LA LOCANDIERA, di Carlo Goldoni - pagina 6
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.) (Da sé; va a prendere la sedia.)
MIRANDOLINA: Se lo sapessero il signor Conte ed il signor Marchese, povera me!
CAVALIERE: Perché?
MIRANDOLINA: Cento volte mi hanno voluto obbligare a bere qualche cosa, o a mangiare, e non ho mai voluto farlo.
CAVALIERE: Via, accomodatevi.
MIRANDOLINA: Per obbedirla.
(Siede, e fa la zuppa nel vino.)
CAVALIERE: Senti.
(Al Servitore, piano.) (Non lo dire a nessuno, che la padrona sia stata a sedere alla mia tavola).
SERVITORE: (Non dubiti).
(Piano.) (Questa novità mi sorprende).
(Da sé.)
MIRANDOLINA: Alla salute di tutto quello che dà piacere al signor Cavaliere.
CAVALIERE: Vi ringrazio, padroncina garbata.
MIRANDOLINA: Di questo brindisi alle donne non ne tocca.
CAVALIERE: No? Perché?
MIRANDOLINA: Perché so che le donne non le può vedere.
CAVALIERE: È vero, non le ho mai potute vedere.
MIRANDOLINA: Si conservi sempre così.
CAVALIERE: Non vorrei...
(Si guarda dal Servitore.)
MIRANDOLINA: Che cosa, signore?
CAVALIERE: Sentite.
(Le parla nell'orecchio.) (Non vorrei che voi mi faceste mutar natura).
MIRANDOLINA: Io, signore? Come?
CAVALIERE: Va via.
(Al Servitore.)
SERVITORE: Comanda in tavola?
CAVALIERE: Fammi cucinare due uova, e quando son cotte, portale.
SERVITORE: Coma le comanda le uova?
CAVALIERE: Come vuoi, spicciati.
SERVITORE: Ho inteso.
(Il padrone si va riscaldando).
(Da sé, parte.)
CAVALIERE: Mirandolina, voi siete una garbata giovine.
MIRANDOLINA: Oh signore, mi burla
CAVALIERE: Sentite.
Voglio dirvi una cosa vera, verissima, che ritornerà in vostra gloria.
MIRANDOLINA: La sentirò volentieri.
CAVALIERE: Voi siete la prima donna di questo mondo, con cui ho avuto la sofferenza di trattar con piacere.
MIRANDOLINA: Le dirò, signor Cavaliere: non già ch'io meriti niente, ma alle volte si danno questi sangui che s'incontrano.
Questa simpatia, questo genio, si dà anche fra persone che non si conoscono.
Anch'io provo per lei quello che non ho sentito per alcun altro.
CAVALIERE: Ho paura che voi mi vogliate far perdere la mia quiete.
MIRANDOLINA: Oh via, signor Cavaliere, se è un uomo savio, operi da suo pari.
Non dia nelle debolezze degli altri.
In verità, se me n'accorgo, qui non ci vengo più.
Anch'io mi sento un non so che di dentro, che non ho più sentito; ma non voglio impazzire per uomini, e molto meno per uno che ha in odio le donne; e che forse forse per provarmi, e poi burlarsi di me, viene ora con un discorso nuovo a tentarmi.
Signor Cavaliere, mi favorisca un altro poco di Borgogna.
CAVALIERE: Eh! Basta...
(Versa il vino in un bicchiere.)
MIRANDOLINA: (Sta lì lì per cadere).
(Da sé.)
CAVALIERE: Tenete.
(Le dà il bicchiere col vino.)
MIRANDOLINA: Obbligatissima.
Ma ella non beve?
CAVALIERE: Sì, beverò.
(Sarebbe meglio che io mi ubbriacassi.
Un diavolo scaccerebbe l'altro).
(Da sé, versa il vino nel suo bicchiere.)
MIRANDOLINA: Signor Cavaliere.
(Con vezzo.)
CAVALIERE: Che c'è?
MIRANDOLINA: Tocchi.
(Gli fa toccare il bicchiere col suo.) Che vivano i buoni amici.
CAVALIERE: Che vivano.
(Un poco languente.)
MIRANDOLINA: Viva...
chi si vuol bene...
senza malizia tocchi!
CAVALIERE: Evviva...
SCENA QUINTA
Il Marchese e detti.
MARCHESE: Son qui ancor io.
E che viva?
CAVALIERE: Come, signor Marchese? (Alterato.)
MARCHESE: Compatite, amico.
Ho chiamato.
Non c'è nessuno.
MIRANDOLINA: Con sua licenza...
(Vuol andar via.)
CAVALIERE: Fermatevi.
(A Mirandolina.) Io non mi prendo con voi cotanta libertà.
(Al Marchese.)
MARCHESE: Vi domando scusa.
Siamo amici.
Credeva che foste solo.
Mi rallegro vedervi accanto alla nostra adorabile padroncina.
Ah! Che dite? Non è un capo d'opera?
MIRANDOLINA: Signore, io ero qui per servire il signor Cavaliere.
Mi è venuto un poco di male, ed egli mi ha soccorso con un bicchierin di Borgogna.
MARCHESE: È Borgogna quello? (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Sì, è Borgogna.
MARCHESE: Ma di quel vero?
CAVALIERE: Almeno l'ho pagato per tale.
MARCHESE: Io me n'intendo.
Lasciate che lo senta, e vi saprò dire se è, o se non è.
CAVALIERE: Ehi! (Chiama.)
SCENA SESTA
Il Servitore colle ova, e detti.
CAVALIERE: Un bicchierino al Marchese.
(Al Servitore.)
MARCHESE: Non tanto piccolo il bicchierino.
Il Borgogna non è liquore.
Per giudicarne bisogna beverne a sufficienza.
SERVITORE: Ecco le ova.
(Vuol metterle in tavola.)
CAVALIERE: Non voglio altro.
MARCHESE: Che vivanda è quella?
CAVALIERE: Ova.
MARCHESE: Non mi piacciono.
(Il Servitore le porta via.)
MIRANDOLINA: Signor Marchese, con licenza del signor Cavaliere, senta quell'intingoletto fatto colle mie mani.
MARCHESE: Oh sì.
Ehi.
Una sedia.
(Il Servitore gli reca una sedia e mette il bicchiere sulla sottocoppa.) Una forchetta.
CAVALIERE: Via, recagli una posata.
(Il Servitore la va a prendere.)
MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, ora sto meglio.
Me n'anderò.
(S'alza.)
MARCHESE: Fatemi il piacere, restate ancora un poco.
MIRANDOLINA: Ma signore, ho da attendere a' fatti miei; e poi il signor Cavaliere...
MARCHESE: Vi contentate ch'ella resti ancora un poco? (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Che volete da lei?
MARCHESE: Voglio farvi sentire un bicchierino di vin di Cipro che, da che siete al mondo, non avrete sentito il compagno.
E ho piacere che Mirandolina lo senta, e dica il suo parere.
CAVALIERE: Via, per compiacere il signor Marchese, restate.
(A Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Il signor Marchese mi dispenserà.
MARCHESE: Non volete sentirlo?
MIRANDOLINA: Un'altra volta, Eccellenza.
CAVALIERE: Via, restate.
MIRANDOLINA: Me lo comanda? (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Vi dico che restiate.
MIRANDOLINA: Obbedisco.
(Siede.)
CAVALIERE: (Mi obbliga sempre più).
(Da sé.)
MARCHESE: Oh che roba! Oh che intingolo! Oh che odore! Oh che sapore! (Mangiando.)
CAVALIERE: (Il Marchese avrà gelosia, che siate vicina a me).
(Piano a Mirandolina.)
MIRANDOLINA: (Non m'importa di lui né poco, né molto).
(Piano al Cavaliere.)
CAVALIERE: (Siete anche voi nemica degli uomini?).
(Piano a Mirandolina.)
MIRANDOLINA: (Come ella lo è delle donne).
(Come sopra.)
CAVALIERE: (Queste mie nemiche si vanno vendicando di me).
(Come sopra.)
MIRANDOLINA: (Come, signore?).
(Come sopra.)
CAVALIERE: (Eh! furba! Voi vedrete benissimo...).
(Come sopra.)
MARCHESE: Amico, alla vostra salute.
(Beve il vino di Borgogna.)
CAVALIERE: Ebbene? Come vi pare?
MARCHESE: Con vostra buona grazia, non val niente.
Sentite il mio vin di Cipro.
CAVALIERE: Ma dov'è questo vino di Cipro?
MARCHESE: L'ho qui, l'ho portato con me, voglio che ce lo godiamo: ma! è di quello.
Eccolo.
(Tira fuori una bottiglia assai piccola.)
MIRANDOLINA: Per quel che vedo, signor Marchese, non vuole che il suo vino ci vada alla testa.
MARCHESE: Questo? Si beve a gocce, come lo spirito di melissa.
Ehi? Li bicchierini.
(Apre la bottiglia.)
SERVITORE (porta de' bicchierini da vino di Cipro.)
MARCHESE: Eh, son troppo grandi.
Non ne avete di più piccoli? (Copre la bottiglia colla mano.)
CAVALIERE: Porta quei da rosolio.
(Al Servitore.)
MIRANDOLINA: Io credo che basterebbe odorarlo.
MARCHESE: Uh caro! Ha un odor che consola.
(Lo annusa.)
SERVITORE (porta tre bicchierini sulla sottocoppa.)
MARCHESE (versa pian piano, e non empie li bicchierini, poi lo dispensa al Cavaliere, a Mirandolina, e l'altro per sé, turando bene la bottiglia): Che nettare! Che ambrosia! Che manna distillata! (Bevendo.)
CAVALIERE: (Che vi pare di questa porcheria?).
(A Mirandolina, piano.)
MIRANDOLINA: (Lavature di fiaschi).
(Al Cavaliere, piano.)
MARCHESE: Ah! Che dite? (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Buono, prezioso.
MARCHESE: Ah! Mirandolina, vi piace?
MIRANDOLINA: Per me, signore, non posso dissimulare; non mi piace, lo trovo cattivo, e non posso dir che sia buono.
Lodo chi sa fingere.
Ma chi sa fingere in una cosa, saprà fingere nell'altre ancora.
CAVALIERE: (Costei mi dà un rimprovero; non capisco il perché).
(Da sé.)
MARCHESE: Mirandolina, voi di questa sorta di vini non ve ne intendete.
Vi compatisco.
Veramente il fazzoletto che vi ho donato, l'avete conosciuto e vi è piaciuto, ma il vin di Cipro non lo conoscete.
(Finisce di bere.)
MIRANDOLINA: (Sente come si vanta?).
(Al Cavaliere, piano.)
CAVALIERE: (Io non farei così).
(A Mirandolina, piano.)
MIRANDOLINA: (Il di lei vanto sta nel disprezzare le donne).
(Come sopra.)
CAVALIERE: (E il vostro nel vincere tutti gli uomini).
(Come sopra.)
MIRANDOLINA: (Tutti no).
