaccio etc-etc.
e ti dico ghiaccio perchè nel giorno 12, vinta appena l'acutezza estrema del male, mi si posero a cacciare in gola ghiaccio e gelati; e così ho durato per 5 giorni dì e notte senza alcuna interruzione.
- Adesso mi si curano le ulcere natemi in gola.
- Ti assicuro che un assalto simile forse non l'ho avuto mai.
Ah! vedo che per questa mia gola è finalmente necessaria una risoluzione per liberarmi per sempre da un tanto flagello.
Ricadere ogni momento, ad ogni leggerissima causa: perdere tutto il sangue ogni tantino: conservare di ogni ricaduta il lievito per una nuova: patir tanto: correr rischio di ammalarmi in viaggio e dove Dio sa: spender tanto; e forse alla fine diventare un canchero!...
A tutto ciò avere un rimedio facile, non doloroso o pochissimo, breve, senza conseguenze, e non farlo? Già da molto tempo molti valenti professori mi ci hanno consigliato: in oggi poi me ne mostrano la precisa necessità.
Io ho due tonzille scirose: ebbene estirparle, e buon anno.
In due minuti tutto è fatto.
Fra due o tre mesi, tutto bene esaminato, voglio farlo: e tu se ami la mia vita ci acconsentirai.
- Ho scritto già troppo.
Tutti ti risalutano: ed io ti abbraccio di cuore con Ciro nostro.
Il tuo P.
P.S.
Il diligentissimo medico, bolognese, scuolaro di Tommasini, segue sempre a visitarmi con assiduità.
LETTERA 144.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, 21 giugno 1832
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua 19 corrente che a cagione della solennità del Corpus domini ho ricevuto pochi momenti prima dell'impostare.
Dalla mia precedente avrai udito tutto quello che in ristretto concerne la sbiossa da me sofferta.
Ora la convalescenza progredisce lentamente ed allorché sarà compiuta io volerò a Roma nelle mie stanze in compagnia di te e di Ciro e degli altri amici veramente fatti pel mio cuore.
- Tu non vuoi conti, ma come farne a meno? - Degli Sc.
40 da me avuti in tre volte, me n'erano restati al principio della malattia 26, coi quali io aveva, più che a sufficienza per soddisfare tutti gl'impegni e le spese fino a pie' fermo in Roma.
Ma vedi, cuor mio, quale diluvio mi è venuto addosso.
Il solo medico mi ha fatte 60 visite, delle quali varie di notte.
Poi tante sanguigne, tante mignatte, tanti crestieri, tante medicine, neve, gelati, doveri di mance di più...
In questo frangente ero lì per chiederti qualche cosa nel mentre che questo Dr.
Baglioni corrispondente di Pippo Ricci è venuto a propormi di lasciare in mie mani Sc.
40 per Ricci stesso.
Io ne scrivo a Pippo in questo medesimo corso e lo prego di venire subito da te per concertare questo affare, parendomi utile che tu non spenda per affrancarmi danaro.
Nella lettera a Pippo sviluppo meglio simile interesse, sicuro che quanto a lui dico potrà forse anche a te convenire.
Perciò qui mi astengo dal dire di più, essendo l'ora tarda e le forze poche.
Spero nel giorno di lunedì 25 avere su ciò una risposta da te concertata con Pippo per mia quiete.
Mia cara Mariuccia, io sono afflittissimo di aver cagionato alla Casa quest'altro dispendio nelle attuali purtroppo luttuose circostanze: ma come si fa? Come cozzar col destino? - Ti rendo i saluti della famiglia Torricelli, e ti prego risalutare chi si è ricordato di me.
A Ciro mille benedizioni e baci.
A te poi un milione di abbracci.
- Smanio di ritrovarmi fra voi altri.
Sono il tuo P.
LETTERA 145.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Fossombrone, martedì 26 giugno 1832
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua di sabato 23.
Ecco il motivo del mio artificio per nasconderti il mio stato: temevo di darti troppa pena, ma tu mi forzasti a dir tutto, e tutto fu detto.
Intanto però, cara Mariuccia, non agitarti più affatto perché io son guarito, ed ogni giorno sto meglio.
L'unica cosa che conservo sono quelle dogliarelle nelle articolazioni delle mani e de' piedi: ma, come ti dissi nella mia precedente, qui ti ripeto che il Medico mi assicura un tale incomoduccio dovermi lasciar libero allorché farò dei bagni.
Non attribuire menomamente a mio desiderio di palliarti l'importanza della operazione delle tonsille.
Tutti i professori mi hanno sempre in ogni luogo assicurato, come questi attualmente mi confermano essere detta estirpazione una cosa ridicola e da non farne alcun caso.
Il dolore è piccolissimo e infinitamente minore che quello della estrazione d'un dente: il tempo per eseguirla può al più estendersi a due minuti: l'emorragia se un poco di emorragia accade, si arresta in momenti con l'uso della neve tenuta in bocca.
Insomma io ti ho detto la pura verità: ciononostante ad autunno c'è tempo, ed avremo agio ed opportunità di parlarne per fare il tutto col più scrupoloso giudizio.
Che se verificheremo insieme che in simile operazione c'è tutt'altro che da porsi in orgasmo, non ti pare un gran beneficio quello di liberarmi per sempre da tante maledette angine?
Torricelli è tutt'ora a Sinigaglia: al suo ritorno gli farò i tuoi ringraziamenti: gli ho intanto fatti alla moglie la quale non vuole ascoltarli.
Di ciò parleremo meglio a voce.
- Sii certa che io non mi metterei in viaggio quando non mi sentissi capace di sopportarlo, sarebbe di partire dentro la settimana futura, secondo che potrò e dove il medico non lo giudicasse opportuno.
La mia idea su ciò trovare qui una occasione per venire a piccole giornate sulla via del Furlo.
Tre motivi mi persuadono a scegliere questo partito: 1° il non voler passare presso Ancona con la diligenza, dove questo legno è spesso assalito dai ladri: 2° evitare tre giorni di continua scossa con tre nottate di cammino: 3° il vero incomodo del giungere a Roma di notte.
Su ciò ci risentiremo meglio.
Se intanto ti fosse possibile di ottenere il solitissimo lasciapassare, sarebbe cosa buona.
Io posso riportare piuttosto qualche cosa di meno che non qualche cosa di più di quello che portai via da Roma.
Circa all'affare di Ricci, benché non abbia potuto udire il di lui voto, esiggerò gli Sc.
40 per suo conto, e quello che non ne spenderò lo condurrò a Roma per darlo a lui o a te secondochè sarà stato composto fra noi tre questo affare.
Forse la disgraziata combinazione di D.
Pietro Lante può essere utile alla salute di Ricci padre, togliendolo a quella vita solitaria e cogitabonda che sempre conduce.
La notizia di Galiano mi ha veramente sorpreso! Povero G.
R.
colle sue speranze! Tutti i dolci e le visite delle tre damigelle, tutto gettato! - Anche io però ci perdo, diciamo la verità, imperocché già mi andavo introitando delle altre belle trottate in quel comodissimo legno nelle deliziose giornate estive! Ma senza burla od egoismo, mi dispiace sul serio di non vederlo più!
È un pezzo che Cencio Rosa doveva avere il grado, ma io credevo qualche cosa più che sotto-tenente.
- Eccoti ancora da mia parte una bella letterona.
Lo scriverti non mi ha punto incomodato, ed altronde c'erano a dire varie cosette.
Finisco qui dopo averti pregato di benedire Ciro nostro e di coprirlo di baci.
Mi vado consolando sempre colla speranza che egli si ricordi del suo papà, e che studii.
Quanto godrei se al mio ritorno lo udissi leggere velocemente e a senso due pagine! - Ti abbraccio di vero cuore, Mariuccia mia, e sono il tuo P.
LETTERA 146.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
[fine giugno 1832]
Mio caro Checco
E da Mariuccia e da Ricci avrai udito le mie peripezie.
"Eppuro eccheme quà: gnente pavura".
(Io)
Senza dunque altra giustificazione tu vedi qual fu il mio ritardo di riscontro alla tua del 5 giugno spirante.
Se la faccenda andava un poco più avanti invece di giugno ero spirato io.
Allorchè Biagini scriverà al valoroso Malvica fa' che gli dica da mia parte che io ho letto il paragrafo per me e ne ho aggradito la compitezza dell'espressioni.
Esse stesse però, moderate ed oneste quali potevano uscire dalla penna di un gentiluomo quale Malvica è, mi hanno purtuttavia fatto dubitare che da me sino a Lui la natura delle mie opinioni e delle parole sul di lui libro bellissimo de' sepolcri etc.
abbia per avventura potuto alterarsi per successivi malintesi, mentre le doti dell'opera che il Malvica vuole modestamente segnalarmi sono appunto quelle che io trovo ed apprezzo in quel suo lavoro pieno di ardore, di dottrina e di virtù.
Le uniche mie pochissime osservazioni cadevano e cadono sul solo artificio di poche fra le molte inscrizioni onde il volume va ricco.
In questo mi parve che anche voi amici vi accordaste con me: e se così fu, o tutti dicemmo bene o c'ingannammo tutti.
Oltre la lettura da me fatta in Roma dell'esemplare che me ne die' Biagini, l'ho replicata in questa Città maturamente, al quale effetto portai meco il libro.
E già mi accingevo alla estensione dell'articolo per l'Oniologia, quando mi assalì la mia fiera malattia che fece colare dodici volte il mio sangue.
Pretermesso allora ogni pensiere che non fosse di cura, mi sopraggiunse la tua del 5 col paragrafo di Malvica, il quale mi fece mutare idea, onde evitare ogni credibilità di prevenzione sinistra che mi si potesse supporre dell'opera da esaminarsi, ed anzi da lodarsi quasi in tutto.
Malvica però non sarà frodato dall'articolo, seppure non mi manchi una promessa di chi non mi ha mancato giammai: e nell'articolo che rimpiazzerà il mio il nostro Malvica otterrà gli elogi e le osservazioni di ben più degna penna che la mia.
L'estensore ha egli per mia cura letto anch'egli due volte il libro e ne ha concepito il desiderio di conoscerne l'autore.
Chiudo questo lungo paragrafo co' miei affettuosi saluti per quel nobilissimo ingegno che tanto onora e più è per onorare la Sicilia e l'Italia.
Non mi resta più tempo per te.
L'ora della chiusura della posta già batte: e così tu, Biagini, Piccardi etc.
pigliatevi un sacco di abbracciamenti del vostro Belli.
"E se nel sacco qualcosella avanza,
Datene..."
P.S.
Non so se, rispondendomi tu, io potrei avere qui la tua risposta.
Dunque tu hai talento e capisci cos'hai da fare.
LETTERA 147.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
[7 agosto 1832]
Amico carissimo
Ho udito che abbiate ricevuto dal re di Napoli una nuova decorazione, e ne ho giubilato come di uno de' pochi casi ne' quali vedo fra gli uomini posarsi il fregio sul merito, e perciò più ne ho giubilato che questo merito riconosciuto risieda in chi mi onora della sua cara amicizia.
Se la notizia è vera, come ho dei dati per credere, piacciavi di accrescere la mia sodisfazione con una vostra diretta conferma.
Da non molti giorni io sono tornato a Roma dopo un altro breve viaggetto di poco oltre a due mesi.
Qui seguo il mio solito genere di vita: ritiratissimo e solitario.
Mi aspetto di udire altrettanto di voi, meno il vostro sollievo serale de' quartetti in famiglia.
Vi faccio i saluti di mia moglie e vi prego di passare i miei rispetti a tutti i vostri.
Sono di cuore
Il vostro amico e servitore
Giuseppe Gioachino Belli
Palazzo Poli, 2° piano.
Di Roma, 7 agosto 1832.
LETTERA 148.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Sabato 20 ottobre 1832
Mia cara Mariuccia
Manca un quarto alle 10 e già siamo a Baccano per rifrescare.
La vettura è eccellente, e i cavalli volano.
Ciro sta benone e saluta tanto tanto la sua mammà pregandola a stare allegra.
Un'ora e mezzo prima dell'Avemaria siamo giunti a Civitacastellana, e appena preso alloggio ho mandato il nostro Ciro con i due fidi angioli custodi a vedere il Duomo, il ponte, la fortezza (di fuori) e lo svizzero che batte le ore sul campanile.
- Tornato a casa, e udendo dire da me che la camera assegnataci doveva per certo essere frequentata da molti sorci, de' quali si vedevano gl'indizii e si udivano gli strilletti, egli il nostro Cirone ha subito esclamato: Questo è certo non vedete che anche sul pagliaccio de' letti ce n'è l'avviso? Queste due lettere S.A.
significano Sorcio Amato.
Infatti ogni paglione aveva un bollo marcato con dette iniziali.
- Ora è la 1/2 ora di notte.
Ciro giuoca a carte con Domenico, e osserva che la sua mammà starà con Don Ferdinando.
- Or'ora si cena e poi si va a letto.
Buona notte anche a te, cara Mariuccia da parte di noi tutti.
Narni 21 - ore 10 1/2 antimerid.e
Siamo giunti sani e salvi.
Ciro mangia d'assai buono appetito.
Abbiamo veduto Bucchi che ti saluta.
Sta grasso.
La moglie sta magra e torna a Roma sul fine del mese.
- Nel dubbio di fare in tempo a Terni, imposto qui la presente.
Se l'ora lo permetterà ti scriverò pure da Terni, e così avrai le notizie nuove di là.
Siamo in legno e scrivo qui dentro; perciò Ciro non può aggiungere di più.
Tanti rispetti d'Antonia e Domenico, co' saluti per Annamaria ed Antonio.
Ti abbraccio di cuore il tuo P.
LETTERA 149.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Mammà mia, io sto bene, e mi diverto vedendo Terni che mi piace, e ci ho trovato un anfiteatro come Corea.
Vi assicuro che non mi manca altro che di stare con voi.
Ma vado a farmi uomo, e questo pensiere deve dare a me coraggio, e a voi consolazione.
Tutti vi salutano; ed io vi bacio la mano chiedendovi la benedizione.
Ciro vostro.
Di Terni, lunedì 22 ottobre 1832
Mia cara Mariuccia
Come ti dissi nella mia, data di Narni, non giunsi qui in tempo per impostarti un cenno del nostro ottimo arrivo.
Fummo accolti con somma cordialità da Teodora, Mariuccia e Peppino.
La moglie é restata a Torre Orsina con la figlietta, perché questa è raffreddata, e pel bisogno di attendere alla vendemmia, lo che obliga pure Peppino a tornarvi oggi dopo pranzo.
Ciro piace a tutti quelli che lo vedono, e mostra una franchezza per tutto, in tutto e con tutti, che fa piacere a guardarlo.
Ogni tanto mi va egli dimandando cosa farà adesso Mammà.
Io gli rispondo che starà afflitta per la sua mancanza ed egli dice povera Mammà!
Ho veduto Corazza: siamo restati d'accordo che al mio ritorno lo avviserò e andremo a Cesi sulla faccia del luogo con un muratore e combineremo il tutto secondo il giusto e l'onesto.
Stocchi credeva che a me potesse piacere di prendere lo stesso il semestre d'affitto.
Gli ho mandato a dire da Corazza che il danaro serve a te in Roma, e però, dovendo io subito ripartire per Perugia, o mi fornisce col denaro i mezzi di spedirtelo franco, o lo affranchi egli stesso alla tua direzione.
Già ti ricorderai che in questo semestre ci toccano non già Sc.
105 ma bensì Sc.
97:81, stanti gli Sc.
7:19 che si debbono a Corazza.
- Circa agli Sc.
50 che questi deve dare tuttora per residuo del prezzo del terreno vendutogli, o me li pagherà al mio ritorno da Perugia (e in questo caso gli si abbuoneranno per essi altri Sc.
1:25 di frutti a tutto marzo 1833; epoca in cui entrerà in possesso del fondo); ovvero li pagherà in quell'epoca come meglio a me piacerà.
- Alla riapertura del tribunale, intorno alla festa di S.
Martino, sarà finita la pendenza con i frati Agostiniani, pel sequestro circa Piacenti.
Allora io sarò in Roma o starò per entrarvi, e firmeremo insieme la procura ad esiggere, secondo i termini che in detta epoca sarò ad indicarti.
- Io vorrei ripartire per Perugia dimani mattina, ma il vetturino che ci ha condotti fin qui non può venire, e sinora altro legno non s'è trovato.
Prima che cada il giorno ciò può accadere.
- Il tempo è bello e Peppino voleva condurre Ciro in legno alla caduta e poi di là a cavallo alla Torre; ma cavalli in questi tempi di vendemmia non si sono trovati, ed altronde vetture non si possono prendere stante la privativa della Posta, la quale poi costa troppo.
Egli ha un legnetto, ma attualmente manca di cavallo.
- Oggi penso di mandar Ciro a vedere il così detto Sasso di S.
Paolo a mezzo miglio fuori le porte di Terni, dove il fiume imbattendo in un enorme macigno piantato a traverso il suo corso, forma un salto bellissimo.
Sarà questa vista una miniatura della cascata che vedrà un giorno.
-
Mariuccia mia, pensa a sollevarti quanto più puoi, e sii persuasa che Ciro sta bene e meglio starà sempre coll'aiuto del Cielo.
- Antonia e Domenico non cessano d'insistere perchè io ti porga i loro rispetti, e ti mandi i saluti per la Signora Annamaria la Decana e per Antonio il novizio.
Martedì 23.
Non siamo oggi partiti per mancanza di vettura; partiremo però dimani mattina: si rinfrescherà a Spoleto: la sera a Fuligno; e giovedì mattina saremo a Dio piacendo, in Perugia; ciò accadrà presso a poco allorché tu leggerai la presente.
- Ciro ha fatto una grande amicizia con un canòne di casa.
Bisogna vedere come questa bestia gli corre appresso per tutto.
La seconda amicizia poi l'ha stretta con un bell'albero di fichi che sta giù nell'orto.
Ogni tanto corre giù, e sta contemplandolo a testa alta e bocca aperta.
Questa mattina Domenico ed io siam saliti sull'albero, ed egli era fuori di sé raccogliendo da basso i fichi che gli facevamo cadere.
Non credere però che ne abbia mangiati: li ha tutti portati in casa per pranzo.
Già egli parla di Terni e delle sue strade, come di Roma; e mostra una prontezza tale che credo non avergli mai scoperta dapprima.
Le mangiate e le dormite son come quelle d'Albano, e sta rosso e duro come una mela rosa.
Ieri fu, come ti dissi, al sasso di S.
Paolo, e tornato a casa imitava con salti e suoni di bocca il rumore e il moto di quel fenomeno d'acqua.
Oggi è andato a S.
Martino, al Monumento, alla Madonna del Rio, e verso la strada di Piedelmonte.
Antonia e Domenico gli sono sempre al fianco: io per verità faccio il poltrone.
-
Finisco col pregarti nuovamente a star del migliore animo che puoi.
Tutti ti salutano, e Ciro ti bacia la mano chiedendoti di nuovo la benedizione.
Io ti abbraccio di tutto cuore; e sono al solito
il tuo P.
LETTERA 150.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 25 ottobre 1832
Mia cara Mariuccia
Partiti ieri mattina da Terni arrivammo ieri a 22 ore e mezzo a Fuligno, dove girammo alquanto per far vedere alla mia gente la Città e i guasti del terremoto.
Dopo bene albergato si è ripartiti questa mattina a giorno e alle ore 11 antimeridiane eravamo già qui in Perugia distante da Fuligno 22 miglia.
Tutto è andato benone.
Smontati appena in locanda è venuto a vederci Biscontini il quale ha fatto tutti i patti col locandiere e ci ha assistiti a pranzo.
Dimani pranzerà con noi: noi poi andremo per un paio di giorni alla sua villeggiatura.
- Ho mandato alla posta, e infatti eravi la tua del 23 con l'inclusa carta bollata che ti rispingo firmata.
Circa alla assicurazione ci avrei sempre badato benché tu non me lo avessi detto.
- Ho già parlato col sarto e col calzuolaio.
Il primo farà a Ciro un abito nero, due pantaloni e gilè simili (tanti ne fanno gli altri) soprabito e pantaloni di borgonzò e feraiuolo simile: il calzuolaio poi gli farà due paia di scarpe.
- Domani andremo a visitare il Collegio, e allora ti saluterò il Presidente Colizzi: oggi sono tutti in campagna.
- Appena vedrò Micheletti gli farò il tuo saluto.
- Di Stocchi già ti dissi nella mia di Terni 24 corr.e; feci a Corazza molte premure, ma nulla vidi prima della mia partenza.
Spero che non vorrà prendersela così comoda.
- Va bene della De L'Arche: se si esigge, dimmelo, ed io le ne accuserò subito il ricevuto.
- Biscontini mi fornirà tutto il danaro che mi occorrerà.
- Ho parlato lungamente e continuamente con Ciro di te, ed oggi in particolare gli ho letto il paragrafo della tua lettera: egli dice che ti dia tanti e tanti baci sulle mani e sul viso da parte sua, e ti chieda a suo nome la benedizione.
- Noi stiamo tutti bene.
Antonia e Domenico ti riveriscono.
Biscontini ti saluta: io ti abbraccio di vero cuore.
Il tuo P.
LETTERA 151.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 27 ottobre 1832
Mia cara Mariuccia
Noi seguitiamo tutti a star bene: ieri conducemmo Ciro a vedere il Collegio: ci ricevé il Presidente Colizzi che ti saluta.
Lo stabilimento non può essere meglio esposto né più propriamente tenuto.
Tutto bene.
Bel refettorio, bella cucina, bel teatrino, bei bigliardi, bellissimo oratorio, insomma tutto bello, proprio e decente.
Si è stabilito che per quest'anno Ciro starà fra i piccoli, onde abbia più cura, non parendo ancor tempo che dorma in una camera solo, né essendo capace di quegli studii che occupano i mezzanelli.
Starà dunque in un grazioso dormitorio scompartito in vaghi lettini di ferro, tutti nuovi.
Accanto al suo lettino, che è coperto di un vidò bianco, avrà il suo tavolinetto da posar le sue cosette, e un attaccapanni coperto da tavoletta e tendina.
- Egli entrerà lunedì prossimo, onde andare subito alla scampagnata che in quel giorno tocca; ed è meglio, a sentimento di tutti, che partecipi di questi ultimi giorni di divertimenti onde al suo ingresso non metterlo subito al travaglio.
Ciro è il più bello di tutta la sua camerata.
Avvicinatosi ai suoi futuri compagni (fra i quali sono Grazioli, Sartori e Bartolucci) tutti gli si andavano mettendo accanto per vedere se era più alto o più basso di loro, e poi tutti pregavano il Presidente che lo facesse restare a pranzo con loro.
- Appena Ciro sarà in Collegio, noi andremo per due giorni al casino di Biscontini e poi tornati a Perugia vi passeremo altri due o tre giorni per visitarlo: quindi partiremo per Terni.
- Addio, Mariuccia mia: Domenico e Antonia ti riveriscono: Ciro ti bacia la mano e ti chiede la benedizione, ed io ti abbraccio di cuore
il tuo P.
LETTERA 152.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 30 ottobre 1832 - martedì
Cara Mammà mia, io sto bene e contento, e vi chiedo la benedizione, baciandovi la mano con rispetto ed affezione.
CIRO VOSTRO.
Mia cara Mariuccia
Hai ragione veramente di lagnarti che nella lettera che ti diressi il 25 non vi fu nulla di carattere di Ciro, come altresì nulla vi avrai trovato nell'altra del 27, ma sappi che dette due lettere per varie circostanze furono da me scritte e chiuse in somma fretta.
Eccoti nella presente due righe di questo caro figlio scritte da lui questa mattina nella camera del Presidente Colizzi.
Ieri, come nella mia precedente ti avvisai, seguì il suo ingresso in Collegio.
Alle 9 lo mandai con Antonia e Domenico per udire a quale ora si poteva tornare con lui e con la canestra del corredo, onde fare la consegna così di esso come della roba: egli corse sempre avanti sino alla porta del Collegio, ed arrivato dentro non volle più tornare indietro, di modo che Antonia e Domerico ve lo lasciarono e tornarono soli, maravigliati dell'allegria e franchezza da lui mostrata nel prendere subito possesso del suo nuovo domicilio.
Dopo le 10 vi tornammo tutti insieme col bagaglio, e trovammo Ciro cogli altri ragazzi della sua camerata in un salone, che è la platea del teatro, dove faceva il capo-popolo giuocando a palla, e dirigendo e vincendo tutti in quell'esercizio.
Era un bel vedere con quale ilarità e destrezza si tratteneva in simile favorita occupazione dentro un gran vano vuoto, circondato da mura amplissime e senza alcuno impedimento, neppur di finestre, che stanno assai in alto.
Mi disse il prefetto che già avevano i ragazzi fra loro accozzato una commediola d'invenzione, nella quale al solito Ciro si fece rimarcare per la sua franchezza e lepidezza.
- Dopo qualche tempo passarono al giuoco delle boccette nella sala de' bigliardi.
Il cattivo tempo non permise la campagnata: e si divertirono tutto il giorno in casa.
Questa mattina è uscito a passeggiare nel suo uniforme nero con tutti gli altri compagni: oggi a 22 ore vi torna un'altra volta.
Lo abbiamo trovato contentissimo di tutto, del vitto, del letto, degli usi etc.
etc.
Accanto al suo bel lettino ha il suo tavolinetto con tiratorini, il suo comodino chiuso, insomma tutto l'occorrente.
Il Presidente Colizzi m'ha assicurato che è il più caro ragazzetto che abbia veduto: e l'Economo del Collegio mi assicura che non già un novizio egli si mostra ma sembra un veterano.
Dunque, Mariuccia mia ringraziamo Iddio di questa nostra risoluzione.
- Il tempo guastatosi non avendoci permesso d'andare al Casino di Biscontini, io penso di partire di qui venerdì 2 novembre.
La sera vorrei essere a Spoleto per trattenermici il sabato mattina onde tentare di parlar con Plinj che al mio primo passaggio non trovai, stando egli a Monte Falco.
Perciò lo avviso oggi per lettera, come avviso altresì Corazza e la casa Vannuzzi del mio arrivo a Terni nella sera di sabato 3.
- Scrivo oggi anche a Stocchi e alla De L'Arche.
- Qui si sono spesi e si spendono dei buoni quattrini: al mio ritorno avrai il conto di tutto, onde metterlo nel libro delle memorie della domestica economia.
Ciro, separatamente dal suo scritto, mi ha incaricato di dirti tante altre cose per lui e di darti trecento baci.
I saluti di tutti per tutti e i miei affettuosi amplessi per te.
Sono il tuo
P.
P.S.
- Ciro è tutto in festa perchè ieri sera vinse in Collegio una tombola, con cui ha dato trattamento di caffè e latte a tutti i convittori.
LETTERA 153.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì, primo novembre 1832
Mia cara Mariuccia
Gran motivo certo di consolazione mi riesce e deve ancor a te riuscire il vedere con qual brio, contentezza e buona grazia il nostro Ciro si presta alla nuova vita che ha intrapresa.
Non si fa mai aspettare in niun uficio e in niuna circostanza degli usi di comunità: non abbisogna di alcuno stimolo, né guida, né assistenza: tutti i superiori sono incantati di lui, e tutti i ragazzi han gli occhi sopra esso.
Ogni giorno noi lo abbiamo visitato, e ieri andammo a far ciò nell'ora del pranzo del Collegio.
Mangiava con un piacere e con una disinvoltura, facendo al solito tutto da sé, che innamorava il vederlo.
Come poi siano i Convittori trattati e con qual'ordine e proprietà non è cosa da dirsi così di leggieri.
La lettura del pranzo dura momenti, e poi i ragazzi son sempre dispensati dal silenzio, facendosi loro facoltà di parlare scambievolmente, purché ciò sia alquanto sotto-voce e con decenza; mentre, come mi diceva il Presidente Colizzi, questo non è un seminario vescovile, ma un instituto di educazione civile, donde debbono uscire giovani destinati al conversare e a tutti i migliori usi della società.
Questa mattina di buon'ora Antonia e Domenico sono andati a vederlo: allegro come il consueto, e s'incamminava allora alla colazione che consiste in una pagnotta di 5 onze e due fette di prosciutto, il tutto di eccellente qualità.
Egli ha detto a Domenico e Antonia che gli salutassero tanto la sua Mamà, e le dicessero da sua parte che egli è assai contento e studierà assai.
Più tardi ci andrò a vederlo anch'io, e verso sera ci si tornerà.
Domani mattina poi ripartiremo di Perugia: la sera saremo a Spoleto: ivi starò il sabato mattina per veder Plinj, a cui ho scritto, e per ritirare dall'uficio delle ipoteche la cancellazione (che ordinai al primo passaggio) della inscrizione Castelli e Avv.
Conti.
Sabato a sera poi sarò a Terni, dove ho già avvisato tutti per lettera.
Stimolai, come ti dissi, nuovamente lo Stocchi a spedirti il semestre del quale abbisogni.
- Adesso adesso si va in un casino qui vicino dove Biscontini ha preparato un convito a me e varie altre persone scelte.
In questo punto ricevo la tua del 30, che è tale da mettermi in costernazione.
Mariuccia mia, se non vale a consolarti il ripeterti con la maggior sincerità dell'animo mio l'eccellente stato di spirito e di luogo in cui si trova il nostro, figlio, io non so più cosa dirti.
Ieri mentre pranzava così esultante, gli si avvicinò Domenico dimandandogli dove fosse più contento, se a casa o lì.
Senza esitare un momento egli rispose: Qui, e quel David (il suo cameriere) è un gran bravo giovanotto.
Consolati, mia cara Mariuccia, e credi al tuo aff.mo P.
LETTERA 154.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Terni, sabato 3 novembre 1832 alle 4 3/4 pomeridiane
Ciro mio caro
In questo punto siamo qui arrivati, e il mio primo pensiero è di darti questa notizia onde tu sappia che il nostro viaggio è stato felice e che noi pensiamo sempre a te.
Io mi persuado che tu stia benissimo, siccome allorché ti lasciai e spero fermamente che la tua condotta tanto nel costume che nello studio sia, e sia sempre per essere lodevole.
Questo è lo scopo di ogni desiderio della tua mammà e mio, e questo è altresì ciò che tu devi alle amorose cure di chi attualmente veglia alla tua educazione.
Riverisci per me, mio caro figlio, il Sig.
Professor Presidente Colizzi e il Sig.
Economo Don Antonio Ribacchi.
Credo che io starò in questa Città sino a tutto il giorno di Mercoledì 7 corrente, e poi tornerò a Casa per far compagnia a Mammà.
Antonia e Domenico t'inviano mille e mille saluti, ed altrettanto fanno questi nostri parenti.
Io poi amorosamente ti abbraccio e ti benedico.
Il tuo Papà.
LETTERA 155.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Terni, domenica 4 novembre 1832
Mia cara Mariuccia
Secondo l'itinerario già precedentemente partecipatoti, giungemmo ieri sera in questa Città.
- Lasciammo Ciro giovedì sera in ottimo citato di salute e al solito contentissimo della sua sorte.
Per mostrarti come ivi è bene raccomandato, e con quanta facilità noi potremo essere al giorno di tutto ciò che lo riguardi, sappi che i Coniugi Rossi (quelli che vennero a pranzo da Biscontini anni indietro con Scifoni ed altri) lo visiteranno ogni festa, lo terranno raccomandato colle loro molte conoscenze, e lo assisteranno in qualunque occorrenza.
- Micheletti lo conosci: il fratello di Micheletti è Computista del collegio, e molto ivi ben veduto: una Signora che va a sposare detto fratello di Micheletti è intrinseca amica del bravo e caro D.
Antonio Ribacchi economo e factotum del collegio, il quale va in casa di lei ogni sera dall'avemaria ad un'ora, e poi dicendo d'aver tanti figli da assistere torna al Collegio fra essi che lo amano come un padre.
Il rettore Can.co Cambi è parente del mio amico Procacci di Spoleto, il quale gli raccomanderà continuamente il nostro Ciro.
- La famiglia di Monsig.
Cittadini Vescovo di Perugia è tutta amica di Domenico, e mediante l'ascendente che il Vescovo non manca di avere su quell'istituto ancora, essa famiglia terrà esatta cura de' vantaggi di Ciro.
I professori dell'università, fra i quali il chiaro Mezzanotte col quale ho stretto amicizia, dovendo andare in collegio ad istruirvi i giovanetti delle classi inferiori, avranno gli occhi su Ciro.
- I Camerieri, il guardarobiere, e tutti gli altri addetti all'instituto, bravissima e amorosa gente, non mancheranno di assisterlo, e anche d'informarci in caso di bisogno dirigendosi specialmente a Domenico, che ha seco loro combinato ogni cosa.
- Aggiungi a tutto ciò i reali meriti del Collegio stesso, e la eccellenza vera del carattere del Presid.
Colizzi, e poi dubita e temi pel figlio nostro.
Lo so, tu addurrai la ragione di non vederlo: ma ti deve consolare il pensiere che egli si va intanto facendo un degno uomo e stimabile.
Presto tu avrai le sue nuove dirette.
- Nel partire da Perugia pregai Biscontini di rispingermi qui la lettera che tu possa avermi inviato a Perugia giovedì primo del mese.
Oggi dopo il pranzo aspetto poi tue notizie dirette da Roma.
- Io credo che starò qui intorno a quattro giorni, secondoché potrò decidere quando avrò veduto Corazza e Stocchi e terminato le faccende con essi.
Non perdo neppure di mira qualche altra cosetta che vi è da fare: quella però e frati Agostiniani non può materialmente definirsi che verso i 20 del mese.
Farò i conti con Peppino sulle dative da lui pagate in quest'anno, ho già esatto l'annata di F.co Diomede prima di andare a Perugia: stimolerò Desanctis per la prima rata del censuccio di Sc.
28:50 che deve restituire in tre anni per convenzione da noi fatta l'altro antro; e se non paga, ordinerò che si citi.
- Se tu puoi al solito farmi avere il lasciapassare mi farai cosa grata.
- Peppino, la moglie e la figlietta sono ancora a Torre Orsina.
- Mariuccia mia, procura di star bene e il più sollevata che puoi: così operando mi darai gran consolazione, e te ne sarò gratissimo.
- Antonia, Domenico, e le cugine ti dicono mille cose: io ti abbraccio di cuore, e sono il tuo P.
Noi torniamo a Roma carichi di baci di Ciro per te e di sue ambasciate pure per te.
LETTERA 156.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, giovedì 15 novembre 1832
Mio caro figlio
Per varie combinazioni, fra le quali la pioggia non ebbe l'ultimo luogo, mi trattenni a Terni tanto che giungendo a Roma la sera di martedì scorso vi trovai la tua lettera del 10, giunta al mio indirizzo nell'antecedente lunedì.
In essa trovo, mio Ciro, motivi di consolazione, sia in riguardo al buon stato di tua salute, sia per rapporto alla lusinga che tu porti di aggradire colla tua condotta a' tuoi ottimi Superiori, ma finalmente a motivo della soddisfazione che mi mostri del nuovo tuo stato.
Vivendo, tu conoscerai un giorno quello che tutti gli uomini sperimentarono, la vanità cioè di tutto quanto non è merito e virtù; e questa verità, che ti viene dalla bocca di un padre che non saprebbe mai ingannarti, ti sostenga il coraggio e la ilarità nel bel cammino sul quale la mia tenerezza ti ha messo.
- Se ciò non si contrarii alle regole di codesto instituto, mi piacerebbe oltremodo che tu nella tua corrispondenza con me e con la tua Madre non abbandonassi quel certo tuono di affettuosa confidenza che noi sempre t'inspirammo, e da cui tu mai non iscompagnasti il rispetto dovuto dai figli a' loro parenti: di maniera che i dolci titoli di papà e Mammà ci giungerebbero assai più cari degli altri di Signor Padre e Signora Madre.
Ripeto però che io subordino questo mio desiderio alle leggi della educazione del luogo dove tu ti ritrovi.
Quello però che assolutamente io t'inculco è il modo delle soprascritte da usarsi sulle tue lettere.
Nessun titolo, Ciro mio.
A me semplicemente "Signor Giuseppe Gioachino Belli", e a Mammà tua "Signora Maria Conti Belli" e basta.
In Casa nostra non vi sono titoli di nobiltà fuorché abusivi, per una invalsa consuetudine nata da parentele.
Il mio carteggio poi e quello di Mammà ti prego di conservarlo tutto, dappoiché io sono assai attaccato alle memorie di famiglia.
Altrettanto noi qui faremo delle lettere tue che tu non mancherai di indirizzarci regolarmente secondo le norme del Collegio.
- Gli amici di Casa, che tu hai pel mio mezzo salutati, ti ringraziano e risalutano cordialmente; ed io ti prego di porgere i miei distinti ossequi, uniti a quelli della tua Mammà, a' tuoi Sig.ri Superiori, e distintamente al Sig.
Professore Presidente Colizzi.
- Mammà ti benedice, mio caro Ciro, con tutta la effusione del cuore, ed io faccio altrettando ripetendomi
tuo aff.mo Padre
Palazzo Poli, 2° piano.
LETTERA 157.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, martedì 27 novembre 1832
Mio carissimo figlio
Niun'altra consolazione può mai venirmi maggiore, e neppure eguale a quella che mi apportano le tue lettere, e che potranno esse arrecarmi, allorché, siccome nell'ultima tua io vi troverò sicurezze della tua condotta, della tua salute, e del tuo amore per me e per la tua buona Mammà.
La nostra esistenza, Ciro mio, è una cosa che va disciogliendosi come tutto il resto del Mondo; ma la speranza di vedere un giorno in te un frutto onorato delle nostre cure fa quasi parere di avere cominciato una nuova vita al principiar della tua.
Ricevo con gratitudine l'onore de' saluti del Sig.
Presidente; e in quanto al Sig.
Rettore, che si è compiaciuto di aggiungere del Suo nella tua lettera del 24, io qui intendo di rivolgermi a Lui direttamente per ringraziarlo delle Sue gentilezze, ed assicurarlo insieme che io saprò risarcirmi del dispiacere di non averlo ancora conosciuto, allorchè mi recherò in maggio a Perugia per trattenermici qualche tempo.
Ad Antonia, mio caro Ciro, a quell'Antonia che tanto amorosamente ha vegliato sempre su te fin dalla tua nascita, è dispiaciuto di non vedersi mai nominata nelle tue lettere.
Tu sai quanto ti ama questa eccellente donna che per le sue virtuose qualità merita quasi un titolo a dirsi appartenente alla nostra famiglia.
Sii riconoscente, mio caro figlio, a chi ti ha fatto del bene, e pensa che la gratitudine è la sola virtù terrena che potremo portare nel cielo, dove, come dice un autore eccellente, non vi sono né perdoni da dimandare né grazie da ottenere, ma resta solo l'amore de' beneficii.
Parrà a te forse che io voglia portare le mie parole alquanto fuori della intelligenza propria della età tua: ma a me, Ciro mio, piace di parlarti come si deve ad un uomo che dev'essere uomo ogni dì più: e poiché la conversazione fra noi stabilita della nostra corrispondenza mi fa lusingare che tu abbia un qualche giorno a rileggerla per grato passatempo del cuore, così amo che alcuna almeno delle molte frasi delle quali si compone una lettera di famiglia, possa servire a secondare in te lo sviluppo delle morali intelligenze.
Né di rado pure accadrà che le cose stesse che io ti dico confronteranno con le massime a te sviluppate da' tuoi ottimi Superiori, nel che troverai una prova della verità che dirigge le loro bocche e la mia.
Addio, mio carissimo figlio: io non voglio più lungamente separarti da' tuoi doveri.
Mammà ti benedice con me.
Tutti gli amici di casa, fra i quali il Sig.
Dr.
Ferdinando, il Sig.
Canonico Spaziani, il Marchese Ossoli, e i Sig.ri Avv.
Ricci, Spada e Biagini ti salutano con le più cortesi parole.
Ti salutano altresi Domenico, Antonio ed Annamaria, i quali, oltre Antonia, compongono la nostra buona famiglia.
Ama, Ciro mio, il tuo aff.mo Papà.
P.S.
Di qui innanzi avrai le mie lettere affrancate: così la tua piccola borsa farà questo risparmio.
Nell'ordinario passato non vi pensai.
LETTERA 158.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 5 marzo 1833
Mio caro figlio
Nella mia penultima lettera ti raccomandai di non ripeter più la tanta tardanza de' tuoi caratteri, ma vedo che ciò è subito tornato ad accadere, dappoiché dal tuo foglio del 2 febbraio non hai più scritto.
Questa è una cosa che dà molta molestia a tua madre ed a me; ed io sopratutto, amante rigidissimo delle discipline stabilite e convenute, non posso vedere senza molto rammarico che l'inosservanza di una di esse cada appunto sopra un articolo che valse fra gli altri a determinarmi al distaccarti da me.
Due lettere al mese, siccome prescrive il regolamento del Collegio, se non sono sufficienti a consolare un padre della lontananza di un unico figlio, bastano pure a fargliene sostenere il danno, in armonia colla idea della educazione a cui i genitori pospongono la contentezza della presenza de' figliuoli loro.
Mi farai pertanto cosa gratissima, mio caro Ciro, se pregherai in mio nome chiunque attualmente dirige la tua piccola segreteria, di mantenere in te una diligenza di carteggio che non abbia mai più a rinnovarmi il rammarico di richiamarti a memoria un punto per me del massimo interesse.
Abbiti, figlio mio, gli abbracci e le benedizioni della tua Mammà, ed i saluti singolari di ciascuno degli amici e della famiglia.
Sono con la solita tenerezza
Il tuo aff.mo Padre
LETTERA 159.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, sabato 9 marzo 1833
Mio caro figlio
È precisamente accaduto quello che avvenne la volta precedente.
Lo stesso giorno in cui io scriveva a te fu quello della tua data nello scrivere a me.
Spero però di averti in modo manifestato le mie idee, che quindi impoi il nostro carteggio tornerà ad essere e si conserverà regolare.
Di molto conforto mi è riuscito il sapere da te l'allegro modo col quale si è nel tuo Collegio trapassato il tempo carnevalesco, e quanto i goduti passatempi abbiano contribuito al ricrearti l'animo e al confortarlo a nuove prove di coraggio nello studio, resoti ormai dall'abitudine più piano ed aggradevole.
Così è, Ciro mio: i sollazzi sono allo spirito quel ch'è il cibo al corpo.
Gli alimenti lo ristorano dalle fatiche e gl'infondono vigore per fatiche novelle; nel tempo che le fatiche stesse abbisognano all'uomo onde poi assaporar meglio il divertimento, il quale, non condito dal desiderio, è simile ad una vivanda, che, quantunque saporosa e delicata, riesce insipida e nauseante senza lo stimolo dell'appetito.
Guai a chi mangia nella sazietà; e così, misero colui che estingue lo spirito in diletti non mai alternati dal travaglio.
Il languore, la noja e il disgusto di sé ne faranno un essere morto prima di morire, e in poco dissimile dai candelabri e dalle statue che van decorando i luoghi delle sue dissipazioni.
È inutile che a questo passo io ti ripeta l'assicurazione della paterna sincerità.
Tu lo sai che io non seppi mai ingannarti: ma, nell'attuale soggetto, alla verità delle mie parole voglio unire il soccorso della tua stessa memoria.
Non ricordi tu, Ciro mio, quante volte il giuoco troppo continuo ti ha riempito il cuore di svogliatezza; e tu, deluso nella tua lusinga di sollievo, passavi da un giuoco all'altro senza mai trovar quello che ti dasse il diletto di cui abbisognavi? - Io, lo confesso, talora ti abbandonava a te stesso e ti lasciava fare, perché appunto una verità non insinuata da alcuno, ma sollevatasi spontanea nel nostro cuore dal gran fondo dell'esperienza ci mette meglio nell'animo un principio salutare, che un giorno richiamato opportunamente ad esame sparge la nostra vita passata di una luce che c'illumina l'avvenire.
Comprenderai bene, Ciro mio, queste mie riflessioni? Ne dubito: ma convinto, come sono, che alcuno de' tuoi eccellenti superiori ti aiuterà a penetrarle, non tralascio di fartele e per tuo bene e per mia stessa soddisfazione.
Non puoi credere quante cose affettuose ti dica la tua buona Mammà, la quale, allorché giunse la tua lettera, corse ella medesima a portarmela, tutta ansante di consolazione.
Tutti gli amici che tu hai nominati, e così ciascun individuo della nostra affezionata famiglia ti ripeton cordialmente i loro saluti.
Solamente, ti ripeto, il Sig.
Toceo noi non lo vediamo, ed io non so neppure se sia in Roma.
E di tanto ciò basti.
Io ti abbraccio, mio caro figlio e t'incarico de' mie rispetti a' tuoi Sig.ri Superiori.
Benedicendoti finalmente mi ripeto
tuo affez.mo Padre
LETTERA 160.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 21 maggio 1833
Mio carissimo figlio
Ogni tua lettera è una nuova consolazione per la tua buona Mammà e per me.
L'udirti sano e studioso ci rallegra in modo che non saprei facilmente spiegartelo.
Segui, Ciro mio, segui con coraggio ad applicarti agli studii i quali, se ti daranno alcuna fatica, ti diverranno essi medesimi il più dolce premio degli ostacoli che avrai superati colla perseveranza; perché lo sviluppo progressivo che succede nelle facoltà intellettuali a misura del loro esercizio, va a poco a poco tant'oltre, che giunge finalmente ad innamorarci del nostro dovere.
Allorché le tue idee si andranno ordinando, allorché il tuo spirito verrà culto, quando col bel corredo di scienza che ti si prepara conoscerai cosa è il Mondo, cosa è l'uomo, e qual'è il nobile destino di questo, ringrazierai ben di cuore la Provvidenza che si compiacque riporti nel numero di coloro ai quali le Maraviglie di Dio non sono nascoste dall'infelice ignoranza.
E qui figurati, o figlio mio, la gioia che io proverei, se trovandomi, come io spero, al tuo saggio di settembre, ti vedessi onorato di un premio disputato nobilmente agli altri cari giovinetti che ti accompagano nella tua carriera.
Sarebbe quello ai miei occhi quasi un mio stesso trionfo, poiché nulla di bene o di male può a te mai arrivare, che io non io consideri come cosa mia propria.
Forse il Sig.
Presidente ti avrà detto che io meditava di farti un dono lavorato colle stesse mie mani.
Te ne avrei potuto anche fare una sorpresa, ma amo anche più il mettertene in aspettazione.
Esso consiste in tre morali novellette, e secondo la tua capacità, da me tradotte dall'inglese, pur da me ricopiate in guisa ben bene intelligibile, e fatte poi legare in forma di libretto con qualche discreta eleganza.
Quelle con permesso de' tuoi Superiori tu leggerai, e potrai ancora fare udire a' tuoi compagni d'età e di studio, dappoiché io stimo che un buon fanciullo possa per la loro lettura diventare migliore.
Riceverai il libretto da me direttamente nell'entrare del prossimo giugno, allorché ti stringerò al mio cuore, e ringrazierò caldamente chi prende cura di te.
Riverisci intanto a mio nome i Sig.ri Presidente, Rettore, ed Economo: ricevi la benedizione di Mammà e la mia: aggradisci i saluti de' nostri affezionati famigliari, e credimi sempre tuo
amorosissimo Padre
LETTERA 161.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
[28 maggio 1833?]
Caro Checco
Eccoci a 500.
Forse mi arresterò un momento: forse non mi arresterò.
Leggi intanto la dozzina che mancava alla mezza chiliade, e più tardi verrò io a riprenderla per porla in collegio.
Ieri sarei venuto: ma che tempo non fu? Il buono.
Oggi che non è il cattivo sarò ad udire se la mia armata possa racconciarsi.
Chi leggesse, altri che te, questo foglio, direbbe: qui c'è congiura di certo: e non saprebbe che si tratta di sonetti...
[solda]tini di stagno.
Questa dichiarazione sia un...
in caso che Antonio dasse per via...
e lo frugassero alla granguardia: benché...
martedì 28.
Sono il tuo
g.
g.
b.
LETTERA 162.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 6 giugno 1833
Mia cara Mariuccia
Ieri mattina tre ore avanti il mezzodì, avendo dovuto staccare un legno per me, finalmente potei partire da Spoleto, e jeri sera alle 23 1/2 stavo alla porta S.
Pietro di questa Città.
Siccome detta porta conduce alla passeggiata del Frontone, mi cadde in mente un desiderio e una lusinga insieme di potervi incontrar Ciro di ritorno dal passeggio.
Detto, fatto.
Appena sono sotto all'arco della porta, eccoti la Camerata de' piccoli del Collegio che passo passo entra in Città.
Al sentire i sonagli, Ciro nostro, vispo come un cardello, si rivolge, e mi riconosce al momento, benchè io stassi al buio dentro un legno con le bandinelle tirate.
Mi vide pel davanti, e disse scuotendo le zampette: ecco Papà.
Per allora ci salutammo e non più.
Io mi fermai per dare il passaporto etc.
etc.
e la Camerata andò innanzi: ma poi sbrigatomi, la raggiunsi sotto alla fortezza presso alla nuova apertura.
Lì discesi e abbracciai Ciro.
Non ti so dire come lo vidi sano, bello, allegro, colorito e prosperoso.
È il più grande de' suoi compagni, sta forte e robusto, e pare un bel fiore di primavera.
Gli dissi qualche cosa di te e della famiglia, lo baciai per tuo conto, e ci lasciammo per rivederci stamattina.
Sono infatti escito per ciò, ma che vuoi? Per arrivare soltanto al Caffè a far colezione mi sono bagnato come in una fontana, tanto era ed è il diluvio che, accompagnato da vento e freddo, vien giù in questa orrenda giornata.
Ho dovuto tornare alla locanda, aprir la valigia, e mutarmi fino dirò alla camicia.
Quindi non calmando l'ira del tempo, gli ho mandato un biglietto dal Cameriere di questa locanda della posta, dove mi è forza sostare per ora sotto alla mannaja dell'onesto cliente di Biscontini.
Appena il tempo lo permetterà, escirò per far qualche cosa e vedere qualcuno.
Intanto ho fatto prendere alla posta la tua lettera del 4.
Godo delle buone notizie di Angelica quanto mi rattristo di Bertinelli.
Non so se a Roma si sarà fatta la processione: qui no per la furia dell'acqua.
- Ti avviso che Frecacavalli ti dovrà prima di partire riportare i miei Promessi Sposi in tre volumetti.
Se lo vedi, salutamelo.
- Giorni indietro è qui stato carcerato in piazza Menicucci, con dispiacere di tutta la Città, la quale del resto è trista ma tranquilla.
- Nello scorso ordinario ti spedii da Spoleto il mio N° 5 con tutto il necessario nell'affare Canale.
Per oggi non so dirti di più.
Ti abbraccio di vero cuore, e sono
il tuo P.
LETTERA 163.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 8 giugno 1833
Non rispondo ad alcuna tua
perché in questo ordinario non
ne ho avute.
Eccomi, mia cara Mariuccia, a darti pieno ragguaglio di ciò che concerne il nostro Ciro.
Ieri mattina, malgrado la continuazione della solita pioggia mi recai al Collegio dove fui ricevuto dal Sig.
Presidente Colizzi e dal Sig.
Rettor Cambi, i quali uno e l'altro ti salutano.
Il secondo andò in persona a chiamar Ciro nella sua Camerata, e poco dopo me lo vidi comparir davanti nel solito aspetto di contentezza, vivacità e buono umore.
Mi dimandò di Mammà e poi di Antonia e quindi di Domenico e di Annamaria: nè obliò alcuno de' parenti e degli amici.
A tutte le dimande io soddisfeci, e lo abbracciai e baciai molto per te e per tutti gli altri.
Alla richiesta del come e quanto fosse egli pago della sua vita del Collegio, mi rispose un sì con quella sua tanto cara maniera giojosa, con cui una volta ci rallegrava in famiglia ed ora rallegra e guadagna il cuore di tutta la Comunità.
Non ti saprei dire la soddisfazione da lui provata al vedere il pallone cominciò a saltare e stropicciare le mani, dicendo che appunto arrivava a proposito, perché il pallone antecedente si era finito di rompere nelle recenti campagnate di Maggio.
Oltre a giuocarci tra compagni al modo consueto, il Maestro di fisica si occupa di tanto in tanto di gonfiarglielo di gas idrogeno, ed allora que' ragazzetti si divertono in farlo ascendere e ritirarlo quindi a terra mercé uno spaghetto dal quale è frenato.
E bisogna sentire come Ciro e Grazioli, tutti due specialmente conoscano gl'ingredienti ed il processo di questa fisica operazione.
In appresso si passò ai soldati.
Nuovi scoppii di gioia: ed altra gioia ai due cartocci di mandorle e confetti di Antonia e Annamaria che ringrazia senza fine, siccome immensamente ringrazia te della cioccolata, della quale è assai ghiotto.
Insomma egli disse, battendo in terra i piedi: Tutto buono: una cosa meglio dell'altra.
E quanto aggradì il mio libretto! Me ne lesse subito la lettera dedicatoria, parlando a zompetti alla perugina, come se qui fosse nato e stato sempre.
Se lo sentissi quanto è curioso! non pare più romano.
Negli studii ho avuto nuova conferma che si conduce benissimo, e secondo le precise parole del Rettore, batte i migliori che nella sua Camerata distinguevansi prima del suo ingresso in Collegio.
Ha già delineata una carta dell'Irlanda, la divisione geografica delle parti principali di tutti i regni e altre terre del globo, la sa a mente come il paternoster; e così comincia a conoscer benino la grammatica italiana.
Nella Calligrafia poi il Maestro fa adesso scrivere a lui gli esemplari pe' suoi compagni.
In una parola non puoi farti una idea adeguata di quanto dia piacere il vederlo e l'udirlo.
Ho interrogato il guardarobbiere per quel che si deve fargli ancora di vestiario.
Mi ha risposto che [...] una sola mutatura per casa.
Io dunque la farò eseguire, e m'informerò ancora se vi sia bisogno di altro per questo caro figlio, come di peculio, di scarpe, etc.
etc.
Egli desidererebbe da me certi pezzetti di cartoncino dipinto che si vendono in una bottega da lui conosciuta, i quali diversamente combinati formano certe piacevoli figure.
Io voglio contentarlo, ed un giorno dopo pranzo me lo farò consegnare, e portandolo a spasso lo appagherò.
Darò pure qualche cosetta di mancia al guardarobbiere e al Cameriere, che entrambi gli prestano molte attenzioni.
Del resto o per loro cura, o per propria esattezza, Ciro nostro è il più pulito della Camerata.
Questa mattina ho veduto il Sig.
Angiolo Rossi che è stato malato per 15 giorni di podagra.
Ci andai appena arrivai in Perugia, ma avendo udito al suo negozio che era in letto, non volli infastidirlo.
La moglie non l'ho ancora veduta.
Al contrario in casa Monaldi ho trovato la moglie sola, e le ho lasciato la lettera di Biscontini pel Marito.
Il Sig.
Luigi Micheletti e la Signora Cangenna mi hanno ricolmato di gentilezze: essi andavano strologando il capo per trovare il modo di poter combinare il modo di ricevermi in casa.
Io però, non volendo permettere il loro incomodo, ho profittato della dozzina che mi hanno trovata in Casa Fani, pel Corso, incontro alla Mercanzia.
Ho un decentissimo alloggio, pranzo di zuppa, tre piatti e frutti, e la sera zuppa, un piatto e frutti.
Alla colazione e alla biancheria penso da me.
Per questo trattamento ed alloggio pago dieci scudi al mese, ed ho già fin da oggi anticipato il primo mese a tutto il 7 di luglio.
Non ho potuto ancora vedere il Signor Bianchi.
So peraltro da Lovery che egli è istruito del mio arrivo, e che mi vorrà rivedere egli stesso.
La sua famiglia passerà in campagna, credo, tutta la state, e sento che un giorno voglia condurmi a vederla e conoscerla.
Tuttoció per relazione di Lovery il quale sta benone, ma un poco in pena sulla salute del padre.
Qui, come sai, vi è Oldani, il quale mena un sussiego come un Ministro di Stato.
Sta sempre sulla sua, dà udienza alla grande, porta una certa fittuccia all'asola del vestito, parla con mezze parole, si dà per primo minutante del Ministero dell'Interno, e fa ridere tutti quelli che lo hanno veduto portiere di questo uficio di delegazione.
Lo stesso Luigi Micheletti che gli prestò 18 scudi perché potesse fare il viaggio di Roma la prima volta che vi venne, è trattato da lui col tuono di un superiore verso un dipendente.
Quanto siamo curiosi noi uomini! Io non l'ho ancora veduto ma se con me fa il pallone assaggerà il mio bracciale.
Io non ti dirò, Mariuccia mia, di essere già senza danari affatto, ma fin qui non è stata che una continua svenarella per tutto e in mille maniere.
Quindi se tu volessi dire a Biscontini che disponesse il Sig.
Rossi, la Signora Rossi, o chi crede, perché mi si somministrasse della moneta alla mia richiesta, mi faresti piacere.
Io poi segno sempre ogni baiocco che mi esce di mano, e buttarne non ne butto davvero.
Forse un altro al fine del giuoco se n'uscirebbe col risparmio di qualche scudo in meno di quello che spenda io, ma in me vi sarà un po' di troppo onde non farmi guardar dietro: spreghi, però, no davvero.
La carta è finita.
Ricevi mille baci di Ciro che ti chiede la benedizione, e saluta Antonia, Domenico, i di lui figli, Annamaria, etc.
etc.
Sono il tuo P.
LETTERA 164.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
Di Perugia, 2 luglio 1833
Mio carissimo Checco
Che ti potrei più dire intorno alla tua lettera del 31 maggio? Ella è rimasta nell'uficio postale di Terni fino a jeri, per quante premure io abbia fatte colà praticare, appena seppi da Mariuccia che tu mi ve l'avevi spedita.
A quest'ora la tua Ode o è stampata o sta per esserlo con que' ritocchi che il tuo buon gusto non può, via facendo, non averti suggeriti.
La ode è bella, tenera, gentilissima, e tu lascia poi stare che la sia o classica o romantica, qualora pure i romantici e i classici non abbiano un cuore di diversa natura.
Dovunque parla la verità con parole convenienti al soggetto e alla situazione, lì è bellezza ed effetto immancabile, o che la inspirazione venga di Germania o di Grecia.
Le muse son figlie della Memoria, e la Memoria moderna ha ben altre da contarcene che non quella di Pericle e d'Augusto.
Perché andare al tempio della Gloria per una sola via e sempre per quella? Se l'Oriente ha la sua, l'Occidente ne ha fabbricata un'altra; e così altre il Mezzogiorno ed il Nord.
Ciascuno parte da casa sua né ad uno straniero è chiuso il dritto di viaggiare per le strade degli altri col passaporto della Ragione, prima e vera regina degli uomini.
Non era necessario avvertimento perché io m'avvedessi del furto, sor ladroncello buggiarone.
Arrivato a quel di là etc.
esclamai: te conosco, maschera.
Ma, post confessionem remittuntur tibi peccata tua.
Di' al nostro Biagini che nel prossimo 4° fascicolo dell'Ontologia Torricelli mi ha pregato di mandare avanti una sua epistola al Marchetti, dalla quale egli vuol far conoscere chi parlerà del Malvica.
E quel Chi è lo stesso Torricelli che mette fuori alcune sue inscrizioni domestiche e un ragguaglio di un funere da lui celebrato alla Memoria del padre.
Nel successivo 5° fascicolo poi uscirà il suo discorso intorno i Sepolcri e le iscrizioni del Malvica.
Intanto nel 3° fascicolo già pubblicato fu inserito lo squarcio eruditissimo e giudiziosissimo del Malvica stesso intorno all'arte del tradurre.
Mi dice il Mezzanotte quello squarcio (che deve far parte di un'opera del Malvica sulla letteratura italiana) non esistere che in sue mani (cioè di Mezzanotte) e in ms.; ma io mi taglierei la gola se quello stesso io non l'ho già letto, et quidem, stampato, et quidem possedendone io stesso un esemplare, et quidem...
eppure Mezzanotte dice di no; eppure io dico di sì.
Che ne dice Biagini nostro che le cose malvicane le sa come le proprie? - E per tornare all'articolo Torricelli, appena sarà in luce sul giornale, io ne farò estrarre, come stabilii con Biagini, una cinquantine di copie delle quali ne lascerò cinque per l'estensore ed una per me.
Le altre 44 verranno a Roma, affinchè quattro se ne dividano fra te, Biagini, Piccardi e Ricci, e le altre 40 si spediscano in Trinacria che vuol dire Sicilia, a Panormo che significa Palermo.
E il Piccardi e il Ricci salutameli teneramente, prima il primo perché lo vedrai prima, e quindi l'altro perché...
poi.
E salutami Costanza, e salutami tua cognata, e salutami chi ti pare, e buon di'.
Fa di star sano se ci sai stare, se no sta' incomodato a comodo tuo, purché ti mantenga sempre in salute, a consolazione di chi t'ama come me scrivente.
G.
G.
B.
P.S.
Sai? Ciro sta bene, grasso come un tordo, rosso come un peperone, vispo come un grilletto, buono come un angiolo, studioso come un ciceroncino: metti insieme le similitudini, o i cinque soggetti del paragone e fanne una filza.
E di' un po' un'altra cosa: all'ultima strofe della tua ode Costanza non ce n'ha aggiunta un'altra che venga dire: più tardi che sia possibile?
LETTERA 165.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 6 luglio 1833
Mia cara Mariuccia
Questa mattina ho ricevuto la tua del 4 contenente la citazione da presentarsi al Sig.
Bianchi.
Per oggi non è stato possibile di averla spedita dai cursori, come io aveva tentato ed erami lusingato.
Te la spingerò coll'ordinario di martedì 9 e tu l'avrai il giovedì 11.
- Del Sig.
Angelici va bene: ne riparleremo ad ottobre.
- Le pillole le ho avute, e ti ringrazio.
Il ritardo dell'acqua della scala non nuoce.
- Scriverò ad Antaldi.
Ciro lo vedo, come ti dissi, due volte la settimana, oltre quando lo incontro al passeggio.
Hai tu dubbio che non te lo abbracci spesso e che non gli parli sempre di te? - Giovedì egli mi pregò che lo raccomandassi al Rettore affinché gli permetta qualche volta di prendersi un mezzo gelato quando è assai caldo, e secondo ché egli si sia portato bene, tanto più che gli altri compagni lo fanno.
Di assai buon cuore io intercessi presso il Rettore per questa piccola soddisfazione, ed il Rettore, graziosamente annuendo, rispose che Ciro è tale buono e studioso ragazzo che anche colla sua propria voce avrebbe ottenuto questo permesso.
Io dimandai allora al Rettore se dovevo rifonder nulla nel deposito del particolar peculio di Ciro: egli soggiunse esservene ancora intatta la metà, cioè Sc.
3, tantoché il Calzuolaio non ha ancora portato il conto de' lavori fatti per Ciro.
Pare che il Rettore quindi creda che detto peculio particolare destinato a diverse spesette straordinarie potrà bastare fino verso novembre.
Allora avremo lo sfogo dell'erogazione etc.
- Dimani tornerò al Collegio e ti benedirò e bacerò faccione nostro, nominando anche Antonia.
- Tanto per quest'ordinario.
Sèguita ad averti cura, e non lasciare i bagni.
Sono abbracciandoti di tutto cuore
Il tuo P.
LETTERA 166.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
Di Perugia, 9 luglio 1833
Checcarello mio
Mi caschi la testa se so dove mettermi le mani per fare i ritocchi che si desiderano alla mia ode.
Le cose di getto, come venne giù quella, forman un masso così compatto che vàllo a scomporre! e per ognuno de' cambiamenti proposti, benché in sé apparentemente assai piccoli, mi bisognerebbe non solo il cesello, ma il forbicione per tagliare il filo che dritto dritto vi corre per entro, e Dio sa quali nodacci mi converrebbe poi farci per raccapezzar l'unità.
E li farei anche que' nodi, e vorrei anzi farli; ma, ripeto, mi caschi la testa se so dove mettermi le mani.
Non si dà uomo più imbrogliato di me nel bisogno delle correzioni, e perciò se Iddio non mi aiuta alla prima, guai! - Diamo un po' una guardatella a' tuoi cinque appunti:
1° Di vostra union beò.
Vorrebbero sciogliere quella union in tre sillabe? Lì non si può senza sciogliere il verso; e da capo, mi caschi la testa se trovo un altro pensiere per sostituirvi un altro verso che dica quel che il primo diceva.
Dunque ho paura che la unione resterà intatta, tanto più che ai poeti (come al Papa) data est potestas ligandi et solvendi dove non sia caso riservato ad Apollo: rotta di collo.
2° Spir etc.
Lo spiro non è proprio l'unum et idem che lo spirito, quantunque nato dallo stesso padre e dalla medesima madre! Io intendeva del soffio, dell'afflato divino che forma lo spirito: e in ogni modo poi che questo spiro s'intenda, mi pare che possa patire l'apocope di cui è capace il sospiro, come lo sono tanti altri nomi che escono in iro, non eccettuato il Sig.
Casimiro il barbiere.
3° Vedestù.
Qui do un po' di ragione a chi la chiede, ma tornerei per la quarta volta all'imprecazione contro la mia povera testa che vorrei pure conservar sulle spalle.
Questa stanzetta è come la prova dell'antecedente siccome quella è la soluzione dell'altra più addietro: ed io vi ho proprio bisogno di far quella dimanda al marito, onde persuadendosi si consoli.
4° Transito, voce non bastantemente poetica? Lasciamo in pace il Baron-DeMajo - requiescat, che non conosceva il vocabolario poetico.
Io lo conosco e direi quasi la bestemmia di averci trovato dentro quel transito nel senso appunto che mi chiedeva la mia circostanza, dove io credeva che ci stesse assai meglio che Morte o qualunque altro sinonimo di questa gentil Signora.
Il passaggio dello spirito dal corpo al cielo, dal tempo all'eternità: una idea di moto solenne, accompagnato dalle tre virtù, e terminato in seno a Dio, dov'è perpetua immobilità di vita! E siccome appunto questa specie di Morte io adombrai nella strofa precedente "Non vedestù ne' placidi Moti del suo passaggio", pel medesimo motivo stimai che la voce transito servisse bene al complemento del concetto senza offesa del vocabolario poetico.
Ma se mi sono ingannato, passo alla 5a imprecisione e lì resto.
Avanti.
5° Non più i sommessi gemiti etc.
Echeggian pel silenzio etc.
A questo passo viene in ballo lo Spada.
Sentimi, Spada mio.
Qual'è la specie d'istantanea contraddizione che tu vi trovi? In due raffronti potrebb'ella trovarsi: o tra il sommessi e l'echeggiano, o fra l'echeggiano e il silenzio.
Io credo che tu parli della seconda.
Diciamo pure d'entrambe.
I lamenti in chiesa sogliono essere sommessi, ma non tanto quando sono veramente lamenti, che non suscitano un suono, e nel suono un'eco, o quell'equivalente rimbombo che noi battezziamo talvolta per eco.
(I ragazzi poi alla prima Comunione fanno quegli altri belli strilletti, ai quali niun sordo vorrebbe negare il merito di un sonoro per eccellenza.).
Circa all'echeggiare nel silenzio io intendo di quel suono che deciso e non deciso, qual'è precisamente quello di un pianto mezzo represso, suole udirsi in modo che quasi il silenzio stesso di un tempio non n'è assolutamente vinto: ed oltre a ciò, appunto perché un'eco si ascolti, rendesi necessario che il luogo nel quale l'eco si suscita non sia turbato da altri suoni a quello stranieri, di maniera che ad ogni rinnovarsi e cessare di quell'unico suono, il silenzio proprio del sito resti vinto e poi torni, come per intervallo.
Queste mie spiegazioni ti parranno facilmente arzigoli: ma io travedo che se le avessi fatte meglio, e tali che rendessero appuntino le idee che in esse vorrei sciogliere, tu ti stringeresti nelle spalle, e diresti: Vuole aver ragione? diamogliela, ché già quasi l'ha.
Stringiamola in conclusione.
Io non vedo, per quanto pensi, in qual modo contentare chi mi onora dei suoi consigli.
Non è superbia, perché io ne so meno di tutti.
La è vera, assoluta, invincibile difficoltà di dire altrimenti.
Se voi altri amici trovaste il verso e il modo di cinque sostituzioni che adempiendo al fine cercato non nuocciano ai riguardi del filo, del getto, della unità, del concatenamento, della reciprocità, o di che diavol'altro vogliam dire esistente nel tutt'insieme della mia ode, se trovaste, dico, quel verso e modo, suggerite il balsamo come additaste le piaghe, ed io abbasserò il capo sotto la macchina di Mastro Titta.
Se ciò non accade, e se la Ode non meritasse di vivere senza quei tagli, ti assicuro, Checco mio, da leale uomo, che rimetto in te il darla in luce o nasconderla come tu crederai più spediente al tuo onore o a quello dell'ottima amica, che tutti piangiamo.
Non badare all'orgoglio d'autore: cacciala nel cestino, come fanno i Cardinali e i Ministri di tanti memoriali che han più ragione del mio cencio di ode.
Un bacio a tutti gli amici, e altrettanti per te.
Il tuo Belli
P.S.
Ho capito del cerotto del Canonico Pereyra: ne chiederò, e se v'è, lo porterò.
Altro P.S.
Ho fatto un sonnetto, cioè un'appennicarella (che non s'avesse a confondere con sonetto, cosa che in Arcadia può accadere facilmente), e mi è tornato in capo quel Vedestù.
Vogliamo dire
Non parve a te ne' placidi etc.?
Se a te la va, magari che il sonno mi aiutasse ancora nel transito, nella union, nello spir e nell'echeggiar!; ma una buona dormita mi ci vorrebbe per tanta roba; e allora potrei rispondere alle lodi: bagatelle: gli ho fatti dormendo.
E seriamente, a tanti e tanti non verrebbe meglio così che vegliando? Per esempio fra i molti nominiamo a cagion d'onore l'onesto Villetti buon padre di famiglia, e lo specchiatissimo D.
Raimondo Pigliacelli più degno di pastorale e di bugia che di una pelliccia canonicale.
Va a non dire allora al sonno con Seneca: pars humanae melior vitae!
Bravo il Missirini! Pungoli al Borghi.
Mazzocchi allo Azzocchi.
LETTERA 167.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 9 luglio 1833
Eccoti, mia cara Mariuccia, la citazione eseguita contro questo Sig.
Bianchi, al quale la mostrai prima della legale presentazione, ed egli se ne mostrò pago dicendo che se non avesse avuto d'uopo del mandato di consegna per sua giustificazione mi avrebbe tosto consegnato il danaro, come farà appena il documento sarà in ordine.
In quel caso, fatti dire da Marini se pagata la somma sequestrata io debba rilasciare al Bianchi il mandato, che egli mi chiederà certamente tanto per documento contro il Marcucci quanto per pezza giustificativa verso la Cassa Camerale.
- Domenica io fui a pranzo da lui, e vi fu anche Lovery.
Sono andato questa mattina espressamente al Collegio per vedere Pietruccio Grazioli, che ho trovato in buona salute al solito.
Di lui scrivo direttamente in questo medesimo corso al Sig.
Avvocato suo padre.
In questa occasione mi son fatto chiamare anche il nostro toretto al quale ho consegnato un barattoletto di manteca che mi aveva dimandato, e dieci palle per la provvista, dirò, di tutto l'anno, mentre le ultime mandategli sono già, com'è naturale, tutte in sepoltura.
La soddisfazione di quest'altro suo desiderio gli è riuscita gratissima.
Il Rettore ha fatto a Ciro un elogio avanti a Grazioli nella circostanza di dirmi che il Grazioli oggi è in penitenza per aver rotto già il quarto libro di geografia ricomprato questa mattina dallo stesso Sig.
Rettore per paoli sette.
È vero che Ciro è minor tempo che sta in Collegio, ma pure il di lui primo libro di geografia ancora è buono, e Grazioli che non è poi tanto più anziano di Ciro in Collegio ne ha già cucinati quattro.
Questa cosa però all'avvocato non gliela scrivo.
Nella settimana passata il nostro figlio ha fatto sempre tutti bene tanto nella geografia che nella lingua italiana, di modo ché i superiori si chiamano sempre più contenti di lui.
Senti questa.
Un pittore ha qui esposto un quadro che dipinse per Milano, ed avendolo esposto ha mandato fuori alcuni biglietti a stampa con una linea in bianco da riempirsi col nome del destinatario, onde invitare persone a vedere il suo lavoro.
Che ha fatto Ciro! Se n'è procurato uno, lo ha empiuto col mio nome, e poi piegato in regola me lo ha dato affinché io goda di questo piacere.
Ti assicuro che ciò mi è stato di molta soddisfazione.
- Della salute di questo caro figlio nulla ti dirò.
Tu sai che in ogni estate si dimagrava ed impallidiva.
Se lo vedessi adesso sta meglio di quello che era a Roma l'inverno.
Bisogna certo convenire che questo Collegio è esposto in una gran bella e salubre parte della Città! E per finire pure una volta di Ciro egli ti chiede la benedizione e ti dà tanti baci.
Saluta pure infinitamente Antonia, Annamaria, Domenico, i di lui figli e tutti gli amici.
- Il guardarobiere dice che sei paia annue di calze, tre bianche e tre nere, sono sufficientissime, perché il Collegio le fa raccomodare all'occorrenza, e perché facendone di più si spregherebbero col crescere del ragazzo.
Mi scordavo di dirti che appunto la diligenza di Ciro nel conservare le sue cose, ha reso così mite il consumo che già t'indicai del suo piccolo peculio in deposito.
I danari di Grazioli volano, per lo sciupo particolarmente de' libri scolastici, i quali, secondo i regolamenti, sono naturalmente a carico de' rispettivi studenti.
Le notizie della tua miglior salute mi hanno veramente consolato.
Non mi dici però se hai poi cominciato o no i bagni.
Io sto bene, ma credo che questa sera mi farò la ormai divenuta consueta sanguigna di precauzione, sentendo quella solita ottusità che di tanto in tanto mi sorprende.
I miei polsi infatti sono assai pieni e una slentatina di vena mi si dice molto opportuna.
Anche questi professori sono di sentimento che per qualche tempo io dovrò fare così, e, passato poi il periodo che attualmente ha preso la mia macchina, si potrà diradare i salassi, e ritornare a poco a poco all'antico equilibrio.
Ciò di cui qui si manca è il comodo de' bagni per la scarsezza di acqua, circostanza che ha fatto sì che quest'uso salubre non siasi introdotto in pubblico e sia poco praticato in privato.
Questo Sig.
Angiolo Rossi mi va da molto tempo facendo istanza perché io lo accompagni per tre o quattro giorni a Sinigaglia.
Io non ci sono niente niente disposto e spero di sicuro di sgabellarmela, anzi me la sgabellerò.
Torricelli poi mi fa per lettera più forza ancora affinché vada a passare almeno una settimana con lui.
Dicendo però di no a Rossi, negherò anche a Torricelli, la cui Fossombrone è sulla stessa strada di Sinigaglia.
È vero: mi pare che Frecavalli non possa essersi piccato.
Se lo vedi, salutamelo.
Di Antaldi va bene.
Io aveva già preparato la lettera per impostarla questa sera.
È meglio che resti inutile.
Sono obligato a Marcelli della sua cortesia.
Mi ha scritto Corazza che appena finite le mietiture farà il riscontro delle piante secondo la nota che glie ne mandai.
Dice che ti mandò gli altri due prosciutti, ma che non ne ha avuto riscontro.
Babocci per ora non mi ha fatto sapere altro.
Qui piove regolarmente ogni giorno, e molte di queste acque sono temporali belli e buoni.
Insomma pare che quest'anno a Perugia non vi sarà estate.
Non mi pare d'aver altro da dirti per quest'ordinario.
Ti abbraccio dunque di tutto cuore, e ti prego di salutarmi chi ti chiede di me.
Sono il tuo P.
LETTERA 168.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 25 luglio 1833
Mia cara Mariuccia
Risconto la tua del 23.
- Farai fare la sola gabbia piccola al prezzo di Sc.
1:20, purché sia bella e forte; e poi me ne darai avviso.
Starò aspettando il Sig.
Fani con le cose da te consegnategli, ed eseguirò appuntino la tua commissione col nostro figlio.
L'ho veduto questa mattina, e l'ho trovato rosso e rotondo come una mela-appia.
In questa settimana i suoi studii gli hanno fruttato un ottimo e tutti bene.
Gli è venuta una vogliarella.
Amerebbe di avere un paio (almeno) di racchette e qualche volantino.
Io gliel'aveva promessi dopo il mio ritorno a Roma, ma pare che il povero ciuco amerebbe più oggi l'uovo che domani la gallina.
Le racchette dovrebbero, egli dice, essere di quelle che hanno da una parte la cartapecora e dall'altra la reticella di corda di budello; ovvero colla sola cartapecora perché il botto del colpo è l'affar principale.
In casa dovrebbero esserci ancora quel tali cartocci da raccogliere i volantini per aria.
Ci si potrebbero unire.
Povero figlio! Si porta bene.
Gli vogliamo negare questa soddisfazione? Egli ti chiede la benedizione, ti abbraccia, e saluta Antonia e tutti.
Va bene di Costanzi.
Ti accludo la carta firmata in bianco.
- Io credo però che il Sig.
Fabj con quelle offerte e dimande voglia scoprir terreno.
- La sentenza è notificata.
Il Sig.
Bianchi ad ogni mia richiesta (che sarà pronta) mi darà gli Sc.
14:42 dietro mia semplice quietanza a tuo nome, benché io non sia nominato nella causa.
Farò la quietanza colla riserva delle spese.
Intanto sappi che la presentazione, con copia rilasciata al domicilio, ha importato baiocchi 37 1/2.
Fa' aggiungere questa partita al conto.
- Ringrazio tanto il nostro Ricci.
- Lo stato della povera Angelica mi fa molta pena.
- Saluto tutti e ti abbraccio di cuore.
Il tuo P.
LETTERA 169.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 8 agosto 1833
Mia cara Mariuccia
La tua del 3 corrente invece di arrivarmi il 5, come dovevami, è giunta jeri.
Appena impostata la mia precedente n.
23 passai avanti al Collegio di Ciro, come fanno le rondinelle, le quali per ogni volta che s'imbucano nel nido vi volano attorno almeno trecento.
Trapassato che ebbi di un poco il portone, mi udii chiamare a voce bassa: Papà, papà; e nell'alzare il capo vidi Ciro alle finestre del suo dormitorio, che mi faceva de' baciamani.
Quindi a poco si affacciò anche il Cameriere David accanto a Ciro, e ad un'altra finestra il prefetto, il quale mi partecipò che per quel giorno, stante il tempo dubbio, non si andava a spasso, ma invece si conducevano gli alunni a giuocare negli spiazzi del Collegio.
Il nostro figlio aveva in capo un berretto di lanetta nera, che era mio, e glielo regalai quest'ottobre nel suo ingresso all'instituto.
Mi piacque di vedere che ancora lo conservi.
Questa mattina gli ho fatto la visita del giovedì, giusta il costume, e gli ho letto le cose a lui appartenenti della tua lettera del 3.
Egli le ha udite con molta attenzione e ilarità, e poi se l'è volute rileggere da sé, dicendomi infine: Papà ringraziate la Mamma a nome mio, ditele che stia bene, e che io Le do tanti baci e le chiedo la benedizione.
E dopo incaricatomi de' saluti per Antonia e per tutti gli altri, ha finito con due zompetti.
Qui sopraggiunsero i Sig.ri Presidente e Rettore, che gli fecero mille carezze, e m'incaricarono di dirti mille cose da loro parte.
Il Sig.
Pres.
Colizzi poi aggiunse che per ora sarà difficile assai che possa farti in Roma un'altra visituccia.
Circa all'affare Costanzi va bene.