(Con vezzo, al Cavaliere, piano.)
CAVALIERE: (Tutti sì.) (Con qualche passione, piano a Mirandolina.)
MARCHESE: Ehi? Tre bicchierini politi.
(Al Servitore, il quale glieli porta sopra una sottocoppa.)
MIRANDOLINA: Per me non ne voglio più.
MARCHESE: No, no, non dubitate: non faccio per voi.
(Mette del vino di Cipro nei tre bicchieri.) Galantuomo, con licenza del vostro padrone, andate dal Conte d'Albafiorita, e ditegli per parte mia, forte, che tutti sentano, che lo prego di assaggiare un poco del mio vino di Cipro.
SERVITORE: Sarà servito.
(Questo non li ubbriaca certo.
(Da sé; parte.)
CAVALIERE: Marchese, voi siete assai generoso.
MARCHESE: Io? Domandatelo a Mirandolina.
MIRANDOLINA: Oh certamente!
MARCHESE: L'ha veduto il fazzoletto il Cavaliere? (A Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Non lo ha ancora veduto.
MARCHESE: Lo vedrete.
(Al Cavaliere.) Questo poco di balsamo me lo salvo per questa sera.
(Ripone la bottiglia con un dito di vino avanzato.)
MIRANDOLINA: Badi che non gli faccia male, signor Marchese.
MARCHESE: Eh! Sapete che cosa mi fa male? (A Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Che cosa?
MARCHESE: I vostri begli ochhi.
MIRANDOLINA: Davvero?
MARCHESE: Cavaliere mio, io sono innamorato di costei perdutamente.
CAVALIERE: Me ne dispiace.
MARCHESE: Voi non avete mai provato amore per le donne.
Oh, se lo provaste, compatireste ancora me.
CAVALIERE: Sì, vi compatisco.
MARCHESE: E son geloso come una bestia.
La lascio stare vicino a voi, perché so chi siete; per altro non lo soffrirei per centomila doppie.
CAVALIERE: (Costui principia a seccarmi).
(Da sé.)
SCENA SETTIMA
Il Servitore con una bottiglia sulla sottocoppa, e detti.
SERVITORE: Il signor Conte ringrazia V.E., e manda una bottiglia di vino di Canarie.
(Al Marchese.)
MARCHESE: Oh, oh, vorrà mettere il suo vin di Canarie col mio vino di Cipro? Lascia vedere.
Povero pazzo! È una porcheria, lo conosco all'odore.
(S'alza e tiene la bottiglia in mano.)
CAVALIERE: Assaggiatelo prima.
(Al Marchese.)
MARCHESE: Non voglio assaggiar niente.
Questa è una impertinenza che mi fa il Conte, compagna di tante altre.
Vuol sempre starmi al di sopra.
Vuol soverchiarmi, vuol provocarmi, per farmi far delle bestialità.
Ma giuro al cielo, ne farò una che varrà per cento.
Mirandolina, se non lo cacciate via, nasceranno delle cose grandi, sì, nasceranno delle cose grandi.
Colui è un temerario.
Io son chi sono, e non voglio soffrire simile affronti.
(Parte, e porta via la bottiglia.)
SCENA OTTAVA
Il Cavaliere, Mirandolina ed il Servitore.
CAVALIERE: Il povero Marchese è pazzo.
MIRANDOLINA: Se a caso mai la bile gli facesse male, ha portato via la bottiglia per ristorarsi.
CAVALIERE: È pazzo, vi dico.
E voi lo avete fatto impazzire.
MIRANDOLINA: Sono di quelle che fanno impazzare gli uomini?
CAVALIERE: Sì, voi siete...
(Con affanno.)
MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, con sua licenza.
(S'alza.)
CAVALIERE: Fermatevi.
MIRANDOLINA: Perdoni; io non faccio impazzare nessuno.
(Andando.)
CAVALIERE: Ascoltatemi.
(S'alza, ma resta alla tavola.)
MIRANDOLINA: Scusi.
(Andando.)
CAVALIERE: Fermatevi, vi dico.
(Con imperio.)
MIRANDOLINA: Che pretende da me? (Con alterezza voltandosi.)
CAVALIERE: Nulla.
(Si confonde.) Beviamo un altro bicchiere di Borgogna.
MIRANDOLINA: Via signore, presto, presto, che me ne vada.
CAVALIERE: Sedete.
MIRANDOLINA: In piedi, in piedi.
CAVALIERE: Tenete.
(Con dolcezza le dà il bicchiere.)
MIRANDOLINA: Faccio un brindisi, e me ne vado subito.
Un brindisi che mi ha insegnato mia nonna.
Viva Bacco, e viva Amore:
L'uno e l'altro ci consola;
Uno passa per la gola,
L'altro va dagli occhi al cuore.
Bevo il vin, cogli occhi poi...
Faccio quel che fate voi.
(Parte.)
SCENA NONA
Il Cavaliere, ed il Servitore.
CAVALIERE: Bravissima, venite qui: sentite.
Ah malandrina! Se nè fuggita.
Se n'è fuggita, e mi ha lasciato cento diavoli che mi tormentano.
SERVITORE: Comanda le frutta in tavola? (Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Va al diavolo ancor tu.
(Il Servitore parte.) Bevo il vin, cogli occhi poi, faccio quel che fate voi? Che brindisi misterioso è questo? Ah maladetta, ti conosco.
Mi vuoi abbattere, mi vuoi assassinare.
Ma lo fa con tanta grazia! Ma sa così bene insinuarsi...
Diavolo, diavolo, me la farai tu vedere? No, anderò a Livorno.
Costei non la voglio più rivedere.
Che non mi venga più tra i piedi.
Maledettissime donne! Dove vi sono donne, lo giuro non vi anderò mai più.
(Parte.)
SCENA DECIMA
Camera del Conte.
Il Conte d'Albafiorita, Ortensia e Dejanira.
CONTE: Il Marchese di Forlipopoli è un carattere curiosissimo.
È nato nobile, non si può negare; ma fra suo padre e lui hanno dissipato, ed ora non ha appena da vivere.
Tuttavolta gli piace fare il grazioso.
ORTENSIA: Si vede che vorrebbe essere generoso, ma non ne ha.
DEJANIRA: Dona quel poco che può, e vuole che tutto il mondo lo sappia.
CONTE: Questo sarebbe un bel carattere per una delle vostre commedie.
ORTENSIA: Aspetti che arrivi la compagnia, e che si vada in teatro, e può darsi che ce lo godiamo.
DEJANIRA: Abbiamo noi dei personaggi, che per imitare i caratteri sono fatti a posta.
CONTE: Ma se volete che ce lo godiamo, bisogna che con lui seguitiate a fingervi dame.
ORTENSIA: Io lo farò certo.
Ma Dejanira subito dà di bianco.
DEJANIRA: Mi vien da ridere, quando i gonzi mi credono una signora.
CONTE: Con me avete fatto bene a scoprirvi.
In questa maniera mi date campo di far qualche cosa in vostro vantaggio.
ORTENSIA: Il signor Conte sarà il nostro protettore.
DEJANIRA: Siamo amiche, goderemo unitamente le di lei grazie.
CONTE: Vi dirò, vi parlerò con sincerità.
Vi servirò, dove potrò farlo, ma ho un certo impegno, che non mi permetterà frequentare la vostra casa.
ORTENSIA: Ha qualche amoretto, signor Conte?
CONTE: Sì, ve lo dirò in confidenza.
La padrona della locanda.
ORTENSIA: Capperi! Veramente una gran signora! Mi meraviglio di lei, signor Conte, che si perda con una locandiera!
DEJANIRA: Sarebbe minor male, che si compiacesse d'impiegare le sue finezze per una comica.
CONTE: Il far all'amore con voi altre, per dirvela, mi piace poco.
Ora ci siete, ora non ci siete.
ORTENSIA: Non è meglio così, signore? In questa maniera non si eternano le amicizie, e gli uomini non si rovinano.
CONTE: Ma io, tant'è, sono impegnato; le voglio bene, e non la vo' disgustare.
DEJANIRA: Ma che cosa ha di buono costei?
CONTE: Oh! Ha del buono assai.
ORTENSIA: Ehi, Dejanira.
È bella, rossa.
(Fa cenno che si belletta.)
CONTE: Ha un grande spirito.
DEJANIRA: Oh, in materia di spirito, la vorreste mettere con noi?
CONTE: Ora basta.
Sia come esser si voglia; Mirandolina mi piace, e se volete la mia amicizia, avete a dirne bene, altrimenti fate conto di non avermi mai conosciuto.
ORTENSIA: Oh signor Conte, per me dico che Mirandolina è una dea Venere.
DEJANIRA: Sì, sì, vero.
Ha dello spirito, parla bene.
CONTE: Ora mi date gusto.
ORTENSIA: Quando non vuol altro, sarà servito.
CONTE: Oh! Avete veduto quello ch'è passato per sala? (Osservando dentro la scena.)
ORTENSIA: L'ho veduto.
CONTE: Quello è un altro bel carattere da commedia.
ORTENSIA: È uno che non può vedere le donne.
DEJANIRA: Oh che pazzo!
ORTENSIA: Avrà qualche brutta memoria di qualche donna.
CONTE: Oibò; non è mai stato innamorato.
Non ha mai voluto trattar con donne.
Le sprezza tutte, e basta dire che egli disprezza ancora Mirandolina.
ORTENSIA: Poverino! Se mi ci mettessi attorno io, scommetto lo farei cambiare opinione.
DEJANIRA: Veramente una gran cosa! Questa è un'impresa che la vorrei pigliare sopra di me.
CONTE: Sentite, amiche.
Così per puro divertimento.
Se vi dà l'anima d'innamorarlo, da cavaliere vi faccio un bel regalo.
ORTENSIA: Io non intendo essere ricompensata per questo: lo farò per mio spasso.
DEJANIRA: Se il signor Conte vuol usarci qualche finezza, non l'ha da fare per questo.
Sinché arrivano i nostri compagni, ci divertiremo un poco.
CONTE: Dubito che non farete niente.
ORTENSIA: Signor Conte, ha ben poca stima di noi.
DEJANIRA: Non siamo vezzose come Mirandolina; ma finalmente sappiamo qualche poco il viver del mondo.
CONTE: Volete che lo mandiamo a chiamare?
ORTENSIA: Faccia come vuole.
CONTE: Ehi? Chi è di là?
SCENA UNDICESIMA
Il Servitore del Conte, e detti.
CONTE: Di' al Cavaliere di Ripafratta, che favorisca venir da me, che mi preme di parlargli.
(Al Servitore.)
SERVITORE: Nella sua camera so che non c'è.
CONTE: L'ho veduto andar verso la cucina.
Lo troverai.
SERVITORE: Subito.
(Parte.)
CONTE: (Che mai è andato a far verso la cucina? Scommetto che è andato a strapazzare Mirandolina, perché gli ha dato mal da mangiare).
(Da sé.)