Io seguito sempre a ripetere quanto ti dissi, cioè che il Signor Fabj di lui curiale non venne a parlarti che per cercare di pescare qualche altro vampiro da opporti.
Intanto però non so cosa vorrà sostenere.
Di Bertinelli nulla mi fa specie, e non so come quell'uomo vorrà cavarsela da tante pastoje nelle quali tiene avvolti i piedi.
- Povera Angelica! Quella è una donna perduta.
Evviva la spenditrice universale! Ti costerà fatica, ma ne uscirai di certo con onore.
Fa' i miei complimenti con lo sposo.
- Vado a scrivere a Terni intorno a Canale, e vedremo che si potrà fare.
Del resto tu hai operato molto e bene a questo proposito.
Se ti dovessi raccontare al vivo l'acqua che qui cadde tutto jeri e il furioso temporale di questa notte, farei opera inutile per la sua difficoltà.
L'acqua si è mangiata nella nottata una strada che si faceva di nuovo, e i tuoni saranno stati un migliaio.
Ah! Iddio liberi l'Italia nell'autunno da qualche calamità! Basta, a buon conto Ciro nostro dice che non ha udito niente perché ha fatto, come fa sempre, tutto un sonno.
Vedo ancora per Perugia l'Avvocato Marsuzi, il quale con un piglio a destra ed un altro a sinistra, e camminando a gran falde spalancate, prende tutto il corso per sé.
Debbo farti i saluti.
del Sig.
Luigi Micheletti e della Signora Cangenna di lui moglie, come altresì della Sig.ra Marchesa Monaldi, la quale manda spesso da me un professore di letteratura del Collegio di Ciro a informarsi delle mie nuove.
Ogni tanto vado io stesso a riverirla.
Ieri, con quel delicato diluvio, venne detto Professore, e mi offerì da parte della Sig.ra Marchesa la chiave del suo palco al teatro nobile ogni volta che io la desideri.
Forse una sera che non piova e non sia freddo (vedi pretensione!) l'accetterò.
Del resto anche senza questa chiave io frequento moltissimo il teatro, mentre in 64 giorni dacché sono a Perugia (ed il teatro ha agito sempre) vi sono stato per mezz'ora una sera onde vedere il teatro civico, dove allora erano le recite.
Procura di star bene anche tu, amami, e credimi sempre il tuo
aff.mo P.
LETTERA 170.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 22 agosto 1833
Cara Mariuccia
Riscontro la tua del 20.
Tanto l'altro jeri mattina quanto jeri mattina e giorno, e finalmente questa mattina sono stato presente agli esami annuali del Collegio Pio.
L'udire que' cari ragazzetti a parlare di tante cose erudite, scientifiche e amene, era un piacere da muover le lagrime.
Ciro nostro fu esaminato jeri al giorno sulla grammatica italiana, e questa mattina ha subìto l'esame sulla geografia.
Nella grammatica si portò assai bene, avendo sempre risposto assennatamente, con precisione e con grazia alle varie quistioni promossegli dagli esaminatori, professori della Università.
Nella geografia poi non ti so dire con quanto garbo e possesso ha dato sulla carta la descrizione di tutta l'Asia.
Se ne stava ritto in piedi avanti al quadro eretto sul cavalletto e lì con la sua bacchettina in mano andava indicando i luoghi, le posizioni e i confini, a mano a mano che veniva esponendo con la voce.
Senza mai impuntarsi, e parlando chiaramente e con pausa, ha esaminato tutto il suolo dell'Asia; ne ha indicato le principali Città, i fiumi, i monti: ha distinto le dominazioni, ha annoverato le particolarità dei luoghi e dato un dettaglio delle produzioni e del commercio delle varie nazioni di quella parte di mondo.
Bisognava udirlo a profferire netti e spediti que' brutti nomacci da fracassar la lingua d'ogni galantuomo.
Quella regione gli è toccata a caso: del resto egli conosce tutto il globo egualmente.
Anche i tre suoi compagni, e specialmente Grazioli, si sono portati assai bene.
Grazioli poi ha l'abilità di delineare all'improvviso col gesso sulla lavagna la superficie di qualunque parte di Mondo.
Ha poi Ciro fatto, per esporlo al saggio di settembre, un grande specchio di varii caratteri con a piedi una bella cartina geografica miniata.
Il Maestro di calligrafia mi disse jeri: il suo Sig.
Ciro è il mio sostituto.
Molte e molte carezze gli sono state fatte questa mattina dal professor Mezzanotte che lo ha interrogato.
Insomma Ciro è un bravo ragazzetto, buono, studioso, e amato da tutti.
Egli ti chiede la benedizione e ti abbraccia, mandando i consueti saluti.
- Fu un mio equivoco l'aver udito che già fosse deciso dover Ciro dare il saggio pubblico.
Ciò non è ancora stato determinato, e dipende da certe regole dell'instituto, anche estraneamente all'abilità.
Io spero però che di certo gli toccherà, benchè del primo anno di convitto.
Te ne darò notizie a suo tempo.
Mi duole di Celani, ma più e più del male del povero Pietro Mazzarosa.
Confido però che a quest'ora già starà meglio.
Mi congratulo della buona riuscita delle tue provviste, e del regalo ricevutone.
- Parlerò alla Rossi della gabbia e ci sentiremo.
Non so se ti dissi che essa non vuole che il marito sappia questa sua commissione di modo che è bene che ciò lo senta Biscontini onde in qualche circostanza (non prevenuto) non avesse ad uscirsene col Sig.
Rossi.
Godrò sapere l'esito della causa Costanzi.
- Qui, malgrado la stagione orribile, non vi sono gran malattie, meno qualche poco di reuma da non farne caso.
- Farai bene ad andare in Albano, ma vacci in buona ed allegra compagnia.
Sicuro, Calcagni d'Albano è fratello della Contessa Toruzzi.
Come diavolo commettere una simile imprudenza! Figurati che incendio rovinoso! quel gran locale, e destinato a quell'uso! proprio, poveretto, piove sul bagnato.
Di' a Biagini, quando lo vedi, che ho letto la sua lettera al Prof.
Mezzanotte, il quale lo ringrazia e conviene in tutto e per tutto con lui.
E salutamelo.
Ringrazio chi si ricorda di me e, al solito abbracciandoti sono
Il tuo P.
LETTERA 171.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
Di Perugia, 27 agosto 1833
Mio caro Checco
Che diavolo di poema vorresti tu ch'io ti mandassi se in tutto il tempo da che son qui non ho saputo formare un pensiere che mi valesse una parola? Mi chiederai dunque come io passi la mia vita, poiché sei quasi anticipatamente persuaso che io non vada in alcun luogo, e conservi le mie casalinghe abitudini di Roma.
Sto in casa, sto in camera, e leggo.
Passeggio quando l'atmosfera lo concede, passo qualche mezz'ora nel negozio del libraio Bartelli, visito il mio Ciro due volte per settimana, e il resto in casa, in camera, e leggo.
Ho portato meco da cominciar de' lavori e da finirne d'incominciati, ma sarà l'aria troppo fina ed elastica, io, ti ripeto, non so formare un pensiere.
Tu mi desti una vagliatina giudiziosa della mia ode per la povera Lepri: quando vedrai che setacciata me n'ha fatta Torricelli, sentirai allora che nespole! A dargli retta, come forse vorrei, bisognerebbe aprire un buco sino al nucleo della terra, e seppellirla laggiù, acciò il mondo non restasse impestàt, per dirla alla vicariana, cioè secondo Monsieur Vicar.
È vero che il Torricelli conchiude le sue osservazioni esser quelle di un trecentista, ma buggiararlo quel beato Trecento come la sona! Or tu mo stampala, ardila, nettatici, dàlla a salumaio, falla portare dal fiume: ti do carta bianca.
Di Ciro fatti dare notizie da Mariuccia, la quale sino al giorno corrente ha sempre avuto da me il regolar gazzettino intorno alla vita ed ai fatti di questo caro raponzolo, e direi meglio raperonzo per amor del Trecento.
Il tuo bacio glielo darò giovedì, press'a poco all'ora in cui tu riceverai la presente.
Qui non sono niente e poi niente rigidi in fatto di censura di stampe: anzi si stampa tutto senza che questi buoni Revisori vi mutino un ette.
Ciò ti farà piacere.
Lascia però ch'io ti dia il contropelo.
Tutto deve mandarsi alla Censura romana, meno (per grazia) gli articoli del giornale, che da rami divengono bacchette, e meno gli avvisi di nuove tinte per le scarpe, osterie da aprirsi e tridui da celebrarsi.
Protesto altamente contro la taccia del miscere sacra profanis: ma quando la cosa è così, e bisogna dirla tutta in un tempo, va a fare altrimenti.
Come va che Biagini mi dimanda se mi ricordo del cerotto che mi commettesti? Non l'ha già avuto e pagato?
E tu che fai? Scrivi? Leggi? Mangi? hai le tue regolari deiezioni? Aprimi il cuore.
Veramente il cuore accanto alle deiezioni non te lo doveva metterci, ma ripeterò, quando bisogna dir tutto in un fiato, va a fare altrimenti!
Qui una comica Compagnia Ciarli-Brenci etc.
etc.
dopo avere gridato cinquanta sere, passò a gridare a Spoleto, dove il pover'uomo del prim'uomo (Brenci) morì una bella sera sul campo della gloria.
Almeno dicono che morisse a sospetto di fuga.
No, lo dico seriamente e con dispiacere: fu colpito d'apoplessia e morì sul palco.
Ferretti lo avrà conosciuto.
Salutamelo il caro Giacomo, o fammelo salutare con tutta la famiglia.
Stanno tutti bene?
E salutami Biagini, Ricci, Piccardi e suoi, tuo padre, tuo fratello, Lepri, Pulieri, Rosani e chi ti pare, ché pare anche a me.
E ti abbraccio.
Il tuo B.
LETTERA 172.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 3 settembre 1833
Mia cara Maruccia
Rispondo alla tua del 31 passato agosto.
Domenica vidi Ciro nostro, il quale si dispone pel saggio pubblico che sarà giovedì 5 corrente alla mattina.
Nel dopo pranzo della seguente domenica succederà la solenne premiazione.
Egli è giudicato già degno di premio: credo però che il successo debba dipendere da un bussolo con qualche altro di eguale suo merito.
In ogni modo l'onore sarà sempre lo stesso.
Vado facendo eseguire d'accordo col bravo guardarobiere varii lavori nel corredo di Ciro pel mezzo-tempo e pel futuro inverno, stagioni che qui sono molto distinte l'una dall'altra.
A cose fatte ti darò ragguaglio di tutto quanto è stato giudicato necessario di fare.
Questo guardarobi e il cameriere della Camerata sono due veramente eccellenti giovanotti, ed io alla mia partenza li rimunererò con un'altra mancia delle premurosissime attenzioni che mostrano al nostro caro figlio.
Dalla mia precedente avrai udito quando arriverà a Roma il vetturale.
Va benone intorno alle vedute di Roma etc, e ne ringrazio te e l'ottimo Biagini che mi saluterai tanto tanto.
Mi ha consolato la guarigione di Mazzarosa, come seguita a rattristarmi lo stato infelice della povera Angelica.
Qui è caduta la neve sulle montagne di confine, e fa molto freddo.
Ciro ti bacia la mano, ti abbraccia, e ti chiede la benedizione.
Saluta poi Antonia e tutti.
Io ti abbraccio e sono di cuore
il tuo P.
LETTERA 173.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 7 settembre 1833
Cara Mariuccia
Ricevo la tua del 5, e la riscontro.
Lo stesso malvagio tempo che tu mi descrivi essere stato a Roma in detto giorno fu egualmente qui, unito a un sensibile freddo, di modo che ci volle tutto il mio desiderio di udire Ciro al saggio che mi determinasse ad uscire di casa; ed uscii tutto vestito da inverno.
Sono varii giorni che diluvia di continuo.
Vedremo domani se vorrà, il Signor Tempo permettermi di concorrere allo spettacolo della premiazione, di cui poi ti darò un distinto ragguaglio.
- Ho mandato a vedere se alla posta fosse giunto il pacco per Ciro: mi han detto di no, mentre i gruppi qui non vengono che il lunedì, siccome non ne partono che la domenica, mentre nelle sole domeniche parte di qui il Corriere per Fuligno e ne ritorna il lunedì.
Gli altri due corsi settimanali si fanno per via di staffette latrici di sole lettere.
Dunque darò al nostro caro figlio il regalo appena sia giunto.
Circa alla spedizione della gabbia va bene; e darò a Ciro tutto ciò che vi è annesso per lui.
- La tua intenzione riguardo a Costanzi è buona, ma bisogna poi vedere se il mobilio della sua casa potrà saldare gli Sc.
1200, più qualche arretrato che siavi di frutti spese etc.
Oltre di ché insorgeranno delle dispute sulla comproprietà dei fratelli ed altri di famiglia.
Perciò sta' oculata.
Vedi di far sollecitare la liquidazione delle spese Marcucci, affinché si possa ultimare il tutto con Bianchi fin ch'io sarò qui.
Ti accludo un foglio bollato e da me firmato in bianco, onde tu te ne serva a tuo senno.
L'ho sottoscritto in basso per lasciarti più spazio a scrivere: per la qual cosa, fatta prima una minuta ti regolerai sulla quantità del bianco da riempire.
- Ho piacere che il nostro Biagini abbia già avuto il cerotto che mi richiese.
Il figlio del dottor Micheletti è morto realmente.
Questo ragazzo d'indole assai recalcitrante ripugnava a tutte le volontà paterne, e più alle di lui disposizioni intorno alla educazione.
Mutati varii luoghi ne' quali era stato messo a studiare, finalmente pareva che nel Collegio di Arezzo si fosse un poco calmato.
Ma, avvicinandosi l'epoca delle vacanze, voleva ritornare a farle a Casa.
Il padre che conosceva che una volta tornato si sarebbe penato a farlo ripartire, gli lasciò libera la scelta tra il villeggiare in una bella campagna che possiede il Collegio Aretino, e tra il passare ad un ameno casino di certi Signori d'Arezzo, di lui Clienti.
Udita il fanciullo tale alternativa a lui ingrata, che fa! Una sera si avvolge un panno bagnato attorno al collo e un altro in testa, e poi aperta la finestra si pone in letto per dormire.
Casualmente il Rettore vide dalla sua stanza la finestra aperta del Micheletti, e recatosi nella di lui camera gliela chiusa.
Il ragazzo all'udire aprir la porta si pose la testa fra i lenzuoli, e finse dormire cosicché il Superiore credette la finestra di lui esser rimasta aperta per dimenticanza e più non vi badò.
Riuscito il Rettore, si rialza Micheletti e bagnati di nuovo i panni ripete il mal giuoco, ed anzi riaperta la finestra vi si sdraiò sotto sulla nuda terra, e così seminudo si addormentò.
Figurati alla mattina! Fu ritrovato tutto gonfio.
Interrogato ripetutamente confessò finalmente il tutto, e dopo una orribile malattia di 24 giorni spirò lunedì 2 alle ore tre pomeridiane.
Il povero padre è al colmo dell'afflizione, tanto più che avendo il Collegio tardato a scrivergli fino al 15° giorno del male, ed essendo giunta la lettera mentre egli era a Città di Castello, ha saputo il caso poco prima della morte.
La moglie del Micheletti partì bene subito, ma delirando sempre il figlio non l'ha potuto vedere.
Eppure a malgrado che il povero padre si rammarichi tanto, pure confessa che forse la provvidenza ha così disposto per risparmiargli altre lagrime più amare che il figlio avrebbe un giorno potuto fargli spargere.
Noi, cara Mariuccia, ringraziamo Iddio che Ciro nostro è savio, e i suoi superiori più assai diligenti.
Ti abbraccio di cuore.
Il tuo P.
LETTERA 174.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 10 settembre 1833
Cara Mariuccia
Jeri non ebbi tue lettere, ma bensì la spedizione per Ciro, al quale corsi subito a portarla.
E giunse bene a proposito, mentre nella solenne premiazione di domenica nominato Ciro a tre premii, uno cioè in lingua italiana, uno in geografia ed uno in calligrafia, non ebbe la sorte di conseguirne alcuno, non essendo mai uscito al bussolo in cui fu posto il suo nome tre volte co' suoi competitori nelle tre classi enunciate.
Nella geografia ebbe due altri emuli, uno solo nella lingua italiana, e cinque nella calligrafia.
La sortizione di tutti i nomi in competenza si fece alla presenza degli spettatori a suono di sceltissima banda, la quale si tramezzò a tutti gli atti della funzione.
Dispiacque a tutti i Superiori la poca fortuna di Ciro, al quale però furono tanto più prodigati elogi da essi e da molti astanti, in quanto che si sapeva che i competitori più fortunati di lui erano tutti del secondo anno di collegio, e Ciro del primo; circostanza che pure a detta di alcuno si poteva meglio calcolare dai giudici che stabilirono l'ordine della premiazione.
Io ti spedisco per la posta il libretto di prospetto.
So che ti converrà avere delle noje alla dogana, ma pure pensando che ti farà piacere il leggerlo te lo mando.
Aggiungo su questo proposito che il Rettore convenne con me che forse i primi elogi della scuola si convengono a Ciro, ma che dovendo purtuttavia gli esaminatori e i Consuperiori del Collegio attenersi ai risultati positivi degli esami trimestrali, non potevano negare una parità a chi realmente la ottenne.
Ciro poi si espresse che quantunque avrebbe amato il conseguimento di qualche premio, nulladimeno si appagava dell'onore che la sorte non può contrastargli.
Non ti puoi figurare la di lui gioia al ricevere le vedute di Roma e la pianta.
Disse che quello era il suo premio.
Tutti i ragazzetti della sua Camerata gli si affollarono intorno, ed egli fece da Cicerone.
I ringraziamenti che ti fa sono infiniti; e così ti chiede la benedizione, ti abbraccia, e saluta Antonia, Domenico e tutti.
- Ti debbo dire che da alcuni giorni soffre della flussione all'occhio destro, la quale però, come vedi, non gli ha impedito di fare regolarmente le sue faccende.
Il professore del Collegio gli ordinò certi bagnoli approvati da altro eccellente oculista Sig.
Achille Dottorini, che io ci ho già condotto due volte a mio conto, e ce lo farò tornare fino a completa guarigione.
Il Dottorini, che Biscontini deve certo conoscere, mi assicura che non è niente, e neppure gli ha vietato che possa discretamente applicare.
Sta', cara Mariuccia, tranquilla, e assicurati che con un poco di cura svanirà questo male, il quale è molto minore di quello che Ciro ebbe già a Roma all'occhio medesimo varii anni addietro.
Appena sarà un poco più diminuito il sangue comparsogli sul bianco dell'occhio, all'angolo esterno, il bravo Dottorini gli darà un collirio che servirà a guarirlo del tutto e a rifortificare i vasellini ingorgati.
In caso poi che tardasse alquanto il sangue a svanire saranno applicate alle tempie due mignattine per accelerarne la risoluzione.
Ti ho dato notizia di questo piccolo incomodo del nostro caro figlio, acciò semai ti venisse saputo per parte indiretta, non ti prenda alcuna pena, e ti fidi di me.
Del resto Ciro sta in piedi, allegro, e se la ride; e i superiori gli hanno tutti i più delicati riguardi perché non abbia aria o altri nocumenti esteriori.
Domenica sera andò qui in iscena una opera in Musica, intitolata la Orfanella di Ginevra, cantata benissimo.
C'è un basso poi, chiamato Angelini Dossi che a Valle farebbe fanatismo.
Io comperai un palco al second'ordine per 50 baiocchi, onde salvarmi dalla piena della platea, e mi divertii moltissimo.
Le decorazioni sono eccellenti.
L'opera è al teatro Nobile vicinissimo alla casa dove abito.
Aspetterò la gabbia.
La Signora Rossi è contentissima della scattola che ci hai fatto fare.
La medesima Signora ti prega dirle come sono grandi le pelli di ermellino, e quanto costano l'una.
Per la grandezza puoi fartela dare in modello dal pellicciaio, e poi col lapis disegnarmene la circonferenza sulla tua stessa lettera.
- Avrai avuto la mia, dove ti parlai de' lavori di sarto che faccio fare per Ciro, tanto per l'autunno che pel prossimo inverno.
Ti abbraccio di cuore, e sono il tuo P.
P.S.
È general voce che il Marchese Ettore Florenzi sia morto al suo casino della Colombella.
LETTERA 175.
A ORSOLA MAZIO - ROMA
Di Perugia, 24 settembre 1833
Carissima Orsolina,
Io già sapeva che tu saresti balestrata in ottobre: ti ringrazio però di avermene data partecipazione tu stessa, e tengo ciò in conto di quella gentilezza che ti distingue.
Sii felice, cara cugina, e felice quanto il mio cuore ti desidera e quanto tu meriti di essere.
Lo sposo che la provvidenza ti ha destinato ha tutti i caratteri da farti presagire una bella vita di pace.
Sii felice, ti ripeto.
Io vidi andare a marito tua madre: vedo oggi il tuo imeneo, e così spero trovarmi un giorno agli sponsali della prima tua figlia.
Allora io era quale ora tu sei, e al futuro matrimonio della tua prole tu sarai quale adesso io mi trovo.
Parlo di età.
Io vo sempre sventuratamente innanzi a te; e quando tu ancora vigorosa abbraccerai i tuoi nipotini, mi sarà forza di bamboleggiare con essi.
Vedi, cara cugina, come ancora fra le gioie possano trovarsi pensieri di malinconia.
Ma e poi perché? Se io sarò vecchio, lo saranno tutti quelli che vivranno di poi, e beato chi guardando sui giorni vissuti non vi troverà vergogna che lo faccia arrossire.
Dunque, innanzi, e ciascuno adempia alla propria missione.
Se le tue nozze accadessero verso la fine di ottobre, o almeno a mese inoltrato, io spererei di trovarmi personalmente ad accompagnarti all'altare.
Se poi dovrà accadere altrimenti, mi contenterò in arrivando di salutarti Matrona.
Avrai avuto in mia casa notizie del mio Ciro, e delle belle speranze ch'egli mi dà.
Salutami testa per testa tutti i tuoi, e in favore della circostanza i saluti pel caro Balestra sien due, e più se ti piace reiterarli.
Sono veramente pago di averlo preso parente.
Perdoni, Signora Sposa, la confidenza cuginale di questa mia lettera, e mi creda sempre
Suo aff.mo cugino G.
G.
Belli
LETTERA 176.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 24 settembre 1833
Cara Mariuccia
La guarigione di Ciro mi ha per due ordinarii trattenuto dallo scriverti, onde, non essendovi più un urgente bisogno di carteggio in tutti i corsi postali, rimetterci in regola.
Rispondo pertanto oggi alle tue carissime de' 17 e 21.
Comincerò dal dirti che Ciro seguita a star bene, anzi mi dice il cameriere che neppure gli fa più i bagnoli.
Io l'ho veduto fin qui ogni giorno, e nel solo sabato scorso che non lo vidi, lo incontrai alla Università dov'è l'esposizione del concorso annuale e triennale delle belle arti.
Giovedì 19 non solo non andò Ciro in campagna ma non ci andò neppure nessuno del collegio, stante il pessimo tempo.
Vi andarono però jeri, ed io li vidi tornare.
Ciro era tutto vispo e contento.
Ti dice egli al solito mille cose affettuose, baciandoti la mano e dandoti i saluti per Antonia, etc.
etc.
- Circa ad Angelica, se i polmoni son tocchi, il parto non la può salvare.
Non so perché tanto strepito per la scoperta del corpo di Raffaello, mentre si è sempre saputo che stava sotterrato in quel luogo.
Se lo volevano fuori lo potevano scavar prima.
In tutti i modi, certamente questa è per le arti una bella reliquia.
- Ora che Biscontini non c'è chi guiderà, il nostro delicato affare con l'avv.
Costanzi? E Biscontini non torna in Curia che ad anno nuovo! Che carte vuoi che abbia occulte Costanzi? Non ne può avere, e se ne avesse, le avrebbe già tratte fuori.
Egli tenta come tanti altri che girano mille tribunali per pagar quattro in luogo di uno.
Ti ringrazio de' saluti di Zia Teresa e Mariuccia, come ancora della notizia del matrimonio di Orsolina.
In questo ordinario ho avuto da lei stessa la formale partecipazione, e vado a risponderle rallegrandomi.
- Bravo Biagini! Birbo quel Pippaccio! - Ho avuto lettera di Corazza il quale dice che gli orribili tempi hanno impedito fino ad ora la consumazione della conta degli alberi, la quale però spera di finire in questi giorni, finita la fiera di Campitello.
I ristauri sono a buon punto.
Secondo i termini del contratto egli e Stocchi vanno ad eseguire un taglio nella Macchietta, e perciò stanno all'ordine quattro prosciutti, che io gli scrivo di mandarteli.
Ho avvisato anche Babocci del mio ritorno a Terni circa il 10 ottobre.
I tempi qui seguitano ad essere bestiali, ed io mi sento tutto indolito.
Come salvarsi del tutto? Hai tempo a star dentro: l'aria fredda e umida penetra per ogni luogo.
Sono abbracciandoti di cuore il
tuo P.
LETTERA 177.
AL DOTT.
RAFFAELLO BERTINELLI - ROMA
Perugia [5 ottobre 1833]
...
La vostra lettera, segnata da Voi col 23 settembre, non giunse a questo uficio postale che il 27, ed in quel giorno io era in letto con febbre di reuma, che per varii altri ha durato ad affligermi.
Nello scorso ordinario io mandai ciò a notizia di mia moglie, di modoché se voi in oggi la vedeste sappiate che questo non è più per essa un mistero.
Tuttavia il male non è stato grave, ed ora me ne trovo libero.
Mi affliggono veramente le novelle che di voi mi date, e veggo con amarezza che non sia ancor sazia la fortuna di perseguitarvi, quandoché nel Mondo avrebbe dove assai meglio e con più di giustizia esercitare le sue persecuzioni.
Ma poiché quasi sempre gli avvenimenti sono condotti dalla mano degli uomini, i quali poi al complesso de' loro maneggi si compiacciono d'attribuire l'astratto nome di Sorte, non è da stupirsi se i mali effetti della lor gravità cadano più spesso sui migliori che non sui tristi, dappoiché o questi raramente mancano di armi di difesa contro gli attacchi de' loro uguali, o gli ultimi amano, piuttostocché offenderli, farseli complici nella eterna insidia che tendono alla odiata virtù.
Comprendo le mie parole dover giungere fiacco balsamo e inefficace alle acerbe vostre ferite, ma poiché so pure che l'esser compatito nella sventura è, se non altro, un male di meno, io intendo che voi, prendiate per ora dalla mia penna que' conforti che non mancherei di apprestarvi vicino onde ajutarvi a sostenere i colpi della disgrazia la quale siccome tutti gli altri mali agenti della terra non sa poi a lungo resistere contro una determinata costanza.
Tenetevi cara la tibi-Seraphina, nella quale veggo più semplicità che mal'animo contro di voi.
Poverina! Sarebbe necessario un cuore di bronzo per tener saldo contro i combinati attacchi di una raffinata malizia, di maniera che fra tante suggestioni perverse non è maraviglia che il di lei nuovo cuore vada fluttuando.
Io parto di qui fra quattro giorni.
Addio, caro Bertinelli: sono sempre il v.ro aff.mo a.co
Belli
LETTERA 178.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Terni, 15 ottobre 1833
Mio caro Ciro
Giunsi in questa Città la sera di domenica 13 dopo un felicissimo viaggio.
Ti assicuro che l'essermi allontanato da te mi ha costato molta pena, la quale è però mitigata dall'averti lasciato in buona salute e così bene affidato qual sei.
Procura di conservarti sano col moderato uso di tuttociò che ti si concede al sollievo dello spirito e del corpo, e fa' che le notizie che io andrò di te ricevendo mi riescano sempre di consolazione sotto ogni rapporto, così di salute, come di condotta e profitto, tantoché col rivederti nel prossimo anno ti ritrovi convenientemente più vicino al perfezionamento a cui ti si va conducendo.
Riverisci per me il Sig.
Presidente, il Signor Economo, e il Sig.
Prefetto.
Amami e ricevi la mia benedizione.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 179.
A CIRO BELLI - ROMA
Di Terni, 24 ottobre 1833
Mio caro Ciro
Mi ha scritto la tua mamma le seguenti cose sul tuo conto.
Io ti copio qui appresso le medesime parole della sua lettera.
Eccole.
"Ieri ho ricevuto una lettera di Ciro, diretta a te.
Credo che abbia sbagliato dirigendola a Roma invece che a Terni, poiché diversamente mi sembrerebbe assai singolare che io non ci sia nominata nemmeno con un saluto.
Mi dispiace peraltro che, ancorché fosse destinata per Terni, non ci abbia messo nessuna parola per quelli di Casa Vannuzzi, nostri parenti, che pure egli conosce, e dai quali ha ricevute molte finezze al suo passaggio per quella Città.
Bisogna che Ciro sia un poco più premuroso sul punto della gratitudine.
Ora dimentica sempre anche Antonia, che è per lui come una seconda Madre; e a me non piace tanta disinvoltura, la quale col tempo diviene durezza ed egoismo.
Debbo pure osservare che le ultime due lettere scritte da lui tanto a te che a me, sono così tirate via e di un caratteraccio così brutto, che fanno nausea: ed anche di questo non sono contenta.
In questo modo egli fa mostra di peggiorare piuttosto che migliorare".
Tu sai, Ciro mio (riprendo qui io tuo Papà) che molte volte ti ho a Perugia rimproverato della tua indifferenza e negligenza nel dimandare nuove della tua tenera Madre, la quale non sarebbe mai stata fra noi nominata se non te ne avessi parlato sempre io pel primo.
Comprendo che circa le lettere che tu scrivi te ne vien data la minuta bell'e fatta, ma chi stende la minuta non è obligato di conoscere tutti gl'impegni del tuo cuore verso le persone alle quali tu devi mostrare riconoscenza.
Devi tu stesso pregarlo ad includerci le debite menzioni.
Riguardo al carattere, badaci un poco di più, caro figlio, e non mostrar di disimparare.
Riverisci per me i Sig.ri tuoi Superiori, e credimi sempre
tuo aff.mo Padre.
LETTERA 180.
A CIRO BELLI - ROMA
Di Roma, 30 novembre 1833
Mio caro figlio
Riscontro la tua graditissima lettera del 19 spirante, e ti faccio stimolo con la presente a scrivermene un'altra quanto prima, onde istruire la tua Mammà e me stesso del tuo stato di salute e di tutto il resto che ti concerne.
Io già sapeva, sin dal mio partir da Perugia, che i tuoi studii pel nuovo anno scolastico dovevano essere l'aritmetica e la lingua latina: mi ricordo anzi che circa a quest'ultima tu mi dicesti essertene già tanto anticipato qualche principio dal tuo buon Maestro Sig.
Felicioni.
Mi piacerà oggi di udire come ti sembri riuscirti difficile questo dotto idioma.
Io però tengo per fermo che le notizie che tu già possiedi di grammatica in genere, sienti per facilitare d'assai i progressi in una lingua così necessaria a chi nel Mondo vuol sapere.
Ed è tanta, Ciro mio, la necessità del conoscere la lingua latina, che non solo la ignoranza di essa ci priva della conoscenza di tanti capi-d'opera originali, ma ci niega altresì il possedere a perfezione la stessa nostra lingua nativa, che, figlia della latina, prende da quella il più bel lustro delle sue forme.
Allorché tu avrai familiare la superba lingua del Lazio, sarai stupefatto delle bellezze sublimi degli antichi Autori; e le stesse carte che tu scriverai, riterranno l'indole delle tue buone letture.
Il Sig.
Rettore sa se io ti dico il vero.
Studia dunque, o mio Ciro: un poco di fatica sarà un giorno ricompensata da infinito piacere e da gloria.
Te lo prometto.
Riguardo alla Calligrafia, mi sembra, Ciro mio caro, che tu vada prendendo qualche difetto, il quale con qualche attenzione potrai facilmente ritoglierti.
Per esempio, la lettera F, che una volta era da te scritta secondo le forme più lodevoli, ora la fai nel seguente modo...
Questa, figlio mio, è una forma un po' sconcia, e disarmonizza nella scrittura colle lettere vicine.
Giudicherai tu stesso della Verità delle mie asserzioni dalle due parole che qui appresso io ti segno
affetto
difficoltà.
Non vedi tu, Ciro mio, che nel modo scritto alla tua guisa le due ff sembrano piuttosto due lunghe zeta, tantoché quelle due parole si leggono meglio per azzetto dizzicoltà che non per affetto difficoltà? Di dove hai cavato questa barocca forma di lettera? - Nel resto poi bada di non tirar via nello scrivere.
Io so che fra gli studii non si può scrivere sempre con tanto agio e tanta attenzione, mentre l'applicazione ed il tempo debbonsi economizzare in favor del soggetto che si scrive, e non già totalmente o in gran parte concedersi al carattere con cui si scrive: ma almeno in qualche particolar circostanza, dove lo studio non entri per primo, sii accurato nello scrivere in modo da non perdere un'abilità che avevi acquistata.
E in quanto alle lettere che mi dirigi, sieno esse più brevi, se vuoi, ma più corrette, imperocché io ci trovo non poca negligenza nella ortografia, e per conseguenza molte correzioni.
Riflessione, Ciro mio, riflessione in ogni cosa, e non si sbaglia mai, o raramente.
Come ti trovi nella nuova Camerata? - La famiglia Fani mi scrisse i tuoi saluti: il Sig.
Biscontini me li ha portati.
La tua Mammà ti dice mille cose piene di amore e di tenerezza, e ti esorta a studiare, esser buono, e stare allegro.
Antonia e gli altri nostri buoni domestici ti salutano.
Presenta i miei rispettosi ossequii ai Sig.ri tuoi Superiori, e ricevi i miei abbracci e la mia benedizione.
Il tuo aff.mo Padre
LETTERA 181.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 dicembre 1833
Mio carissimo Ciro
Non dubitare, non perderti di animo.
La lingua latina, sul principio dello studiarla, suole riuscire un poco difficile a quasi tutti; ed io mi ricordo che anche a me accadeva altrettanto allorché io era della tua età, e, come te, principiante.
Di mano in mano però l'esercizio continuo, e l'abitudine che ne consegue, rendono familiare qualunque più astrusa difficoltà.
A te non manca ingegno.
Non ti dico ciò perché tu ne insuperbisca, mentre il talento e tutto quello che abbiamo al Mondo di buono è dono gratuito della Providenza, e non già nostro merito particolare.
Intendo solamente di dimostrarti che con disposizioni sufficienti di spirito non si deve disperare di buon successo in nulla di quanto s'intraprende con ferma volontà.
Il peggio che possa accadere a uno studente è il diffidar troppo di sé, e lasciarsi sgomentare dalle prime difficoltà, inseparabili da tutti i nuovi sperimenti.
Col coraggio e colla perseveranza ogni giorno si guadagna una vittoria sopra gli ostacoli, e non solamente si superano i presenti, ma si acquista ad un tempo il vigore per superare i futuri.
I più famosi uomini della Terra sono stati fanciulli, niuno di essi era nato istruito: tutti si trovarono nuovi al principio nella carriera del sapere.
Che mai sarebbe accaduto di loro, e quale di tante famose opere avremmo noi oggi, se alle prime difficoltà sbigottiti, si fossero arrestati sulla via che li condusse poi a tanta altezza di gloria? Tu hai detto saggiamente che raddoppiando d'impegno speri di far que' progressi che lo studio non nega mai alla costanza.
Quello che oggi ti sarà sembrato oscuro e spinoso, col ritornarci sopra a mente serena e non divagata ti si farà dimani chiaro, molle e fiorito.
Vedi, o mio Ciro, la natura d'inverno.
Ti parrebbe mai che quel prato sterile, nudo e malinconico dovesse poi ben presto ricoprirsi di tutti i doni della fecondità? Eppure pochi raggi di un benefico Sole di primavera bastano a produrre il miracolo.
Dov'erano nevi e brine sorgono indi a poco pingui erbe e vaghissime; e colorite frutta appaiono sugli aridi rami degli alberi.
Altrettanto accade nell'uomo.
Esso non ha da principio che la capacità di produrre; ma il calor dell'ingegno unito al tempo e alla pazienza lo muta a poco a poco in tutt'altro da quello di prima e dice la Sagra Scrittura che colui che seminerà con lagrime, raccoglierà esultando vale a dire, che le fatiche sostenute nel coltivare saranno premiate dall'allegrezza della raccolta.
Sta' dunque di buon'animo, Ciro mio: studia con fiducia di riuscire, e riuscirai.
Il profitto verrà da sé, senza quasi che tu te ne accorga: e un giorno sarai certo che io ti diceva la verità.
Studio, coraggio, e il successo è infallibile.
Tuo padre non t'inganna.
Ho veduto il Signor Presidente Colizzi.
Egli mi ha dato buone notizie di te, e ti vuol bene.
Procura dunque, mio caro figlio, di non demeritare mai la di Lui grazia, né quella degli altri tuoi buoni Superiori.
Sii umano, gentile, obbediente, assiduo ne' tuoi doveri, e grato alle cure che ti sono prodigate in tante maniere.
Ama pure, e rispetta i tuoi compagni, imita il buon procedere di ognuno e non invidiare la gloria di alcuno.
Sii sempre verace ed umile, e quando mai ti avvenga di fallire, ringrazia chi ti ammonisce.
Questi consigli ti diamo tua Madre ed io, ed intendiamo che siano il miglior regalo che possiamo farti per le imminenti SS.
feste, che desideriamo felici a te, a' tuoi Superiori e a tutto il Collegio.
Fra giorni poi avrai qualche cosetta da goderti per amor nostro.
I giuochi però saranno meno, perché ormai ti fai grande.
Ti benedico di cuore.
Il tuo aff.mo padre.
P.S.
Oltre a Mammà (che ti benedice con me) ti salutano tutti i buoni amici di Casa, e Antonia, e Domenico e gli altri nostri amorosi familiari.
LETTERA 182.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 26 dicembre 1833
Ciro mio
In questa cassetta che, come nell'anno scorso, ti sarà stata mandata dal Sig.
Angiolo Rossi, e che tu dopo averla vuotata gli restituirai, sono i piccoli doni che ti godrai in quest'anno per amor nostro, secondo che io ti avvisai nella mia lettera del 19.
Vi troverai dunque:
1° Un pangiallo, dono di Annamaria.
2° Un torrone, dono di Domenico.
3° Un cartoccio di mandorle attorrate, dono di Antonia.
4° Un'altro di confetti, dono di Antonia.
5° Una cassettina di colori, dono del Sig.
Marchese Ossoli.
6° N.
7 pennelletti con loro bacchettine.
7° N.
6 piattini da stemprarvi i colori.
8° Un cerino.
9° Due trucchi da terra.
10° Due paja guanti.
11° Un pajo straccali.
12° Una piccola scrivania.
13° Le tue carte mimiche.
14° Il bucciotto, rappresentante il Cavallerizzo.
15° La pompa ad acqua.
16° Il ritratto del Buffon.
17° Le Novantanove disgrazie di Pulcinella.
18° Quattro barattoletti di manteca, fatta da Antonia.
19° Ventiquattro aranci.
20° Un pallone da camera.
21° Quattro libre di cioccolata.
Vorrei sapere quando principieranno le recite nel Collegio, quale commedia si eseguirà; e quale parte tu precisamente vi abbia.
Il Signor Presidente Colizzi ti saluta.
Tu riverisci da parte mia e di Mamà il degnissimo Signor Rettore e il Signor Economo, e per mezzo di questi anche il Sig.
Luigi Micheletti e di lui Consorte, augurando a tutti un buon Capo-d'-anno.
Tutti i nostri parenti ed amici ti salutano, e ti esortano a farti onore, per gloria di te stesso, e della famiglia, che un giorno spera da te il suo lustro.
Tua Madre intanto ed io travagliamo per prepararti uno stato che tu poi dovrai consolidare co' tuoi proprii meriti.
Addio, mio caro figlio.
Ricevi la nostra benedizione.
Sono
il tuo affezionatissimo padre
P.S.
I nostri buoni domestici ti dicono mille cose affettuose, le quali tu riceverai con gratitudine.
LETTERA 183.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 1° febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Giunto di notte a Terni, t'impostai le due righe già preparate fin da Roma, le quali avrai ricevute.
Non avrei mai creduto di essere in tanta compagnia nella diligenza.
Eravamo otto.
- Nella prima giornata e nella notte consecutiva si ebbe diluvio.
Jeri poi da Fuligno fin qui un vento agghiacciante e così impetuoso che faceva prova di atterrare il legno.
Oggi è nuvolo, freddissimo, e minaccia neve.
E la bella è che tutti affermano che sino a jeri si era qui avuta una primavera.
Sempre io mi porto appresso il buon tempo.
Arrivai qui jeri sera, e non ti dirò la sorpresa di questa buona famiglia, che ha messo sossopra la casa onde farmi festa e graziosa accoglienza.
Questa mattina poi ho goduto l'affetto prodotto in Ciro nostro dalla mia repentina visita.
È rimasto estatico, e poi colla voce agitata mi è saltato al collo, dicendo: Papà! è Papà! E Mammà è venuta? Poi ha principiato a saltare rosso come un gambero.
Egli sta di un bene da non potersi spiegare, colorito, prosperoso, lietissimo, e con due guancie grosse e dure come due pietre.
Mi ha condotto a vedere la sua camera, dove ha portato zompando la tazza da noi donatagli, e da lui gradita oltremodo.
Oggi dev'essere giunta a Roma la lettera in cui egli ci dava conto dell'esame trimestrale.
I Superiori ne sono restati contenti e mi han detto che Grazioli stesso gli è rimasto di un grado inferiore.
Lunedì sera andrò ad udirlo recitare in una Commedia intitolata: i Golosi.
Dicono che ha una parte non tanto breve.
Se dovessi riferirti tutte le cose da lui dettemi per questo mio viaggio, e per te, e per Antonia, Domenico, etc.
etc.
non finirei mai.
Parlava, saltava, e si stropicciava le mani, battendole quindi per festa che veramente veniva dal cuore.
Di' al Sig.
Dr.
Micheletti che appena arrivato (a tre ore di notte), consegnai a Barbanera pel di lui studio la lettera e il plico.
Circa a questo, è curiosa che smontato io di diligenza mi scomparve dinnanzi il Sig.
Bianconi che doveva consegnarmelo.
Dovetti dunque farlo cercare per le locande di Fuligno per chiederglielo.
Egli, trovato che fu, mi mandò per risposta che nulla doveva egli darmi per Perugia.
Mi fu pertanto forza, mentre io pranzava, di rimandarci una seconda volta il cameriere di Pollo con una ambasciata più viva e circostanziata.
Allora venne indietro il plico.
Col locandiere Pollo ebbi battaglia.
Di questa parleremo e rideremo poi a voce col Dottor Micheletti.
Sappia Biscontini che dallo stesso Barbanera ho fatto avvisare il Dr.
Speroni.
Ancora però non ho veduto alcun di lui messo per ritirare la roba che debbo consegnargli.
(Ecco che arriva il Dr.
Speroni).
Ho incontrato per istrada questo Sig.
Bianchi, la cui famiglia poi visiterò.
Mi ha detto il Rettore che a loro richiesta, otto giorni indietro, condusse in loro casa Ciro, che ne fu ricolmato di finezze.
La sola visita che è stata da me fatta finora è al Sig.
Rossi nel suo sgabbuzzino.
Egli sta bene e saluta te e Biscontini.
Io ho freddo, sto bene, ti abbraccio di cuore e ti prego ricordarmi agli amici.
Sono
il tuo P.
P.S.
- Martedì 4 puoi azzardare due righe di risposta.
È vero che se debbo trovarmi la sera del 5 a Fuligno per la diligenza della notte, non potrei avere la tua lettera; ma in ogni modo sarà bene che me la invii per tutti i casi che in detto giorno non mi facessero ripartire, mentre Ciro non è affatto contento di soli quattro giorni, e questi Signori Fani ne vorrebbero almeno sette.
Basta, vedremo.
Benedici Ciro che lo desidera tanto.
LETTERA 184.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 4 febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Rispondo alla tua del 1° corrente.
- Come ti dissi nella mia dello stesso giorno, io già sapeva l'arrivo a Roma della lettera del nostro Ciro.
Sapeva altresì dell'altra lettera di Casa Fani, e me ne hanno qui manifestato il contenuto.
Ti ringrazio delle notizie che mi dai dell'Accademia del Venerdì 31, e mi rallegro che tu abbia goduto di una bella serata.
Anche io sono qui andato sino ad ora una volta al teatro, e questa volta fu sabato a sera, essendovi stata opera tanto la vigilia che il giorno della Candelora.
La esecuzione della Norma mi piacque ben poco.
La Taccani (meno l'antipatia) è sul gusto della Tacchinardi.
Il tenore cantò come un bagherino, movendosi come un manipolatore di torroni.
Il basso e nella voce, e nella figura, e nella mimica, e nel vestiario, pareva un confratello del Suffragio che siasi alzato il cappuccio.
Del resto non occorre parlare.
Jeri sera fui al teatrino del Collegio Pio.
Le decorazioni e il vestiario sono senza pecca.
I convittori declamano come violini scordati.
Due soli ragazzetti de' più piccoli mostrano qualche disposizione naturale.
Pronunciano tutti alla barbarica, e dicono degli spropositi sistematici, che il Sig.
Direttore doveva prevenire.
Ciro non recitò jeri sera, ma insieme con altri compagni comparve da soldato nella farsa del pitocchetto, e con essi eseguì delle evoluzioni militari, che furono il più bel pezzo della serata.
Erano assai cari que' raponzoli, in uniforme e baffetti, marciare armati a suono di tamburo, ed obbedire con sufficiente precisione al comando di un colonnello, rappresentato da uno de' collegiali più grandi, che aveva parte nella farsa.
Egli, cioè Ciro, recita questa sera, ed io andrò ad udirlo.
Essendo egli uno de' piccoli, spero per questo motivo che sia meno cagnolo degli altri maggiori, perché qui vedo che appunto la natura che inclinerebbe al buono è poi falsata in appresso dalla pretensione che va in sull'esagerato, e dalla direzione di un soggetto, i cui allievi me lo fanno calare di credito.
Ci fu anche un ballo di cinque ballerini, pure collegiali.
Consisteva in una specie di contradanza di un centinaio al più di zompetti e di alzate di braccia concertata per dieci scudi da quel manichino vecchio del Serpos, al quale avrei invece contato dieci nerbate sulla schiena degna di un basto sdrucito.
Ha ridotto questi poveri ragazzi, che sembrano dieci salami attaccati a cinque prosciutti, prendendo il prosciutto per vita e il salame per gamba.
Io domani non partirò più, perché non essendo ancora attivata la diligenza nuova per Todi e Narni, se io andassi a Fuligno onde attendervi la diligenza ordinaria che vi passa nella notte seguente tutti mi dicono che in questi ultimi giorni del romano carnevale si può scommettere cento contro uno che non vi troverei posto.
Che farei allora a Fuligno? E troverei altra vettura subito, quando anche volessi stare in viaggio tre giorni? Sarà dunque più prudente che io parta di qui domenica 9, per profittare del seguente corso di diligenza che arriverà a Roma la mattina dell'11, ultimo giorno di Carnevale, pel qual corso mi soggiungono tutti che si può invece scommettere la testa che il posto vi sarà, mentre chi vorrà correre ai soli moccoletti? Intanto ci riudiremo in seguito.
Ciro sta benone: ti saluta, ti abbraccia, e ti chiede la benedizione.
Nell'aritmetica egli ha fatto in tre mesi quel che gli altri in due anni.
Così precisamente mi ha detto il maestro.
È arrivato a tutti i calcoli delle frazioni e si dispone già ai calcoli superiori, introduttivi alle operazioni algebriche.
Nella lingua latina ha dato anche saggi assai sufficienti.
Circa poi alla sua dolcezza, bontà e modestia, ti assicuro che non solo in Collegio, ma è lodato anche per la Città.
Egli saluta Antonia, Domenico etc.
Di' mille cose per me ai Calvi, a Biagini, Spada, Pippo e a tutti gli amici.
Ti abbraccio di nuovo e sono
il tuo P.
LETTERA 185.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 6 febbraio 1834
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua del 4 corrente.
Martedì sera come ti dissi, fu la serata che andò in iscena Ciro.
Recitò egli in una commediola in due atti, della Rosellini di Firenze, intitolata: I Golosi.
I due ragazzi erano Ciro e Grazioli, ai quali accaddero certe avventure spiacevoli, per essere entrati in un orto altrui a spogliare un albero di frutta.
Il carattere però che rappresentava Grazioli era di un giovanetto sprezzatore dei consigli della età matura, laddove al contrario quello dell'Enrichetto, di lui cugino (parte di Ciro) si opponeva alle derisioni e irriverenze dell'altro.
La dissero entrambi benino e con molta disinvoltura, malgrado una ben piena udienza che ingombrava il teatro.
Io non soglio farmi velo alla verità di privati affetti; e perciò qualora ti dica e ti ripeta che que' ragazzetti declamano con maggior naturalezza che i più grandi, credimi.
Una volta Ciro dimenticò due o tre parole di un suo discorso, e senza smarrirsi fece un'alzatina di spalle e tirò via.
Tutti risero.
Un'altra volta, dovendo dare ad una villanella due frutta che aveva in saccoccia, se ne scordò; e dopo qualche momento ricordatosene, disse: ah! a proposito..., e, cavatele fuori, le consegnò.
Que' raponzoletti ebbero molti applausi.
Mi ha dimandato questa mattina il nostro Ciro quando io parta.
Gli ho risposto: domenica mattina.
Egli allora: bravo, bravo, Papà: va benone: così state un po' più: va benone.
E qui due zompetti al solito, e una stropicciata di mani.
Egli ti saluta tanto e poi tanto, ti chiede la benedizione, e ti promette di farsi onore.
Saluta anche Antonia, Domenico, i di lui figli ed Annamaria.
I giuocherelli da noi mandatigli hanno fatto furore.
I tempi sono assai cattivi, e di carnevale qui non ce n'è neppure l'idea, meno il teatro, ed alcune feste di ballo, le quali, come puoi pensare, io non frequento affatto.
Ieri sera incoronarono al Teatro la prima donna Taccani, con molta derisione della più sana parte della Città.
Incoronata per mano d'un genio, che n'ebbe da essa la mancia di uno scudo, fu ricoperta da una pioggia d'oro come Danae, colla sola differenza che gli zecchini si commutavano in un diluvio di pezzetti di talco gettati giù dai cieli del palco scenico.
Al fine poi dell'opera la Signora fu condotta a casa fra bande e torcie in un legno da gala della Regina di Baviera.
E qui notisi di passaggio che questa Signora dell'altissimo canto ha avuto qui la paga di trecento scudi.
Ma una corona, una pioggia di talco, e un trionfo l'hanno posta in Perugia nell'ordine delle dame di fama europea.
Iddio però gliela mandi buona, perché di detronizzazioni in questo malaugurato secolo non è penuria; e le corone che da un paese si danno, spesso da un altro si tolgono.
Povera Taccani allora; e più povera Perugia! La Taccani è una buona donnina di secondo ordine.
Ma a quelle di primo cosa darà il Trasimeno?
Saluta tutti, e ricevi un abbraccio di cuore
dal tuo P.
Alla presente non rispondere, perché io sarò partito allorché arriverebbe il riscontro.
LETTERA 186.
A FRANCESCO CASSI - PESARO
Di Roma, 15 marzo 1834
Pregiatissimo amico
Il corriere del 13 mi portò il vostro manifesto colle due annesse tessere di dichiarazione che voi proponete a' vostri antichi Soci, onorevoli forse tutti come voi dite, ma non tutti per avventura egualmente generosi.
- Coll'ordinario poi di oggi ricevo la cara e gentil vostra del 9, marcata in arrivo il 13, ma non più presto pervenutami, stante la mancanza dell'indirizzo, che io raccomando a tutti i pochi miei corrispondenti al fine di non andare a farmi pestare inutilmente le coste per dieci volte all'inferriate postali, e perder quindi la virtù della perseveranza proprio in quel torno che mi avrebbe fruttato una lettera.
Il portalettere però, che conosce me e le mie mance, trovata oggi la vostra epistola negli scaffali dell'Uficio, ne l'ha tolta, ed ora vi rispondo al momento.
Per soddisfare alla dimanda intorno al numero delle copie che rimangono in essere de' quattro fascicoli sino ad oggi stampati, non parmi poter fare di meglio che riepilogare qui le notizie datevi con due miei fogli del 27 e 29 Luglio 1830, riscontrate prima in vostro nome il 5 agosto seguente dal Sig.
Honory, e poscia da Voi medesimo sotto il 19 del medesimo mese.
In questa anzi e successiva vostra del 16 ottobre, detto anno, mi annunciavate che le carte della gestione Cavalletti, speditevi da me il 29 luglio anteriore, erano sotto l'esame vostro e del Sig.
Vincenzo Bontà, del quale esame mi avreste poi partecipato il risultamento: e a ciò si rimase.
Intanto le notizie eccole qui:
Copie esistenti
dei fascicoli:
In carta
ordinaria
Velina bianca
Velina perla
1°
N.
33
N.
20
N.
1
2°
- " 53
- " 31
--" 5
3°
- " 66
- " 34
-" 10
4°
" 105
- " 57
-" 13
___
___
___
N.
257
N.
142
N.
29
Totale per fascicoli
Totale per qualità
Fasc.° 1°...
N.
54
Fasc.° 2°.
.
.
" 89
Carta ordinaria .
.
.
N.
257
Fasc.° 3°.
.
" 110
Velina bianca .
.
.
.
.
" 142
Fasc.° 4°.
.
" 175
Velina perla .
.
.
.
.
.
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." 29
_____________
.
.
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.
.
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N.
428
corrisponde al .
.
.
N.
428
Questo è il numero de' quaderni deposti presso di me dal distributore Sig.
Cavalletti, e questo è il medesimo numero che deve al presente esistere, perché quantunque da me non riscontrati prima di scrivere la presente, pure so che da luogo in cui stanno niuno può averne rimossi.
Attenderò dunque il Sig.
Biolchini per mostrargli il detto fondo e per tenere con lui que' proposito che meglio crederà egli giovare alla vostra ristorata intrapresa; e ben volentieri mi recherei tosto io medesimo a visitarlo, dove io sapessi chi sia e in qual parte abbia dimora, cose entrambe a me ignote, dappoiché io, poco al fatto della letteratura romana, niuno mai vedo di coloro che sono da lui segretario assistiti.
Questi Signori arcadisti tengonsi troppo in sull'alto, senza pensare che vien sempre la falce del Tempo a fare di tutto le debite detrazioni.
Isthuc est sapere, non quod ante pedes modo est videre, sed etiam illa quae futura sunt prospicere.
E quando Terenzio ciò scrisse chi sa che in quel futura non volesse anche considerare il giudizio degli uomini.
- La carta mi manca, ma non il desiderio di trattenermi con voi.
Fate dunque che non mi manchi di che trattenermi in questa occupazione.
Sono il vostro aff.mo amico e servitore
G.
G.
Belli
Palazzo Poli 2° piano
Autografo nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro.
LETTERA 187.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 25 marzo 1834
Carissimo figlio
Alle altre tue qualità, delle quali confesso di non saper lamentarmi, va però in te unita una certa malattiola di cervello, di cui desidererei veramente che tu ti guarissi.
E non ti pare difatti di avere il cervelletto un po' guasto, allorché tanto facilmente dimentichi così il tuo dovere di farmi avere le tue nuove, come il desiderio che la tua Mammà ed io nudriamo di riceverle? Te lo ripeterò ancora: io non credo che ciò in te nasca da difetto di cuore, poiché il solo sospettarne mi causerebbe il più grave rammarico.
Ma se in queste tanto frequenti negligenze (condannate dai regolamenti del tuo Collegio, ed accusate dai miei replicati lamenti) si debba far grazia al tuo cuore ed assolverlo sino dalla possibilità della colpa, ritorna sempre più evidente la giustizia del mio dubbio sulla leggerezza di quella tua testina, alla quale non manca altro per volar via che metter fuori due ali come quelle de' passeri.
Tu, in questo rapporto, prendi, mio caro Ciro, una ben nociva abitudine.
L'avvezzar l'anima nostra a troppo spesse negligenze, fa sì che questi atti di trascuranza prendono a poco a poco un carattere d'indolenza su tutti que' nostri doveri, la osservanza de' quali richieda il minimo fastidio e la più lieve fatica.
E sappi, Ciro mio caro, e credilo, e scolpiscitelo bene in mente, che le abitudini contratte nella fanciullezza difficilmente poi si abbandonano in età più matura, anche a malgrado della ragione che persuade e della volontà che stimola a correggersi.
Forse talvolta una risoluzione ben ferma e determinata potrà dare all'uomo avviziato qualche vittoria sopra se stesso, ma sempre le antiche inclinazioni si studieranno di prevalere, e quando anche il trionfo della ragione e della volontà sia completo, quale prudenza è mai quella e quale interesse è di un Uomo, che si riserbi tanti sforzi futuri per combattere un nemico e cacciarlo di casa, quando con sì poca fatica poteva prima impedirgli l'ingresso? Anche in questa mia lettera io conosco il bisogno de' soccorsi del gentilissimo Signor Rettore, onde farti bene penetrare il senso della presente mia morale lezione.
Tu già sai esser mio desiderio che tu rilegga nel tempo futuro le mie lettere, e così la maggior chiarezza ed evidenza che prenderanno allora a' tuoi occhi serviranno tanto a convincerti dello sviluppo del tuo intelletto quanto della verità de' miei avvertimenti, suggeriti dalla esperienza che è la prima e più sicura guida delle umane operazioni.
Ringrazia in mio nome il Signor Rettore della lettera da Lui scrittami il 20, e previenilo (come è dovere) che quanto prima io andrò a mettermi di concerto col Sig.
Vincenzo Fani, onde principiare a darti le preliminari nozioni della Musica, avanti di venire alla pratica dello strumento, il pianforte.
Mammà, che ha ricevuto la tua del 20, ti benedice ed abbraccia.
Altrettanto faccio io, incaricandoti de' miei rispetti a' tuoi superiori.
Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 188.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
[14 aprile 1834]
C.
A.
Quanti erano gli altri? 75.
Volgi il numero, ed eccotene 57.
Su questi la solita riserva.
Non così sugli altri due non romaneschi, che anzi...
È roba di stagione.
Ne mando anche a Biagini.
Ti abbraccio di cuore.
14 Ap.e
Il tuo B.
LETTERA 189.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
[24 aprile 1834]
Caro Checco
Ieri sera non parlai de' due sonetti qui inclusi perchè, quantunque fatti, mancavano delle note.
Leggitili eppoi me li renderai, non avendone io altra copia, e dovendone fare un certo uso.
Ti abbraccio.
24 aprile 1834
Il tuo Belli
LETTERA 190.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, giovedì 8 maggio 1834
Mia cara Mariuccia
Riscontro la tua del 6 corrente.
Le nuove del nostro Ciro le avrai già avute dalla mia precedente.
Esse continuano ad essere le medesime.
Questa mattina è venuto in questa Casa Fani insieme alla sua Camerata per veder passare la processione delle Rogazioni che si è fatta un'ora avanti il mezzodì, con un vento che gettava i Cristi per terra, e infasciava le teste de' frati nelle loro tonache.
Oggi dopo il pranzo sono io stesso andato a prenderlo e l'ho portato a spasso con me.
Egli sta sempre colla solita allegria e con due guance che paiono pietre.
Ti chiede la benedizione, ti dà mille baci, de' quali alcuni per Antonia, e ti prega salutargli Domenico, Annamaria, Biagio e Gregorio.
Circa a quest'ultimo, ha riso udendo la di lui speranza di venir qui a trovarlo coi danari del terno.
Compiaciti finalmente di riverire in di lui nome tutti gli amici.
In quanto alla dimanda che mi fai intorno al danaro di cui io creda abbisognare fino al mio ritorno a Roma, ti dico che di non molto più avrei d'uopo; ma poiché nel mio passaggio per Terni vi dovrò pagare almeno otto copie d'archivio d'istrumenti e certe fedi catastali e di registro per la Congregazione del Patrimonio Canale (che te ne dovrà rimborsare, secondoché disse Biscontini essere stato stabilito), così sarà bene che tu mi spedisca una venticinquina di scudi, pei quali però puoi prenderti largo fin verso i venti del mese, quando così ti piaccia.
La mia dozzina è già pagata, e le spese per Ciro e qualche altra per me occorrente alla giornata vado facendole a poco a poco.
Ti saluta la famiglia Rossi, e porzione di questa Casa Fani, mentre le Signore, meno la Madre, partirono jeri per la campagna, a dieci miglia di distanza, dove resteranno quindici o venti giorni in un luogo detto la Spina.
Di ciò peraltro, vedendo Angiolino Vani, non fargliene motto, mentre ignorando io se vogliono che lo sappia, mi spiacerebbe che questa notizia gli andasse per parte mia.
A mano a mano che ti capita l'occasione salutami Checco, Biagini, Pippo, Ferretti, il can.co Spaziani, Casa De Witten, Casa Marini, e gli altri amici della nostra famiglia.
Procura di non scalmarti tanto, se i caldi seguitano.
Qui jeri tirò una fredda tramontana.
Ti abbraccio di nuovo e sono
Il tuo P.
P.S.
Oggi ho scritto a Stanislao Bucchi per avere il Certificato ipotecario onde stipulare con Vannuzzi.
Ieri venne a Perugia espressamente il Sig.
Luigi Micheletti e mi pagò Sc.
1:95 per Biscontini.
LETTERA 191.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
Di Perugia, sabato 17 maggio 1834
Caro Ferretti
Tu mi dicesti: scrivimi; ed io ti scrivo.
E per non venirti avanti con le mani vuote, ti mando quattro ciarle in versi, se vuoi, per lo Spigolatore.
Ho qui letto un serto di sonetti tributati da chiari nomi alla memoria del giovanetto Adolfo Mezzanotte, morto alle speranze della patria e del padre: e ci ho voluto cacciare il naso ancor io.
È temerità ma non sarà né la prima né l'ultima de' poetastrelli miei pari.
L'ultima parola del tredicesimo verso è un predicato che poco anzi nulla conviene al suo subbietto, ma sì al frutto di esso.
Io però ho avuto bisogno di quel traslato, e forse potrà perdonarmi sì in vista de' molti obblighi ai quali mi sono nel sonetto vincolato.
Eppoi in poesia si è talvolta trovato di peggio.
Questa, per verità, non sarebbe una buona ragione, ma almeno m'illude la coscienza.
Come stai? La tua famiglia che fa? Salutamela.
Qui fa caldo e freddo a ore; e si va dal mussolo al borgonzone, come del fritto all'arrosto.
Abbracci: addio
Il tuo aff.mo amico
G.
G.
Belli
LETTERA 192.
AL PROF.
ANTONIO MEZZANOTTE - PERUGIA
[19 maggio 1834]
Amico carissimo
Lessi ieri di fiato la Olimpia del vostro povero Adolfo, nonché i funebri versi dell'amicizia, dai quali è l'opera accompagnata.
Chiuso il libro, scrissi il Sonetto che vi mando in tardo testimonio della mia ammirazione per un giovinetto il di cui corpo deve aver ceduto all'azione dell'anima.
Fra i molti peccati che potrete notare nel mio meschino lavoro accuso intanto io medesimo spontaneamente la poca convenienza che lega il suggetto e il predicato messi in fine del 13° verso, dappoiché tra arbore e precoce abbisogna il grado intermedio di frutto.
Ma poichè a qualche difficoltà mi ha assoggettato il riepilogare con qualità contrarie, e in due versi, le tre proporzioni già sviluppate, spero che l'ardire del translato mi si vorrà da voi perdonare.
Nulla dimeno su questo come sugli altri spropositi, mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.
Dal momento in cui venni da voi giovedì, e vi trovai dormiente, sono tuttora in casa per un reumettaccio preso pel repentino abbassamento della temperatura atmosferica.
Io sono un termometro, un barometro e un igrometro.
Vedete dunque in me in intiero gabinetto fisico.
Vi abbraccio di cuore come meritate; e sono il vostro amico
Di casa, 19 maggio 1834.
G.
G.
Belli
[segue il sonetto: "Fiamma, cui l'esca in gradual misura"]
LETTERA 193.
A MELCHIORRE MISSIRINI - FIRENZE
Di Roma, 18 giugno 1834
Mio carissimo Missirini
Allorché giunse a Roma la Vostra lettera del 4 maggio, a me indirizzata, io ne era da pochi giorni partito e mi trovava in Perugia, dove a brevissimi intervalli torno sempre a recarmi trattovi dall'amore del mio figlio, che sta ivi educandosi in quel buon Collegio Pio, instituito e diretto dal sommo uomo Don Giuseppe Colizzi, romano di nascita ma di fama italiana.
Trovato dunque il caro vostro foglio in mia Casa, avidamente l'ho letto, nuovamente rallegrandomi della vostra amicizia e gentilezza, comunque cose non nuove a me che in tanti anni ne godo e conosco il pregio.
Sulle parole di sconforto, colle quali pure mi avete alcun poco amareggiata la piacevole vista de' Vostri caratteri, io non so che dirvi, al buio qual sono del tenore delle disgrazie onde vi dite travagliato.
Queste, giammai non mancano alla vita, e meno a quella de' buoni e degli innamorati degli uomini e del loro bene.
Di qualunque natura poi elle si siano, molto malagevole riesce il consolare un sapiente, il quale, a malgrado della sua cognizione del Mondo e della trista parte che vi tocca alla virtù, ti dice pure io sono infelice.
Ogni genere di conforto tratto dagli aiuti della filosofia egli già lo conosce, e inutile troppo gli verrebbe da altri quando nol trovi efficace nella stessa propria sapienza.
Vergognandomi io pertanto di assumere gli uficii del consolatore con Uomo tanto a me superiore per animo e senno, vi farò ripetere due parolette da Seneca, del quale niun saggio che viva sdegnerebbe considerarsi discepolo:
Res humanas ordine nullo
Fortuna regit: spargitque manu
Munera carca, peiora forens.
Io però mai non soglio meravigliarmi de' fausti successi del malvagio, sommati in confronto de' buoni eventi del virtuoso, e sempre su ciò vado ripetendo a' miei amici che delle due strade aperte agli umani desiderii per giungere al loro scopo, l'inonesto può batterle entrambe, mentre non avendo scrupoli di mettersi su quella del torto gli è pur sempre libero l'andare per quella del dritto: laddove all'onest'uomo non essendo scelta da fare non può egli giungere al bene che per un solo cammino.
Pare quindi assai naturale in questo, come in tutto il resto delle umane cose, che più sono i mezzi e più facile il fine.
Certo è nulladimeno che a' vostri qualsivogliansi mali peggior rimedio non potevate apprestare che quello di avvolgervi lo spirito fra i sepolcri e fra le tante scoraggianti idee che offre la Morte; seppure bello e virtuoso pensiere di scemare qualche male alla umanità soffrendo non vaglia esso solo a bilanciare in voi tutto il disgusto che deve venirvi dal quadro il più luttuoso della nostra caducità.
Ma io temo che voi leverete quella vostra potente voce, e sarà indarno.
Alcuni radicali pregiudizii, e peggio se fomentati da malinteso spirito religioso, prima di svellersi intieramente dall'indurito suolo della società, deve passarvi sopra gran ferro di tempo, e gran fuoco di filosofia.
Il primo sempre lavora ma nel senso solo di distruzione dove non venga aiutato dalla luce dell'altro.
Il Mondo vi pare filosofo? Appena nelle società più civili io conterei un centesimo di uomini civilizzati.
Altra è la politezza, altra la filosofia: quella investe la superficie e la fa bella: questa penetra la massa e la rende buona.
E il Mondo sinora non è a rigore che bello.
Vero pure è sempre che migliorandosi, per gli sforzi insistenti de' Saggi, il centro delle ramificazioni sociali, i raggi obbediscono al di lui impulso e girano spesso ciecamente attorno a un nucleo di benefica non conosciuta e non meritata influenza.
Levate dunque sempre la voce Voi animosi che avete petto da tanto, e se un sollecito esito non coronerà le vostre speranze sotto i vostri occhi che ne vissero bramosi, vi sosterrà il conforto di quella gran verità: di', di', di', e qualche cosa resta.
Molte forze, tutte cospiranti ad un fine, spesso vincono la stessa natura.
I miei amici ed io abbiamo trovato bellissimi e di voi degni i due vostri sonetti per la Tacchinardi - Persiani e per la Ronzi.
Il nostro Ferretti li riproduce in questi fogli romani.
Non so se questo Architetto Sig.
Gaspare Servi, Direttore de' due giornali artistico-letterarii il Tiberino e lo Spigolatore, vi abbia l'atto avere un libriccino di poesie offertegli dagli amici nella recente occasione del suo matrimonio colla Sig.ra Annetta Contini figlia del Colonnello di questo nome.
Ad ogni modo voglio terminare d'imbrattare questo foglio di carta col trascrivervi lo strambottaccio fattogli da me.
Brutto pagamento io vi do per l'invio de' soavi versi Vostri, ma la botte dell'aceto non può dar greco o Chianti.
Sorbitevi sù questa amara bevanda, e se la vi par troppo amara, serrate gli occhi e la bocca dicendo: transeat a me.
- Prima di passare a' versi, conchiuderò col dirvi in prosa che la gentilezza del Sig.
Camillo Torriglioni vi farà pervenire la presente, e che io sono e sarò sempre vostro amico ed ammiratore.
Giuseppe Gioachino Belli
Palazzo Poli, 2° piano
[Segue l'ode "Il Sole dell'Imeneo"]
LETTERA 194.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 26 luglio 1834
Mio carissimo figlio
Con la massima consolazione la tua Mammà ed io abbiamo letto la tua lettera del 24 corrente; perché ci è il più sicuro testimonio dell'esser tu perfettamente guarito.
Farai molto bene se, come dici, ti avrai per l'avvenire que' discreti riguardi che ti possano preservare da una ricaduta.
Io ignoro come sia andata questa volta; ma se mai avesse contribuito al tuo male qualche soverchia mancanza di cautela, spero che potrà servirti di esperienza pel futuro.
Figlio mio caro, il dolore è il miglior maestro degli uomini; e la memoria di quello che già si è sofferto serve a darci regola nella nostra condotta.
Vivendo, e osservando naturalmente i casi umani, ti avvedrai da te stesso di questa altra verità che ti accenno.
Già al mio partire di Perugia io ti aveva promesso che verso il mese di agosto ci saremmo riveduti.
Ciò dunque accadrà entro la prima dècade dell'entrante mese.
Dal Sig.
Professor Colizzi ha la tua Mammà ricevuto notizia della visita da te fatta alla Sig.ra Principessa di Danimarca.
Questa Signora è venuta oggi verso il mezzodì a trovare la tua Mammà, e, non avendola rinvenuta in Casa, tornerà questa sera per darle nuove di te.
Pel giorno 12 agosto io già sarò di certo a Perugia, ma se mai per qualche imprevista circostanza non vi fossi ancor giunto, ti ricordo di spedire in quello stesso giorno martedì 12 agosto una lettera a Mammà, onde le giunga il 14 vigilia della di lei festa ed insieme del di lei giorno natalizio.
Tu sai quanto devi alla tua buona Mammà, e perciò non fare che essa in quella circostanza, nella quale tutti i parenti e gli amici sogliono congratularsi, manchi di una prova della memoria e dell'affetto di un figlio.
Su questo dunque ci siamo intesi.
Torna a riverire in nostro nome i tuoi Sig.ri Superiori: ricevi i saluti e i rallegramenti di tutti quelli che ti conoscono: seguita a star bene, e fatti onore.
Ti abbraccio e benedico insieme con Mammà, e sono il tuo
aff.mo padre
LETTERA 195.
ALLA MARCHESA VINCENZA ROBERTI PEROZZI - MORROVALLE
Di Roma, 31 luglio 1834
Cara amica,
non mi fate passeggiare per una ridicolezza di sessanta baiocchi.
Nell'ultima vostra, data di Morrovalle, luglio 1834 mi diceste: nell'ordinario ventuno ve li spedirò etc.
Il fatto è però che sino a questo giorno non è venuto niente in nessun ordinario.
Che questa gran somma l'aveste tenuta voi o l'avessi avuta io, era indifferente, ma poiché mi annunziate l'impostamento, in tal caso è meglio che l'abbia io anziché la tenga il pubblico ufficio.
Vedete dunque se la Posta di Macerata abbia spediti questi benedetti sei paoli, e in caso che sì, annunziatemi il giorno della spedizione onde farla nota a questi Ministri che la niegano.
Io vi sto seccando per simile inezia, ma convenite che nella circostanza attuale farei male a lasciar correre, onde regalare dei paoli alla Ill.ma Amministrazione.
Neppure io godo di tener dietro a certa sorta di affaroni.
Al ritorno della vostra risposta io non sarò più in Roma, partendone dopo dimani.
Ma ci sarà chi farà per me secondo che Voi vi compiacerete indicarmi direttamente, di che poi mi si darà avviso dove io potrò ritrovarmi.
Salutatemi tutta la Vostra famiglia, compreso il Sig.
Giuseppe vostro suocero e credetemi il vostro affez.
a.co e serv.re
G.
G.
Belli
LETTERA 196.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 12 agosto 1834
Mia cara Mariuccia
Partito da Terni colla diligenza domenica alle 2 dopo il mezzodì arrivai a Fuligno la sera alle 9 circa, e vi passai la nottata.
Ieri mattina poi, volendo proseguire il viaggio per questa Città, non trovai un posto, e ad un'ora dopo il mezzogiorno dovei prendere un legno, altrimenti andavo a rischio di consumare a Fuligno il risparmio che volevo ragionevolmente fare nella vettura.
Qui pure però ebbi una delle solite porcherie da' vetturini, della quale parleremo in voce, mentre mi preme ora di parlarti di Ciro.
Ieri sera non giunsi in tempo per vederlo.
L'ho però veduto questa mattina, e l'ho trovato estremamente contento della mia visita.
Egli mi ha subito fatto mille dimande di te.
La di lui salute è affatto ristabilita e si è ben rimesso, stando inoltre d'un umore lietissimo.
Interrogato da me sulle probabili cause della di lui malattia, mi ha risposto che forse dev'essere stato qualche improvviso colpo d'aria senza alcuna preoccupazione, lo che mi confermano il Rettore e gli altri.
Mi ha recato nella sua stanza a vedere il pianforte, che mantiene benissimo, e del quale è oltre ogni dire contento.
L'acqua della Scala gli è stata gratissima; ed avendone ancora una caraffina della precedente, ne ha regalato una della nuova al Rettore, che l'ha assai gradita.
La cioccolata pure gli è giunta accettissima; ma dove ha dato in salti è stato al vedere il cannocchiale.
Vedremo poi venerdì cosa dirà dell'astuccio.
Egli si preparava già a scriverti una lettera per la tua festa, e dice che son già varii giorni che faceva i conti sull'ordinario postale che ti facesse giungere la sua lettera il più vicino che fosse possibile al giorno della tua festa.
- Lunedì 18 si dà principio agli esami generali dell'anno scolastico, e durerà il saggio anche il martedì e il mercoledì.
Te ne darò a suo tempo il ragguaglio.
Il nostro Ciro intanto si va preparando per riuscire il meglio che saprà.
Egli ti chiede la benedizione, ti dà mille baci, e ti dice di star tranquillissima sulla sua salute, perché ora si sente assolutamente bene.
In Collegio varii sono stati i ragazzi malati di gola, e lo stesso Cameriere di Ciro, dopo di averlo assistito ebbe anch'egli una angina più forte assai di quella sofferta da lui.
Al Presidente Colizzi non ho ancora fatto la tua ambasciata perchè non l'ho fin qui veduto.
Ho già pagato un mese della mia dozzina, e soddisfatto lo stipendio di giugno e luglio al Maestro di musica Sig.
Fani.
Fra qualche giorno poi gli pagherò il Metodo generale dello studio al pianforte che gli ha fatto copiare, e, per mio ordine, rilegare come un libro onde coll'uso non gli si sciupi nell'adoperarlo.
Questo metodo, dei migliori che si conoscono, era necessario, e la spesa andrà unita alle altre occorse per le cose preparatorie a quest'ornamento che vogliamo dare al nostro carissimo e meritevolissimo figlio.
Qui l'aria è molto più fresca che a Roma, passandovi una differenza di varii gradi, in causa dell'elevazione del suolo e della ventilazione assai libera.
A me però piaceva più il caldo uguale ed unito della nostra Città.
Ho veduto questa mattina in Casa Bianchi il tenente Lovery, che sta bene, e meglio che quando era a Fuligno.
Se vedi la madre, dille che le di lui circostanze di servizio sono ancora le stesse che gli rendono impossibile il lasciare la sua Compagnia, che manca di Capitano.
Un saluto a tutti gli amici, e alla nostra famiglia.
Sta' bene Mariuccia mia, e il Cielo possa concederti mille e mille altri giorni simili a quello del prossimo 15 agosto, che tu puoi credere quanto io ti desideri felice e lieto per mia consolazione e del figlio nostro, acciocché riuniti un giorno tutti e tre godiamo insieme il frutto delle nostre più care speranze.
In questo desiderio ti rinnovo la protesta della mia sincera affezione, e sono di cuore il tuo
P.
P.S.
È verissimo che Ciro fu assistito colla maggior premura ed attenzione, specialmente dal suo buon Cameriere.
Darò per conseguenza mancia doppia a questo bravo giovanotto.
LETTERA 197.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
Di Perugia, 21 agosto 1834
Caro Ferretti
Si dà per certo che Gamurri abbia preso per sei anni il teatro di Tordinona.
Si suppone pertanto che possa essere in Roma persona che lo rappresenti.
Su queste due basi il Sig.
Angiolo Fani, quel medesimo che tu conoscesti in compagnia del tenore Furloni, mi ha pregato di scriverti se sarebbe possibile il trovarsi un impegno per essere scritturato nel prossimo carnevale come prima viola, posto che egli ha occupato in molte orchestre, e fra le altre a Bologna, a Sinigaglia, ed anche a Roma nel carnevale rotto a mezzo dalla morte di Papa Leone.
Io ignoro se tu avresti mezzi da favorirlo.
Se ne hai, spero che vorrai impiegare in suo pro' qualche parola.
Dammi nuove di tua salute, e della tua famiglia.
Il mio Ciro sta bene e si fa onore.
Io sto così così in questo urtantissimo clima.
Ma v'è Ciro e ci vuol pazienza.
Salutami gli amici e credimi sempre
Il tuo aff.mo amico vero
G.
G.
Belli
P.S.
Devi aver avuto una lettera del Prof.
Mezzanotte.
LETTERA 198.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 26 agosto 1834
Mia cara Mariuccia
Per quest'anno non sarà necessario il supplir noi ai torti che potesse soffrir Ciro dalla fortuna nel bussolo dell'estrazione de' premii.
Egli a buon conto ha già assicurato il primo premio assoluto nell'aritmetica ragionata; e pel resto poi si vedrà, mentre per la lingua latina sarà imbussolato nel giorno e nell'atto istesso della premiazione solenne, la quale accadrà nel dopo-pranzo del giovedì 4 settembre.
In questi giorni intanto il Signor Ciretto se la diverte, essendo il Collegio condotto a tutte le feste della Città in luoghi sicuri e distinti.
Fatti leggere da Biscontini il programma de' divertimenti perugini della corrente settimana, esposto nell'Osservatore del Trasimeno di sabato 23, e a tutto quello che vi udrai (meno il teatro) i Collegiali sono condotti.
Perugia in questi giorni è trasformata in una Casa del diavolo.
Io, al mio solito, non vado a veder niente, e neppure mi sono ancora ridotto a recarmi al teatro.