ORTENSIA: Signor Conte, io aveva pregato il signor Marchese che mi mandasse il suo calzolaro, ma ho paura di non vederlo.
CONTE: Non pensate altro.
Vi servirò io.
DEJANIRA: A me aveva il signor Marchese promesso un fazzoletto.
Ma! ora me lo porta!
CONTE: De' fazzoletti ne troveremo.
DEJANIRA: Egli è che ne avevo proprio di bisogno.
CONTE: Se questo vi gradisce, siete padrona.
È pulito.
(Le offre il suo di seta.)
DEJANIRA: Obbligatissima alle sue finezze.
CONTE: Oh! Ecco il Cavaliere.
Sarà meglio che sostenghiate il carattere di dame, per poterlo meglio obbligare ad ascoltarvi per civiltà.
Ritiratevi un poco indietro; che, se vi vede, fugge.
ORTENSIA: Come si chiama?
CONTE: Il Cavaliere di Ripafratta, toscano.
DEJANIRA: Ha moglie?
CONTE: Non può vedere le donne.
ORTENSIA: È ricco? (Ritirandosi.)
CONTE: Sì, Molto.
DEJANIRA: È generoso? (Ritirandosi.)
CONTE: Piuttosto.
DEJANIRA: Venga, venga.
(Si ritira.)
ORTENSIA: Tempo, e non dubiti.
(Si ritira.)
SCENA DODICESIMA
Il Cavaliere e detti.
CAVALIERE: Conte, siete voi che mi volete?
CONTE: Sì; io v'ho dato il presente incomodo.
CAVALIERE: Che cosa posso fare per servirvi?
CONTE: Queste due dame hanno bisogno di voi.
(Gli addita le due donne, le quali subito s'avanzano.)
CAVALIERE: Disimpegnatemi.
Io non ho tempo di trattenermi.
ORTENSIA: Signor Cavaliere, non intendo di recargli incomodo.
DEJANIRA: Una parola in grazia, signor Cavaliere.
CAVALIERE: Signore mie, vi supplico perdonarmi.
Ho un affar di premura.
ORTENSIA: In due parole vi sbrighiamo.
DEJANIRA: Due paroline, e non più, signore.
CAVALIERE: (Maledettissimo Conte!).
(Da sé.)
CONTE: Caro amico, due dame che pregano, vuole la civiltà che si ascoltino.
CAVALIERE: Perdonate.
In che vi posso servire? (Alle donne, con serietà.)
ORTENSIA: Non siete voi toscano, signore?
CAVALIERE: Sì, signora.
DEJANIRA: Avrete degli amici in Firenze?
CAVALIERE: Ho degli amici, e ho de' parenti.
DEJANIRA: Sappiate, signore...
Amica, principiate a dir voi.
(Ad Ortensia.)
ORTENSIA: Dirò, signor Cavaliere...
Sappia che un certo caso...
CAVALIERE: Via, signore, vi supplico.
Ho un affar di premura.
CONTE: Orsù, capisco che la mia presenza vi dà soggezione.
Confidatevi con libertà al Cavaliere, ch'io vi levo l'incomodo.
(Partendo.)
CAVALIERE: No, amico, restate...
Sentite.
CONTE: So il mio dovere.
Servo di lor signore.
(Parte.)
SCENA TREDICESIMA
Ortensia, Dejanira ed il Cavaliere.
ORTENSIA: Favorisca, sediamo.
CAVALIERE: Scusi, non ho volontà di sedere.
DEJANIRA: Così rustico colle donne?
CAVALIERE: Favoriscano dirmi che cosa vogliono.
ORTENSIA: Abbiamo bisogno del vostro aiuto, della vostra protezione, della vostra bontà.
CAVALIERE: Che cosa vi è accaduto?
DEJANIRA: I nostri mariti ci hanno abbandonate.
CAVALIERE: Abbandonate? Come! Due dame abbandonate? Chi sono i vostri mariti? (Con alterezza.)
DEJANIRA: Amica, non vado avanti sicuro.
(Ad Ortensia.)
ORTENSIA: (È tanto indiavolato, che or ora mi confondo ancor io).
(Da sé.)
CAVALIERE: Signore, vi riverisco.
(In atto di partire.)
ORTENSIA: Come! Così ci trattate?
DEJANIRA: Un cavaliere tratta così?
CAVALIERE: Perdonatemi.
Io son uno che ama assai la mia pace.
Sento due dame abbandonate dai loro mariti.
Qui ci saranno degl'impegni non pochi; io non sono atto a' maneggi.
Vivo a me stesso.
Dame riveritissime, da me non potete sperare né consiglio, né aiuto.
ORTENSIA: Oh via, dunque; non lo tenghiamo più in soggezione il nostro amabilissimo Cavaliere.
DEJANIRA: Sì, parliamogli con sincerità.
CAVALIERE: Che nuovo linguaggio è questo?
ORTENSIA: Noi non siamo dame.
CAVALIERE: No?
DEJANIRA: Il signor Conte ha voluto farvi uno scherzo.
CAVALIERE: Lo scherzo è fatto.
Vi riverisco.
(Vuol partire.)
ORTENSIA: Fermatevi un momento.
CAVALIERE: Che cosa volete?
DEJANIRA: Degnateci per un momento della vostra amabile conversazione.
CAVALIERE: Ho che fare.
Non posso trattenermi.
ORTENSIA: Non vi vogliamo già mangiar niente.
DEJANIRA: Non vi leveremo la vostra reputazione.
ORTENSIA: Sappiamo che non potete vedere le donne.
CAVALIERE: Se lo sapete, l'ho caro.
Vi riverisco.
(Vuol partire.)
ORTENSIA: Ma sentite: noi non siamo donne che possano darvi ombra.
CAVALIERE: Chi siete?
ORTENSIA: Diteglielo voi, Dejanira.
DEJANIRA: Glielo potete dire anche voi.
CAVALIERE: Via, chi siete?
ORTENSIA: Siamo due commedianti.
CAVALIERE: Due commedianti! Parlate, parlate, che non ho più paura di voi.
Son ben prevenuto in favore dell'arte vostra.
ORTENSIA: Che vuol dire? Spiegatevi.
CAVALIERE: So che fingete in iscena e fuor di scena; e con tal prevenzione non ho paura di voi.
DEJANIRA: Signore, fuori di scena io non so fingere.
CAVALIERE: Come si chiama ella? La signora Sincera? (A Dejanira.)
DEJANIRA: Io mi chiamo...
CAVALIERE: È ella la signora Buonalana? (Ad Ortensia.)
ORTENSIA: Caro signor Cavaliere...
CAVALIERE: Come si diletta di miccheggiare? (Ad Ortensia.)
ORTENSIA: Io non sono...
CAVALIERE: I gonzi come li tratta, padrona mia? (A Dejanira.)
DEJANIRA: Non son di quelle...
CAVALIERE: Anch'io so parlar in gergo.
ORTENSIA: Oh che caro signor Cavaliere! (Vuol prenderlo per un braccio.)
CAVALIERE: Basse le cere.
(Dandole nelle mani.)
ORTENSIA: Diamine! Ha più del contrasto, che del Cavaliere.
CAVALIERE: Contrasto vuol dire contadino.
Vi ho capito.
E vi dirò che siete due impertinenti.
DEJANIRA: A me questo?
ORTENSIA: A una donna della mia sorte?
CAVALIERE: Bello quel viso trionfato! (Ad Ortensia.)
ORTENSIA: (Asino!).
(Parte.)
CAVALIERE: Bello quel tuppè finto! (A Dejanira.)
DEJANIRA: (Maledetto).
(Parte.)
SCENA QUATTORDICESIMA
Il Cavaliere, poi il di lui Servitore.
CAVALIERE: Ho trovata ben io la maniera di farle andare.
Che si pensavano? Di tirarmi nella rete? Povere sciocche! Vadano ora dal Conte e gli narrino la bella scena.
Se erano dame, per rispetto mi conveniva fuggire; ma quando posso, le donne le strapazzo col maggior piacere del mondo.
Non ho però potuto strapazzar Mirandolina.
Ella mi ha vinto con tanta civiltà, che mi trovo obbligato quasi ad amarla.
Ma è donna; non me ne voglio fidare.
Voglio andar via.
Domani anderò via.
Ma se aspetto a domani? Se vengo questa sera a dormir a casa, chi mi assicura che Mirandolina non finisca a rovinarmi? (Pensa.) Sì; facciamo una risoluzione da uomo.
SERVITORE: Signore.
CAVALIERE: Che cosa vuoi?
SERVITORE: Il signor Marchese è nella di lei camera che l'aspetta, perché desidera di parlargli.
CAVALIERE: Che vuole codesto pazzo? Denari non me ne cava più di sotto.
Che aspetti, e quando sarà stracco di aspettare, se n'anderà.
Va dal cameriere della locanda e digli che subito porti il mio conto.
SERVITORE: Sarà obbedita.
(In atto di partire.)
CAVALIERE: Senti.
Fa che da qui a due ore siano pronti i bauli.
SERVITORE: Vuol partire forse?
CAVALIERE: Sì, portami qui la spada ed il cappello, senza che se n'accorga il Marchese.
SERVITORE: Ma se mi vede fare i bauli?
CAVALIERE: Dica ciò che vuole.
M'hai inteso.
SERVITORE: (Oh, quanto mi dispiace andar via, per causa di Mirandolina!), (Da sé, parte.)
CAVALIERE: Eppure è vero.
Io sento nel partir di qui una dispiacenza nuova, che non ho mai provata.
Tanto peggio per me, se vi restassi.
Tanto più presto mi conviene partire.
Sì, donne, sempre più dirò male di voi; sì, voi ci fate del male, ancora quando ci volete fare del bene.
SCENA QUINDICESIMA
Fabrizio e detto.
FABRIZIO: È vero, signore, che vuole il conto?
CAVALIERE: Sì, l'avete portato?
FABRIZIO: Adesso la padrona lo fa.
CAVALIERE: Ella fa i conti?
FABRIZIO: Oh, sempre ella.
Anche quando viveva suo padre.
Scrive e sa far di conto meglio di qualche giovane di negozio.
CAVALIERE: (Che donna singolare è costei!).
(Da sé.)
FABRIZIO: Ma vuol ella andar via così presto?
CAVALIERE: Sì, così vogliono i miei affari.
FABRIZIO: La prego di ricordarsi del cameriere.
CAVALIERE: Portate il conto, e so quel che devo fare.
FABRIZIO: Lo vuol qui il conto?
CAVALIERE: Lo voglio qui; in camera per ora non ci vado.
FABRIZIO: Fa bene; in camera sua vi è quel seccatore del signor Marchese.
Carino! Fa l'innamorato della padrona; ma può leccarsi le dita.
Mirandolina deve esser mia moglie.
CAVALIERE: Il conto.
(Alterato.)
FABRIZIO: La servo subito.
(Parte.)
SCENA SEDICESIMA
CAVALIERE (solo): Tutti sono invaghiti di Mirandolina.
Non è maraviglia, se ancor io principiava a sentirmi accendere.
Ma anderò via; supererò questa incognita forza...
Che vedo? Mirandolina? Che vuole da me? Ha un foglio in mano.
Mi porterà il conto.
Che cosa ho da fare? Convien soffrire quest'ultimo assalto.
Già da qui a due ore io parto.
SCENA DICIASSETTESIMA
Mirandolina con un foglio in mano, e detto.
MIRANDOLINA: Signore.
(Mestamente.)
CAVALIERE: Che c'è, Mirandolina?
MIRANDOLINA: Perdoni.
(Stando indietro.)
CAVALIERE: Venite avanti.
MIRANDOLINA: Ha domandato il suo conto; l'ho servita.
(Mestamente.)
CAVALIERE: Date qui.
MIRANDOLINA: Eccolo.
(Si asciuga gli occhi col grembiale, nel dargli il conto.)
CAVALIERE: Che avete? Piangete?
MIRANDOLINA: Niente, signore, mi è andato del fumo negli occhi.
CAVALIERE: Del fumo negli occhi? Eh! basta...
quanto importa il conto? (legge.) Venti paoli? In quattro giorni un trattamento si generoso: venti paoli?
MIRANDOLINA: Quello è il suo conto.
CAVALIERE: E i due piatti particolari che mi avete dato questa mattina, non ci sono nel conto?
MIRANDOLINA: Perdoni.
Quel ch'io dono, non lo metto in conto.
CAVALIERE: Me li avete voi regalati?
MIRANDOLINA: Perdoni la libertà.
Gradisca per un atto di...
(Si copre, mostrando di piangere.)
CAVALIERE: Ma che avete?
MIRANDOLINA: Non so se sia il fumo, o qualche flussione di occhi.
CAVALIERE: Non vorrei che aveste patito, cucinando per me quelle due preziose vivande.
MIRANDOLINA: Se fosse per questo, lo soffrirei...
volentieri...
(Mostra trattenersi di piangere.)
CAVALIERE: (Eh, se non vado via!).
(Da sé.) Orsù, tenete.
Queste sono due doppie.
Godetele per amor mio...
e compatitemi...
(S'imbroglia.)
MIRANDOLINA (senza parlare, cade come svenuta sopra una sedia.)
CAVALIERE: Mirandolina.
Ahimè! Mirandolina.
È svenuta.
Che fosse innamorata di me? Ma così presto? E perché no? Non sono io innamorato di lei? Cara Mirandolina...
Cara? Io cara ad una donna? Ma se è svenuta per me.
Oh, come tu sei bella! Avessi qualche cosa per farla rinvenire.
Io che non pratico donne, non ho spiriti, non ho ampolle.
Chi è di là? Vi è nessuno? Presto?...
Anderò io.
Poverina! Che tu sia benedetta! (Parte, e poi ritorna.)
MIRANDOLINA: Ora poi è caduto affatto.
Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli uomini.
Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento.
Torna, torna.
(Si mette come sopra.)
CAVALIERE (torna con un vaso d'acqua.): Eccomi, eccomi.
E non è ancor rinvenuta.
Ah, certamente costei mi ama.
(La spruzza, ed ella si va movendo.) Animo, animo.
Son qui cara.
Non partirò più per ora.
SCENA DICIOTTESIMA
Il Servitore colla spada e cappello, e detti.
SERVITORE: Ecco la spada ed il cappello.
(Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Va via.
(Al Servitore, con ira.)
SERVITORE: I bauli...
CAVALIERE: Va via, che tu sia maledetto.
SERVITORE: Mirandolina...
CAVALIERE: Va, che ti spacco la testa.
(Lo minaccia col vaso; il Servitore parte.) E non rinviene ancora? La fronte le suda.
Via, cara Mirandolina, fatevi coraggio, aprite gli occhi.
Parlatemi con libertà.
SCENA DICIANNOVESIMA
Il Marchese ed il Conte, e detti.
MARCHESE: Cavaliere?
CONTE: Amico?
CAVALIERE: (Oh maldetti!).
(Va smaniando.)
MARCHESE: Mirandolina.
MIRANDOLINA: Oimè! (S'alza.)
MARCHESE: Io l'ho fatta rinvenire.
CONTE: Mi rallegro, signor Cavaliere.
MARCHESE: Bravo quel signore, che non può vedere le donne.
CAVALIERE: Che impertinenza?
CONTE: Siete caduto?
CAVALIERE: Andate al diavolo quanti siete.
(Getta il vaso in terra, e lo rompe verso il Conte ed il Marchese, e parte furiosamente.)
CONTE: Il Cavaliere è diventato pazzo.
(Parte.)
MARCHESE: Di questo affronto voglio soddisfazione.
(Parte.)
MIRANDOLINA: L'impresa è fatta.
Il di lui cuore è in fuoco, in fiamme, in cenere.
Restami solo, per compiere la mia vittoria, che si renda pubblico il mio trionfo, a scorno degli uomini presuntuosi, e ad onore del nostro sesso.
(Parte.)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera di Mirandolina con tavolino e biancheria da stirare.
Mirandolina, poi Fabrizio.
MIRANDOLINA: Orsù, l'ora del divertimento è passata.
Voglio ora badare a' fatti miei.
Prima che questa biancheria si prosciughi del tutto, voglio stirarla.
Ehi, Fabrizio.
FABRIZIO: Signora.
MIRANDOLINA: Fatemi un piacere.
Portatemi il ferro caldo.
FABRIZIO: Signora sì.
(Con serietà, in atto di partire.)
MIRANDOLINA: Scusate, se do a voi questo disturbo.
FABRIZIO: Niente, signora.
Finché io mangio il vostro pane, sono obbligato a servirvi.
(Vuol partire.)
MIRANDOLINA: Fermatevi; sentite: non siete obbligato a servirmi in queste cose; ma so che per me lo fate volentieri ed io...
basta, non dico altro.
FABRIZIO: Per me vi porterei l'acqua colle orecchie.
Ma vedo che tutto è gettato via.
MIRANDOLINA: Perché gettato via? Sono forse un'ingrata?
FABRIZIO: Voi non degnate i poveri uomini.
Vi piace troppo la nobiltà.
MIRANDOLINA: Uh povero pazzo! Se vi potessi dir tutto! Via, via andatemi a pigliar il ferro.
FABRIZIO: Ma se ho veduto io con questi miei occhi...
MIRANDOLINA: Andiamo, meno ciarle.
Portatemi il ferro.
FABRIZIO: Vado, vado, vi servirò, ma per poco.
(Andando.)
MIRANDOLINA: Con questi uomini, più che loro si vuol bene, si fa peggio.
(Mostrando parlar da sé, ma per esser sentita.)
FABRIZIO: Che cosa avete detto? (Con tenerezza, tornando indietro.)
MIRANDOLINA: Via, mi portate questo ferro?
FABRIZIO: Sì, ve lo porto.
(Non so niente.
Ora la mi tira su, ora la mi butta giù.
Non so niente).
(Da sé, parte.)
SCENA SECONDA
Mirandolina, poi il Servitore del Cavaliere.
MIRANDOLINA: Povero sciocco! Mi ha da servire a suo marcio dispetto.
Mi par di ridere a far che gli uomini facciano a modo mio.
E quel caro signor Cavaliere, ch'era tanto nemico delle donne? Ora, se volessi, sarei padrona di fargli fare qualunque bestialità.
SERVITORE: Signora Mirandolina.
MIRANDOLINA: Che c'è, amico?
SERVITORE: Il mio padrone la riverisce, e manda a vedere come sta!
MIRANDOLINA: Ditegli che sto benissimo.
SERVITORE: Dice così, che beva un poco di questo spirito di melissa, che le farà assai bene.
(Le dà una boccetta d'oro.)
MIRANDOLINA: È d'oro questa boccetta?
SERVITORE: Sì signora, d'oro, lo so di sicuro.
MIRANDOLINA: Perché non mi ha dato lo spirito di melissa, quando mi è venuto quell'orribile svenimento?
SERVITORE: Allora questa boccetta egli non l'aveva.
MIRANDOLINA: Ed ora come l'ha avuta?
SERVITORE: Sentite.
In confidenza.
Mi ha mandato ora a chiamar un orefice, l'ha comprata, e l'ha pagata dodici zecchini; e poi mi ha mandato dallo speziale e comprar lo spirito.
MIRANDOLINA: Ah, ah,ah.
(Ride.)
SERVITORE: Ridete?
MIRANDOLINA: Rido, perché mi manda il medicamento, dopo che son guarita del male.
SERVITORE: Sarà buono per un'altra volta.
MIRANDOLINA: Via, ne beverò un poco per preservativo.
(Beve.) Tenete, ringraziatelo.
(Gli vuol dar la boccetta.)
SERVITORE: Oh! la boccetta è vostra.
MIRANDOLINA: Come mia?
SERVITORE: Sì.
Il padrone l'ha comprata a posta.
MIRANDOLINA: A posta per me?
SERVITORE: Per voi; ma zitto.
MIRANDOLINA: Portategli la sua boccetta, e ditegli che lo ringrazio.
SERVITORE: Eh via.
MIRANDOLINA: Vi dico che gliela portiate, che non la voglio.
SERVITORE: Gli volete fare quest'affronto?
MIRANDOLINA: Meno ciarle.
Fate il vostro dovere.
Tenete.
SERVITORE: Non occorr'altro.
Gliela porterò.
(Oh che donna! Ricusa dodici zecchini! Una simile non l'ho più ritrovata, e durerò fatica a trovarla).
(Da sé, parte.)
SCENA TERZA
Mirandolina, poi Fabrizio.
MIRANDOLINA: Uh, è cotto, stracotto e biscottato! Ma siccome quel che ho fatto con lui, non l'ho fatto per interesse, voglio ch'ei confessi la forza delle donne, senza poter dire che sono interessate e venali.
FABRIZIO: Ecco qui il ferro.
(Sostenuto, col ferro da stirare in mano.)
MIRANDOLINA: È ben caldo?
FABRIZIO: Signora sì, è caldo; così foss'io abbruciato.
MIRANDOLINA: Che cosa vi è di nuovo?
FABRIZIO: Questo signor Cavaliere manda le ambasciate, manda i regali.
Il Servitore me l'ha detto.
MIRANDOLINA: Signor sì, mi ha mandato una boccettina d'oro, ed io gliel'ho rimandata indietro.
FABRIZIO: Gliel'avete rimandata indietro?
MIRANDOLINA: Sì, domandatelo al Servitore medesimo.
FABRIZIO: Perché gliel'avete rimandata indietro?
MIRANDOLINA: Perché...
Fabrizio...
non dica...
Orsù, non parliamo altro.
FABRIZIO: Cara Mirandolina, compatitemi.
MIRANDOLINA: Via, andate, lasciatemi stirare.
FABRIZIO: Io non v'impedisco di fare...