Non ho proprio voglia di nulla, né mi sento il coraggio di esporre la mia vacillantissima salute ad alcun minimo rischio.
Mi trovo già vecchio e fuori quasi del Mondo.
Ho piacere che Antonia abbia poi scritto, e godo di udirla guarita prima di averla saputa ammalata.
Dissi un giorno a Ciro (parlandogli indifferentemente delle visite che di tanto in tanto riceve) che all'entrar di novembre vedrebbe forse qualche conoscente della nostra famiglia.
Quel munelletto mi rispose subito: è Mammà; e ad una mia negativa soggiunse: dunque è di certo o Antonia o Domenico.
Io allora volsi altrove il discorso, perché quel furbo mi avrebbe capito per aria.
- Dopo dimani lo rivedrò al Collegio, seppure non lo incontrerò prima, ed allora lo saluterò e benedirò da tua parte.
(L'ho veduto poco prima di impostare la presente.
Sta benone, e ti abbraccia).
Al mio partire da Terni lasciai Vannuzzi col Chirurgo che stava allora tagliandogli un carbonchio sotto l'ascella destra.
In quest'ordinario mi ha scritto riguardo ad una certa commissione che mi dette la moglie, e mi dice di esser quasi guarito.
Ho avuto una lettera di Ferretti, che mi annunzia nella sua famiglia esser qualche solito malannuccio.
Pover'uomo! Combatter sempre colla salute è un gran ché!
Se pei primi dell'entrante mese fossi in grado di mandarmi un poco di danari, mi faresti piacere.
Avendo speso circa a sette scudi e mezzo pel viaggio da Roma a Terni e da Terni a Perugia, dieci per la dozzina d'un mese, due pel Maestro di Musica di Ciro a tutto luglio, qualche mancia in Collegio, e qualche altra mia spesetta giornaliera, degli Sc.
25:64 da me sin qui avuti poco più ne rimane.
Al mio ritorno in Roma poi faremo la solita distinta della somma totale servita per me, e di quella servita per Ciro, nella quale figurerà la Musica, il vestiario, le mance, la solita scorta annuale nelle mani del Rettore, e qualche altra cosetta che avrò stimato necessario d'impiegare per lui.
Il Sig.
Angiolo Rossi sta male di podagra, i di cui accessi sonogli divenuti molto frequenti.
Egli, la moglie, il Dottor Micheletti, e il Presid.e Colizzi ti dicono mille cose.
Non so se Biscontini sappia che verso la fine di settembre verrà a Roma il Dr.
Speroni.
Se non lo sa, diglielo in mio nome.
Salutami tutti gli amici di Casa, e specialmente Spada, Biagini e Pippo, a mano a mano che andrai vedendoli.
Manda pure i miei rispetti in casa Marini e in casa De Witten.
Dubito che Orsolina e Balestra non torneranno davvero per adesso, ed alla Madre per quest'anno gliel'avranno ficcata.
Procura, Mariuccia mia, di star bene, e credimi sempre di cuore il tuo
aff.mo P.
P.S.
È a Perugia Enrichetto Dedominicis.
L'ho veduto col Marchese Uguccioni, che ti saluta, come ti salutano anche il Conte Solone Campelli di Spoleto, che è pur qui, e Menicucci.
Ho trovato un conticino di medicine servite per la malattia di Ciro.
Io era nell'opinione che anche la spezieria andasse a carico del collegio, ma sul libretto de' regolamenti ho verificato il contrario, e così l'ho saldato.
Ciro mi ha dimandato un giuoco di scacchi.
Gliel'ho preso di poco costo, ma pure bellino.
- Gli ho fatto rilegare alcuni libri di studio, che erano alquanto sciupatelli perché in origine legati in rustico.
Etc.
LETTERA 199.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 2 settembre 1834
Mia Cara Mariuccia
Riscontro la tua del 30.
Nello scriverti la mia precedente non ti parlai della mia vacillantissima salute perché in quel giorno fossi realmente malato, ma per le tristi esperienze giornaliere del disordine del mio temperamento, di che tu stessa da tre anni a questa parte sei pur troppo testimonio.
Tu sai cosa è divenuta la mia povera macchina dopo la breve malattia del 1831, e la non meno terribile del 1832, sofferta da me in Fossombrone, benché di minore durata.
Da quelle due fatali epoche il mio sangue è in continuo stato d'irritazione; e se io voglia esser sincero, non un solo giorno passò mai perfettamente contento di me.
Conosci tu bene tutti i motivi accumulati assieme per mantenere in me vivo questo principio d'irritabilità; e quindi l'aumento dell'umor mio malinconico, al quale non trovo sollievo che nella pace della solitudine.
Solitudine poi senza qualche applicazione per me è impossibile: dunque ecco il quadro delle mie attuali necessità.
Per ritornare all'espressioni sfuggitemi nella mia lettera del 26, ti ripeto che io in quel giorno non era realmente malato, ma purtuttavia già da sei giorni mi sentiva molestato dalle mie accensioni ora alla gola, ora in tutta la bocca, e nel collo, e pel petto, e per la schiena, e per le spalle, e per le viscere: un po' in qua e un po' in là.
Purtuttavia nella stessa sera, che era placidissima e temperata volli tentare di andare ad udire la Straniera al teatro, e, come lo aveva preveduto, mi annojai terribilmente.
Nel Mercoldì stetti così così: il giovedì 28 ci crebbe il mio fuoco, malgrado le grandi bibite che ho sempre fatte, malgrado rigorosa dieta che sempre osservo, e malgrado l'astinenza dal vino.
Così me la passai ardendo sino al sabato 30, nel qual giorno mi si fece trarre dieci once di sangue.
Ma il dolore, particolarmente nel petto cresceva in un grado ben doloroso, dimodoché domenica fu di precisa necessità di cavarmi un'altra libra di sangue che appena caduto nel bicchiere si coagulò in modo, che dopo fasciatomi il braccio io voltai il bicchiere sottosopra, e il sangue vi restò fisso come fosse di cera.
Mi hanno dato dei calmanti e dei purganti: mi han fatto dei clisterii, ma col solito vano successo.
Oggi sto meglio e profitto del miglioramento per scriverti la presente ed assicurarti dell'avanzamento della mia guarigione.
Circa ai danari potevi pure mandarmi quel che per ora potevi.
Volendo tu, per altro, un'idea da me della somma, ti faccio riflettere che dovrò ordinare l'occorrente vestiario d'inverno per Ciro.
E più pagare un paio di calzoni di tela russa ordinaria per lui, mentre il Pres.
Colizzi ha giudiziosamente stabilito di farne un paio a tutti i collegiali onde risparmiare loro i calzoni di scottino neri ne' due mesi della villeggiatura.
Dovrò pagare il metodo di pianforte che ordinai, come ti dissi altra volta.
Pagherò le due mesate di agosto e di settembre al Maestro Fani.
Rinnuoverò il deposito nelle mani del Rettore, e un poco più forte dell'ordinario, volendo io che l'accordatore lo paghi egli mensilmente.
In quanto alle future mesate di Fani non ho ancora deciso come mi regolerò e ne parleremo in seguito.
Pagherò il Medico, il Chirurgo e lo Speziale per me.
Quindi dovrò pensare a qualche altro poco di tempo che mi tratterrò qui oltre il mese, mentre i due mesi intieri non ve li passerò più come avevo divisato, e ciò ond'evitare l'aria pungente dell'approssimarsi di ottobre.
Finalmente dovrò pensare al viaggio del ritorno.
Per tutti questi fini, mandami se puoi una trentina di scudi, che se mai per caso non bastassero a tutto, vi sarà tempo a pensarci.
Io so che tu non vuoi udire da me parlare di conti, ma siccome io mi faccio un gran carico delle spese della nostra famiglia, così non so evitare di entrare in questi dettagli persuaso come sono che la più stretta economia in cui vivo non lascia di esigere delle spese necessarie per tuttociò che ho nominato.
Conosco, ti ripeto, che a' tuoi occhi io non abbisogno di prove e di giustificazioni: contuttociò soffri le mie minuzie come una mia particolare soddisfazione.
Di Devillers va benissimo.
Ieri venne a trovarmi il nostro Ciro col Sig.
Rettore.
Egli sta benissimo, e giovedì sarà premiato.
Io non potrò, credo, andare alla funzione perché finisce di notte, e si fa in una sala che pel gran concorso di gente è caldissima.
A suo tempo però te ne manderò il programma come nell'anno scorso.
Ti ringrazio veramente di cuore delle tue care ed affettuose espressioni e ne riparleremo in voce.
Mi ha scritto Babocci, e di ciò pure parleremo poi.
Intanto si fa quel che si deve.
- Antaldi non ha ancora dato riscontro.
Vedrai che vorranno pagare tutta l'annata assieme.
Regoleremo in seguito anche questa faccenda.
Procura di star bene, e ricevi gli abbracci del nostro Ciro ed i miei.
Sono sempre il tuo
Aff.mo P.
LETTERA 200.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
Di Perugia, 11 settembre 1834
Mio caro Ferretti
Eccoti un'altra mia lettera, la quale spera di trovare te più tranquillo, tua moglie più vocale della Selva di Dodona, Barbaruccia senza tosse, Chiarina smummiata, e Cristina libera della sua piastra di piombo.
Vorrebbe anche trovar guarito Gaiassi che tu mi desti quasi per disperato.
Il Mezzanotte, al quale partecipai il tuo paragrafo, mi disse di salutarti.
Deve egli averti mandato a quest'ora una sua ode sugli esercizii equestri dati dal Guerra in Perugia.
Fani si è diretto a Gamurri per mezzo del Tenore Peruzzi che canta in questo teatro.
Il Sig.
Peruzzi abita nella medesima casa, dove io alloggio, ed anzi dorme in una stanza accanto alla mia.
Avendo io spesso parlato di te con lui, ha voluto che scrivendoti ti facessi mille saluti in suo nome.
Egli partirà, credo, il 16 per tornare a Bologna dove è domiciliato.
Ottimo giovane!
Sull'articolo della mia salute ti dirò solamente che se non mi facevo due sanguignoni in 24 ore, la finiva male; come poi la dovrà finir male con tanti necessari salassi.
Qui è il caso dell'incendio.
O bruciarsi, o gettarsi dalla finestra.
- Io mi dissanguo, e intanto il calore delle mie viscere si mantiene.
E non bevo vino, e ingozzo fiumi d'acqua, e mangio come un grillo.
Ah! bisognerà cercare qualche sistema di cura, altrimenti gli anni nestorei da te auguratimi vorranno essere pochetti!
Ti mando 14 versi scritti ieri dal Sig.
996 per M.ma Enrichetta Meric Lalande che ha trattato i Perugini come cani, malgrado le sue buone varie migliaia di franchi.
Essa, indipendentemente del suo orgoglio che le fa trascurare anche i mezzi restatile, è una stella in tramonto.
Vanta che potrebbe venire a Roma anche con 20.000 franchi.
Se l'impresario gliene dà mille, e la prende (odi Geremia) l'impresario fallisce.
Ma Gamurri ha ben altro pel capo, e ci regalerà piuttosto la Ungher o la Schutz (ho scritto bene?) qualunque delle quali vale in oggi per dieci Madame Enrichette, con tanto minore superbia.
- Del resto i 14 versi del Sig.
996 potranno servire di svegliarino contro l'avarizia di Madama e delle sue consorelle di pretensione.
Sarebbe ora di finirla con queste file di migliaia accanto a poche cifre di quarti-d'ora.
E qui cadrebbero in acconcio due versi di un altro poeta amico tuo:
Che ad estirpar tal musico sozzume
Non basta un secchio ma vi vuole un fiume.
Salutami tanto Maggiorani, Biagini, Spada, Quadrari, ed altri amici che tu vada vedendo.
E sono di te e della tua famiglia
amico vero
G.
G.
Belli
PER FAMOSA CANTATRICE
Questa superba Dea del ciel di Francia,
Che, vana ancor d'un appassito alloro,
Sogna i trionfi e il plauso alto e sonoro
De' più bei dì che le fioria la guancia,
Non paga pur che italica bilancia,
Come al suo Brenno già, le pesi l'oro,
Sprezza la mano che il civil tesoro
Profonde in trilli ed in canora ciancia.
Badi però, che sorgeran Camilli
A rovesciar quella bilancia sozza
Ove senno e virtù cedono ai trilli.
E, per dio, cesseranno i tempi indegni
Che a disbramar la fame d'una strozza
È poco il censo che distrugge i regni.
996
LETTERA 201.
A RAFFAELLO BERTINELLI - ROMA
Perugia, 23 settembre 1834
La vostra lettera del 15, perché mancante del mio secondo nome nell'indirizzo ha passato quella sorte alla quale io volli ovviare allorché assunsi quel distintivo che mi individualizzasse tra la folla dei Giuseppe Belli che corrono il Mondo.
È capitata nelle mani di un Giuseppe Belli nativo (credo) di Città di Castello, e finalmente l'ho io avuta jeri, aperta per colpa dell'equivoco e non dell'uomo.
Io non sono in collera con alcuno: non posso dunque esserlo con Voi, e tanto meno poi in quanto che io manco di que' meriti che abbiano a far correre un amico a vedermi, almeno allorché sono malato.
Vivete dunque tranquillo, e lasciate in pace Esaù e Giacobbe nel Santo seno di Abramo.
La mia salute è sempre vacillante.
Ciro prospera e si fa onore.
Dopo domani io lascio questa Città.
Qui ha cantato la celebre Sig.ra Enrichetta Meric Lalande.
Un certo Sig.
Novecentonovantasei ha pubblicato alcuni versi in di lei onore.
Voglio trascriverli perché han fatto romore, e da quando teatro è teatro non si è mai più udito un simile elogio il quale tende ad encomiare la Signora Lalande e le di lei consorelle nella bell'arte del Canto.
Vi abbraccio e sono
Il V.° Belli
LETTERA 202.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 15 novembre 1834
Mio caro figlio
Ieri tornò Domenico e mi portò la tua lettera del 6.
In questa lettera tu, Ciro mio, ne hai fatta una delle tue solite.
La tua Mammà che tanto ansiosamente aspetta e legge ogni lettera che da te procede, nello scorrere quest'ultima non ci trovò neppure una parola per lei, come se essa non esistesse sulla Terra.
Ma ti pare mostrare un buon cuore col dimenticare così ogni dovere di amore, di rispetto e di gratitudine? Ciro mio caro, tu hai una mente troppo leggiera, la quale non si risente che di momentanee impressioni.
Bisogna dunque studiarsi di correggere una inclinazione naturale che frutta vivi dispiaceri a noi per adesso, e che un giorno ne frutterà a noi insieme e a te medesimo.
Sappi che la tua povera Mammà, la quale non pensa che a te, rimase jeri assai afflitta della tua colpevole dimenticanza.
Per rimediare alla meglio al tuo errore io ti consiglio di diriggere a Mammà stessa la prima lettera che tu scriverai, chiedendole scusa di un fallo che il nostro amore vuole ben credere involontario.
Spero io poi che in quella lettera a Mammà non sarò scordato io alla mia volta.
E scrivila bene.
Circa ai regali, de' quali mi ringrazii, hai preso un equivoco grosso.
Noi questa volta non ti abbiamo mandato che il fazzoletto nero da collo e la Rosa de' Venti.
Tutto il resto fu dono del buon Domenico, il quale non dev'essere frodato della tua gratitudine.
Antonia è ritornata prima di Domenico, molto afflitta dal non aver potuto passare per Perugia onde rivederti.
Ringrazia in mio nome il degnissimo Signor Rettore della di lui lettera e di ciò che in essa mi dice e m'invia: e riveriscilo distintamente, come ancora il Sig.
Presidente Colizzi.
So che quest'anno ai tuoi studi si è aggiunta la Storia, che è la prima maestra della vita.
Applica dunque, sii buono, e ricordati di noi.
Ti benedico ed abbraccio di cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 203.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 23 dicembre 1834
Mio caro e carissimo figlio
Non potevi farmi una più grande sorpresa di quella che ho da te ricevuta nella tua lettera latina, la quale sebbene io medesimo avrei conosciuta improntata dell'opera dell'ottimo Sig.
Rettore, purtuttavia mi è stata una testimonianza parlante dei progressi che ad ogni modo tu vai facendo in una lingua così bella e tanto necessaria a chiunque voglia nel Mondo distinguersi dal volgo degli uomini.
Senza il latino è ben difficile arrivare alla vera sapienza, dappoiché quanto di classico e di sublime si sappia desiderare tutto si ritrova nei libri di quegli altissimi ingegni che resero un giorno famosa la patria nostra, e di una fama che dopo tanti secoli ancora dura e non sarà mai per mancare.
A misura che tu, Ciro mio, ti avvanzerai negli studi, ti innamorerai di questo idioma e delle stupende opere che in quello sono scritte.
Grazie dunque, mio carissimo Ciro, grazie di questo bel dono che mi hai fatto, poichè io lo tengo appunto in conto di regalo e il più accetto che tu potessi mai farmi, e tanto più quanto che in quelle parole meo consilio io leggo una prova della tua intenzione di farmi piacere.
Sulla lettera nulla ho da rilevare, mentre gli stessi errori nei quali eri trascorso nel mettere in pulito la minuta, sono stati dalla mano maestra corretti.
Di un solo piccolo rilievo io mi contenterò, ed è circa all'anno della data.
Lo so che noi siamo nel 1834 e che tu nel 1834 scrivevi, ma pure avendo tu adottato lo stile antico di datare, io crederei che invece di dire XV Kalendas Januarii DCCCXXXIV avresti tu dovuto scrivere XV Kalendas Januarii MDCCCXXXV.
Il Signor Rettore potrà dirti se io abbia torto.
Nel risponderti io aveva divisato farlo in latino, ma poi mi hai dato soggezione, adesso che ti vedo diventato un Ciceroncino: e ho detto fra me stesso: se dio mi guardi io scrivessi qualche sproposito, che bella figura farei io vecchio avanti a un dottore di neppure undici anni? Dunque eccoti una lettera italiana, ma scritta più col cuore che con la mano.
- La tua Mammà ha aggradito il tuo foglio al pari di me, ed entrambi ti incarichiamo di rendere mille e mille grazie al tuo degnissimo Sig.
Rettore per la cortese assistenza prestatati.
La tua epistola ha girato le mani dei nostri più buoni amici, e tutti hanno diviso la nostra consolazione.
Ieri ho consegnato al Vetturale Castellino la solita cassetta diretta in Casa Fani per esserti inviata in Collegio.
Essa dovrebb'essere a Perugia sul finire di questa settimana.
Tu vi troverai qualche piccolo dono per la ricorrenza del nuovo anno.
Siamo stati in molto pensiere su che mandarti.
I giuochi non sono più degni di un Marco Tullietto, nè tu sembri più desiderare bucciotti.
Cose di lusso e di mollezza non ti convengono per le varie disposizioni del Collegio.
Dunque cosa mandarti? Contentati del poco che vi rinverrai: e piuttosto se un'altra volta desidererai qualche cosa, indicamelo, e spero che si tratterrà di oggetti da poterti appagare.
- La scattola non serve che la rimandi ad alcuno.
È troppo vecchia e sciupata.
Se ti serve a qualche uso mettila sotto il tuo letto: altrimenti fanne quello che vuoi.
Un piego color di rosa che vi è dentro, diretto a codesto Sig.
Dottore Ferdinando Speroni, se potesse senza molto incomodo di qualcuno essere ricapitato alla libreria Bartelli ne sarei grato a chi si prendesse gentilmente questo disturbo.
Dimanda al Sig.
Felicetti se hai bisogno di nulla nel tuo corredo, come camicie, calze etc.
ed, avendone bisogno, per quando si dovrà fartene l'invio.
Rispondimi su ciò.
Mammà, gli amici e i domestici (particolarmente Antonia) ti rendono infiniti augurii per le feste e pel nuovo anno; ed io vi unisco anche i miei per tutti gli ottimi tuoi Superiori e Maestri.
Ti abbraccio e benedico di cuore
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 204.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 27 gennaio 1835
Mio caro Ciro
Riscontro la tua del 15 cadente.
- Due ore dopo avere impostato la mia precedente incontrai per la strada il Sig.
Professor Colizzi arrivato in Roma poche ore prima, e lo trovai nella sua solita buona salute, ciò che mi fece sommo piacere.
Dal medesimo, che ho quindi riveduto altre volte, ebbi le buone notizie della tua salute, ed anche sufficienti relazioni intorno ai tuoi portamenti tanto morali quanto scolastici.
Le medesime cose mi conferma il vigilantissimo Sig.
Rettore, il quale mi riverirai e ringrazierai del gentile riscontro da Lui dato alle mie dimande relativamente a codesto Sig.
Tozzi.
Ai primi dunque dell'imminente mese cade nel Collegio il consueto saggio trimestrale.
Procura alacremente, Ciro mio caro, di non restare addietro agli altri.
Ne' soli difetti vorrei che tu fossi l'ultimo: ne' fatti d'onore godrei udirti sempre il primo.
Comprendo benissimo non esser ciò sempre possibile, dappoiché la medesima gara animando anche gli altri, non è più dalla volontà individuale che dipende l'avanzar gli altrui passi, ma sì invece dal vario vigore accordato a cadauno dalla Provvidenza.
In questo caso basta che la coscienza non ci rimproveri di non esser giunti a quel punto a cui le nostre forze sarebbero state sufficienti.
Tu avrai senza dubbio udito a spiegare la parabola evangelica del padrone e de' servi.
Uno ebbe dal Signor suo cinque talenti, e tanto s'ingegnò che al Signore li rese in capo a un tal tempo, con più altri cinque di lucro.
Domine, quinque talenta dedisti mihi, et ecce alia quinque superlucratus sum.
Un altro servo al contrario prese i cinque talenti di sua parte, li seppellì, e, ritornato il Signore a chiedergli ragione del suo traffico, glieli restitui non diminuiti ma neppure aumentati.
Credi tu che il padrone si rimanesse pago al non trovarvi diminuzione? No, figlio mio: l'obbligo del servo era di accrescere e non soltanto di conservare: e così cosa accadde? Il pigro trafficatore fu paragonato a quegli alberi infruttiferi, i quali, non dando di sé che il legno de' rami e del tronco, non sono utili che a far fuoco.
Difatti non mai accade vedere che un Agricoltore getti alle fiamme una pianta feconda.
I talenti della parabola erano monete, ma sotto il velo di quelle monete noi dobbiamo intendere le buone disposizioni dell'anima, colle quali ciascun uomo che vive è obbligato a procacciarsi valore e fama di buon aiutatore della società di cui Iddio lo volle individuo.
Il Vangelo, Ciro mio, è il libro della verità, e il primo Maestro della morale umana.
Quanto dunque in quello si racchiude non dev'esser preso quale passatempo e fuggilozio, ma in senso di guida infallibile delle nostre operazioni.
I pericoli da esso dimostrati sorprenderanno chiunque non modelli la sua vita a norma di que' sapienti precetti.
Sarà buon uficio di cortesia se tu andrai dimandando al Sig.
Maestro Fani notizie della salute della Sig.ra Angiola, caduta in non lieve infermità.
Quella Signora ti ha dimostrato molte premure, e tu non fartene notare per dimentico.
La tua Mammà ti benedice ed abbraccia.
Gli amici e i domestici, specialmente Antonia, ti salutano.
Riverisci i tuoi Superiori e credimi sempre l'aff.mo tuo padre.
P.S.
Amerei sapere a che ti trovi nello studio della musica.
LETTERA 205.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma 3 febbraio 1835
Mio caro Ciro
Colla tua del 29 perduto gennaio mi fai de' rimproveri da' quali debbo difendermi.
Delle tue lettere, alle quali ti lagnavi non avere avuto riscontro, la prima fu da me riscontrata nella mia al Sig.
Rettore a cui in quello stesso ordinario dovetti scrivere, e la seconda te l'accusai il 27, come tu stesso hai veduto.
Mi dirai che questo mio riscontro fu un poco tardo; ma a questo proposito io ti ho già detto altra volta che mi piace scriverti verso l'epoca precisa in cui per le consuetudini del collegio tu devi mandarmi una tua lettera.
Operando in tal modo io vengo a darti come uno stimolo e a risvegliare la tua memorietta, che talvolta si è in questo rapporto addormentata.
Ti pare, Ciro mio, che io saprei dimenticarmi di te? Pure lo sai quanto io e tua madre ti amiamo.
Ho scelto questo giorno per risponderti, stanteché oggi secondo qualche ordinario ecclesiastico ricorre la tua festa, facendosi commemorazione di S.
Ciro Alessandrino, nobile medico.
Tu sei Ciro, potrai conseguire la nobiltà della virtù, ed esser medico di te stesso mediante un regolar metodo di vita: e così, dalla patria in fuori, somiglierai al tuo santo.
Santo poi non ti ci spero: mi basta che sii buono.
La mia presente, oltre a ciò, ti arriverà in punto che i tuoi Saggi saranno bene incaminati.
Io questa volta non posso assistervi; ma chiudo gli occhi, e mi pare di essere presente in codesta sala accademica, e vederti sull'impalcato a far l'obligo tuo.
Da questa mattina fino a tutto il prossimo giovedì rari momenti passeranno ne' quali io non rinnovi nel mio spirito l'idea di questa mia assistenza intellettuale ai saggi tuoi e de' tuoi bravi emuli.
Ne attendo con ansietà i successi.
Dimanda al Sig.
Felicetti se tu abbisogni di camicie e di calze e per qual tempo ti potranno occorrere, affinché vi sia agio di lavorarle.
Rispondimi su ciò.
Il Signor Presidente non ho potuto in questi giorni vederlo: appena lo vedrò gli presenterò i tuoi ossequi.
Tu intanto presenta i miei e quelli di Mamà tua al degnissimo Sig.
Rettore.
Antonia e gli altri domestici ti salutano, gli amici di casa ti abbracciano, tua madre ed io poi e ti salutiamo, e ti abbracciamo e ti benediciamo affettuosamente.
Sono il tuo aff.mo padre
LETTERA 206.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 17 febbraio 1835
Mio carissimo figlio
Riscontro la tua lettera del 7 corrente, il cui ricevimento ti feci già accusare per mezzo del Sig.
Vincenzo Fani che mi saluterai.
Veramente, Ciro mio, di quel mediocre se ne poteva fare di meno.
Il peggio è per me che un mediocre del Maestro significa assai più che uno degli esaminatori, perché l'esito di un esame non sempre prova l'abilità o l'ignoranza di un discepolo: laddove al contrario i voti del precettore sono la vera e precisa manifestazione del merito e demerito dello scolare in tutto il periodo di studio del quale si tratta.
Adesso dunque io vo vedendo che quel benedetto mediocre influirà maluccio sullo scrutinio della premiazione.
Da ciò prendi, Ciro mio, esempio della irrimediabilità del tempo perduto.
Il fatto sarà sempre fatto, e non si può più ripetere indietro.
Se fu fatto bene, ci frutterà utile; se fu fatto male, ci frutterà danno.
È vero che a tutto può darsi un rimedio, ma sempre il passato è passato.
Una volta un bambino aveva perduto un soldo, e piangeva.
Il padre per calmarlo gliene dette un altro, dicendogli: eccoti ricco come prima.
Ma il fanciulletto, possessore della nuova moneta, seguitò a cercare la smarrita, dicendo: se ritrovo quell'altra sarò più ricco di prima.
Così è del tempo e del profitto di esso: potremo riparare al perduto con un novello impiego di volontà; ma se ci fosse dato richiamare a noi quel che fuggì, saremmo felici del doppio.
Studia, Ciro mio caro, studia di cuore e senza interruzione.
Un giorno benedirai, credi a tuo padre, benedirai le fatiche della tua fanciullezza.
Eccoti vicino alle recite carnevalesche.
Reciti tu quest'anno? In tutti i modi divertiti, e col divertimento rinfranca il tuo spirito per le tue applicazioni.
Il Sig.
Fari mi partecipò la tua idea di studiare la introduzione della Straniera: Voga voga etc.
- Bravo Ciro mio, imparala bene.
La tua Mammà ti ringrazia delle amorose espressioni da te usate con lei, ti benedice, ti abbraccia e ti dà mille baci.
Così ti salutano i nostri amici, Antonia e gli altri domestici.
Il Sig.
Presidente sta bene e ti saluta anch'egli.
Tu presenta i miei rispetti al Sig.
Rettore, e credimi, pieno di amore
il tuo aff.mo padre
LETTERA 207.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 5 marzo 1835
Mio carissimo figlio
Nella tua lettera del 21 febbraio, in cui rispondi alle mie riflessioni su quell'importuno mediocre da te riportato negli esami, prometti di fare il possibile affinché il futuro esperimento vada assai meglio.
Intanto mi dici che pel passato ci vuol pazienza.
Hai ragione, Ciro mio: ci vuol pazienza.
Che si può fare di meglio che esercitare questa bella virtù, la quale diviene altronde necessità quando manca affatto un migliore rimedio? Te lo diceva anche io che al fatto, al passato non si può far più ritorno.
Né io ritornerei più su questo punto se precisamente questo tuo confortarmi alla pazienza non mi suscitasse qualche riflessione novella.
La pazienza è un un'amabile dono della provvidenza, destinato a consolare i rammarichi della vita e a contentare l'uomo in quella moderazione d'animo che dà risalto alle sue più belle prerogative.
Ma sventuratamente questo prezioso regalo del cielo cede assai presto ai ripetuti cimenti.
Il nostro caso dell'esame non entra ora fra le cause alle quali io voglio indirizzare la tua attenzione.
Esso è un lieve danno che tu puoi ben risarcire, e ciò basti.
Voglio invece darti regola che può servirti in tutte le occasioni in cui ne' tuoi rapporti colla società sia luogo all'esercizio della tolleranza.
Tu devi agir sempre come se tutti gli uomini fossero impazienti e non ne perdonassero una.
La troppa, buona opinione dell'altrui clemenza e facilità diviene in noi un abito di trascurare soverchiamente l'adempimento de' nostri doveri; e così, oltre il pregiudizio di avvezzarci disattenti e poco curanti della perfezione nostra, a cui l'indulgenza, o l'educazione degli uomini può concedere quel che le manca, si consegue un altro mal frutto, cioè quello di doverci a nostre spese disingannare su quella stessa, benignità che supponevamo negli altri salda a qualunque provocazione.
Non voglio mica dirti con ciò che tu debba principiare dal riputare tutti gli uomini una gabbia di leoni e di orsi rabbiosi, o un eserciti di nemici implacabili, vigilanti sempre per attaccarti nella tua parte più debole.
No, Ciro mio, gli uomini dobbiamo crederli tutti più buoni e mansueti di noi.
Io intendo rimovere da' tuoi giudizi l'eccesso, il quale guasta tutte le più lodevoli qualità della mente e del cuore.
Te lo ripeto: non giudicare impazienti tu devi gli uomini, ma operare come lo fossero.
In questo modo, o abbiano essi o non abbiano questa virtù, tu sarai sempre al sicuro.
Le soverchie lusinghe di trovare in altrui quella bontà per noi che noi stessi ci siamo negata quando abbiamo male operato, ci gettano un giorno o l'altro in un mare di guai dove si affoga.
- Se questa mia lettera fosse al di sopra della tua intelligenza, prega alcun tuo Superiore di dichiarartene lo spirito.
Così, a poco a poco, principerai a meditare da te.
Il Sig.
Presidente, che ho veduto da poco, ti ritorna i tuoi saluti.
Gli amici e i domestici, specialmente Antonia ti dicono mille cose.
La tua buona Mammà ti abbraccia, siccome faccio io.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 208.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 9 aprile 1835
Mio carissimo figlio
Il giorno 12 corrente è il tuo compleanno.
Nella prossima domenica ad un'ora di notte tu termini l'anno undecimo della tua vita e cominci il decimosecondo.
Vedi, Ciro mio, come fugge il tempo! A te ancora non pare così, perché i fanciulli, spensierati per natura, non pongono mente a quel che significa una girata di ago sul quadrante di un orologio; e perché sul bel principio della loro carriera non par loro poter vedersene il fine.
Ma tutto ha termine, Ciro mio, e l'avrà anche il Mondo.
Non vedi tu che a forza di anni, di mesi e di giorni il Mondo si è già invecchiato di circa a sei secoli? E i giorni, che formavano que' mesi e quegli anni, di che sono essi stessi composti? Di ore: di minuti.
Quanto dura un minuto? sessanta battute di polso.
Come il tempo è veloce! Hai tu mai osservato una mostra che avesse la lancetta de' minuti secondi? Ogni oscillazione del pendulo ne fa saltare uno! Nulla è più proprio a far meditare l'uomo sulla fugacità della vita quanto uno di simili oriuoli.
Negli altri il movimento è appena percettibile senza una determinata attenzione, la quale poco vi si presta, poiché, soddisfatto l'intento di veder l'ora in un dato punto del giorno, se ne ritrae subito lo sguardo.
Con molta sapienza è stato rappresentato il tempo sotto le forme di un vecchio, stante l'età che ha percorsa: alato, per indicare la celerità sua: armato di falce, onde simboleggiare la distruzione da lui portata a tutte le cose; e munito di un orologio a polvere, perché siccome gli atometti o granellini dell'avena cadono dal recipiente superiore a quello inferiore, nella stessa maniera tutti gli enti creati precipitano nel nulla per non riaiziarsene più.
La providenza così ha voluto; e niente di ciò che ebbe principio può essere eterno, fuorché le anime coi loro meriti e demeriti.
Da tutte le esposte riflessioni puoi facilmente cavar da te la conseguenza, a cui ti volli condurre.
Impiegar bene il tempo, perché più non ritorna mentre presto trapassa; e farsi un cumulo di azioni meritorie, dalle quali dipender la nostra felicità nel tempo, e nella eternità.
Rifletti seriamente a queste verità gravissime, e principia a fare da uomo.
Nel giorno della tua nascita noi ti vorremmo fare qualche regalo, ma non sappiamo di ché, pei motivi che ti spiegai un'altra volta.
Dimmi pertanto cosa tu potresti desiderare che ti convenga, e noi procureremo di contentarti.
Ne potresti consultare col Sig.
Rettore che mi riverirai distintamente, col Sig.
Prof.
Colizzi, anche in nome della tua Mammà.
In questo preciso momento ricevo la tua lettera del 7.
Le parole che già ti aveva scritto qui sopra tornano bene a proposito anche per la circostanza della comunione che vai a fare per Pasqua.
Ecco un altro passo che ti deve condurre alla perfezione.
Ora la tua Mammà non è in casa.
Appena sarà ritornata farò conoscerle il tuo desiderio di rivederla.
Aggradisco i saluti che mi fai.
Alle Sig.re Fani rimandali per mezzo del Sig.
Vincenzo che riverisco.
Ti abbraccio, mio caro figlio, e ti benedico di cuore
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 209.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 maggio 1835
Mio caro figlio
Rispondo alla tua lettera del 16, la quale tanto la tua Mammà quanto io abbiamo infinitamente aggradita come quella che ci dà una prova del tuo maggiore impegno nello studio della lingua latina, lingua necessarissima a chi voglia far buona figura di dotto nella società.
Bravo dunque, bravo, Ciro mio: tu corrispondi perfettamente alle nostre intenzioni e ti acquisti sempre maggiori titoli alla nostra benevolenza.
Non comprendo però il motivo che possa averti fatto astenere dall'esporti per due consecutivi trimestri all'esame dell'aritmetica, tanto più che mi dici essere stati soddisfacienti i tuoi risultati settimanali, e malgrado che nell'anno scorso tu riuscisti a guadagnare il primo premio assoluto.
Circa alla musica pure son contento.
Ringrazia e saluta in mio nome il Sig.
Fani, e pregalo a coltivarti sempre negli esercizi fondamentali che ti spedii l'anno passato.
Così, eseguendo i pezzi di studio potrai divertirti, ed acquisterai franchezza e profondità.
Non dubitare, Ciro mio caro: nel prossimo giugno qualcuno di noi verrà a vederti.
Ancora non si è potuto risolvere chi verrà, perché la tua Mammà ha moltissimi impicci, ed io faccio una cura il di cui tralasciamento potrebbe nuocere a quella salute che pel mezzo di essa mi pare di andare riacquistando.
Qualcuno ad ogni modo verrà: stanne tranquillo.
Siccome peraltro questa venuta non potrà accadere che intorno alla metà del mese, fammi il piacere di informarti dal guardarobiere se si possa ritardare fino a quell'epoca il rinnovamento degli oggetti di vestiario de' quali mi scrive il Sig.
Rettore aver tu bisogno per la stagione estiva.
Che se di qualche cosa avessi tu urgenza, ad un cenno che tu me ne dia io pregherei qualcuno a Perugia onde se ne incaricasse al momento.
Intanto al principio della ventura settimana credo che potrò mandarti i fazzoletti.
Segui a leggere, Ciro mio, la vita di Cicerone, e fa' di divenire tu ancora un Ciceroncino.
Riverisci da parte di noi due il Sig.
Rettore e il Sig.
Presidente, e ricevi i nostri amplessi e le nostre benedizioni.
Sono il tuo aff.mo padre
LETTERA 210.
A GIACOMO FERRETTI - CIVITAVECCHIA
Roma, 28 maggio 1835
Caro Giacomo, alias Jacopo
Non so dirti quanto e quanto piacevole mi sia giunta jeri sera la tua del 24.
Dopo due giorni dalla tua partenza io mi recai in tua casa in cerca di notizie ed ebbi quelle del tuo proprio arrivo.
Da quel tempo in poi non aveva altro saputo.
Veramente io poteva tornare a dimandarne, ma non l'ho fatto, e mea culpa.
- Chillo strafalario de lo Sig.
Tomasiello Galluzzo mi portò i tuoi saluti una sera prima dell'arrivo della tua lettera.
- Anche qui il Signor Giove si fa onore sotto le invocazioni di tonante e di pluvio.
- De' teatri che ti dirò? Tu ne saprai forse più ancora di me che non vi vo mai.
Sento però che Argentina se la batte con Valle.
Canes cum canibus facillime congregantur.
Circa alla salute della tua buona famigliuola avrei voluto una parola sola: BENONE: ma la spero in seguito.
Già, pel giorno 10 o circa mi prometto di udirla dalle vostre stesse e vive voci.
Io sto piuttosto benacchette col pollastro.
- Il Cianca ti saluta, il Cecco purzì e Mariuccia figùrati.
- Ho scritto pel giornale di Perugia un non breve articolo sui Bagni di Lucca del chiarissimo Conte di Longano, che Iddio tenga lontano.
Udremo che ne dirà la censura.
Ti mando intanto 42 versi di un amico tuo.
Costì siete in cinque preteriti: all'uno o all'altro potranno servire.
Ti abbraccio toto corde, dico mille cose affettuose, alla tua famiglia e sono il tuo
Belli
Quarantadue versi di Novecentonovantasei
AL PRINCIPE MARCO ANTONIO BORGHESE
NEL GIORNO DELLE SUE NOZZE
Io non so qual tu sia, perché la sorte
Tanta, o Marco, fra noi pose distanza
Di quanto cede mia povera stanza
Allo splendore di tua nobil corte.
Ma pur, se il testimon della sembianza
Può del costume far le genti accorte,
Una non t'hai di quelle anime morte
Di codardia nel fango e di baldanza.
Però il secondo de' tre dì solenni
Di tutto il corso dello uman viaggio
Non con lusinghe a festeggiar ti venni.
Prence, ricorda quanto indegno oltraggio
Faresti al mondo, se il valor che accenni
Non scendesse per te nel tuo lignaggio.
PER LA CAUSA SFORZA
Sotto gli auspicii di cotal che adorna,
Bestemmiando, l'umano col divino,
Nell'arena rotal Giulio Sforzino
La quarta volta a battagliar ritorna.
Crede il Mondo però, seppure non torna
Lo inchiostro in latte e l'acqua fresca in vino,
Che don Giulio e donn'Anna e Don Marino
Saran disfatti e n'avran mazza e corna.
E tempo è ben che cessi il vitupero
Di madri e di sorelle snaturate
Che infaman sé per offuscare il vero.
Oh Giudici di Dio, voi le salvate,
Ributtando il rossor dell'adultero
Sull'avarizia e sul mentir d'un frate.
AL PROFESSORE D.
MICHELANGELO LANCI
PEL PREMIO QUINQUENNALE DELLA CRUSCA NEL 1835
Deh, Michelangiol mio, come hai tu posta
La sublime opra tua dentro lo staccio
Di quelle scimie di Giovan Boccaccio
Per cui Monti sprecò tempo e Proposta?
Meglio oh quanto era il fartene una rosta
Da cacciar mosche, o involgerne il migliaccio,
O accenderne un falò pel berlingaccio,
Mal grado delle veglie che ti costa!
Quando, più ch'essa, ha prezzo oggi un sermone,
E sopra un Lanci si solleva un Buffa,
Morto in terra è il poter della ragione.
E i buon messeri della crusca muffa
Dan prova al Mondo omai che il loro frullone
Gira, come il cervel, di buffa in truffa.
LETTERA 211.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Terni, domenica 21 giugno 1835
Mia cara Mariuccia
Con ottima nottata e con mattinata non molto calda siamo qui felicemente giunti un'ora e tre quarti prima di mezzogiorno.
Si è fatto un bel camminare.
Abbiamo trovato tutti di casa Vannuzzi in ottimo stato di salute: ed appunto jeri ed oggi stavano parlando di me e maravigliandosi che io quest'anno ancora non passassi.
Ho detto loro che poco è mancato che rivedessero te: ne sarebbero stati tutti lietissimi.
Or ora mangeremo un boccone (zucche per me), e poi al mezzodì proseguiremo il viaggio che speriamo prospero come lo è stato fin qui.
Se vedi Spada o Biagini, salutali, e chiedi loro notizie del povero Ferretti che jeri sera mi dissero essersi fatta già la seconda sanguigna.
Un saluto agli amici e alla famiglia, anche per parte di Domenico.
Ti abbraccio, cara Mariuccia, di tutto cuore e sono
il tuo P.
LETTERA 212.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 23 giugno 1835
Mia cara Mariuccia
Dalla mia n° 1 avrai avuto le notizie del nostro ottimo viaggio fino a Terni.
La presente ti darà ragguaglio del resto.
Pernottammo a Fuligno, e jeri mattina prendemmo un legno per Perugia uniti ad altre due persone della Diligenza, le quali erano dirette a quella Città, dove arrivammo un'ora e mezzo prima del mezzogiorno.
Smontati alla locanda della Corona, dove abbiamo preso albergo, dopo mezz'ora circa ci recammo al Collegio.
Ciro ebbe un gran piacere di vedermi, ma a prima giunta non aveva riconosciuto Domenico, che stava lì con me in camera del Rettore.
Vedi chi ti ho portato? dissi io a Ciro.
Egli allora Oh! Domenico! e gli saltò incontro.
Ci dimandò subito subito di te, e si mostrò rammaricato del non esser tu venuta come sperava.
Assicurati, Mariuccia mia, che questo Cirone sta di una salute che non si potrebbe desiderar migliore.
Grasso, duro, colorito, allegro e mattaccino ch'è un piacere.
Ci portò in camera sua e ci fece udire al pianoforte il Coro Voga voga.
Lo suona benino, e pel poco tempo dacché studia la Musica, a cui le altre occupazioni più gravi lasciano scarso spazio, ce ne possiamo contentare.
I Superiori si chiamano soddisfatti del di lui studio e de' di lui portamenti.
Ha egli infinitamente aggradito il regalo della moneta d'oro, e te ne ringrazia.
Egli medesimo l'ha depositata in mia presenza nella borsetta ov'è la doppia.
Delle due paia di guanti a maglia uno gli va bene, e l'ha ritenuto: l'altro lo riporteremo a Roma con tutto il bollo, onde vedere se possa cambiarsi in un paio più grande.
Ciro ha fatto una mano e un piede da apostolo.
Al mio arrivare jeri in Collegio trovai che Ciro aveva già preparata la minuta di una lettera per te, onde mandartela per mezzo del Conte Ettore Borgia che va a ripartire a momenti.
Il mio arrivo gli ha reso necessario il farci qualche piccolo cambiamento.
Domenica a sera, dopo tutta la giornata festeggiata in onore di S.
Luigi, ebbero i Collegiali alcuni fuochi di artificio in uno degli spiazzi del Collegio e poi innalzarono un pallone costruito da loro.
Vi fu anche bella illuminazione.
Oltre molto concorso di gente, v'intervenne anche il Delegato.
Questa mattina siamo tornati al Collegio per concretare il da farsi relativamente al vestiario del quale Ciro ha bisogno, ed abbiamo riparlato con lui che al solito stava come un becco cornuto.
Mi ha espressamente incaricato di scriverti le sue notizie, di mandarti mille baci, di chiederti per lui la benedizione, di salutare gli amici che lo ricordano, e di dire mille cose ad Antonia.
- Credo che Domenico scriva a parte ai suoi figli.
Ho veduto il Sig.
Angiolo Rossi, ma non ancora la Sig.ra Chiarina.
Mi dice il marito che essa va soffrendo di un certo gonfiore alle gambe.
Le Sig.re Bianchi sono in Campagna, e così la Sig.ra Cangenna Micheletti.
La famiglia Fani sta bene e ti riverisce.
Così ti saluta il Dr.
Speroni.
Di' a Biscontini che ho ricapitato la sua lettera in proprie mani al Sig.
Brizi.
Speroni gli ha spedito un pacco di fascicoli del giornale per febbraio e marzo, e c'è compreso anche quello per me.
Il 4° volume del Prof.
Colizzi uscirà sui primi di luglio.
Dammi, Mariuccia mia, buone nuove della tua cara salute: dammene anche se ne hai, di Ferretti, e saluta tutti gli amici.
E qui di vero cuore ti abbraccio.
Il tuo P.
P.S.
Fammi il piacere di mandare i miei saluti al mio caro Maggiorani, e gli farai dire che già ho parlato per la sua raccolta.
Bramo udire buone nuove della tua salute.
LETTERA 213.
A FRANCESCO SPADA - ROMA
Di Perugia, 27 giugno 1835
Caro il mio Cecco
Mi è stato scritto così: "Il Buffa si è portato a Firenze per brigare in Corte a suo prode.
Che non può mai la briga fratesca?"...
Io ho risposto così:
Corri dunque sull'Arno, o cucullato,
Onde alfin l'arciconsole benigno
Ti getti la sustanza nello scrigno
Della mezza corona che ti ha dato.
Corri, e in alta avrai lo Infarinato
E lo spirto gentil de lo Inferigno:
Ch'esser non puote che a te sia maligno
Chi die' rovello all'immortal Torquato.
Ma se avanzo d'onore e di vergogna
Pungesse ancor quegl'incruscati petti,
Tu sai, domenican, che ti bisogna.
Dolci sorrisi, lusinghieri detti,
Arti fratesche: e poi Roma, e Bologna
E Flora e Italia il tuo trionfo aspetti.
Dunque: "E Don Giulio e Donn'Anna e Don Marino
Ne andar disfatti e n'ebber mazza e corna".
Gran Santo Re David! Desiderium peccatorum peribit.
Mi pare che lo dica David: No? Si? Domandalo allo Scultore.
Io tornerò a Roma assai presto.
Credo che partirò di qui domenica 5, e in due salti eccomi alle Convertite.
Apri intanto le braccia.
Salutami Biascio e Ferretti che spero già guarito con Barbaruccia.
Un saluto anche a Lepri, che già ne avrà avuto un altro dal Sig.
Pietro Bettanzi mio compagno di viaggio e di mensa, nel senso però di desco e non più.
Andando in casa Piccardi - Ratti - Ruspoli tocca la mano per me a chi voglia lasciarsela toccare.
Con chi acconsenta fa peggio.
Una ave senza pater e gloria al Sig.
Alessio e alla famiglia di tuo fratello.
A Roma piove, e qui non canzona.
Un frescarello poi che Dio tel dica.
Eppoi un Uomo!...
Ciro sta bene e si fa grosso e sottile.
Salutatemi gli amici di casa, mi ha detto.
Dunque ce n'è la tua buona porzione.
È notte ed ora di cena.
Addio: vado a mangiare il mio empiastro.
Ego sum, io sono, il tuo Belli bello e buono.
LETTERA 214.
AL PROF.
ANTONIO MEZZANOTTE (?) - PERUGIA
Di Roma, 15 luglio 1835
Amico carissimo
Il primo fascicolo, o, per dir meglio, volume delle vostre opere da voi direttomi, si è trovato.
Peraltro il secondo e i successivi mandatemeli colla indicazione del domicilio, non trascurata da me sulla schedola di associazione, cioè
Palazzo Poli, 2° piano.
Stringete la mano con mia procura al gentilissimo ed ottimo vostro prof.
Massari, raccomandandogli quel tal figlio de' sei baiocchi.
A proposito! non vi lasciai il 2° sonetto sulla faccenda Lanci-buffiana.
Avete il primo, dovete avere quest'altro, per mandarli insieme al paradiso delle cartacce.
E perché qui non entra ve lo scriverò alla voltata del foglio.
Dunque abbiatevi un V.S.
da carte di musica, che alcuni spiegano per Vossignoria.
Questo modo d'interpretare io lo conosco, perché vivo nel paese degli antiquari.
S.P.Q.R.
Senatus Populusque Romanus
S.P.Q.R.
Soli Preti Qui Regnano.
Prima del sonetto due altre parole.
Dite al M.se Prof.
Antinori che il cucullato si crede dai linguisti o linguacciuti che siano, possa applicarsi per modo estensivo ad ogni genere e specie di claustrali, essendosi detto da buoni poeti fra i quali il Monti, chiercho e cocolle per preti e frati.
O buona o non buona ragione, io me la ingollo, ché la mia serve d'indulto.
Circa poi all'Arciconsolo, fu egli appunto la pietra dello scandalo.
Ed ora sia il capro emissario solvens pro cuncto populo.
Ditegli anche questo.
Ora trapassiamo al sonetto in nome di Dio.
Intanto stringete il lucchetto e mantenemi schiavo.
Il vostro 996
[segue la copia del sonetto: "Corri dunque sull'Arno, o cucullato"]
LETTERA 215.
A GIUSEPPE NERONI CANCELLI - S.
BENEDETTO
Di Roma, 16 luglio 1835
Mio carissimo amico
Ritornato appena da una delle mie frequenti escursioni a Perugia, dove ho il mio Ciro in collegio, mi son veduto ricapitare in nome di vostro fratello Filippo due esemplari di una Lettera di Eveno Aganippeo ad un suo amico diretti da voi con sopraffascia uno a mia moglie ed uno a me.
Potete pensare se questo invio mi ha fatto piacere, e se me lo ha fatto per più titoli, tanto come un testimonio del non essere io mai morto nella vostra memoria, quanto pel pregio dell'opera e per l'interesse della relazione che la costituisce.
Ed io che vostra mercè conosco codesti luoghi e li sconosco sì bene, ho, leggendo la vostra descrizione, creduto quasi di rivederli in realtà, e provato un senso di soddisfazione al cui complemento non mancava che la vostra compagnia.
Il racconto poi del rappacificamento tra i due paesi vi so dir io che m'ha commosso sino a inumidirmi gli occhi tanto i generosi atti di virtù signoreggiano il cuore umano.
Intorno al quale avvenimento una curiosità mi rimane da appagare e una preghiera da farvi.
Chi fu quel gentile, sul capo del quale pose Apollo la Corona come al principal promotore della riconciliazione di due popoli? Scommetterei qualunque cosa men preziosa della vostra amicizia essere stato colui che si nomina alle linee 18 e 24 della pagina 6a, due linee degne d'essere incise in bronzo.
Se mi sono ingannato nella mia congettura dovrò credere che in S.
Benedetto viva un altro Voi-stesso.
Vengo ora a dirvi che il vostro dono è giusto venuto a trarmi una spina dal cuore.
Io era con voi in collera.
Seppi un vostro figlio essere stato in Roma, e voi non me lo indirizzaste.
In lui avrei onorato lui e il padre.
Io non voleva più venire a vedervi, con vendetta da buon cristiano rendendo bene per male.
Ora su ciò si vedrà, e allora sarebbe la vendetta più acerba.
Le mie occupazioni sono continue: mi occupo in appianare la futura carriera letteraria di mio figlio.
Attualmente gl'illustro uno dei tre poemi di Virgilio, e gli distendo un ampio piano di Mnemonica, perché se mai dovrà perdere la memoria, come va succedendo a me, abbia pronto un soccorso.
Ho anche scritto uno scartafaccio pel quale ho da un libraio di Parigi offerta di 100.000 franchi, non per l'eccellenza dell'opera ma per la novità della materia e della forma.
Ma i tempi corrono ad essa contraria, e verrà forse in sepoltura con me.
Riveritemi la vostra famiglia.
Salutatemi tutti i Voltattorni, e Pippo Lenti e la moglie.
Che n'è del Comite nostro? Mariuccia vi ringrazia e vi stringe la mano.
Sono il vostro G.
G.
Belli
palazzo Poli.
P.S.
Vi spedisco un mio vecchio ciafruglio, recentemente stampato in un giornale per cui scrivo qualche articolo come Iddio vuole.
LETTERA 216.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 30 luglio 1835
Mio caro Ciro
Rispondo alla tua del 25.
Vedo che non mi hai data risposta alla dimanda che ti feci nella mia precedente, cioè se conservi ancora le vedute e la pianta di Roma che noi ti regalammo.
Non mi ricordo di avertele in quest'anno trovate fra i tuoi impicci.
Mammà ti abbraccia, saluta e benedice.
Come tu sai, il giorno 15 agosto è il giorno della di lei nascita e del nome di casa.
Dunque tu dovrai al solito scriverle, e siccome io dubito di qualche tua leggiera dimenticanza, te lo ricordo.
Eccoti qui appresso la minuta della lettera che le manderai e che dovrai impostare immancabilmente la sera di giovedì 13 agosto - Ricevi i saluti degli amici, della famiglia, e di Antonia specialmente: riverisci i tuoi Signori Superiori, e prenditi i miei abbracci e la mia benedizione.
Il tuo aff.mo padre
Perugia, 13 agosto 1835
Mia carissima Mammà
Scrivo questa lettera e faccio conto che vi arrivi sabato 15.
Se in quel giorno Voi riceverete le congratulazioni e gli auguri di tutti i parenti ed amici, è molto più giusto e doveroso che vi concorrano i voti di un figlio che tanto vi deve e tanto vi ama.
Vogliate dunque aggradire, Mammà mia, questa prova della memoria che io conservo di Voi e della vostra tenerezza, e siate convinta che tutti i miei desiderii sono rivolti al fine di vedervi menare lunga e tranquilla vita, alla felicità della quale io procurerò sempre di contribuire con tutto lo sforzo della mia volontà.
Queste Mammà mia, non sono vane parole di lingua ma sincere espressioni del cuore, giacché io non posso aver cosa più cara che i miei genitori.
Spero non lontano il tempo in cui potrò con le azioni provarvi la verità di quel che oggi vi dico.
- Ricevete i complimenti de' miei Sig.ri Superiori, beneditemi, e credetemi
Vostro aff.mo figlio Ciro
LETTERA 217.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 3 settembre 1835
Mio caro figlio
Alla tua lettera del 29 passato agosto rispondo per mezzo del Signor Evangelisti, cugino de' Sig.ri Fani, e addetto allo studio del Signor Biscontini.
Egli torna a Perugia e ti recapiterà le presente.
Veramente dopo le mie speranze e le tue promesse quel nuovo mediocre mi ha non poco sorpreso e disgustato.
Questa benedetta lingua latina mi pare che tu non la voglia in corpo, ed al contrario senza di essa farai pessima figura nella carriera del sapere, e vedrai più difficili i seguenti tuoi studi letterarii.
Come la nostra Società è costituita, un uomo che voglia distinguersi dal volgo ha necessità assoluta della lingua latina.
- Che farai tu nell'anno venturo? Vorrai seguitare nella medesima classe, e passarci e consumarci tutto il tempo del tuo convitto in collegio? Ciro mio, voglio concederti che questa lingua ti riesca difficile, e realmente non è facile, ma le difficoltà si vincono ad una ad una, come le altezze delle montagne si superano a passo a passo.
Un uomo, al quale venga ordinato di trasportare da un luogo all'altro mille libre di peso, sbigottirò, se il peso non è divisibile in parti, non però se lo sia.
Egli allora ne trasporterebbe anche il doppio, il triplo, centuplo etc.
Il solo tempo a la perseveranza gli basteranno al bisogno.
Anche un bambino, ad once ad once, può eseguire quello stesso trasporto.
Così devi dire di te o della lingua latina.
Se gli ostacoli ti si facessero incontro tutti insieme come un torrente improvviso, io sarei il primo a riconoscer giusto in te e naturale lo smarrimento dell'animo e la mala riuscita.
Ma i tuoi Maestri non ti dividono eglino forse quel torrente di giorno in giorno in sottili facili ruscelletti? Resisti, persisti, Ciro mio, e vedrai la verità del proverbio gutta cavat lapidem.
Circa alla spazzola pel pianforte hai ragione, ma non se ne sono mai trovate da questi spazzini che ci dicevano aspettarle di Germania La ho dunque ordinata, facendone io un modelletto, ad uno di questi nostri stupidi e negligenti artigiani di Roma.
Appena avuta te la spedirò.
Mi hai salutato in nome della Signora Cangiani: m'immagino che avrai voluto dire Signora Cangenna.
Se vedi o Lei o il Sig.
Luigi Micheletti, ritorna loro i miei ossequi.
Riverisci i tuoi Signori Superiori e così i Sig.ri Maestri Speroni e Fani.
Mammà ti abbraccia e benedice.
Gli amici di casa e i domestici, particolarmente Antonia, ti salutano.
Sono di cuore
il tuo aff.mo padre.
LETTERA 218.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 15 settembre 1835
Mio carissimo figlio
Ebbi in tempo la tua dell'8 corrente, e non risposi subito sperando poterti dare buone notizie della scopetta pel pianforte, da me ordinata secondoché già ti accennai.
Ma, siccome io prevedeva, mi hanno fatto una porcheria e una cosa inservibile per tutti i versi, malgrado tutte le più minute mie dichiarazioni intorno alla forma, alla grandezza e all'uso.
Ho pertanto dovuto ordinarne un'altra a un diverso scopettaro, e il cielo me la mandi buona ancor questa volta.
Dovrebb'esser fatta per venerdì prossimo, e in questo caso pregherò il Sig.
Dottor Micheletti di portartela nel suo ritorno a Perugia.
La tua Mammà ed io siamo restati oltremodo contenti de' tuoi successi nella recente premiazione.
Quantunque tu non sii stato nominato ad alcun primo premio, purtuttavia quattro nomine non sono da calcolarsi per nulla, tanto più che esse abbracciano tutte le classi nelle quali ti sei tu in quest'anno occupato.
Abbine dunque, Ciro mio caro, i nostri affettuosi rallegramenti, e ricevi pur quelli di tutta la nostra famiglia, e de' parenti e degli amici, ai quali non ho trascurato di far conoscere i tuoi trionfi.
Forte adesso, Ciro mio, coraggio, e avanti senza arrestarti.
Vedi pur bene che le difficoltà poi si vincono.
Tu entrasti in collegio nel 1832: ebbene che avresti tu detto prima di quell'epoca, se avessi assistito ad una premiazione di fanciulli negli stessi studi che tu adesso coltivi? Ti sarebbe stato impossibile il concepire come quelle tenere menti avessero saputo aprirsi a nozioni secondo il tuo vedere astrusissime.
Eppure ci sei arrivato ora anche tu.
Hai studiato di ora in ora, di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno; ed ecco la intiera somma di tante piccole fatiche e di que' gradati profitti.
Come abbiam detto del passato, argomenta tu pel futuro.
Gli ostacoli si vincono collo stesso progresso con cui la lancetta di un oriuolo percorre il quadrante.
Pazienza, tempo, e perseveranza; e si diviene sapienti.
Benché la sorte ti abbia favorito in due bussoli della premiazione, pure noi vogliamo darti un segno a parte della nostra soddisfazione.
Il Signor Micheletti adunque, ti consegnerà, oltre la scopetta, un altro oggetto col quale speriamo che ti divertirai molto, senza che sia un giuocherello.
Ti prego però fin da ora di tenertelo a conto, perché costa assai e perché merita il titolo di passatempo anche di una età più matura della tua.
Conserva le tue cose, Ciro mio, e pensa che ormai ti disconverrebbe troppo lo sciupio de' fanciulli.
Amerò di conoscere a suo tempo i nuovi studi ai quali ti si farà applicare nel nuovo anno scolastico.
Ormai son principate le tue campagnate.
Si va quest'anno a caccia colla civetta? Cacciatori malpratici, fortuna di uccelli.
I parenti, gli amici, i domestici (particolarmente Antonia) ti salutano.
Ti saluta anche la cognata del Sig.
Bianchi la quale è in Roma.
Mamma ed io ti benediciamo e abbracciamo di cuore.
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 219.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 settembre 1835
Mio carissimo figlio
Il Sig.
Micheletti favorisce recarti la presente ed il resto.
Eccoti quanto ti annunziai nella mia antecedente del 15.
- La scopetta pel pianforte mi pare che possa andar bene.
Che se mai i peli sembrassero al Signor Fani forse alquanto lunghetti, gli sarà facile sotto la sua direzione il farli un poco accorciare, ciocché potrebbe compiacersi di eseguire il Sig.
Felicetti che ha pratica del maneggio delle forbici.
Fa' leggere al Sig.
Fani queste mie parole, le quali io però conchiudo con dire che a me, i peli della scopetta non sembrano di lunghezza sconveniente al loro uficio.
Salutamelo il Sig.
Fani, e digli che faccia egli altrettanto con la sua famiglia.
Tieni da conto, Ciro mio, questa scopetta, e non rovinarla col gettarla qua e là, o col giuocarvi.
Essa può essere eterna.
Unito ad essa troverai un libro contenente i costumi civili, ecclesiastici e militari della Corte papale.
Avendo tu (come mi assicurasti) conservato le vedute di Roma che ti furono già da noi donate, questi costumi possono riuscirti piacevoli, e di utile trattenimento intorno alle cose della tua patria.
Non mandarli a male, ché mi dispiacerebbe, tanto pel disprezzo che mostreresti ai nostri regali, quanto per la somma di varii scudi che sarebbero come gettati.
Tu ora sei un ometto, e ti disconverrebbero le negligenze della infanzia.
Hai capito, Ciro mio?
Colla prossima venuta del Sig.
Biscontini avrai le sotto-calze di cotone da inverno, e quindi a poco ti sarà spedito quanto occorre per rinnovare il tuo vestiario per la detta stagione.
Va bene?
Tutti ti salutano al solito, e Mammà ti abbraccia con me e benedice.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, e credimi pieno per te di tenerezza
Il tuo aff.mo padre
LETTERA 220.
A GIACOMO FERRETTI - ROMA
Di casa, lunedì 21 settembre 1835
Mio caro Ferretti
Tu sai come io per le delicate ragioni già a te manifestate non aveva in mente di scrivere per la Bettini, o, almeno, di non inviarle i versi, onde non far forza alla sua volontà.
Ma che vuoi! un pensiere improvviso mi si è cacciato nella penna e in un momento è voluto venir fuori in inchiostro.
Cotto e mangiato.
Adesso scritto il sonetto, adesso ricopiato, adesso a te diretto; e siamo alle 9 di questa sera.
Ecco gli umani propositi.
Il mio sonetto è un compendio della storia del mondo fisico e del mondo sociale, come la Bettini parmi un compendio del bel sentire degli uomini.
Non dirmi che io ti tenga pel mio portalettere: tu mi sei troppo di meglio.
Dunque, per cortesia del tuo animo, se vedi alcuno pel cui mezzo mandare alla Sig.ra Bettini il mio microcosmo, ti sarò grato del tuo favore, come lo ti fui per risguardo al Sig.
Domeniconi.
E due.
Poi...
ma ascolto Stazio che mi ricorda
Quid crastina volveret aetas
Scire nefas homini.
Amami, saluta la tua famiglia, saluta il povero Zampi, ed abbimi sempre aff.mo amico
G.
G.
Belli
[Retro è aggiunto] Mi ha scritto il Fani se potesse venire per 1° della 2a coppia di viole a Tor di nona, onde per tuo favore parlarsene al Tassinari.
LETTERA 221.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[29 settembre 1835]
Gentilissima mia Signora Amalia,
fra le cortesi accoglienze della sua casa io dimenticai ieri tutto il resto del mondo, perché il mio spirito non sa fare che una cosa per volta.
L'avvocato Biscontini mi aveva, imposto di riverirla, d'intercedere per lui un perdono anticipato alla mancanza che le di lui brighe gli faran forse commettere di non venire ad inchinarlesi prima della di lui prossima partenza per Perugia, e finalmente di chiedere in di lui nome i Suoi comandi per quella città.
Procuro di rimediare oggi alla mia omissione di ieri nello stesso tempo che riparo l'altra mia storditaggine intorno ricapito della lettera di Fani.
Anche per questa potrei però addurre una scusa: la mia fretta di venire da Lei.
In tutti i modi convengo per amore di sincerità, la mia memoria essere abitualmente un po' inferma, e ne' suoi esercizi abbisogna di analogie e di rapporti.
Ecco, per esempio, le tre parole Perugia, Amore ed inferma, poco anzi scritte, mi han fatto mo ricordare che il giornale scientifico-letterario di Perugia stampò una mia novelletta, intitolata Amore infermo.
De gli estratti esemplari mandatimene dal Direttore me ne resta ancor uno, che pare aspettasse Lei in Roma affinché il fondamentale pensiero della novella ricevesse una solenne mentita.
La prego, mia gentilissima Signora Amalia, di riceverlo in piccol testimonio della mia divozione a' Suoi grandi meriti, rapporto ai quali la mia memoria avrà in avvenire poche confessioni da fare e meno assoluzioni da chiedere.
Presenti i miei ossequi alle Sue Signore Madre e Sorella, e mi conservi nell'onore di essere Suo d.mo ed aff.mo servitore
Giuseppe Gioachino Belli
Di casa, 29 settembre 1835.
LETTERA 222.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[2 ottobre 1835]
Gentilissima Signora Amalia,
nella prossima notte parte l'avv.to Biscontini per Perugia.
Facendo io seguito a quanto Le scrissi martedì, La prevengo di ciò, perché, avendo Ella a Perugia fresche relazioni, possa approfittarsi di questo incontro ad ogni Suo piacere.
Verrò io stesso dopo il pranzo a ricevere in procuratorio nome i Suoi ordini.
Sarebbe superfluo ed anche temerario il qui aggiungere che io con simile avviso non presumo disturbare menomamente la Sua libertà.
Ella mi aspetti, non mi aspetti, faccia il pieno Suo comodo.
Basterà, dov'Ella esca mi lasci una parola in Sua casa, benché all'estremo il non trovare pure alcuno lì sarà una risposta anche quella.
Unico male in tuttociò il non poter riverirla.
Le raccomando quel mio povero convalescente.
Gli abbia cura e lo guardi dalle intemperie.
Una recidiva! Dio guardi! Il Tempo non salverebbe meglio della Ragione.
Io però gli spero tanto di vita che possa venire in un baule a fare un viaggio con Lei.
Si dice che i viaggi rimediano a tutto.
Perdoni le mie scipite facezie, e mi creda seriamente
suo Servitore vero G.
G.
Belli
Di casa, venerdì 2 ottobre 1835.
LETTERA 223.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 13 ottobre 1835
Mio caro figlio
Ricevo la tua letterina del 10, e mi maraviglio di non trovarci neppure una parola intorno alla scopetta pel pianforte e al libro di costumi che fin dal 19 settembre ti spedii pel mezzo del Sig.
Dottore Micheletti.
Che egli non ti abbia fatto la consegna di quegli oggetti è impossibile, ed altronde io te ne ho tenuto parola anche nella mia lettera unita alle calze di cotone (e non di lana, come tu dici), di cui mi accusi il ricevimento.
Dunque da che dipende il tuo silenzio sui nostri doni? Da disprezzo non voglio neppure supporlo.
Io dovrei inquietarmene e rimproverartene con qualche serietà; ma prima voglio udire le tue ragioni, se ne hai di plausibili.
Che se mai ciò dipendesse dalla tua solita ed abituale spensieratezza, mi darebbe poco coraggio per continuarti le mie attenzioni.
Basta, ogni prudente giudice deve prima ascoltare le difese e poi condannare od assolvere.
Io ti desidererei innocente perché non so avvezzarmi alla idea che tu possa divenire un egoista e un ingrato.
Nulla io pretendo da te fuorché studio e bontà.
Ma pare a te, Ciro mio, che il non riconoscere le altrui premure andrebbe d'accordo con la bontà che da te desidero? Io so bene che se qualcuno ti percuotesse, tu gli diresti: Mi hai fatto male.
Or bene, allorché alcuno ti usa un favore, non dovrai tu dirgli: Mi hai fatto bene? E quando il beneficente si contenti di questa sola risposta, trascurerai tu il dargliela? Insomma fra la scopetta ed il libro si ritrovava pure una mia lettera.
Bisogna dire che siasi smarrita fra le tue cartacce: altrimenti essa medesima ti avrebbe ricordato il tuo dovere.
Arrestiamoci qui, perché io mi avveggo di trascorrere a quella sentenza che non voleva più ora pronunciare.
Intanto restiamo buoni amici, e diamoci un bacio.
La tua buona Mammà ti benedice ed abbraccia.
Gli amici, Antonia e gli altri domestici ti salutano.
Tu riverisci i tuoi Sig.ri Superiori e la Sig.ra Grazioli se la vedi.
Mi ripeto colla solita tenerezza
il tuo aff.mo padre
LETTERA 224.
AL SIGNOR ESTENSORE DEL CENSORE UNIVERSALE DE' TEATRI - MILANO
Di Roma, ottobre 1835
Onorevole Signore
La nobile ed assennata risposta fatta da V.S.
ad alcuni rilievi della Gazzetta Piemontese sul Melodramma La Pazza-per-amore del nostro concittadino Sig.
Giacomo Ferretti, avendoci in Lei mostrato un franco amico della verità, ci dà animo a pregarla d'inserire nel suo divolgatissimo foglio queste parole, scritte nello spirito di esercitare un nuovo atto di giustizia contro due laconici articoletti del giornale Il Figaro (N.N.
73, 83) relativi all'Opera di Roma nella corrente stagione autunnale.
Venne in quelli annunziata la caduta della musica del Ricci, Gli Esposti, seguita dalla rovina di uno dei capi-d'opera rossiniani, L'assedio di Corinto; con nuda e secca sentenza se ne addossò la colpa alla prima donna Sig.ra Annetta Cosatti e al tenore Sig.
Alberti.
Noi non sapremmo negare il poco fortunato successo dell'uno, come osiamo sostenere che l'incontro dell'altro pareggiasse la gloria già ottenuta sulle medesime scene allorché fu prodotta sotto gli auspici del valore di un Galli, il cui solo nome è un elogio, e la cui sola comparsa assicurava un trionfo, pria ch'egli andasse a trapiantar nel nuovo mondo i lauri mietuti nel vecchio.
No, per verità e per giustizia diremo tutt'altro.
Ma il ciel chiuda la bocca di chiunque volesse far eco alle accuse del Figaro onde giustificare i motivi di que' disgraziati naufragi.
Perì, è vero, il naviglio del Ricci, meno però per l'imperizia dell'equipaggio che per le forme del legno poco atte a correr queste acque.
Snello, spalmato, elegante, ma non troppo fatto pel Tevere, entro a' cui vortici (stupendo a dirsi) affonda talvolta miseramente ciò che lieto galleggia sul Ticino o sull'Adda.
E, per lasciar le metafore, verremo a conchiudere che l'Alberti non è certo un Rubini, non è un Duprez, non è quel che una volta fu il David; ma neppure è un cantore da chitarrino, siccome al Figaro sembra ch'ei sia.
Né alla Cosatti debbonsi concedere i pregi delle Malibran, delle Ronzi, delle Ungher, e delle altre poche celebrità dell'odierno teatro, chiare in Italia, chiarissime fuori, e rimunerate ovunque in una sera con quanto consolerebbe per un anno numerose e virtuose famiglie.
La Cosatti, più umile di tutte costoro, le quali non sempre si possono avere, non merita purtuttavia di comparire ne' pubblici fogli quasi capro-emissario carico de' peccati del popolo.
Dotata dalla natura di gratissima voce e robusta ed estesa, non povera di sentimento e d'intelligenza, di un aspetto da non mandare le genti in delirio ma neppure da far chiuder gli occhi a nessuno, essa nulla poté aggiungere all'Opera come nulla le tolse.
Non incontrò nella musica del Ricci; ma chi piacque in essa? La Sig.ra Amalia Pellegrini, dice il Figaro.
- Signor Figaro, noi abitiamo a Roma ed Ella a Milano dove fu indotto in equivoco da una romana relazione che guardò agli effetti senza curarsi delle cause.
Sappia Ella dunque che se la sua gentile concittadina riscosse un applauso nella prima sera (e forse lo avrebbe meritato eguale nelle successive) l'uditorio, che era annoiato, volle rallegrarsi un momento.
Questa abbiasi per istoria vera quanto la scoperta delle Indie.
Lungi la malignità da noi che stimiamo la Sig.ra Pellegrini al suo giusto valore.
Ma il solo averla posta sopra alla Cosatti fa scorgere che in quell'applauso ci fosse qualche cosa sotto.
Il pubblico applaudì, la Pellegrini ringraziò, e tutto finì in buon umore.
- Venne poi L'assedio di Corinto, la Cosatti vi trovò canto per lei, e gli evviva salirono al Cielo.
Eppure quel maraviglioso lavoro non si sostenne! Perché? A ciò risponda Maometto.
Terminiamo questo ormai lungo cicaleccio colla seguente appendice.
Il Figaro ha una pagina consacrata ai teatri.
Ebbene, parlandovi delle nostre disgrazie non si scordi di notarvi le nostre fortune.
Ci compiange egli nella musica? Ci invidii dunque nella prosa; e narri alla Lombardia, almeno una volta, come in Roma si trovi adesso e fanatizzi i Romani la comica Compagnia Mascherpa, nella quale per tacer di vari altri, una Bettini, un Domeniconi, un Colomberti e un Gattinelli son quattro colonne da sostenere il peso di qualunque drammatico edificio.
G.
G.
Belli
LETTERA 225.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[Roma, 26 ottobre 1835]
Amabilissima mia Signora Amalia
I nostri discorsi (così come suole accadere conversando, che di uno in altro proposito principiasi talora da un paio di occhiali e si finisce coll'incendio di Troia), ci condussero negli scorsi giorni a parlare di quella romana generazione di letterati, i quali, fra sé ristretti, e schivi di tutt'altri e tutt'altro che non sia loro e in loro, regalansi scambievolmente il modesto titolo di santo-petto, e ciò per la santità del loro amore verso le lettere del Trecento, beate quelle e beato questo per omnia saecula saeculorum.
Ricorderà, gentil Signora, come io le narrassi essere uno di costoro venuto a morte nel 1834, e aver commossa la mia povera musa novecentista a piangerne l'amarissima perdita.
Or bene io Le invio oggi i versi spremuti dal mio dolore in quella lugubre circostanza, e consecrati a tutti i Santi-petti compilatori del giornale-arcadico, giornale profetico che, zoppo più di Zoilo nelle sue pubblicazioni, suole spesso annunziare, con data per esempio del '32, antichità dissotterrate nel '33.
Se questa non è profezia bell'e buona, Dio sa cosa ell'è.
L'illustre defunto ebbe nome Girolamo Amati di Savignano.
Fu veramente buon grecista, buon latinista, buono scrittore italiano.
Molto seppe e moltissimo presunse.
Con pochi usava: degli altri non rispondeva neppure al saluto.
Sordido e senza camicia sotto i panni: di volto satiro e così di parole; e tuttavia ne' suoi scritti, per umana contraddizione, non raro adulatore dei potenti.
Stridulo poi nella voce come cornacchia, e ruvido nel corpo e ne' modi, quanto il rovescio d'una impagliatura di sedia.
A quella corrugata fronte, degnissima di un posto nella commedia de' Rusteghi, profondevano i di lui cari fratelli il nome solenne di fronte omerica in grazia forse del cervello che ricopriva.
Ne' miei 14 versi e nella nota dichiarativa incontransi alcuni fiori di lingua, onde vanno sparse le carte e olezzanti i colloqui de' Santi-petti ai quali il Segato di Belluno niente saprebbe più dare oltre quanto lor concesse prodiga la natura.
Se v'è da ridere, Signora Amalia, rida con me: se poi, anzi che di riso, provi Ella senso di nausea, laceri questi fogli e si rallegri colla dimenticanza e de' Santi-petti e del loro encomiatore
Gius.
Gioach.
Belli
Di casa, 26 ottobre 1835
IN MORTE DI GERONIMO NOSTRO
O Santi-petti, o primi arcadi eroi,
D'ogni savere e gentilezza ostello,
In cui lodiam quanto di raro e bello
Formar seppe Natura e prima e poi:
Spenta è la luce che mostrava a noi
Carità benedetta di fratello
Sulla omerica fronte, ove il suggello
Fu di spregio d'ognun fuor che di voi.
Levate alto gli omei, le genitali
Blandizie vostre, e i modi lusinghieri
Onde fra voi vi divolgate uguali.
E come già rendeste allo Alighieri,
Date suffragio a lui di Parentali
Fra il pianto, i rosolacci ed i bicchieri.
LETTERA 226.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 14 novembre 1835
Mio caro e povero Torricelli
Come è bugiardo il mondo! quanto breve, e mal locata la gioia dell'uomo! Tornato io a casa ben tardi nella mattina delli 12 (?), trovai sul mio scrittoio una lettera, il carattere del cui indirizzo, non visto da tanto tempo, mi rallegrò.
Era tua lettera.
Non fosse mai giunta, o non l'avessi mai letta! E fu ventura la trascorsa ora al rispondere: nel mio sbalordimento ti avrei scritto delirj.
Le prime parole di quella - Martedì Clorinda fu lietissima ad un pranzo di suo cugino - mantennero, accrebbero anzi il mio piacere ingannevole.
E se al tuo dolore, a te ingenuo, a te non seconda vittima del funebre caso si potessero mai da me amico tuo attribuire oratori artifici in mezzo al pianto, ed alla desolazione, parrebbe quel lieto verso destinato quasi a rendere più straziante l'inatteso effetto del resto terribile.
Già dalla seconda linea - quel "tornò a casa in ottimo stato di salute" principiò a gelarmi il cuore, perché nel corso ordinario della vita simiglianti frasi non sogliono usarsi mai, se non, preliminari di funeste notizie.
O la giovane, bella, e gentile tua sposa! piangi, mio Torricelli, piangi, che ne hai ben motivo.
Non sarò io quel freddo spettatore della tua miseria, che venga a tentare il tuo nobile animo colle comuni risorse della sistematica consolazione.
Sì, esala nel pianto, un'angoscia, che, trattenuta, potrebbe fare a lutto sei orfani.
Chiudi gli orecchi agli zelatori del fato, e del cielo: tu ne sai più di loro.
L'umanità ferita chiede oggi, sola, gli affetti del tuo cuore, e le meditazioni del tuo spirito, e l'amore deve farsene il signore assoluto.
Tu molto perdesti: non tutto; e ne hai verità in quei sei volti, copie fedeli della cara immagine, che si dileguò.
Ma la provvidenza albergò nel nostro petto più tenerezze, quella di figlio, di amante, di marito, di padre, di amico tutte le hai tu conosciute, e profondamente sentite.
Una ti fece gemere, e ancora ti fa, sulle ceneri del tuo buon genitore: due altre ti si risvegliano adesso più imperiose che prima, perché la natura oltraggiata dalla morte si vendica sul cuore più prossimo al colpo, e perché nella perdita è più la coscienza, che nel possesso, e nel medesimo acquisto.
Dunque ciò, che ti rimane e di prole, e di amici non è per ora compensato del troppo, che ti mancò.