MIRANDOLINA: Andatemi a preparare un altro ferro, e quando è caldo, portatelo.
FABRIZIO: Sì, vado.
Credetemi, che se parlo...
MIRANDOLINA: Non dite altro.
Mi fate venire la rabbia.
FABRIZIO: Sto cheto.
(Ell'è una testolina bizzarra, ma le voglio bene).
(Da sé, parte.)
MIRANDOLINA: Anche questa è buona.
Mi faccio merito con Fabrizio d'aver ricusata la boccetta d'oro del Cavaliere.
Questo vuol dir saper vivere, saper fare, saper profittare di tutto, con buona grazia, con pulizia, con un poco di disinvoltura.
In materia d'accortezza, non voglio che si dica ch'io faccia torto al sesso.
(Va stirando.)
SCENA QUARTA
Il Cavaliere e detta.
CAVALIERE: (Eccola.
Non ci volevo venire, e il diavolo mi ci ha strascinato!.
(Da sé, indietro.)
MIRANDOLINA: (Eccolo, eccolo).
(Lo vede colla coda dell'occhio, e stira.)
CAVALIERE: Mirandolina?
MIRANDOLINA: Oh signor Cavaliere! Serva umilissima.
(Stirando.)
CAVALIERE: Come state?
MIRANDOLINA: Benissimo, per servirla.
(Stirando senza guardarlo.)
CAVALIERE: Ho motivo di dolermi di voi.
MIRANDOLINA: Perché, signore? (Guardandolo un poco.)
CAVALIERE: Perché avete ricusato una piccola boccettina, che vi ho mandato.
MIRANDOLINA: Che voleva ch'io ne facessi? (Stirando.)
CAVALIERE: Servirvene nelle occorrenze.
MIRANDOLINA: Per grazia del cielo, non sono soggetta agli svenimenti.
Mi è accaduto oggi quello che mi è accaduto mai più.
(Stirando.)
CAVALIERE: Cara mirandolina...
non vorrei esser io stato cagione di quel funesto accidente.
MIRANDOLINA: Eh sì, ho timore che ella appunto ne sia stata la causa.
(Stirando.)
CAVALIERE: Io? Davvero? (Con passione.)
MIRANDOLINA: Mi ha fatto bere quel maledetto vino di Borgogna, e mi ha fatto male.
(Stirando con rabbia.)
CAVALIERE: Come? Possibile? (Rimane mortificato.)
MIRANDOLINA: È così senz'altro.
In camera sua non ci vengo mai più.
(Stirando.)
CAVALIERE: V'intendo.
In camera mia non ci verrete più? Capisco il mistero.
Sì, lo capisco.
Ma veniteci, cara, che vi chiamerete contenta.
(Amoroso.)
MIRANDOLINA: Questo ferro è poco caldo.
Ehi; Fabrizio? se l'altro ferro è caldo, portatelo.
(Forte verso la scena.)
CAVALIERE: Fatemi questa grazia, tenete questa boccetta.
MIRANDOLINA: In verità, signor Cavaliere, dei regali io non ne prendo.
(Con disprezzo, stirando.)
CAVALIERE: Li avete pur presi dal Conte d'Albafiorita.
MIRANDOLINA: Per forza.
Per non disgustarlo.
(Stirando.)
CAVALIERE: E vorreste fare a me questo torto? e disgustarmi?
MIRANDOLINA: Che importa a lei, che una donna la disgusti? Già le donne non le può vedere.
CAVALIERE: Ah, Mirandolina! ora non posso dire così.
MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, a che ora fa la luna nuova?
CAVALIERE: Il mio cambiamento non è lunatico.
Questo è un prodigio della vostra bellezza, della vostra grazia.
MIRANDOLINA: Ah, ah, ah.
(Ride forte, e stira.)
CAVALIERE: Ridete?
MIRANDOLINA: Non vuol che rida? Mi burla, e non vuol ch'io rida?
CAVALIERE: Eh furbetta! Vi burlo eh? Via, prendete questa boccetta.
MIRANDOLINA: Grazie, grazie.
(Stirando.)
CAVALIERE: Prendetela, o mi farete andare in collera.
MIRANDOLINA: Fabrizio, il ferro.
(Chiamando forte, con caricatura.)
CAVALIERE: La prendete, o non la prendete? (Alterato.)
MIRANDOLINA: Furia, furia.
(Prende la boccetta, e con disprezzo la getta nel paniere della biancheria.)
CAVALIERE: La gettate così?
MIRANDOLINA: Fabrizio! (Chiama forte, come sopra.)
SCENA QUINTA
Fabrizio col ferro, e detti.
FABRIZIO: Son qua.
(Vedendo il Cavaliere, s'ingelosisce.)
MIRANDOLINA: È caldo bene? (Prende il ferro.)
FABRIZIO: Signora sì.
(Sostenuto.)
MIRANDOLINA: Che avete, che mi parete turbato? (A Fabrizio, con tenerezza.)
FABRIZIO: Niente, padrona, niente.
MIRANDOLINA: Avete male? (Come sopra.)
FABRIZIO: Datemi l'altro ferro, se volete che lo metta nel fuoco.
MIRANDOLINA: In verità, ho paura che abbiate male.
(Come sopra.)
CAVALIERE: Via, dategli il ferro, e che se ne vada.
MIRANDOLINA: Gli voglio bene, sa ella? È il mio cameriere fidato.
(Al Cavaliere.)
CAVALIERE: (Non posso più).
(Da sé, smaniando.)
MIRANDOLINA: Tenete, caro, scaldatelo.
(Dà il ferro a Fabrizio.)
FABRIZIO: Signora padrona...
(Con tenerezza.)
MIRANDOLINA: Via, via, presto.
(Lo scaccia.)
FABRIZIO: (Che vivere è questo? Sento che non posso più).
(Da sé, parte.)
SCENA SESTA
Il Cavaliere e Mirandolina.
CAVALIERE: Gran finezze, signora, al suo cameriere!
MIRANDOLINA: E per questo, che cosa vorrebbe dire?
CAVALIERE: Si vede che ne siete invaghita.
MIRANDOLINA: Io innamorata di un cameriere? Mi fa un bel complimento, signore; non sono di sì cattivo gusto io.
Quando volessi amare, non getterei il mio tempo sì malamente.
(Stirando.)
CAVALIERE: Voi meritereste l'amore di un re.
MIRANDOLINA: Del re di spade, o del re di coppe? (Stirando.)
CAVALIERE: Parliamo sul serio, Mirandolina, e lasciamo gli scherzi.
MIRANDOLINA: Parli pure, che io l'ascolto.
(Stirando.)
CAVALIERE: Non potreste per un poco lasciar di stirare?
MIRANDOLINA: Oh perdoni! Mi preme allestire questa biancheria per domani.
CAVALIERE: Vi preme dunque quella biancheria più di me?
MIRANDOLINA: Sicuro.
(Stirando.)
CAVALIERE: E ancora lo confermate?
MIRANDOLINA: Certo.
Perché di questa biancheria me ne ho da servire, e di lei non posso far capitale di niente.
(Stirando.)
CAVALIERE: Anzi potete dispor di me con autorità.
MIRANDOLINA: Eh, che ella non può vedere le donne.
CAVALIERE: Non mi tormentate più.
Vi siete vendicata abbastanza.
Stimo voi, stimo le donne che sono della vostra sorte, se pur ve ne sono.
Vi stimo, vi amo, e vi domando pietà.
MIRANDOLINA: Sì signore, glielo diremo.
(Stirando in fretta, si fa cadere un manicotto.)
CAVALIERE (leva di terra il manicotto, e glielo dà): Credetemi...
MIRANDOLINA: Non s'incomodi.
CAVALIERE: Voi meritate di esser servita.
MIRANDOLINA: Ah, ah, ah.
(Ride forte.)
CAVALIERE: Ridete?
MIRANDOLINA: Rido, perché mi burla.
CAVALIERE: Mirandolina, non posso più.
MIRANDOLINA: Le vien male?
CAVALIERE: Sì, mi sento mancare.
MIRANDOLINA: Tenga il suo spirito di melissa.
(Gli getta con disprezzo la boccetta.)
CAVALIERE: Non mi trattate con tanta asprezza.
Credetemi, vi amo, ve lo giuro.
(Vuol prenderle la mano, ed ella col ferro lo scotta.) Aimè!
MIRANDOLINA: Perdoni: non l'ho fatto apposta.
CAVALIERE: Pazienza! Questo è niente.
Mi avete fatto una scottatura più grande.
MIRANDOLINA: Dove, signore?
CAVALIERE: Nel cuore.
MIRANDOLINA: Fabrizio.
(Chiama ridendo.)
CAVALIERE: Per carità, non chiamate colui.
MIRANDOLINA: Ma se ho bisogno dell'altro ferro.
CAVALIERE: Aspettate...
(ma no...) chiamerò il mio servitore.
MIRANDOLINA: Eh! Fabrizio...
(Vuol chiamare Fabrizio.)
CAVALIERE: Giuro al cielo, se viene colui, gli spacco la testa.
MIRANDOLINA: Oh, questa è bella! Non mi potrò servire della mia gente?
CAVALIERE: Chiamate un altro; colui non lo posso vedere.
MIRANDOLINA: Mi pare ch'ella si avanzi un poco troppo, signor Cavaliere.
(Si scosta dal tavolino col ferro in mano.)
CAVALIERE: Compatitemi...
son fuori di me.
MIRANDOLINA: Anderò io in cucina, e sarà contento.
CAVALIERE: No, cara, fermatevi.
MIRANDOLINA: È una cosa curiosa questa.
(Passeggiando.)
CAVALIERE: Compatitemi.
(Le va dietro.)
MIRANDOLINA: Non posso chiamar chi voglio? (Passeggia.)
CAVALIERE: Lo confesso.
Ho gelosia di colui.
(Le va dietro.)
MIRANDOLINA: (Mi vien dietro come un cagnolino).
(Da sé, passeggiando.)
CAVALIERE: Questa è la prima volta ch'io provo che cosa sia amore.
MIRANDOLINA: Nessuno mi ha mai comandato.
(Camminando.)
CAVALIERE: Non intendo di comandarvi: vi prego.
(La segue.)
MIRANDOLINA: Ma che cosa vuole da me? (Voltandosi con alterezza.)
CAVALIERE: Amore, compassione, pietà.
MIRANDOLINA: Un uomo che stamattina non poteva vedere le donne, oggi chiede amore e pietà? Non gli abbado, non può essere, non gli credo.
(Crepa, schiatta, impara a disprezzar le donne).
(Da sé, parte.)
SCENA SETTIMA
CAVALIERE (solo): Oh maledetto il punto, in cui ho principiato a mirar costei! Son caduto nel laccio, e non vi è più rimedio.
SCENA OTTAVA
Il Marchese e detto.
MARCHESE: Cavaliere, voi mi avete insultato.
CAVALIERE: Compatitemi, fu un accidente.
MARCHESE: Mi meraviglio di voi.
CAVALIERE: Finalmente il vaso non vi ha colpito.
MARCHESE: Una gocciola d'acqua mi ha macchiato il vestito.
CAVALIERE: Torno a dir, compatitemi.
MARCHESE: Questa è una impertinenza.
CAVALIERE: Non l'ho fatto apposta.
Compatitemi per la terza volta.
MARCHESE: Voglio soddisfazione.
CAVALIERE: Se non volete compatirmi, se volete soddisfazione, son qui, non ho soggezione di voi.
MARCHESE: Ho paura che questa macchia non voglia andar via; questo è quello che mi fa andare in collera.
(Cangiandosi.)
CAVALIERE: Quando un cavalier vi chiede scusa, che pretendete di più? (Con isdegno.)
MARCHESE: Se non l'avete fatto a malizia, lasciamo stare.
CAVALIERE: Vi dico, che son capace di darvi qualunque soddisfazione.
MARCHESE: Via, non parliamo altro.
CAVALIERE: Cavaliere malnato.
MARCHESE: Oh questa è bella! A me è passata la collera, e voi ve la fate venire.
CAVALIERE: Ora per l'appunto mi avete trovato in buona luna.
MARCHESE: Vi compatisco, so che male avete.
CAVALIERE: I fatti vostri io non li ricerco.
MARCHESE: Signor inimico delle donne, ci siete caduto eh?
CAVALIERE: Io? Come?
MARCHESE: Sì, siete innamorato...
CAVALIERE: Sono il diavolo che vi porti.
MARCHESE: Che serve nascondersi?...
CAVALIERE: Lasciatemi stare, che giuro al cielo ve ne farò pentire.
(Parte.)
SCENA NONA
MARCHESE (solo): È innamorato, si vergogna, e non vorrebbe che si sapesse.
Ma forse non vorrà che si sappia, perché ha paura di me; avrà soggezione a dichiararsi per mio rivale.
Mi dispiace assaissimo di questa macchia; se sapessi come fare a levarla! Queste donne sogliono avere della terra da levar le macchie.
(Osserva nel tavolino e nel paniere.) Bella questa boccetta! Che sia d'oro o di princisbech? Eh, sarà di princisbech: se fosse d'oro, non la lascerebbero qui; se vi fosse dell'acqua della regina, sarebbe buona per levar questa macchia.
(Apre, odora e gusta.) È spirito di melissa.
Tant'è tanto sarà buono.
Voglio provare.
SCENA DECIMA
Dejanira e detto.
DEJANIRA: Signor Marchese, che fa qui solo? Non favorisce mai?
MARCHESE: Oh signora Contessa.
Veniva or ora per riverirla.
DEJANIRA: Che cosa stava facendo?
MARCHESE: Vi dirò.
Io sono amantissimo della pulizia.
Voleva levare questa piccola macchia.
DEJANIRA: Con che, signore?
MARCHESE: Con questo spirito di melissa.
DEJANIRA: Oh perdoni, lo spirito di melissa non serve, anzi farebbe venire la macchia più grande.
MARCHESE: Dunque, come ho da fare?
DEJANIRA: Ho io un segreto per cavar le macchie.
MARCHESE: Mi farete piacere a insegnarmelo.
DEJANIRA: Volentieri.
M'impegno con uno scudo far andar via quella macchia, che non si vedrà nemmeno dove sia stata.
MARCHESE: Vi vuole uno scudo?
DEJANIRA: Sì, signore, vi pare una grande spesa?
MARCHESE: È meglio provare lo spirito di Melissa.
DEJANIRA: Favorisca: è buono quello spirito?
MARCHESE: Prezioso, sentite.
(Le dà la boccetta.)
DEJANIRA: Oh, io ne so fare del meglio.
(Assaggiandolo.)
MARCHESE: Sapete fare degli spiriti?
DEJANIRA: Sì, signore mi diletto di tutto.
MARCHESE: Brava, damina, brava.
Così mi piace.
DEJANIRA: Sarà d'oro questa boccetta?
MARCHESE: Non volete? È oro sicuro.
(Non conosce l'oro del princisbech).
(Da sé.)
DEJANIRA: È sua, signor Marchese?
MARCHESE: È mia, e vostra se comandate.
DEJANIRA: Obbligatissima alle sue grazie.
(La mette via.)
MARCHESE: Eh! so che scherzate.
DEJANIRA: Come? Non me l'ha esibita?
MARCHESE: Non è cosa da vostra pari.
È una bagattella.
Vi servirò di cosa migliore, se ne avete voglia.
DEJANIRA: Oh, mi meraviglio.
È anche troppo.
La ringrazio, signor Marchese.
MARCHESE: Sentite.
In confidenza.
Non è oro.
È princisbech.
DEJANIRA: Tanto meglio.
La stimo più che se fosse oro.
E poi, quel che viene dalle sue mani, è tutto prezioso.
MARCHESE: Basta.
Non so che dire.
servitevi, se vi degnate.
(Pazienza! Bisognerà pagarla a Mirandolina.
Che cosa può valere? Un filippo?).
(Da sé.)
DEJANIRA: Il signor Marchese è un cavalier generoso.
MARCHESE: Mi vergogno a regalar queste bagattelle.
Vorrei che quella boccetta fosse d'oro.
DEJANIRA: In verità, pare propriamente oro.
(La tira fuori, e la osserva.) Ognuno s'ingannerebbe.
MARCHESE: È vero, chi non ha pratica dell'oro, s'inganna: ma io lo conosco subito.
DEJANIRA: Anche al peso par che sia oro.
MARCHESE: E pur non è vero.
DEJANIRA: Voglio farla vedere alla mia compagna.
MARCHESE: Sentite, signora Contessa, non la fate vedere a Mirandolina.
È una ciarliera.
Non so se mi capite.
DEJANIRA: Intendo benissimo.
La fo vedere solamente ad Ortensia.
MARCHESE: Alla Baronessa?
DEJANIRA: Sì, sì, alla Baronessa.
(Ridendo parte.)
SCENA UNDICESIMA
Il Marchese, poi il Servitore del Cavaliere.
MARCHESE: Credo che se ne rida, perché mi ha levato con quel bel garbo la boccettina.
Tant'era se fosse stata d'oro.
Manco male, che con poco l'aggiusterò.
Se Mirandolina vorrà la sua boccetta, gliela pagherò, quando ne avrò.
SERVITORE (cerca sul tavolo): Dove diamine sarà questa boccetta?
MARCHESE: Che cosa cercate, galantuomo?
SERVITORE: Cerco una boccetta di spirito di melissa.
La signora Mirandolina la vorrebbe.
Dice che l'ha lasciata qui, ma non la ritrovo.
MARCHESE: Era una boccettina di princisbech?
SERVITORE: No signore, era d'oro.
MARCHESE: D'oro?
SERVITORE: Certo che era d'oro.
L'ho veduta comprar io per dodici zecchini.
(Cerca.)
MARCHESE: (Oh povero me!).
(Da sé.) Ma come lasciar così una boccetta d'oro?
SERVITORE: Se l'è scordata, ma io non la trovo.
MARCHESE: Mi pare ancora impossibile che fosse d'oro.
SERVITORE: Era oro, gli dico.
L'ha forse veduta V.E.?
MARCHESE: Io?...
Non ho veduto niente.
SERVITORE: Basta.
Le dirò che non la trovo.
Suo danno.
Doveva mettersela in tasca.
(Parte.)
SCENA DODICESIMA
Il Marchese, poi il Conte.
MARCHESE: Oh povero Marchese di Forlipopoli! Ho donata una boccetta d'oro, che val dodici zecchini, e l'ho donata per princisbech.
Come ho da regolarmi in un caso di tanta importanza? Se recupero la boccetta dalla Contessa, mi fo ridicolo presso di lei; se Mirandolina viene a scoprire ch'io l'abbia avuta, è in pericolo il mio decoro.
Son cavaliere.
Devo pagarla.
Ma non ho danari.
CONTE: Che dite, signor Marchese, della bellissima novità?
MARCHESE: Di quale novità?
CONTE: Il Cavaliere Selvatico, il disprezzator delle donne, è innamorato di Mirandolina.
MARCHESE: L'ho caro.
Conosca suo malgrado il merito di questa donna; veda che io non m'invaghisco di chi non merita; e peni e crepi per gastigo della sua impertinenza.
CONTE: Ma se Mirandolina gli corrisponde?
MARCHESE: Ciò non può essere.
Ella non farà a me questo torto.
Sa chi sono.
Sa cosa ho fatto per lei.
CONTE: Io ho fatto per essa assai più di voi.
Ma tutto è gettato.
Mirandolina coltiva il Cavaliere di Ripafratta, ha usato verso di lui quelle attenzioni che non ha praticato né a voi, né a me; e vedesi che, colle donne, più che si sa, meno si merita, e che burlandosi esse di che le adora, corrono dietro a chi le disprezza.
MARCHESE: Se ciò fosse vero...
ma non può essere.
CONTE: Perché non può essere?
MARCHESE: Vorreste mettere il Cavaliere a confronto di me?
CONTE: Non l'avete veduta voi stesso sedere alla di lui tavola? Con noi ha praticato mai un atto di simile confidenza? A lui biancheria distinta.
Servito in tavola prima di tutti.
Le pietanze gliele fa ella colle sue mani.
I servidori vedono tutto, e parlano.
Fabrizio freme di gelosia.
E poi quello svenimento, vero o finto che fosse, non è segno manifesto d'amore?
MARCHESE: Come! A lui si fanno gl'intingoli saporiti, e a me carnaccia di bue, e minestra di riso lungo? Sì, è vero, questo è uno strapazzo al mio grado, alla mia condizione.
CONTE: Ed io che ho speso tanto per lei?
MARCHESE: Ed io che la regalava continuamente? Le ho fino dato da bere di quel vino di Cipro così prezioso.
Il Cavaliere non avrà fatto con costei una minima parte di quello che abbiamo fatto noi.
CONTE: Non dubitate, che anch'egli l'ha regalata.
MARCHESE: Sì? Che cosa le ha donato?
CONTE: Una boccettina d'oro con dello spirito di melissa.
MARCHESE: (Oimè!) (Da sé.) Come lo avete saputo?
CONTE: Il di lui servidore l'ha detto al mio.
MARCHESE: (Sempre peggio.
Entro in un impegno col Cavaliere).
(Da sé.)
CONTE: Vedo che costei è un'ingrata; voglio assolutamente lasciarla.
Voglio partire or ora da questa locanda indegna.
MARCHESE: Sì, fate bene, andate.
CONTE: E voi che siete un cavaliere di tanta riputazione, dovreste partire con me.
MARCHESE: Ma...
dove dovrei andare?
CONTE: Vi troverò io un alloggio.
Lasciate pensare a me.
MARCHESE: Quest'alloggio...
sarà per esempio...
CONTE: Andremo in casa d'un mio paesano.
Non ispenderemo nulla.