Tu però offeso dalla morte in quel che ti tolse, saresti ad un tempo offensore di quel che ti lascia, se all'umanissimo e bollente tuo animo volessi imporre di forza, e di slancio il conforto pericoloso degli uomini materiali.
La cristiana rassegnazione non abbisogna per trionfare sulla nostra fralezza, della mentita impassibilità dello stoico.
Umiliare il pensiero ribelle all'onnipotenza è segno di pietà, e di ragione.
Asservire gli affetti, che onorano la nostra specie, è pruova di vizio e di ferina stoltezza.
Così, tu piangi, mio caro, per sollevarti il cuore degnamente, e conservarlo sano a' tuoi amici, e a' tuoi figli.
Il tempo, sedatore di tutti i moti dell'universo, ti restituirà poi quella calma, che, accompagnata ora sempre da dolce mestizia, dà fede perenne di una vecchia sventura patita in chi meritava continuità d'ogni bene.
Intanto io associerò le tue alle mie lagrime, sapendo tu bene quanto quella bell'anima castamente mi amasse, perché tu mi amavi, e come io vi ricambiassi dello stesso affetto, che a te mi congiunge.
Bacia per me i tuoi cari figli, e quando li condurrai ad infiorare la tomba materna, tra le mani tenerelle di quello, che dovrò io tenere al sacramento della confermazione, poni un fiore di più, con l'animo che sia gittato sulla pietra in pietosa memoria della mia afflitta amicizia.
Il tuo G.
G.
Belli
LETTERA 227.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 8 dicembre 1835
Mio carissimo figlio
Rispondo io per la tua mammà alla lettera che tu le inviasti il 28 novembre.
Ad entrambi noi piace assai di udire le tue promesse di un maggiore impegno nell'esercizio delle scale musicali.
Lo conosco, quegli esercizi sono alquanto aridi e poco gustosi, ma senza di essi, Ciro mio, non si può davvero giungere alla perfezione del suono.
Insomma, nella musica come in ogni altra arte o scienza gli elementi riescono sempre duri e difficili, ma, superati quelli, per ogni grado di pena sofferta se ne guadagnano mille di soddisfazioni e di gloria.
Non prevedi tu, Ciro mio caro, il diletto che procurerai a te stesso e agli altri allorché adulto e desiderato potrai far mostra de' tuoi talenti in un adornamento che la moderna educazione tanto aggradisce? Se tu non avessi a sapere che la sola musica, saresti un soggetto molto comune: con la unione però di più solidi fregi, i quali saranno gli studi del tuo collegio, quella della musica farà di te più risalto.
Mi pare avertelo detto altre volte: nei momenti di fastidio per gli ostacoli di qualunque progresso bisogna pensare al riposo e al bene futuro; e questa idea non puoi credere quanto alleggerisca i travagli presenti.
Io parlo per esperienza; ed ho mille volte provato la realtà di quanto ti vo' dicendo.
Spesso anche a me sembra spinoso un lavoro: ebbene, io allora chiudo gli occhi, e con quelli della mente trascorro a vagheggiare i successi che me ne possono derivare nell'avvenire.
Entrato appena in me questa persuasione sento raddoppiare la mia lena e il mio coraggio, e mi pare un prato molle ed ameno ciò che prima mi aveva sembianza di una valle piena di scogli e di tenebra.
Io ti parlo di me perché tu devi essere quel che son io: tu ed io anzi siamo e saremo sempre una medesima cosa; ed allorché, finita la tua educazione, ritornerai a vivere con me, ci aiuteremo scambievolmente dei nostri lumi reciproci, e godremo, spero, giorni tranquilli e onorati nella soddisfazione de' nostri doveri.
Mammà ti saluta, abbraccia e benedice insieme con me, siccome insieme con me ti prega di riverire il Sig.
Presidente, il Sig.
Rettore e gli altri tuoi Superiori.
Antonia e gli altri domestici, non che gli amici di casa, ti dicono mille cose cortesi.
Io sono
il tuo aff m° padre
LETTERA 228.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[14 dicembre 1835]
Cortesissima Signora ed Amica
La cara donna pianta in queste mie rime fu Teresa Sernicoli, sorella del professore di questo nome, il quale acquistò grado e onore di cavaliere non per ventura di natali e di cieco favore, ma per meriti veri nella santa arte che volge a salute della umana vita il ferro, i cui benefici e le offese ebbero forse una allegoria sapientissima nella lancia di Achille, causa e rimedio di aspre ferite.
Amabile per forme e più per costumi, andò colei moglie ad Annibale Lepri, favorito dalla fortuna di agi e dalla natura di alti sensi e raro cuore.
Religiosa, amena, casta e compassionevole formò essa la delizia del marito e il decoro della casa per diciassette anni, e di trentanove morì nel 1833 lasciando il suo sposo non padre, però che fra tanti doni non volle il cielo concedere fecondità, forse per renderle meno penosa la immatura morte.
Molti distinti uomini con soavi carmi ne lagrimarono il fato, fra i quali vi nominerò Giacomo Ferretti e per l'amicizia che a lui ci lega, e perché la prima figliuola di lui, Cristina, ebbe nome e nuova madre per quella benedetta al sacro fonte della rigenerazione: circostanza atta a farne dolce la memoria anche a Voi che non la conosceste, a Voi sì tenera dell'affettuosa famiglia del nostro amico.
Vivete sana e sempre più cinta di gloria.
Roma, 14 xbre 1835.
G.
G.
Belli
LETTERA 229.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 22 dicembre 1835
Mio carissimo figlio
Ebbi la tua del 12, e mi piacque leggervi le promesse che in essa mi fai, tanto più per una specie di convinzione che mi dimostri intorno alla verità dei miei consigli.
Si sta preparando, Ciro mio, qualche cosetta da mandarti secondo il consueto fra le feste e il capo d'anno.
Ho fatto costruire espressamente una scattola per queste spedizioni, ed ho ordinato che vi sia messa una serratura con due chiavi, una delle quali manderò a te perché la conservi, ed un'altra la riterrò io, affinché la scattola possa andare avanti e indietro tra Roma e Perugia come una specie di bauletto, senza bisogno d'inchiodare e schiodare, e senza necessità di rinnuovare tanto frequentemente quest'oggetto di trasporto.
Darò dunque ordine al vetturale che dopo averti lasciata la cassetta venga a riprenderla per riportarmela vuota in un altro viaggio che farà egli per Roma.
Oltre i saluti della Signora Cangenna che tu mi facesti, ebbi una lettera nella quale mi parlò gentilmente di te, e me ne dette buone nuove.
Se tu la vedi riveriscila in mio nome, e dà un bacio al piccolo Cencino.
Presenta gli ossequi della tua Mammà ed i miei a' tuoi Signori Superiori e Maestri, ed in ispecial modo al Sig.
Presidente e al Sig.
Rettore, ai quali farai mille auguri di felicità per le prossime Sante feste e pel successivo nuovo anno.
Gli amici, i parenti e i domestici, fra i quali principalmente Antonia ti dicono mille cose affettuose.
La tua buona Mammà ed io ti benediciamo e abbracciamo teneramente, e preghiamo Iddio perché ti ricolmi l'animo di allegrezza nel tempo natalizio come nell'anno nuovo, e per lunghissima vita, tutta onorata ed utile al tuo bene e all'altrui.
Ricevi queste espressioni dell'amore vero ed ardente del tuo
aff.mo padre
P.S.
Poco prima di mandare alla posta la presente mi è giunta l'altra tua latina scritta il 19 corrente, cioè nel 14° giorno avanti le calende di Gennaio 1836.
Bravo, bravo, Ciro mio; e benchè tu ancora non tocchi a sublimità nel possesso di questo idioma (siccome mi dici), purtuttavia io son contento, e ne ringrazio il gentilissimo tuo Sig.
Maestro, del quale con molto piacere e mio onore trovo i saluti e gli auguri nella tua lettera.
La tua Mammà, benchè meno dotta del suo Ciro, pure presso mia spiegazione ha potuto gustare le tue latine eleganze e te ne rimerita con mille nuovi abbracci.
Così te ne fanno plauso coeteri noti ac affines.
LETTERA 230.
A NATALE DE WITTEN
nel giorno 25 dicembre 1835
Dopo trecensessantacinque giorni,
Ed un giorno di più quando è bisesto,
Torna il Santo Natal con tutto il resto,
Cioè i Magi, il presepio e i suoi contorni.
Io non mormoro già ch'esso ritorni
Bensì mi lagno che ritorna presto.
Perché ad ogni tornata è manifesto
Che ci crescono addosso i capricorni.
E non appena pei caffè in vetrina
Scopro i primi pangialli, io dico: male!
Vedi come l'età passa e cammina.
Basta, lasciam da parte la morale;
E piuttosto gridiam questa mattina:
Viva il Natale ed il Signor Natale!
G.
G.
Belli
LETTERA 231.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 9 gennaio 1936
Mio carissimo Torricelli
La composizione, o, secondo il linguaggio de' tipografi, la pizza della tua inscrizione, è fatta.
Non si può ancora imprimere perché l'incisore non ha fatto il monogramma del Cristo da porvisi in alto, il quale manca al Salviucci nella grandezza proporzionata al nostro bisogno.
Io però non cesso dallo stimolare.
Sul sonetto pel capo-d'anno ecco come la penso io ai versi 5° e 6°.
- Il servo è il servo e il tiranno è a dirittura il padrone: il che si riferisce all'opre: il numero è l'anno 1835: l'appiè del trono è il punto dove si congiungono i rapporti del comando e della obbedienza, e dove l'anno gli accoglie tutti nel suo seno per ritenerveli quasi cosa presente per tutta la durata dell'anno stesso, finito il quale sogliono gli uomini considerare perfettamente passati i fatti in quello accaduti.
Così dicesi è cosa di quest'anno; così fu cosa dell'anno scorso etc.
Terminato l'anno, gli avvenimenti di quello, prendendo di un colpo natura di cosa remota, cadono coll'anno stesso in grembo ai secoli che sono compiuti e riuniti all'eternità, nella di lei parte antecedente al punto del presente, che è il solo momento da cui si possa concepire divisa.
Difatti l'eternità mancando di estremi, neppure dovrebbe di ragione aver parti, le quali suppongono un mezzo.
Quel tal che credo possa ritener più relazioni colle opre che non col servo e col tiranno, mentre costoro in caso obliquo e in vera obliquità di azione non istanno nel verso se non per caratterizzare le qualità dell'opre di servitù e d'impiego; di modo che alle sole opre vien consecrato tutto il resto di quella quartina, dove il servo e il tiranno non figurano più.
Dopo tante ciarle apparirà forse meno dichiarata la matta idea che io pretesi di esprimervi.
Dio guardi però quel sonetto che abbisogna di tanti commenti!
Ti ringrazio del bel sonetto del Sig.
Donini il quale si assapora senza uopo di arzigogoli.
E così ti sono obligato per la cara e stracara ottava del Sig.
Montanari.
Come vi ha preziosamente riuniti i due nomi di Clorinda e Torquato! Ecco un modello rarissimo dell'arte di giuocare sui nomi con severa convenienza al soggetto.
E già che siamo in proposito di sonetti, saprai, o, se nol sai, tel dico io, che il Barone Ferdinando Malvica di Palermo s'è insorato con egregia donzella.
Voleva miei versi.
Gliene scrissi 14, ma un comune nostro amico, il caro ed eccellente Biagini che nel 1830 ti feci conoscere, non ha creduto che gliel'inviassi, onde (son sue espressioni) non fargli cascare il cuore in terra.
Li mando a te, che, povero Torricelli, il cuore in terra già ce lo hai.
Unisci dunque dolore con isdegno, e leggi i miei 14 versi, seppure non debbano chiamarsi meglio 154 sillabe.
Ho letto la pistoletta del Santo-petto S.
B.
- Potrebbe farmi miracoli, getterebbe l'opra ed il tempo.
Caratterizzato un uomo, tutti i suoi attimi prendono il colore del suo carattere.
Io sono irreconciliabile, e chi ha offeso un mio amico ha vituperato me, perché io considero nell'onore tutti i viventi obbligati in solidum.
La lettera è bella e dolce, di quella venustà e mollezza che spiravano le lettere di quel morto capo-di-setta che ti sorrideva e pugnalava.
A proposito del Malvica, nominato più sopra, rimandami per qualche occasione il suo-mio libro di epigrafia etc.
Ti abbraccia il tuo B.
[In foglio a parte il sonetto al Malvica:]
Immagini di vita, o Ferdinando,
Pegni di voluttà fur gl'imenei,
Infin che arriser più benigni Dei
A questo di virtù suol venerando.
Ma da che Italia nostra è messa al bando,
E fra l'onta di barbari trofei
Nacque in lei morte e par viver in lei,
Chi môve all'ara de' môver tremando.
D'onor, di senno e carità ripieno,
Se da sposa feconda avrai tu figli,
Pensa a qual terra li deponi in seno.
Terra povera d'armi e di consigli,
Terra cui mai non sorge un dì sereno,
Terra di servitù, terra d'esigli.
LETTERA 232.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 12 gennaio 1836
Mio carissimo figlio
Ho molto piacere che tu sia rimasto contento degli oggetti da noi inviati per tuo uso pel recente Capo-d'anno.
È stato quel che si è potuto fare tanto in vista delle regole del tuo Collegio che non permettono oggetti di lusso, quanto per rispetto delle circostanze de' tempi in cui la stessa prudenza non concede che si pensi a troppe superfluità, riuscendo anche difficile il far fronte ai puri bisogni.
In ogni modo, abbiti, Ciro mio, in quelle cose un testimonio della nostra premura per te; e vivi sicuro che noi faremo sempre tutti i nostri sforzi affinché non ti manchino oneste soddisfazioni, in premio della diligenza che ti raccomandiamo incessantemente ne' tuoi doveri.
Tu non devi pensare per ora che ad acquistare virtù ed istruzione, e le rimanenti cure per la tua felicità non verranno in noi giammai a diminuirsi.
Tu formi l'unico oggetto di tutti i nostri pensieri, affinché un giorno tu possa benedire la nostra memoria.
Se non avrai ricchezze da sfoggiare e insultare gli sguardi del Mondo, spero che ti avremo preparato un miglior patrimonio di onore e d'istruzione, che ti procacci una vita tranquilla e modesta fra l'approvazione e la stima degli uomini.
Tutto in terra perisce, tutto, Ciro mio, fuorché il decoro di un'anima elevata, schietta ed ornata di salda cultura; e fino l'invidia e la malignità de' malvagi giungono a render poi giustizia ad un merito reale che non si smentisce da se stesso.
Ti voglio convincere della bellezza della virtù e della forza che questa esercita anche sugli uomini viziosi.
Sai tu cosa è la ipocrisia? È un'imitazione attenta e studiosa di tutto ciò che le umane azioni hanno di buono e di lodevole.
Ebbene, la ipocrisia è un vizio perché assume falsamente un esteriore virtuoso onde ingannare.
Ma non vedi tu dunque che lo stesso vizio confessa così il bisogno di nascondersi sotto le spoglie della virtù? Non si chiama ciò un vergognarsi della propria bruttura? Non si scopre in quell'artificio la superiorità che tutto il Mondo è forzato a concedere al giusto, all'onesto? Se pertanto la virtù può parere bella talvolta anche simulata, perché non vorremo noi acquistare la realtà che non ha d'uopo di fraudi per sostenersi a fronte di tutti gli eventi? L'ipocrita, l'impostore fatica per apparir virtuoso, ma l'uomo onesto lo sarà e per sentimento altrui e per propria coscienza; e la coscienza è il primo giudice che noi dobbiamo rispettare e temere.
I primi suffragi di noi stessi li dobbiamo ricercare in noi stessi.
Quando un malvagio è scoperto, al disprezzo comune deve necessariamente unire quello del proprio convincimento, nel che consiste il primo e il più tremendo gastigo della colpa.
Lo studio, fatto con cuor retto e col fine di migliorare la propria natura, contribuisce prodigiosamente al conseguimento della bontà, perché chi studia cerca la verità, e la verità è come una fiaccola accesa da Dio per guidarci al possesso del vero bene.
Rifletti, Ciro mio, a queste ragioni, e parlane coi dotti tuoi Superiori che ti sono in luogo di padre.
Io non posso così di lontano che accennarti qualche punto che l'esame e il discorso ti debbono sviluppare in tutta la loro ampiezza e illuminare di tutto il loro splendore.
Dimmi, Ciro mio: come senti freddo? - Reciti al teatrino quest'anno?
Tutti, e specialmente Antonia ti salutano.
Pochi giorni addietro parlai di te lungamente al Sig.
Avvocato Gnoli.
Riveriscimi i tuoi Sig.ri Superiori ricevi le benedizioni e gli abbracci della tua Mammà.
Ti stringo al cuore, e sono il tuo aff.mo padre.
LETTERA 233.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[Roma, 20 gennaio 1836]
Mia gentilissima amica, nulla di più sconcio che le cose fuor di proposito.
Avrei pertanto dovuto non mandarvi oggi le qui unite melensaggini che scrissi ieri pel libercolaccio il quale dovrà usurpare nel Vostro baule uno spazio assai meglio occupabile anche da un paio di calze da scarto.
Ma il desiderio di dimostrarvi che ancor lontana dalla vista non potete esser remota dal pensiero di chi Vi conosce, mi han fatto bravare le convenienze.
Due altre considerazioni contribuiscono pure alla risoluzione, un po' strana per verità in riguardo alla circostanza penosa della Vostra famiglia: l'una cioè riposta nella mia speranza che la Cecchina stia oggi meglio di quello che ieri sera mi annunziò Biscontini: l'altra appoggiata alla vostra libertà di leggere o non leggere le mie sciocchezze, secondo il vario consiglio dell'animo.
Se nulla è al Mondo di che io oggi mi dolga, ciò è il vedere come io sia stato profeta circa alla infermità della vostra buona sorella.
Ah! così avesse voluto ascoltare le insistenze di un querulo amico! Ma non volgiamo gli occhi all'indietro.
Percorriamo invece con ogni specie di voti e di auguri il lieto giorno della ricuperata salute, ed il momento di gioia che dopo quello la attende.
Salutatela in mio nome, e mostratele calma onde trasfonderne in lei.
Riverisco la Signora Lucrezia, e mi confermo con tutti i sentimenti degni di Voi
Di casa, 20 gennaio 1836
Vostro servitore ed amico
G.
G.
Belli
LETTERA 234.
AL CONTE FRANCESCO CASSI - PESARO
[21 gennaio 1836]
Gentilissimo e rispettabile amico
Mi fu il giorno 14 recapitata la obbligantissima Vostra del 7 relativa al passaggio delle vostre stampe farsaliche dalle mie alle mani del Sig.
Pietro Biolchini segretario del Giornale Arcadico.
In quel giorno io guardava il letto per reuma, male da cui pochissimi vanno immuni in questo rigidissimo inverno.
Si dovette pertanto rimettere l'operazione ad altro giorno, e fu infatti eseguita nel Martedì 19.
Poche notizie, come ben potete comprendere, sono io stato in caso di procacciare al Sig.
Biolchini de' fatti antichi, e meno schiarimenti per l'azione futura, dappoiché dopo la transmissione che pel mezzo della Diligenza io vi feci il 29 luglio 1830 di tutte le carte relative alla cessata gestione del Cavalletti, onde fossero da Voi e dal Sig.
Bontà esaminate, io rimasi privo di qualunque documento che potesse aiutarmi a riannodare nella mia mente o avviare nell'altrui un filo qualunque di questa per voi poco fortunata orditura.
Ma se, ripresi in qualche modo i capi della spezzata tela, potesse mai riuscirvi utile in qualche parte la mia meschina cooperazione, Voi, col Sig.
Biolchini e chiunque altro vi rappresenti, mi troverete sempre ilare e pronto a' vostri servigi.
Che poi dirò della cortese liberalità Vostra nel dono di un esemplare del nobilissimo vostro lavoro? Io non so come abbia potuto da Voi meritarmi un sì prezioso regalo.
Ma nel tempo stesso che ho in me vanamente cercato i titoli a tanto favore, non ho saputo pure trovarmi animo a rifiutarlo.
Lo accetto dunque, e l'aggradisco quanto si deve, cioè moltissimo; e, valendomi delle vostre facoltà sulla scelta della carta dell'esemplare, ho creduto tenermi egualmente lontano da' due estremi, e scegliere il mezzo.
Mi sono per conseguenza ritenuta una copia in carta velina bianca di ciascuno de' 4 fascicoli.
Così i quadernetti che vennero presso di me in deposito in numero di 428 sono in oggi da me stati consegnati al Sig.
Biolchini in n° di 424.
Il Sig.
Biolchini poi, che naturalmente era istruito del tratto di vostra cortesissima a mio favore, mi ha promesso che ricevendo egli i mancanti fascicoli del compimento dell'opera, mi farà in Vostro nome tenere quelli che dovranno completare il mio esemplare.
Due occupazioni ho io oggi avute relative a Pesaro.
L'una piacevolissima, cioè questa lettera a Voi che tanto stimo ed amo: l'altra assai ingrata, ma pure indispensabile, cioè la spedizione di una citazione al Sig.
Marchese Antaldi, col quale, avendomici Voi così bene avvicinato nella mia dimora a Pesaro nel 1830, avrei pure voluto conservare per sempre buona ed onesta armonia.
Ma poiché il Sig.
Marchese Ercole, attuale guidatore delle faccende e degli interessi della nobil famiglia, mi ha usato il poco urbano contegno di non rispondere neppure alle mie lettere di molti mesi (lettere, voglio dirlo, cortesissime) non mi resta che la via spinosa che dovetti battere allora.
Comandatemi, mio caro e rispettabile amico e credetemi sempre Vostro aff.mo a.co e serv.e Giuseppe Gioachino Belli.
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 21 gennaio 1836.
LETTERA 235.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[Di Roma, 31 gennaio 1836]
Dacché i primi studi delle storie e della ragione politica dei popoli principiarono a svilupparmi un senso nella parola di Patria, il sommo pensiero che abbia di poi occupato continuamente il mio spirito quello si fu delle cause della italiana decadenza, non che di quella specie di fato che questa già sì potente e pur sempre nobilissima terra mantien vile e derisa.
Vane, se non al tutto ingiuste mi parvero ognora le querele d'Italia contro la violenza straniera, quando la principale vergogna debba ella vederla sul proprio volto, e il roditor verme suo vero cercarlo nelle stesse sue viscere.
Succedute le cupidigie dell'oro all'amor della gloria, all'ardire l'insolenza, agli stenti de' campi l'ozio e le lascivie, e alle magnanime imprese le discipline del fasto e del triclinio, la pubblica vita divenne privata, e, sciolto il gran vincolo simboleggiato sapientemente ne' fasci de' littori, ciascun uomo si raccolse in se stesso, non più cospirando al comun bene ma inteso all'individuale suo comodo.
Surse allora uno scettro su milioni di spade, e la servitù di ciascuno segnò il termine dell'impero di tutti per dar principio ad una nuova grandezza, falsa ed instabile, perché scompagnata dall'universale interesse che è anima e vita delle nazioni.
Or voi, gentilissima amica, rimarrete per avventura stupefatta come e perché da sì pomposo esordio io discenda a parlarvi di tanto esigua cosa quanto pochi miei versi, il cui debole suono si perde e smarrisce per entro al romore di quelle vaste vicende.
Meditava io appunto nell'anno 1825 sui miseri destini di queste nostre belle contrade, allorché l'Amor-personale, vecchia ed eterna origine delle italiane sventure, venne a dividere gli animi di un romano sodalizio, che dal culto de' numeri musicali s'intitolò Accademia Filarmonica.
Il malnato scisma separò l'onorevole instituto in due distinti corpi, né l'uno né l'altro de' quali poteva bastare a se stesso.
Parvemi quella discordia circostanza atta e pretesto per levare alto la voce, e, sgridando i miei sconsigliati cittadini su quello per sé oscuro suggetto, far balenar a' loro occhi una luce dileguatasi in tanta abbiezione e dimenticanza de' civili doveri.
Composi quindi e pubblicai la Canzone che qui appresso vi transcrivo, né volli darle alcun titolo speciale, vagheggiando la speranza che ne' più svegliati de' miei lettori potesse entrare almeno un dubbio che io sotto lievi apparenze avessi forse occultato più sublimi verità, non concesse dalla condizione dei tempi a libero esame.
Varii difatti penetrarono il mio intendimento: il massimo numero però non ne trasse altro giudizio fuorché della sproporzione di que' miei clamori ad una meschina lite fra musici.
Ma a Voi, entrata oggi a parte del mio segreto, cosa rimarrà oggi a dire dei miei poveri versi? Null'altro se non che piacciavi usar loro indulgenza, non minore dell'amicizia con che onorate in ricambio la mia servitù.
G.
G.
Belli
Roma, 31 gennaio 1836.
LETTERA 236.
AD AMALIA BETTINI - ROMA
[1 febbraio 1836]
Carissima, amica,
l'anima umana è come uno strumento musicale, in cui, benché taciti, si nascondono gli elementi di tutti i tuoni, gravi o acuti, malinconici o lieti.
Non aspetta essa che il tocco esterno onde manifestare la sua occulta potenza, e non solo del suono provocato ma di tutti gli altri ancora corrispondenti al sistema della sua propria armonia.
Così tu leggi un di que' libri che colpiscono la immaginazione tosto ti si risveglieranno mille sensazioni di che tristezza forse t'ignoravi capace, e un vortice d'idee nuove e sconosciute sorgerà a far eco a quelle con cui un'arcana legge le pose in analogia, stabilendo fra loro quasi un metafisico magnetismo.
Ecco, io ho letto l'Antony, con tanto sapere e passione da Voi tradotto; e per tutt'oggi è certo che io penso come Dumas.
Ma domani? Maraviglioso ingegno! Il Mondo aveva una nuova faccia, ed ei l'ha dipinta.
La di lui Adele muore assai più sublime di Lucrezia.
Vi rendo il Vostro manoscritto, avvisandovi che per questa generazione esso non sarà mai cosa da Roma.
Conservatemi la grazia della vostra amicizia.
Il vostro servitore ed a.co
G.
G.
Belli
1° febbraio 1836.
LETTERA 237.
AL CONTE FRANCESCO CASSI - PESARO
Di Roma, 4 febbraio 1836
Mio rispettabile amico
Nella vostra lettera 28 gennaio, giuntami contemporaneamente col 5° fascicolo della vostra Farsaglia che graziosamente volete donarmi, ho veduto un novello documento della non simulata compitezza che vi distingue fra i dotti d'Italia, e del come un generoso animo possa di buona fede illudersi fino al punto di attribuire a' giusti suoi ammiratori una parte del proprio merito e la stessa luce che da lui su quelli si spande.
Che sono io? Che so? Cosa ho fatto pel Mondo e per Voi, onde abbiate a prodigarmi sì lusinghiere espressioni, le quali, se io non le sapessi partite da cuore ingenuo, mi umilierebbero dove oggi mi tentano a vanità? Né vogliate già sospettare che così Vi parli per sostenere con Voi una gara di complimento: ché troppo male risponderei alla sincerità vostra, e mostrerei di sconoscere la vera indole dell'amicizia di cui è proprio talvolta il dir falso colla intima persuasione del vero.
Voi mi onoraste a Pesaro della vostra familiarità: avemmo insieme franchi discorsi che ci apersero scambievolmente il fondo del nostro spirito; ma niuna lusinga doveva restarmi che da' quei colloqui, pe' quali io penetrava il vostro ingegno, avesse in Voi potuto passare un concetto di me da esserne in oggi chiamato a mover giudizio sopra una vostra opera già lodata da lodate penne, e da tanti desiderata, e, quantunque ancora incompleta, citata pur già non di rado dove avesse ad allegarsi Lucano.
Nulladimeno, poiché in ogni caso nel negare il proprio suffragio a chi lo richiegga per quanto esso vale, la umiltà assumerebbe forma di scortesia, io Vi dirò brevemente (e lo giurerei, dove fra onesti uomini abbisognasse) poche versioni de' classici essermi sembrate tanto nobili e splendide e veramente italiane quanto questa da Voi intrapresa del difficilissimo poema dell'ardito cantore di Cesare e di Pompeo.
A Voi esperto nella storia delle umane tristizie non parrà maraviglia se le strida delle mulacchie spesso levinsi a soffocare il canto de' cigni.
Ma che perciò? Le poche medaglie de' genii sorgeranno sempre dal fiume dell'oblio per andar depositate dal tempo nel tempio glorioso dell'immortalità.
E questa è già vecchia peste d'Italia che dove balena una luce là molti soffii maligni corrano a spegnerla: contenta piuttosto la invereconda ignoranza alle tenebre universali che non ad un raggio rivelatore della di lei turpitudine.
Ogni opera dell'uomo porta le impronte della frale di lui natura: sufficiente prova lo stesso vostro originale, malgrado delle sue tante parti sublimi.
Ma come le civili critiche, criticabili anch'esse possono avvicinare un lavoro alla perfezione per quanto la perfettibilità umana il consenta, così i sarcasmi e gli oltraggi debbono quasi far credere esservi giunto: perché lo scherno è carattere d'invidia; e quella sozza non morde mai in basso.
A queste parole sono io trasceso per solo intendimento di calmare in Voi una specie di peritanza in cui Vi veggo ondeggiante nel bilanciare il vostro oro colle spade insolenti dei Brenni della Letteratura.
Voi dispregiate, lo so, le ciance di chi non sa usar meglio sua vita che logorando l'altrui; ma nuda di esterni conforti difficilmente la vera modestia non si rattrista in segreto de' tentativi della maldicenza, e non dubita se fra i vani clamori si nasconda alcun germe di giustizia e di meritata severità.
Animo, amico caro e rispettabile: onorate, siccome sempre faceste, gli urbani consigli, de' quali piccol'uopo anche avete, ma ricordatevi insieme che un vasto mare non si solca senza procelle e pirati.
Cercherò di vedere il Sig.
Biolchini per udire da lui se io possa per qualche modo cooperare a' vostri vantaggi, non ostante la mia nullità e l'isolamento in cui di ragione son tenuto e mi tengo.
Se avete occasione di trovarvi col Sig.
Marc.
Antaldo Antaldi Vi prego fargli conoscere i giusti motivi delle mie ostilità.
E con tutti i sentimenti degni di Voi mi confermo
Vostro aff.mo ed ob.mo amico G.
G.
Belli.
LETTERA 238.
AD AMALIA BETTINI - LIVORNO
[27 febbraio 1836]
Mia carissima Amalia,
i versi qui precedenti erano già da dieci giorni destinati a servir di risposta: oggi invece vi verranno come proposta.
Capite? cioè, è meglio dire mi spiego? perché la mala intelligenza è più spesso vizio delle lingue che degli orecchi.
Insomma, facciamoci a parlar chiaro: io aspettava a bocca aperta, ad occhi aperti, a braccia aperte, ad anima spalancata, qualche vostra notizia, e mi era intanto quelle 1595 sillabacce rimate e acciabattate su Iddio sa come, per darvi mala paga a segnalato favore; ma le notizie si sono azzoppicate per via, o affogate fra le nevi dell'Appennino.
Fintanto dunque che non vada il cane di S.
Benedetto a cacciarnele, e tutte intirizzite me le porti a riscaldarsi con me, io voglio mo spedir loro incontro i miei peotici arzigogoli.
Ne già vi fumi pel capo il ghiribizzo di credermi impastato di quella tal pasta perugina che pretenderebbe una lettera per minuto: il cielo ce ne scampi.
Io conosco bene la vostra arte, i vostri impegni, le vostre brighe, i vostri cassoni, i vostri denti, la vostra...
vogliamo dirlo? diciamolo, la vostra poltroneriola, e tutte le altre vostre cosette.
Eppoi, eppoi, non siamo noi già di amore e d'accordo che mi avreste scritto quando il Signore ve ne spedisse la vocazione? Per questa volta però non siamo nel caso.
Voi siete partita contro voglia; avete viaggiato in cattivo tempo; siete andata lontano (al conto ch'io faccio) 13.500 miglia, quante ne corrono agli antipodi del Vaticano; potevate aver sofferto; noi, dico noi, soffrivamo delle vostre possibile sofferenze...
Dunque? Dunque l'aspettazione non è ascrivibile a petulanza; ma sibbene ad piam causam, come diconci sempre i nostri buoni sacerdoti quando vogliono le cose a modo loro.
Ma la Bettini non ha potuto scrivere.
Va bene: scriverà dunque quando potrà, e intanto scrivo io che ho il calamaio bell'e ammannito.
Sapete? Un Ferrettino è nato domenica 21, alle 7 della mattina, a far compagnia alle sorelle; e lunedì 22, alle 6 della sera andò in chiesa a farsi chiamare Luigi.
Fra i sorbetti io dissi:
Servo suo, signor Giachimo.
Date un bacio per me a Vostra Madre, perché sappiate che uno gliene ho dato da me stesso quando partì, e non me ne pento.
In quanto poi alla Cecchina, l'è un altro paio di maniche.
Stringetele la mano con mia procura sino a farle gridare Caino.
E a Voi? A Voi mille affettuose parole.
E quando mi risponderete, ché pure una risposta me la sono promessa, badiamo ai pronomi.
Da Voi a me io non sono terza persona, ma seconda.
Circa poi al numero attribuitemi quello che Iddio v'ispira, benché il singolare.
È più gentile assai, fa più buon bere.
De' saluti di Mariuccia ve ne do colla canestra sì per voi che per la Sig.ra Lucrezia e per la Cecchina.
E quell'angiol di Angiol Biscontini? Si farà i fatti suoi da sé.
Sono il vostro
G.
G.
Belli
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, sabato 27 febbraio 1836.
Mentre io stava chiudendo questa letterina per mandarla alla posta, eccoti una cara epistoletta data di Livorno il 23.
Oh va' a dire che la Mamma del corriere potesse con ragione rimproverarlo d'essersi presa una scalmatura! L'epistoletta è firmata da una Amalia B.
Quanti bei nomi potrebbero portare sulle spalle quella testa del B.! Ma un foglio sì caro e disinvolto e obbligante non saprebbe essere stato scritto che da una Bettini, la più cara, la più disinvolta, la più obbligante donna ch'io mi conosca.
Dunque io rispondo alla Bettini, e vado a colpo sicuro! Quanti orrori mi dipingete, mia amabile amica! Raccapriccio nel ravvicinare per un momento l'idea della vettura rovesciata al pensiero di Voi.
Sieno grazie al cielo a mani giunte perchè in Voi preservò noi da disgrazia.
Qual maraviglia del vostro incontro? Andate a declamare a' Turchi, agl'Irrochesi, e li convertirete tutti in lingua italiana, come gli apostoli convertivano in lingua ebraica i greci e i latini.
Eppoi già avete udito Coleine, e basta.
Ed io povero Daniello grido e griderò sempre: anzi diventerò un Giona, e tuonando alla mia patria, se non vi richiama presto, le intimerò il tremendo quadraginta adhuc dies etc.
Però il mandare d'accordo la sollecitudine del vostro ritorno con quella de' miei desiderii mi pare più lavoro da patriarchi che da profeti.
E voi fate leggere i miei scarabocchi? E non avete più in mente l'epigramma del frontispizio? Va bene; se pel mondo non commetteste qualche sproposito, sareste troppo pericolosa.
Beato il Mascherpa che ha una buona quaresima! e più beati i Livornesi che per voi l'hanno ottima! La quaresima romana è veramente quaresima, specialmente dopo quel carnovale che oggi è fuggito a Livorno.
Voi mi chiedete versi, ed io vi aveva prevenuta.
Un Daniello non si smentisce mai.
Vi saluterò la famiglia Ferretti, con la quale non ho sin qui parlato che di due persone, dell'Amalia cioè e della Bettini, perché voi sola valete per due, e dico poco.
Biscontini vi risponderà nel venturo, mille brighe forensi gli assorbiscono il po' d'ora che rimane alla sera.
A questo punto della mia lettera datele un'occhiatina da capo a fondo come fece Giacobbe a quella tale scaletta, e poi dite in coscienza se non si chiami pagar la posta a ragion veduta.
In un foglio di carta un archivio!
G.
G.
B.
Mi chiedete se vi permetto un abbraccio.
Eh! Figuratevi se questo cuore arde.
Servitevi pure e riprendetene da me cento, e tutti da galantuomo.
C'è più carta bianca?
LETTERA 239.
AD AMALIA BETTINI - LIVORNO
Roma, 29 febbraio 1836.
Alla mia prima celia coleiniana non vi sdegnate, amabilissima amica, se mando appresso questa ingamiense.
Elevato da Voi alla dignità di vostro poeta cesareo, se non di Vostro consigliere aulico, io non posso tradire un ufficio che mi compiaccio confondere con la idea di prerogativa.
Eccomi dunque Vostro Menestrello, Vostro bardo, Vostro trovatore, e con tanta mia maggiore felicità in quanto la religione e la legge non ancora vi posero al fianco un Raimondo di Rossiglione il quale trattandomi da secondo Cabestaing vi desse a mangiare un cuore disposto in tutto a piacervi fuorché nelle pentole di cucina.
Acuta di mente come gentile e tenera per natura, dovete aver penetrato l'unico fine dei miei fabliaux, quello cioè di trastullarvi se mi riesca, a far sì che un pensiere da Voi rivolto a questa vecchia città si accompagni per via ad un sorriso ravvivatore de' brevi diletti che abbiate potuto gustarvi fra le glorie della vostra virtù presa ne' più bei sensi del vocabolario.
Niente di male in Voi, niente di male in me, niente di male in nessuno.
Ridiamo, carissima Amalia, giacché a questo siamo quaggiù condannati, che le gioie dobbiamo fabbricarcele quasi tutte da noi, la spontaneità appartenendo presso ché esclusivamente al dolore.
Ma quale de' due, o l'eroe o il cantore, farà miglior figura in questa poetica mediocrità?
Di ch'io mi vo stancando e forse altrui?
giudica tu che me conosci e lui
(Petr.)
Voleva mandarvi la mia novella intitolata Una storia cefalica, benché il domenicano l'abbia mutilata appunto nel nodo ove andavano a riunirsi le fila e l'intendimento dell'invenzione.
Il di più ve lo avrei scritto a penna; ma al momento dell'addio a questa lettera la stampa sta sotto il torchio.
Il mio Ciarlatano è tuttora sullo scrittoio del Reverendissimo, e chi sa! Sto adesso scrivendo in parecchie favolette la vita di Polifemo.
Forse sarà fatica gettata.
Tout pour le mieux; e che viva Maître Pangloss.
Mettetemi alle ginocchia delle Sig.re Lucrezia e Cecchina, come io mi pongo ai vostri piedi chiedendovi la santa benedizione.
Il V/° aff.mo a.co e s.re
G.
G.
B.
LETTERA 240.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 12 marzo 1836
Mio caro Torricelli
Ti sei mal rivolto per l'emendazione del tuo disegno: io non sono dell'arte; e se pure una volta misi la bocca e le mani nel monumento per l'avello di tuo padre, allora fu mio il concetto, ma lo espresse un artista.
La inscrizione del Muzzi mi pare, almeno nella prima metà, alquanto impicciata, e la tengo per una di quelle belle cose che vengono dette bellissime quando alla mostra di esse preceda quella del nome del loro autore.
È assai difficile, io credo, che gli effetti di una sensazione antecedente non si spargano sulle susseguenti e non le modifichino, allorché vi s'interponga un rapporto unisono con ciò che in noi regna come opinione stabilita.
Da due punti si può partire per misurare una estensione qualunque.
Nella scala proporzionale del merito epigrafico Muzzi sta al sommo grado, come io (se facessi epigrafi) mi troverei al più basso.
Mettiamo per un momento quella inscrizione nel bel mezzo, e ravviciniamo poi ad essa i due nomi: l'uno discenderà per quanto l'altro s'innalzi; e quando si ritrovassero uniti al livello, la perdita del primo equivarrebbe al guadagno del secondo.
Quindi, se l'avessi scritta io, dovrei forse andarne superbo: dal Muzzi peraltro si poteva sperare un po' meglio.