MARCHESE: Basta, siete tanto mio amico, che non posso dirvi di no.
CONTE: Andiamo, e vendichiamoci di questa femmina sconoscente.
MARCHESE: Sì, andiamo.
(Ma come sarà poi della boccetta? Son cavaliere, non posso fare una malazione).
(Da sé.)
CONTE: Non vi pentite, signor Marchese, andiamo via di qui.
Fatemi questo piacere, e poi comandatemi dove posso, che vi servirò.
MARCHESE: Vi dirò.
In confidenza, ma che nessuno lo sappia.
Il mio fattore mi ritarda qualche volta le mie rimesse...
CONTE: Le avete forse da dar qualche cosa?
MARCHESE: Sì, dodici zecchini.
CONTE: Dodici zecchini? Bisogna che sia dei mesi, che non pagate.
MARCHESE: Così è, le devo dodici zecchini.
Non posso di qua partire senza pagarla.
Se voi mi faceste il piacere...
CONTE: Volentieri.
Eccovi dodici zecchini.
(Tira fuori la borsa.)
MARCHESE: Aspettate.
Ora che mi ricordo, sono tredici.
(Voglio rendere il suo zecchino anche al Cavaliere).
(Da sé.)
CONTE: Dodici o tredici è lo stesso per me.
Tenete.
MARCHESE: Ve li renderò quanto prima.
CONTE: Servitevi quanto vi piace.
Danari a me non ne mancano; e per vendicarmi di costei, spenderei mille doppie.
MARCHESE: Sì, veramente è un'ingrata.
Ho speso tanto per lei, e mi tratta così.
CONTE: Voglio rovinare la sua locanda.
Ho fatto andar via anche quelle due commedianti.
MARCHESE: Dove sono le commedianti?
CONTE: Erano qui: Ortensia e Dejanira.
MARCHESE: Come! Non sono dame?
CONTE: No.
Sono due comiche.
Sono arrivati i loro comnpagni, e la favola è terminata.
MARCHESE: (La mia boccetta!).
(Da sé.) Dove sono alloggiate?
CONTE: In una casa vicino al teatro.
MARCHESE: (Vado subito a ricuperare la mia boccetta).
(Da se, parte.)
CONTE: Con costei mi voglio vendicar così.
Il Cavaliere poi, che ha saputo fingere per tradirmi, in altra maniera me ne renderà conto.
(Parte.)
SCENA TREDICESIMA
Camera con tre porte.
MIRANDOLINA (sola): Oh meschina me! Sono nel brutto impegno! Se il Cavaliere mi arriva, sto fresca.
Si è indiavolato maledettamente.
Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui.
Voglio chiudere questa porta.
(Serra la porta da dove è venuta.) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto.
È vero che mi sono assai divertita nel farmi correr dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima.
Qui mi convien risolvere quelche cosa di grande.
Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda.
Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in tal caso mi potesse giovare.
Gli prometterò di sposarlo...
Ma...
prometti, prometti, si stancherà di credermi...
Sarebbe quasi meglio ch'io lo sposassi davvero.
Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto il mio interesse e la mia reputazione, senza pregiudicare alla mia libertà.
SCENA QUATTORDICESIMA
Il Cavaliere di dentro, e detta; poi Fabrizio.
Il Cavaliere batte per di dentro alla porta.
MIRANDOLINA: Battono a questa porta: chi sarà mai? (S'accosta.)
CAVALIERE: Mirandolina.
(Di dentro.)
MIRANDOLINA: (L'amico è qui).
(Da sé.)
CAVALIERE: Mirandolina, apritemi.
(Come sopra.)
MIRANDOLINA: (Aprirgli? Non sono sì gonza).
Che comanda, signor Cavaliere?
CAVALIERE: Apritemi.
(Di dentro.)
MIRANDOLINA: Favorisca andare nella sua camera, e mi aspetti, che or ora son da lei.
CAVALIERE: Perché non volete aprirmi? (Come sopra.)
MIRANDOLINA: Arrivano de' forestieri.
Mi faccia questa grazia, vada, che or ora sono da lei.
CAVALIERE: Vado: se non venite, povera voi.
(Parte.)
MIRANDOLINA: Se non venite, povera voi! Povera me, se vi andassi.
La cosa va sempre peggio.
Rimediamoci, se si può.
È andato via? (Guarda al buco della chiave.) Sì, sì, è andato.
Mi aspetta in camera, ma non vi vado.
Ehi? Fabrizio.
(Ad un'altra porta.) Sarebbe bella che ora Fabrizio si vendicasse di me, e non volesse...
Oh, non vi è pericolo.
Ho io certe manierine, certe smorfiette, che bisogna che caschino, se fossero di macigno.
Fabrizio.
(Chiama ad un'altra porta.)
FABRIZIO: Avete chiamato?
MIRANDOLINA: Venite qui; voglio farvi una confidenza.
FABRIZIO: Son qui.
MIRANDOLINA: Sappiate che il Cavaliere di Ripafratta si è scoperto innamorato di me.
FABRIZIO: Eh, me ne sono accorto.
MIRANDOLINA: Sì? Ve ne siete accorto? Io in verità non me ne sono mai avveduta.
FABRIZIO: Povera semplice! Non ve ne siete accorta! Non avete veduto, quando stiravate col ferro, le smorfie che vi faceva? La gelosia che aveva di me?
MIRANDOLINA: Io che opero senza malizia, prendo le cose con indifferenza.
Basta; ora mi ha dette certe parole, che in verità, Fabrizio, mi hanno fatto arrossire.
FABRIZIO: Vedete: questo vuol dire perché siete una giovane sola, senza padre, senza madre, senza nessuno.
Se foste maritata, non andrebbe così.
MIRANDOLINA: Orsù, capisco che dite bene; ho pensato di maritarmi.
FABRIZIO: Ricordatevi di vostro padre.
MIRANDOLINA: Sì, me ne ricordo.
SCENA QUINDICESIMA
Il Cavaliere di dentro e detti.
Il Cavaliere batte alla porta dove era prima.
MIRANDOLINA: Picchiano.
(A Fabrizio.)
FABRIZIO: Chi è che picchia? (Forte verso la porta.)
CAVALIERE: Apritemi.
(Di dentro.)
MIRANDOLINA: Il Cavaliere.
(A Fabrizio.)
FABRIZIO: Che cosa vuole? (S'accosta per aprirgli.)
MIRANDOLINA: Aspettate ch'io parta.
FABRIZIO: Di che avete timore?
MIRANDOLINA: Caro Fabrizio, non so, ho paura della mia onestà.
(Parte.)
FABRIZIO: Non dubitate, io vi difenderò.
CAVALIERE: Apritemi, giuro al cielo.
(Di dentro.)
FABRIZIO: Che comanda, signore? Che strepiti sono questi? In una locanda onorata non si fa così.
CAVALIERE: Apri questa porta.
(Si sente che la sforza.)
FABRIZIO: Cospetto del diavolo! Non vorrei precipitare.
Uomini, chi è di là? Non ci è nessuno?
SCENA SEDICESIMA
Il Marchese ed il Conte dalla porta di mezzo, e detti.
CONTE: Che c'è? (Sulla porta.)
MARCHESE: Che rumore è questo? (Sulla porta.)
FABRIZIO: Signori, li prego: il signor Cavaliere di Ripafratta vuole sforzare quella porta.
(Piano, che il Cavaliere non senta.)
CAVALIERE: Aprimi, o la getto abbasso.
(Di dentro.)
MARCHESE: Che sia diventato pazzo? Andiamo via.
(Al Conte.)
CONTE: Apritegli.
(A Fabrizio.) Ho volontà per appunto di parlar con lui.
FABRIZIO: Aprirò; ma le supplico...
CONTE: Non dubitate.
Siamo qui noi.
MARCHESE: (Se vedo niente niente, me la colgo).
(Da sé.)
(Fabrizio apre, ed entra il Cavaliere.)
CAVALIERE: Giuro al cielo, dov'è?
FABRIZIO: Chi cercate, signore?
CAVALIERE: Mirandolina dov'è?
FABRIZIO: Io non lo so.
MARCHESE: (L'ha con Mirandolina.
Non è niente).
(Da sé.)
CAVALIERE: Scellerata, la troverò.
(S'incammina, e scopre il Conte e il Marchese.)
CONTE: Con chi l'avete? (Al Cavaliere.)
MARCHESE: Cavaliere, noi siamo amici.
CAVALIERE: (Oimè! Non vorrei per tutto l'oro del mondo che nota fosse questa mia debolezza).
(Da sé.)
FABRIZIO: Che cosa vuole, signore, dalla padrona?
CAVALIERE: A te non devo rendere questi conti.
Quando comando, voglio esser servito.
Pago i miei denari per questo, e giuro al cielo, ella avrà che fare con me.
FABRIZIO: V.S.
paga i suoi denari per essere servito nelle cose lecite e oneste: ma non ha poi da pretendere, la mi perdoni, che una donna onorata...
CAVALIERE: Che dici tu? Che sai tu? Tu non entri ne' fatti miei.
So io quel che ho ordinato a colei.
FABRIZIO: Le ha ordinato di venire nella sua camera.
CAVALIERE: Va via, briccone, che ti rompo il cranio.
FABRIZIO: Mi meraviglio di lei.
MARCHESE: Zitto.
(A Fabrizio.)
CONTE: Andate via.
(A Fabrizio.)
CAVALIERE: Vattene via di qui.
(A Fabrizio.)
FABRIZIO: Dico, signore...
(Riscaldandosi.)
MARCHESE: Via.
CONTE: Via.
(Lo cacciano via.)
FABRIZIO: (Corpo di bacco! Ho proprio voglia di precipitare).
(Da sé, parte.)
SCENA DICIASSETTESIMA
Il Cavaliere, il Marchese ed il Conte.
CAVALIERE: (Indegna! Farmi aspettar nella camera?).
(Da sé.)
MARCHESE: (Che diamine ha?).
(Piano al Conte.)
CONTE: (Non lo vedete? È innamorato di Mirandolina).
CAVALIERE: (E si trattiene con Fabrizio? E parla seco di matrimonio?).
(Da sé.)
CONTE: (Ora è il tempo di vendicarmi).
(Da sé.) Signor Cavaliere, non conviene ridersi delle debolezze altrui, quando si ha un cuore fragile come il vostro.
CAVALIERE: Di che intendete voi di parlare?
CONTE: So da che provengono le vostre smanie.
CAVALIERE: Intendete voi di che parli? (Alterato, al Marchese.)
MARCHESE: Amico, io non so niente.
CONTE: Parlo di voi, che col pretesto di non poter soffrire le donne, avete tentato rapirmi il cuore di Mirandolina, ch'era già mia conquista.
CAVALIERE: Io? (Alterato, verso il Marchese.)
MARCHESE: Io non parlo.
CONTE: Voltatevi a me, a me rispondete.
Vi vergognate forse d'aver mal proceduto?
CAVALIERE: Io mi vergogno d'ascoltarvi più oltre, senza dirvi che voi mentite.
CONTE: A me una mentita?
MARCHESE: (La cosa va peggiorando).
(Da sé.)
CAVALIERE: Con qual fondamento potete voi dire?...
(Il Conte non sa ciò che si dica).
(Al Marchese, irato.)
MARCHESE: Ma io non me ne voglio impiciare.
CONTE: Voi siete un mentitore.
MARCHESE: Vado via.
(Vuol partire.)
CAVALIERE: Fermatevi.
(Lo trattiene per forza.)
CONTE: E mi renderete conto...
CAVALIERE: Sì, vi renderò conto...
Datemi la vostra spada.
(Al Marchese.)
MARCHESE: Eh via, acquietatevi tutti due.
Caro Conte, cosa importa a voi che il Cavaliere ami Mirandolina?...
CAVALIERE: Io l'amo? Non è vero; mente chi lo dice.
MARCHESE: Mente? La mentita non viene da me.
Non sono io che lo dico.
CAVALIERE: Chi dunque?
CONTE: Io lo dico e lo sostengo, e non ho soggezione di voi.
CAVALIERE: Datemi quella spada.
(Al Marchese.)
MARCHESE: No, dico.
CAVALIERE: Siete ancora voi mio nemico?
MARCHESE: Io sono amico di tutti.
CONTE: Azioni indegne son queste.
CAVALIERE: Ah giuro al Cielo! (Leva la spada al Marchese, la quale esce col fodero.)
MARCHESE: Non mi perdete il rispetto.
(Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Se vi chiamate offeso, darò soddisfazione anche a voi.
(Al Marchese.)
MARCHESE: Via; siete troppo caldo.
(Mi dispiace...) (Da se, rammaricandosi.)
CONTE: Io voglio soddisfazione.
(Si mette in guardia.)
CAVALIERE: Ve la darò.
(Vuol levar il fodero, e non può.)
MARCHESE: Quella spada non vi conosce...
CAVALIERE: Oh maledetta! (Sforza per cavarlo.)
MARCHESE: Cavaliere, non farete niente...
CONTE: Non ho più sofferenza.
CAVALIERE: Eccola.
(Cava la spada, e vede essere mezza lama.) Che è questo?
MARCHESE: Mi avete rotta la spada.
CAVALIERE: Il resto dov'è? Nel fodero non v'è niente.
MARCHESE: Sì, è vero; l'ho rotta nell'ultimo duello; non me ne ricordavo.
CAVALIERE: Lasciatemi provveder d'una spada.
(Al Conte.)
CONTE: Giuro al cielo, non mi fuggirete di mano.
CAVALIERE: Che fuggire? Ho cuore di farvi fronte anche con questo pezzo di lama.
MARCHESE: È lama di Spagna, non ha paura.
CONTE: Non tanta bravura, signor gradasso.
CAVALIERE: Sì, con questa lama.
(S'avventa verso il Conte.)
CONTE: Indietro.
(Si pone in difesa.)
SCENA DICIOTTESIMA
Mirandolina, Fabrizio e detti.
FABRIZIO: Alto, alto, padroni.
MIRANDOLINA: Alto, signori miei, alto.
CAVALIERE: (Ah maledetta!).
(Vedendo Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Povera me! Colle spade?
MARCHESE: Vedete? Per causa vostra.
MIRANDOLINA: Come per causa mia?
CONTE: Eccolo lì il signor Cavaliere.
È innamorato di voi.
CAVALIERE: Io innamorato? Non è vero; mentite.
MIRANDOLINA: Il signor Cavaliere innamorato di me? Oh no, signor Conte, ella s'inganna.
Posso assicurarla, che certamente s'inganna.
CONTE: Eh, che siete voi pur d'accordo...
MIRANDOLINA: Si, si vede...
CAVALIERE: Che si sa? Che si vede? (Alterato, verso il Marchese.)
MARCHESE: Dico, che quando è, si sa...
Quando non è, non si vede.
MIRANDOLINA: Il signor cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia, mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza.
Confesso il vero, che se riuscito mi fosse d'innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del mondo.
Un uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto, non si può sperare d'innamorarlo.
Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e non posso celare la verità.
Ho tentato d'innamorare il signor Cavaliere, ma non ho fatto niente.
(Al Cavaliere.)
CAVALIERE: (Ah! Non posso parlare).
(Da sé.)
CONTE: Lo vedete? Si confonde.
(A Mirandolina.)
MARCHESE: Non ha coraggio di dir di no.
(A Mirandolina.)
CAVALIERE: Voi non sapete quel che vi dite.
(Al Marchese, irato.)
MARCHESE: E sempre l'avete con me.
(Al Cavaliere, dolcemente.)
MIRANDOLINA: Oh, il signor Cavaliere non s'innamora.
Conosce l'arte.
Sa la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida.
Degli svenimenti poi se ne ride.
CAVALIERE: Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti?
MIRANDOLINA: Come! Non lo sa, o finge di non saperlo?
CAVALIERE: Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile nel cuore.
MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch'è innamorato davvero.
CONTE: Sì, lo è, non lo può nascondere.
MARCHESE: Si vede negli occhi.
CAVALIERE: No, non lo sono.
(Irato al Marchese.)
MARCHESE: E sempre con me.
MIRANDOLINA: No signore, non è innamorato.
Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo.
CAVALIERE: (Non posso più).
(Da sé.) Conte, ad altro tempo mi troverete provveduto di spada.
(Getta via la mezza spada del Marchese.)
MARCHESE: Ehi! la guardia costa denari.
(La prende di terra.)
MIRANDOLINA: Si fermi, signor Cavaliere, qui ci va della sua riputazione.
Questi signori credono ch'ella sia innamorato; bisogna disingannarli.
CAVALIERE: Non vi è questo bisogno.
MIRANDOLINA: Oh sì, signore.
Si trattenga un momento.
CAVALIERE: (Che far intende costei?).
(Da sé.)
MIRANDOLINA: Signori, il più certo segno d'amore è quello della gelosia, e chi non sente la gelosia, certamente non ama.
Se il signor Cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire ch'io fossi d'un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno...
CAVALIERE: Di chi volete voi essere?
MIRANDOLINA: Di quello a cui mi ha destinato mio padre.
FABRIZIO: Parlate forse di me? (A Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Sì, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo' dar la mano di sposa.
CAVALIERE: (Oimè! Con colui? non ho cuor di soffrirlo).
(Da sé, smaniando.)
CONTE: (Se sposa Fabrizio, non ama il Cavaliere).
(Da sé.) Sì, sposatevi, e vi prometto trecento scudi.
MARCHESE: Mirandolina, è meglio un uovo oggi, che una gallina domani.
Sposatevi ora, e vi do subito dodici zecchini.
MIRANDOLINA: Grazie, signori, non ho bisogno di dote.
Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d'innamorar persone di merito.
Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo...
CAVALIERE: Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi.
So che tu m'ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d'avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare la mia tolleranza.
Meriteresti che io pagassi gli inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch'io ti strappassi il cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici.
Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi.
Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo.
(Parte.)
SCENA DICIANNOVESIMA
Mirandolina, il Conte, il Marchese e Fabrizio.
CONTE: Dica ora di non essere innamorato.
MARCHESE: Se mi dà un'altra mentita, da cavaliere lo sfido.
MIRANDOLINA: Zitto, signori zitto.
È andato via, e se non torna, e se la cosa passa così, posso dire di essere fortunata.
Pur troppo, poverino, mi è riuscito d'innamorarlo, e mi son messa ad un brutto rischio.
Non ne vo' saper altro.
Fabrizio, vieni qui, caro, dammi la mano.
FABRIZIO: La mano? Piano un poco, signora.
Vi dilettate d'innamorar la gente in questa maniera, e credete ch'io vi voglia sposare?
MIRANDOLINA: Eh via, pazzo! È stato uno scherzo, una bizzarria, un puntiglio.
Ero fanciulla, non avevo nessuno che mi comandasse.
Quando sarò maritata, so io quel che farò.
FABRIZIO: Che cosa farete?
SCENA ULTIMA
Il Servitore del Cavaliere e detti.
SERVITORE: Signora padrona, prima di partire son venuto a riverirvi.
MIRANDOLINA: Andate via?
SERVITORE: Sì.
Il padrone va alla Posta.
Fa attaccare: mi aspetta colla roba, e ce ne andiamo a Livorno.
MIRANDOLINA: Compatite, se non vi ho fatto...
SERVITORE: Non ho tempo da trattenermi.
Vi ringrazio, e vi riverisco.
(Parte.)
MIRANDOLINA: Grazie al cielo, è partito.
Mi resta qualche rimorso; certamente è partito con poco gusto.
Di questi spassi non me ne cavo mai più.
CONTE: Mirandolina, fanciulla o maritata che siate, sarò lo stesso per voi.
MARCHESE: Fate pure capitale della mia protezione.
MIRANDOLINA: Signori miei, ora che mi marito, non voglio protettori, non voglio spasimanti, non voglio regali.
Sinora mi sono divertita, e ho fatto male, e mi sono arrischiata troppo, e non lo voglio fare mai più.
Questi è mio marito...
FABRIZIO: Ma piano, signora...
MIRANDOLINA: Che piano! Che cosa c'è? Che difficoltà ci sono? Andiamo.
Datemi quella mano.
FABRIZIO: Vorrei che facessimo prima i nostri patti.
MIRANDOLINA: Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese.
FABRIZIO: Vi darò la mano...
ma poi...
MIRANDOLINA: Ma poi, sì, caro, sarò tutta tua; non dubitare di me ti amerò sempre, sarai l'anima mia.
FABRIZIO: Tenete, cara, non posso più.
(Le dà la mano.)
MIRANDOLINA: (Anche questa è fatta).
(Da sé.)
CONTE: Mirandolina, voi siete una gran donna, voi avete l'abilità di condur gli uomini dove volete.
MARCHESE: Certamente la vostra maniera obbliga infinitamente.
MIRANDOLINA: Se è vero ch'io possa sperar grazie da lor signori, una ne chiedo loro per ultimo.
CONTE: Dite pure.
MARCHESE: Parlate.
FABRIZIO: (Che cosa mai adesso domanderà?).
(Da sé.)
MIRANDOLINA: Le supplico per atto di grazia, a provvedersi di un'altra locanda.
FABRIZIO: (Brava; ora vedo che la mi vuol bene).
(Da sé.)
CONTE: Sì, vi capisco e vi lodo.
Me ne andrò, ma dovunque io sia, assicuratevi della mia stima.
MARCHESE: Ditemi: avete voi perduta una boccettina d'oro?
MIRANDOLINA: Sì signore.
MARCHESE: Eccola qui.
L'ho ritrovata, e ve la rendo.
Partirò per compiacervi, ma in ogni luogo fate pur capitale della mia protezione.
MIRANDOLINA: Queste espressioni mi saran care, nei limiti della convenienza e dell'onestà.
Cambiando stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera.
Fine della Commedia
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