Che se io, inetto al fare, mi azzardo tuttavia al dire, so che il giudizio [...] talvolta sua rettitudine nel solo intelletto aiutato dai confronti dell'esperienza.
Pochi sapranno p.e.
disegnarti una foglia, eppure molti diranno con ragione: quell'albero non me lo presenterebbe la natura quale io qui lo veggo dipinto.
Nel nostro caso concreto, oltre la tua ossequiosa prevenzione in favore del Muzzi, un principio di trasporto verso chiunque accarezzi le tue predilezioni, può in te confondere gli atti del cuore con quelli della mente, ed alterare i termini dell'equazione ne' calcoli della tua stima; cosicché se al Muzzi e alla sua epigrafe si volesse attribuire la formula A+B per esprimere due quantità uguali ad X, tu vi sostituiresti i valori positivi 1+1 = 2 là dove io direi 1 + 1/2 = 1 1/2.
Nulladimeno il tuo giudizio che fosse di tanto caduto sotto la influenza della passione poté essere di altrettanto rettificato dalla conoscenza dell'arte sulla quale si aggirò, intantoché il mio sentimento nato nell'ignoranza dell'arte può anch'esso ravvicinarsi al vero per la opposta via della mia equanimità relativamente al soggetto donde prende la prima origine il tuo trasporto, cioè l'amore: poiché tutte le cose al mondo, ed anche le astratte, son capaci di quantità, e le qualità contrarie insieme si elidono quando fra loro esiste uguaglianza.
Volendo pertanto compromettere in altri le nostre contrarie sentenze, tutta la indagine del nostro giudice dovrebbe, penso, ridursi al sapere se abbiasi a dar più peso nel tuo giudizio all'azione del maggior sapere, o nel mio a quella della miglior tranquillità d'animo.
E qui confesso che non mi presenterei al tribunale con soverchio coraggio.
Ristringerò quindi col ripetere che la epigrafe non mi pare indegna di lodi la quale a te sembrò bellissima; ma al tempo stesso bramerei, per tuo conforto, che tu t'avessi più ragione di me, e che in quella tenera epigrafe non esistesse difetto.
Terminata la cicalata, è tempo di venire agli abbracci.
Il tuo G.
G.
Belli
LETTERA 241.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Roma, 29 marzo 1836
Mio caro Ciro
Mi arreca molto piacere l'aggradimento da te dimostrato al libretto che ti mandai.
Esso alla mole è ben piccola cosa, ma, come tu stesso saviamente dici, può molto e dilettare ed istruire.
Volendo dargli una scorsa di lettura ti servirà ciò per iscandagliare la quantità e qualità di materie in quello contenute; ma non è a questo scopo di lettura seguìta e ordinaria che simili opere sono immaginate e dirette.
Tutti i libri che hanno la forma di un dizionario, tutti i repertorii ordinati col sistema alfabetico non ad altro mirano fuorché a soccorrere uno studioso al momento di qualche speciale occorrenza su tale o tal'altro soggetto.
E chi leggendo solamente dal principio alla fine un vocabolario di lingua si lusingasse di imparare quella lingua a quel modo, farebbe ridere sino Eraclito che in vita sua sempre pianse.
È vero che in quel vocabolario tutte si troverebbero le parole della lingua e le frasi e tutti i modi del dire; ma che perciò? tutto quello che va come per salti nella mente, e non vi si colloca con metodo, e non vi rimane a far parte di una serie d'idee, svanisce presto e si perde, seppure non fa di peggio.
La perdita di qualche notizia acquistata sarebbe un male non tanto grave: il danno più forte consiste nel disordine e nella confusione a cui si abitua la nostra mente nell'afferrare qua e là idee e sensazioni non disposte fra loro con alcuna armonia.
Una catena avrà cento anelli: se tu me li presenti tutti scomposti e isolati in un canestro, non solo io non avrò da te una catena, ma quasi neppure comprenderò a quale uso mi potrebbero quelli servire.
Uniti però essi e insieme collegati, ecco in un momento la lucida comprensione del tutto: ecco la catena: ecco quel corpo unico benché composto di cento parti, delle quali una sola che si afferri tira seco al debito uso tutte le altre compagne.
Perché, Ciro mio, i nomi o i cognomi delle persone si dimenticano così facilmente senza un lunghissimo uso di ripeterli? Perché i nomi delle persoti non hanno alcun rapporto né alcuna connessione necessaria con chi li porta; e tu invece di Belli potresti chiamarti Cambi, e saresti sempre quello stesso uomo che sei.
Il nome dunque non è sì necessariamente congiunto colla tua persona o colla tua effigie che il solo vederti debba a chi ti vede ricordare come ti chiami, quando costui non abbia col molto praticarti supplito per via di abitudine al lieve fondamento su cui appoggiano e riposano l'idea di te e l'idea del tuo nome, accidentalmente fra loro accozzate e senza (dirò così) un cemento o una colla che le unisca insieme per necessità di raziocinio.
Moltissimi uomini si lamentano della loro cattiva memoria, ma se l'avessero presto coltivata e aiutata in gioventù coll'ordine e col metodo, quante e quante cose non piangerebbero poi dimenticate!
Tu dunque leggi per ora, se vuoi, il mio libretto, ma questo sarà un solo passatempo: per rendertelo veramente utile, come qualunque altro libro composto nella forma di un dizionario, è necessario che tu vi ricorra spesso alle opportunità, le quali saranno frequenti.
P.e.
parlerai o penserai ai vantaggi recati all'uomo dalla scrittura? Corri sul libretto a cercare carta e inchiostro.
Tuttociò che allora leggerai di questi due oggetti resterà impresso nella tua mente perché anderà ad ordinarsi in una serie di idee che la mente aveva già disposta e incominciata, né così un'idea caccierà l'altra come una incognita forestiera.
Se questa mia lettera ti riuscirà, come dubito, oscura e duretta, prega il gentile Signor Rettore a spiegartela in mio nome.
- Nella mia antecedente ti dimandai se tu avessi qualche desiderio da soddisfarsi: tu non mi hai risposto.
Rispondimi dunque, ed io procurerò di appagarti.
Il giorno 12 aprile tu compirai 12 anni, cosicché quel dodici del mese sarà il più solenne di tutti gli altri dodicesimi giorni di aprile che vedrai scorrere nella tua vita.
Fa' dunque in quel giorno un forte proposito di essere un uomo virtuoso e onorato.
Io verrò a trovarti verso la fine di maggio, e allora ti porterò quello che lecitamente avrai desiderato e chiesto al tuo Papà che ti ama tanto.
La tua Mammà ti abbraccia e benedice di cuore come faccio io.
Gli amici, i parenti, i domestici e specialmente Antonia, ti salutano.
Tu riverisci da mia parte i Signori tuoi Superiori.
Se il vetturale non è tornato a prendere la cassetta, ci penserò poi io medesimo.
- Il tuo aff.mo padre.
LETTERA 242.
AL MARCHESE ANTALDO ANTALDI - PESARO
[24 maggio 1836]
Veneratissimo Signor Marchese
Per farmi più breve l'amarezza di questa lettera io Le risparmierò il racconto dei modi coi quali il Signor Marchese Ercole Suo figlio mi strascinò a spedire la citazione per scudi quaranta che in nome di mia moglie Le fu presentata il 9 febbraio pp.to, giorno di martedì e perciò postale per Pesaro.
Fu allora che, scosso il Sig.
Marchese Ercole da quell'atto della mia risoluzione, ruppe il Suo ostinato silenzio e mi scrisse una lettera con data del giorno anteriore (lunedì 8), ricevuta da me il dì 11, nella quale schivando ogni discorso intorno alla citazione venne ripetendo le solite promesse indeterminate e le consuete dimande di nuove tolleranze da aggiungersi alle vecchie così mal corrisposte.
Risposi io il 13 accusando le tante delusioni della mia buona fede e deferenza, e nulladimeno conchiudendo che avrei accordata per gli scudi quaranta una ultima dilazione sino a tutto il mese di Marzo se al cader di detto mese mi avesse pagati scudi sessanta, stanteché coincideva in quell'epoca la maturazione del terzo trimestre di frutti arretrati.
E per tutta garanzia della mia tolleranza e della sospensione degli atti non dimandai che la di lui positiva parola d'onore.
Replicò il Sig.
Marchese e mi richiese di estendere la dilazione sino allo spirar d'aprile, pel qual tempo mi assicurò del pagamento degli scudi sessanta, sulla sua positiva parola d'onore.
Ripetendo io il 23 concessi la proroga alla parola d'onore del Sig.
Marchese, purché il danaro fosse in Roma il dì 30 aprile.
E così, messi da parte gli atti giuridici, io viveva tranquillo sopra un pegno che un Cavaliere stima non solo più della roba ma anche più della vita.
Arrivato però il mese di maggio senza l'arrivo della somma promessa, mi feci lecito il giorno 7 di dirne due altre convenienti parole al Signor Marchese Ercole, aggiungendogli essere io purtuttavia convinto della superfluità della mia lettera imperocché senza dubbio a quel giorno il danaro doveva essere in viaggio.
Eppure io m'ingannava, perché il Sig.
Marchese, accusando un'assenza da Pesaro, non mi riscontrò prima del 15 per dirmi che la diligenza che passerebbe da Pesaro il sabato 21 mi avrebbe portato scudi trenta, cioè la metà, essendogli stato impossibile nel momento (sono le di lui parole) di potere accozzare l'intiero.
Se questo si chiami soddisfare ad una positiva parola d'onore io lo faccio decidere a Lei, uomo di nobil nascita e di più nobile ingegno.
Ma pure v'è di peggio, dappoiché questa mattina è arrivata la diligenza, e i ministri m'han detto nulla esservi di Pesaro per la mia famiglia.
Prima dunque di riaccingermi ad una nuova e durevole guerra, a cui sono spinto da viva forza, io ho voluto dirigere a Lei questi miei ultimi lamenti, affinché Ella, fatta consapevole dei giusti motivi della mia collera, non trovi maraviglioso il mio chiuder d'orecchi ad ogni altra futura proposizione.
Svanita una volta fra due civili persone la parola d'onore, non resta altra garanzia se non quella comune anche ai volgari, cioè la forza della giustizia.
Io mi rammarico assai, e forse più di Lei, di questa asprezza, e tanto più dopo che l'ultimo momento da me passato in Pesaro nel 1830 mi aveva inspirato lusinga che fra noi nulla più di spiacevole si eleverebbe.
Né mi dica al Sig.
Marchese Ercole essere affidata la amministrazione della famiglia.
Ella n'è il capo, ed a Lei perciò mi sono rivolto.
Ho l'onore di ripetermi, Signor Marchese,
Suo dev.
ob.mo servitore G.
G.
Belli
Palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 24 maggio 1836.
LETTERA 243.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Terni, sabato 18 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Giunto in questa Città alle 4 pomeridiane e avendo buono spazio di dimora sino alle 4 del mattino di domani, ho voluto darti un'anticipazione di mie notizie nel medesimo tempo che tu, come dicesti, mi stai dando le tue dirette a Perugia.
Alla presente tu non rispondermi fino a che non avrai avuta la mia prima perugina.
Il viaggio fin qui è stato felicissimo, e tale spero il rimanente.
Ecco la mia compagnia.
Io sono al primo posto: alla mia sinistra siede una perugina la quale tiene più al basso che all'alto se si deve arguire dallo stia comido che mi va spesso ripetendo a motivo di una figlioletta di cinque anni che dorme tutto il giorno fra noi due e ha scelto me per prestarle uficio di materasso.
Incontro alla donna si trova il tenente Frantz, il quale non pare nemico e molto meno nemico vecchio di lei.
Dirimpetto a me è un Sig.
Francesco Soncino, giovane, ed è quel tal cugino dell'Avv.
Grazioli, che doveva partir giovedì.
Avrai udito ieri il legno a retrocedere sulla nostra piazza: ebbene si tornò a prender lui a SS.
Apostoli, mentre alla prima passata di là non trovarono il palazzo.
Dietro le spalle del Soncino è un frate conventuale, e dietro quelle del tenente, cioè accanto al frate sta il sergente armato di fucile, cosicché sembriamo una carrozzata di dio-sa-chi.
Ho parlato con Vannuzzi e Babocci etc.
Tutti ti salutano.
Io aspetto buone nuove della tua salute e ti abbraccio di cuore.
Il tuo P.
P.S.
Mille cose a tutto il mondo da mia parte.
LETTERA 244.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, martedì 21 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Nel riscontrare la tua del 18 mia prima cura e principal desiderio sarebbe di occuparmi delle cose concernenti la tua salute per me preziose sopra ogni altro bene; ma poiché ti suppongo anelante di avere da me un discarico intorno allo stato in cui ho trovato Ciro, principio da questo articolo.
Essendo io giunto ieri mattina un po' troppo tardi per potermi recare a vederlo, mandai subito qualcuno ad avvertirlo del mio arrivo e ad annunziargli la mia visita pel dopo-pranzo.
Fu trovato tutto allegro e in grande occupazione per allisciarsi bene da tutte le parti onde farmi buona figura al mio giungere.
Io dunque ci andai il giorno ed entrai la porta nel medesimo punto in cui terminavano le scuole: erano 22 ore.
All'improvviso vidi da una folla di ragazzi in fondo al corridore staccarsene uno di gran carriera con tutti i libri sotto il braccio e col calamaio in mano, e gettarmisi addosso.
Indovini già chi potesse essere.
Ci abbracciammo e baciammo, e quindi subito mi dimandò: come sta Mammà? Bene mi ripugnò il cuore di dirglielo, nel momento che tu soffri tanto: mi riparai pertanto dietro uno di que' mezzi-termini che giovano al mondo, e gli risposi eh ringraziamo Iddio, nella idea che sempre ci suggeriscono i predicatori di lodare la provvidenza così del bene come del male.
Il povero figlio fu colto al cristiano lacciuolo, e rimase soddisfatto.
Salimmo quindi alle camere del Rettore parlando e di te e della nostra famiglia: ivi feci l'esposizione de' donativi de' quali rimase contentissimo, e te ne ringrazierà coll'ordinario venturo.
Voleva farlo oggi, ma io ho creduto dividerti in due volte le nostre notizie: in questo modo ti parranno doppie.
La di lui salute non può desiderarsi migliore: è veramente un ragazzo che consola a guardarlo, colorito, robusto, vivace, lietissimo.
È cresciuto colla sommità della testa al mio mento: ha fatto una mano pochissimo più piccola della mia, ma più polputa e tenera: il piede poi è da apostolo.
Ora abita una bella, spaziosa e allegra camera con due finestre verso la campagna: quella di prima era più angusta e con un solo balcone che guardava l'interno del collegio.
Il pianforte e ogni altro mobile stanno in questa nuova stanza assai ben situati, e la luce e l'aria che vi si gode han potuto anch'esse contribuire al far sì che io non abbia trovato un baiocco di debito collo speziale a conto di Ciro.
Ne vuoi di più? - Dello studio i superiori son contenti, e così dell'indole amabile del caro nostro figlio che si fa gradito a tutti.
Egli mi suonò un pezzo di musica, in cui dice avere assai faticato per la parte del basso piena di tuoni e di posizioni.
Intanto le di lui dita arrivano già all'ottava in sui tasti.
Ti dico io che poveretto chi avesse uno schiaffo da Ciro! - Le calze nere gli furono ricapitate.
- Del libro dell'adolescenza è rimasto assai contento perchè già lo aveva un di lui compagno, Mosti di Ferrara.
Il Giovedì poi gli è piaciuto a dismisura, e non l'ha nessun altro.
Egli ti abbraccia, bacia, e chiede la benedizione.
Saluta quindi Antonia, Domenico, e tutti gli amici e i parenti.
Il mio viaggio non poteva riuscire più felice se ne togliamo il pensiere della tua salute che mi segue sempre.
La notizia che mi dai del nuovo vescicante mi rattrista per una parte conoscendo il bisogno che te lo procurò; ma dall'altra mi fa crescere la speranza di udirti per esso più presto fuori di queste calamità.
Sii paziente, mia buona Mariuccia, e coopera colla tranquillità dello spirito alla guarigione del corpo.
- Non trovai Bucchi a Spoleto; ma parlai colla moglie e gli lasciai tutto.
Egli partendo il dì innanzi per urgenza di uficio l'aveva prevenuto del mio passaggio.
Io poi lo vidi la sera a Fuligno dove fece ricerche di me.
Farà tutto pulito.
La moglie è rimasta soddisfattissima dello scialle.
Addio, mia cara Mariuccia, ti abbraccio di vero cuore e sono il tuo P.
LETTERA 245.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 25 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Non credo di abbandonarmi alla lusinga se dalla lettura de' tuoi caratteri del 23 io traggo soggetto di vive speranze intorno alla prossima e stabile tua guarigione dopo tanti spasimi coi quali te la sei ricomprata e dopo tutti i sospiri che ce ne costa il ritorno.
La più breve durata degli assalti del tuo male e la loro tanto minore intensità, andando di pari passo col rimarginamento delle piaghette del capo, mi sembrano dover annunziare una generale e assoluta cedenza di tutto il complessivo disordine in cui la tua salute era caduta.
Il tardo momento però, cioè l'epoca della stanchezza del morbo, nel quale io suggerii l'applicazione della nota erba, non può farmi troppo insuperbire sulle vere cagioni del tuo miglioramento circa alla supurazione che volevamo arrestare.
Nulladimeno, se di qualche giorno o di qualche ora avesse quel rimedio per avventura contribuito all'acceleramento del desiderato beneficio, sarebbe sempre questo per me un motivo di viva consolazione, ed anzi io voglio perfino illudermi sulla positiva efficacia della mia ricetta onde accarezzarmi una vanità in armonia colla mia affezione per te.
Lo capisco, il primo merito della tua guarigione, che io già vagheggio assicurata, si deve attribuire alla cura de' tuoi professori; ma pure mi piace di crearmi un orgoglio simile a quello della mosca che arava sulle corna del bue.
Troppo è stato il piacere causatomi dalla tua lettera perché io ti rimproveri l'infrazione del precetto che ti avevo dato di non iscrivermi di tuo pugno.
Ti ringrazio quindi della tua premura in mancanza di segretarii: potevi però esser persuasa che non mi sarebbe sfuggita la considerazione dell'angustia del tempo nell'ordinario di giovedì, tantoché il non aver visto oggi le tue lettere non mi avrebbe messo in pena, per la facilità dell'attribuire questa mancanza al suo vero motivo.
- Il nostro caro figlio sta sempre come un fiore, ed a quest'ora avrai avuto la di lui lettera di giovedì 23.
Nel dopo-pranzo di detto giorno egli stette sempre con me.
Gli ho questa mattina per mezzo del maestro di musica mandati i tuoi saluti, e dimani (domenica) andrò io medesimo a trovarlo e lo abbraccerò e benedirò in tuo nome.
Col Sig.
Bianchi, il quale mi aveva raccomandato Regaldi, ho fatto molte risate sulla maniera di agire di costui.
Bianchi me lo diresse, assediato dalle di lui premure onde venir raccomandato a qualcuno.
- Insomma ha fatto quattrini: ecco per lui l'interessante.
Ora non avrà da far altro che lasciar Roma e trinciarle i panni addosso, parendogli forse di aver guadagnato poco.
Qui fa caldo: figurati a Roma!
Di' a Biagini, se lo vedi, che sto aspettando qualche occasione per mandargli il cerotto da Frontini.
Salutami lui e tutti gli amici, e i domestici, e chi chiede di me.
Abbiti cura scrupolosa, e ricevi mille abbracci dal tuo aff.mo P.
LETTERA 246.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, 30 giugno 1836
Mia cara Mariuccia
Malgrado il licenziamento dei professori e la guarigione esteriore della testa, sento purtuttavia con rammarico non essere tu ancora esente dal male primitivo, le cui reliquie ti affliggono ancora e ti tormentano di tempo in tempo.
È un gran destino! Né potendo tu ancora occuparti in nulla, perché Mariuccia mia cara non mi mantieni la promessa già fattami, di scrivermi cioè per altrui mano? A buon conto la tua del 28 l'hai dovuta vergare in due tempi.
Dio lo sa se il vedere il tuo carattere mi consola, ma questo mio piacere è distrutto dall'idea del danno che può arrecarti lo scrivere.
Comprendo che il secco modo che tien Ciro nel suo carteggio può amareggiare una madre amorosa quale tu sei: ti assicuro però, mia cara Mariuccia, che nostro figlio sente ben più di quello che esprime: egli mi chiede sempre di te con molta premura e si mostra gratissimo alle molte prove del tuo amore.
Non affliggerti pertanto di questa apparente tiepidezza: egli ti ama assai e conosce a fondo quanto ti deve: prova di che ti sia l'ardente desiderio ch'egli avrebbe di rivederti durante il suo corso di studi.
Che vuoi fare, Mariuccia mia? È un ragazzo, ed i ragazzi come anche moltissimi adulti quando sono a spiegare colla penna i loro sentimenti non sanno da che parte principiare né cosa dire.
Credimi, il di lui cuore è buono ed affezionato, ma, fintantoché non ristarà in mezzo a noi, difficilmente ne potremo ben conoscere e valutare le affezioni.
Quando questa mattina l'ho rimproverato della di lui freddezza e brevità soverchia della di lui lettera a te, ha fatto gli occhi rossi e mi ha pregato a chiederti scusa in suo nome.
Perdonalo, Mariuccia mia, ed assicurati che Ciro è e sarà un buon figlio.
Il carattere poi più o meno carezzevole dipende dalla natura, né egli n'ha colpa.
- Spero sabato 2 di potere per mezzo di un impiegato di questa posta mandare franco per via della diligenza, o diretto a Parlanti o non so ancora a chi altri, il pacchettino di cerotto per Biagini con sopraccarta al tuo nome e al tuo indirizzo.
Quando lo avrai avuto lo darai a Biagini, vedendolo.
Il prezzo è di bai: 35 che ritirerai o no come più crederai bene.
- Cercherò la cunzia per Rotondi.
- Dimmi quanti mazzi di carte da giuoco vorresti.
- Mi scrive Babucci dicendomi di non averti direttamente ringraziata della procura Olivieri contro Camilli, perché sapendoti inferma ha temuto incomodarti.
Si esprime però verso di te con sensi di estrema gratitudine.
Molte cose mi dice su codesto affare che io non conosco, e credo che ne avrà tenuto diretto proposito con chi di ragione.
- Circa al terreno Marotta ne parleremo al mio ritorno.
Un certo Piacentini ne aveva avanzato qualche parola di compera, ma i di lui affari col fallito Camilli lo hanno per ora fatto desistere da questa intenzione.
In tutti i modi il terreno non resterá abbandonato.
Insomma, ne parleremo.
- Intorno al 15 luglio il Professor Colizzi verrà a Roma, e pensiamo, potendoci combinare, di venire insieme.
Basta, o che egli acceleri o che ritardi la di lui venuta, egli porterà a Roma la cassetta di Ciro, la quale gli ho progettata per un certo di lui trasporto di libri, mentre il sesto ed ultimo tomo della sua opera è finito.
- Ti dico intanto una cosa in segreto: egli mi ha dimandato se io conoscessi qualche prete abile per l'impiego di Vice-Rettore che va a stabilirsi in collegio.
Io gli ho nominato l'Abate Fidanza.
Al mio ritorno li faremo abboccare insieme perché Colizzi prima di tenergliene proposito lo vorrebbe vedere e parlarci.
Se tu credessi intanto di scandagliare il di lui animo, fallo pure, purché però l'Abate Fidanza non si mostrasse inteso della cosa avanti a Colizzi.
- Oggi porterò Ciro con me.
Rendi i miei saluti a tutti, e credimi qual sono di tutto e vero cuore
Il tuo aff.mo P.
P.S.
La povera Nanna Cerotti sarà venuta da noi, eh?
LETTERA 247.
A MARIA CONTI BELLI - ROMA
Di Perugia, sabato 9 luglio 1836
Mia cara Mariuccia
In questo ordinario non ho trovato alla posta tue lettere, segno che mi hai compiaciuto nel non prenderti la scalmatura di rispondermi giovedì.
Spero però di avere tuo riscontro col corriere presente per avvisarti che la mia partenza di qui accadrà (salvo impiccio) nel giorno del prossimo martedì 12.
Il vetturino col quale ho già pattuito non sa ancora dirmi se potrà partire la mattina o il giorno, né se impiegherà in viaggio tre giornate o tre giornate e mezza.
Per entrambe le dette due varietà di movimento io non posso precisarti se il mio arrivo accadrà nella sera di giovedì 14 ovvero nella mattinata o nella sera del seguente venerdì.
Fra questi due estremi però io dovrei essere a Roma, ove non si dasse qualche ostacolo impreveduto, potendosene frapporre al mondo tanti da non mettere in alcuna pena.
Per Ciro ho fatto tutto, lo lascio in floridissimo stato, avrò al momento del mio partire passato ventitrè giorni presso di lui: è dunque ormai tempo che ritorni vicino a te, dove potrò forse essere un poco più utile che qui.
L'altro ieri condussi Ciro a spasso con me e a prendere il gelato.
Ordinai anche qualche pastarella: il caffettiere ne portò alcune di varie specie: Ciro ne mangiò un paio, e poi disse esser meglio che il resto se lo mettesse in saccoccia per avvezzarsi a mangiar tutto, non potendosi mai sapere gli eventi del mondo.
Così scherzò con molta grazia su quel tutto, sul doppio senso di qualità e di quantità.
È un gran furbaccio: di poche parole, ma pesate.
- Jeri verso sera lo trovai al passeggio, e mi fece una bella scappellatona guardandomi con quegli occhi di fuoco.
Questa mattina l'ho riveduto al collegio, dove sono andato affinché il Rettore mi mostrasse gli altri romani.
Con Ciro erano sette, cioè, tre Sartori, un Caramelli, un Grazioli e un Fiorelli; e tutti in eccellente salute.
Credo che tutti mi daranno qualche lettera per le loro famiglie.
Domani tornerò in collegio, e poi anche lunedì.
Intanto prenditi tanti abbracci e baci di Ciro nostro che ti chiede la benedizione e ti prega de' soliti saluti.
A quest'ora avrai veduto Publio Jacoucci colla mia lettera e coll'involtino pel nostro Biagini.
Se questi verrà da te mercoledì a sera salutamelo e digli che Ferretti si penti del primo elogio fatto a Regaldi, e poi gliene fece un secondo nello Spigolatore (insulso e scorretto) del '30.
Questa notte parte il Delegato che va pro-legato a Ferrara.
Mi pare che la di lui partenza accada tota plaudente civitate.
Tu, figlia di Curia, devi comprender questa latino: se no, chiama aiuto nella curia domestica.
- Abbiamo a Perugia caldo e qualche tropea periodica.
In questo punto io scrivo fra i tuoni.
Ti dico all'orecchio che Colizzi ha dimandate informazioni dell'Ab.
Fidanza, e le ha avute ottime.
Egli però ha degli impegni con altri soggetti.
Basta, se al Fidanza converrà questo uficio, speriamo di superarli.
Bisogna però non mostrare che io ti abbia fatte queste confidenze anticipate.
Salutami tutti, Mariuccia mia, ed abbiti un abbraccio di vero cuore dal
tuo aff.mo P.
LETTERA 248.
A FRANCESCO MARIA TORRICELLI - FOSSOMBRONE
Di Roma, 8 settembre 1836
Perché il Panzieri avesse copia della tua inscrizione era necessario che tu mi dicessi: danne una copia a Panzieri.
Ma tu non mi scrivesti mai quel comando, e posso affermarlo con sicurezza perché tengo attualmente la tua nota sott'occhio.
Se ora dunque hai tu detto a qualcuno: ne incaricai Belli, sostituisci a queste parole le altre: voleva incaricarne Belli; e così mi salverai dal nome di stordito presso il volgo ignaro.
Faremo una cosa: ho ancora la copia che non potei dare al Duca [...].
Manderò quella al Panzieri, e sarai certo che almeno non servirà ad uso di cartoccio per dolci o per fondo a un baule.
Il Cholera fa pensare ogni padre.
Se mai...
dà un occhio al tuo figlioccio.
Tu lo vedi, io ti rimando la tua stessa preghiera che non cadrà come seme in arena.
- Egli, cioè Ciro, ha ottenuto il primo premio in algebra e il secondo in umanità.
A novembre s'inoltrerà più nelle matematiche e nello studio dei classici.
È un buon ragazzo, quieto, cortese, diligente, ma insieme vivace come vuole età e robusta complessione.
Tu rifletterai che vivace e quieto fanno a calci.
No, ha quieto lo spirito e vivace il corpo, o, se vuoi meglio, la quiete e la vivacità regnano in lui come in Cielo Castore e Polluce: ognuna sorge alla sua ora.
I Superiori lo amano, ed io...
se dicessi lo adoro toglierei temerariamente alla religione una frase che neppure starebbe al concetto.
Vorrei inventare un verbo nuovo per condensare in una parola l'espressione di quanto io sento per lui.
Figurati se il cholera verrà, come verrà!...
Te lo ripeto: al caso...
dà un occhio al tuo figlioccio.
Tanto io rispondo alla tua lettera del 30 agosto, che non riscontrai prima d'oggi per un forte motivo.
Da molti giorni mia moglie è ricaduta nel medesimo male, che già non era mai totalmente cessato, e soffre più di prima.
Io non ho un momento di tempo né un filo di cervello, e la mia casa è l'albergo della tristezza.
Se tu mai capiti a Fano, o vi capita qualche tuo amico, dì o fa' dir da mia parte al Prof.
D.
Michelangiolo Lanci che io ho spesso dimandato sue nuove a chi poteva darmene, e così della Sig.ra Vittorina di lui nipote.
Digli o fagli dire ancora essere finalmente pubblicato il 3° volume del Mezzanotte, il quale per averlo ha dovuto litigare collo stampatore, e forse gli sarà necessario di assumere un altro pe' volumi futuri.
Il Conte Cassi terminò finalmente la sua impressione della Farsaglia italiana.
Egli mi fece cortese dono di un esemplare a mia scelta.
Io scelsi la carta velina bianca.
Non ho ancora ricevuto il 6° fascicolo, ma non dubito di esser da lui dimenticato nelle spedizioni che ne farà.
Abbraccia i tuoi figli a mio conto, non esclusa l'Adelina la cui età soffre ancora questo atto di confidenza dal di lei suocero e tuo amico vero
G.
G.
Belli
LETTERA 249.
AL CONTE FRANCESCO CASSI - PESARO
[24 settembre 1836]
Pregiatissimo amico
Per graziosa disposizione della Vostra cortesia mi ha il Sig.
Biolchini rimesso il sesto ed ultimo fascicolo della Farsaglia fatta da Voi pomposa di splendida veste italiana.
Mentre per tutto il caro dono io mi affretto a significarvi la mia gratitudine, non so al tempo stesso tacervi d'esser rimasto attonito nel trovare il mio nome fra quelli i quali, chiari la massima parte di propria luce, sono da Voi destinati all'immortalità sì nelle vostre carte come nel marmo che per quelle sorgerà ad onore della italiana sapienza.
Se peraltro io ve ne movessi querela offenderei certamente il pensier vostro delicato e vi darei forse sospetto di poca veracità, incredibil parendo che senza eroica virtù l'umano amor proprio sinceramente si sdegni di gloria meritata o non meritata, checché poi suoni in parole la modestia convenzionale e fattizia della social civiltà.
Vorrei soltanto farvi riflettere, dove non vi apparissi anche in ciò troppo ipocrita, che la prerogativa di amico Vostro, di cui senza dubbio io vado orgoglioso, potrebbe agli illustri de' quali mi faceste compagno sembrare al più un titolo di domestica benevolenza anziché un dritto a pubblica testimonianza, postoché in me colle doti del cuore, non discare forse a qualche mio contemporaneo, non si accoppiano i requisiti della mente necessarii a figurare fra i posteri in compagnia d'ingegni assai più distinti.
E non sarebbe forse probabile che la generosità dell'amicizia vi avesse fatto illusione sino a cangiar natura e quantità al nulla o al pochissimo da me operato in servizio della vostra nobile impresa? Ma basti, ché lo temo non il linguaggio della verecondia avesse infine a condurmi alle frasi della inurbanità.
A voi piacque associare le mie felci a' vostri lauri (perdonatemi questo marinesco seicentume), ed io in tutti i modi vi ho un debito di gratitudine se non altro per la uficiosa intenzione.
Or che posseggo intiera la vostra versione prenderò a leggerla ordinatamente, onde gustarne le bellezze al loro posto, cosa sino ad ora da me non eseguita, poiché troppo riuscendomi grave il dovere interrompere per lungo tempo una interessante lettura, e avendo pur voluto in qualche modo appagare la mia brama di conoscere il vostro lavoro, sono andato tratto tratto scorrendo alcune parti, provviste tutte dei lor pregi speciali ma prive di quello reciproco della continuità e proporzione.
Un'altra cosa io vi vuo' dire.
Voi avete promesso a' vostri associati il dono di un foglio di varianti.
Io non sono associato, ma spero che il dono maggiore attrarrà a mio vantaggio il minore, verificandosi anche in questo caso per vostra liberalità uno degli assiomi i più divolgati.
E se non mi credessi di soverchio ardito vi pregherei pure favorirmi di quel tale commiato alla vostra traduzione, già son circa due anni dato da Voi in luce, parendomi ricordarlo diverso dalla licenza con la quale chiudeste in oggi il volgarizzamento.
- Sono con sincera stima ed affezione
Il Vostro amico e servitore Giuseppe Gioachino Belli
palazzo Poli, 2° piano
Di Roma, 24 settembre 1836.
LETTERA 250.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 19 novembre 1836
Ciro mio
Non ho voluto che il Signor Biscontini partisse per Perugia senza recarti una mia lettera.
Spero che l'obligante pensiere del Signor Presidente nel destinarti una ripetizione particolare nell'algebra ti sia riuscito piacevole e consolante.
Ciò ti rafforzerà non poco nella scienza del calcolo, necessarissimo a chi desideri bene avanzarsi e profittare nelle scienze, dalle quali tanto conforto deriva e tanta dignità a chi le coltiva.
Te lo ripeto, mio caro figlio, e tu vedrai verificate le mie parole: questo è l'anno che principierà a scoprirti le dolcezze che sinora ti sono rimaste nello studio nascoste.
La geometria e poi la fisica cominceranno ad aprirti la mente a sublimi verità celate a tanti e tanti uomini, benché la maggior parte dei fenomeni che ad esse si appoggiano vada tuttogiorno cadendo loro sott'occhio.
E altrettanto dico della letteratura.
Le bellezze dei classici non potranno mancare di scuoterti l'anima, imperocché io mi lusingo che a te non manchi una spirito capace di sentire e di sollevarsi a poco a poco dalle scipitaggini della fanciullezza, la quale senza lo studio e perciò senza il sapore rimane in molti uomini eterna, cosicché essi passano dalla puerilità alla vecchiezza possiamo dire di un salto, stranieri quasi al mondo in cui vivono.
Sappi, Ciro mio, che appena tu nascesti io dissi a tua madre: questo figlio un giorno formerà la gloria della nostra vita e l'onore della casa nostra; e tanto io dissi perché era sicuro che dandomi Iddio i mezzi non avrei nulla trascurato per indirizzarti al bene.
Tu devi adesso corrispondere alle mie intenzioni e a quelle analoghe di tua madre, non che alle cure amorose e veramente paterne di chi veglia alla tua istruzione.
Io non credo né pretendo che tu abbia a far prodigi: a questi son riserbati gl'ingegni straordinarii; ma perché Iddio non ti ha neppure negato un mediocre talento, trafficalo, Ciro mio, onde un giorno non ti sia diretto il rimprovero del Vangelo al Serve nequam.
Me n'esco in qualche paroletta latina perché so che a quest'ora tu la debba intendere.
Dunque il Sig.
Rettore ti assisterà privatamente in algebra.
Corrispondi, Ciro mio, con diligenza e gratitudine alle di lui premure, e fammelo udire contento di te.
Mammà ti abbraccia e benedice come faccio ancor io.
I parenti, amici e domestici ti salutano.
Antonia vorrebbe sapere se tu hai bisogno di camicie, calze o altro.
Chiedine al Sig.
Felicetti e rispondimi su questo proposito, affinché si possa principiare a tempo il lavoro delle cose necessarie.
Riverisci i tuoi Sig.ri Superiori, e credimi
tuo aff.mo padre
LETTERA 251.
AL SIGNOR NATALE DE WITTEN - ROMA
nel di Lui giorno onomastico 25 dicembre 1886
Quando, Signor Devittene mio bello,
Nella Santa mattina di Natale
Sente romor di passi per le scale
E poscia tintinnare il campanello,
Dica pure: ho capito, è il servigiale
Col solito rimato indovinello
Che mi manda quel màghero cervello,
Quel moccicon del mio compigionale.
Ella però, Signor Natal, sa come
Io mi chiami Giuseppe, e qual contatto
Sia fra il suo ne' Vangeli ed il mio nome.
Lascio dunque che il padre putativo
Si rallegri in Natal, benché in quel fatto
Non ebbe uficio totalmente attivo.
G.
G.
Belli
LETTERA 252.
A CIRO BELLI - PERUGIA
Di Roma, 30 gennaio 1837
Mio caro figlio
Dalla tua lettera del 26 rilevo il gradimento col quale ricevesti i regaletti che il Sig.
Vetturale volle portarti a comodo suo.
Circa ai risultamenti degli esami di prima letteratura, non che ai successi nella stessa facoltà in tutto il trimestre, non vi è stato male: nella geometria però mi pare che si sia zoppicato.
Io so che buona parte della mediocre riuscita negli studi un po' gravi dipende in te da mancanza di sufficiente attenzione.
Tu sei troppo sbadato, ti abbandoni spesso più del dovere e ti distacchi con pena dai passatempi, dai quali Ciro mio, non ricaverai null'altro fuorché pentimento del tempo perduto.
I sollazzi son fatti unicamente per ristorare le forze dello spirito affaticato, e in questo senso anch'essi presentano la loro utilità anche all'ingegno come alla salute del corpo: ma se un infermo volesse prendere due o tre dosi di medicina tutte in un colpo, o accelerare troppo i periodi nell'uso di esse, in luogo di guarire ne morrebbe.
Sii riflessivo, Ciro mio caro, pènetrati de' tuoi doveri, persuaditi del fine a cui son dirette le occupazioni di un giovanetto bennato, e pensa che gli anni passano e non si ricuperano mai più.
In ogni tua lettera (sul fatto degli esami) ho sempre letta questa espressione: speriamo che nel futuro trimestre andrà meglio; ma vorrei che questo benedetto meglio arrivasse veramente una volta.
Se tu non fossi in realtà capace di far più, ti compatirei e prenderei da te quello che si potesse: ma tu l'ingegno lo hai, quando vuoi servirtene: tutto il tuo difetto, e in tutte le cose, consiste in una soverchia leggerezza di carattere che ti rende indifferente quanto merita di venir gravemente considerato.
Ciro, oggimai non sei più un bambino, e fra sei o sette anni (che formano la metà della tua vita già scorsa) il Mondo può già pretendere da te qualche cosa, e chiederti conto del tempo impiegato e dei mezzi consumati per divenire degno dell'altrui stima.
E bada, Ciro, bada, che gli uomini giudicano se stessi con indulgenza ma gli altri con severità.
Se io vivrò nell'epoca della tua gioventù e della tua virilità, sono sicuro di udire da te la confessione delle verità solenni che ti vado ora prodigando con poco frutto e forse con minor tua persuasione.
Avresti un gran torto se non prestassi fede a tuo padre, a un padre che tanto ti ama e rinuncerebbe di buon grado alla propria felicità per la tua, quando lo stesso tuo bene non formasse tutto intiero il suo contento.
Credimi dunque, figlio mio, e abbandona le tue puerilità.
Studia con senno, ed applica di buona fede a quello che fai.
Un altro argomento voglio addurti per ultimo.
Tua madre ti promette di venire a visitarti se riceverà migliori notizie intorno alle tue applicazioni.
Ascolta finalmente i consigli de' buoni tuoi Sup
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