LA LOCANDIERA, di Carlo Goldoni - pagina 10
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Tant'era se fosse stata d'oro.
Manco male, che con poco l'aggiusterò.
Se Mirandolina vorrà la sua boccetta, gliela pagherò, quando ne avrò.
SERVITORE (cerca sul tavolo): Dove diamine sarà questa boccetta?
MARCHESE: Che cosa cercate, galantuomo?
SERVITORE: Cerco una boccetta di spirito di melissa.
La signora Mirandolina la vorrebbe.
Dice che l'ha lasciata qui, ma non la ritrovo.
MARCHESE: Era una boccettina di princisbech?
SERVITORE: No signore, era d'oro.
MARCHESE: D'oro?
SERVITORE: Certo che era d'oro.
L'ho veduta comprar io per dodici zecchini.
(Cerca.)
MARCHESE: (Oh povero me!).
(Da sé.) Ma come lasciar così una boccetta d'oro?
SERVITORE: Se l'è scordata, ma io non la trovo.
MARCHESE: Mi pare ancora impossibile che fosse d'oro.
SERVITORE: Era oro, gli dico.
L'ha forse veduta V.E.?
MARCHESE: Io?...
Non ho veduto niente.
SERVITORE: Basta.
Le dirò che non la trovo.
Suo danno.
Doveva mettersela in tasca.
(Parte.)
SCENA DODICESIMA
Il Marchese, poi il Conte.
MARCHESE: Oh povero Marchese di Forlipopoli! Ho donata una boccetta d'oro, che val dodici zecchini, e l'ho donata per princisbech.
Come ho da regolarmi in un caso di tanta importanza? Se recupero la boccetta dalla Contessa, mi fo ridicolo presso di lei; se Mirandolina viene a scoprire ch'io l'abbia avuta, è in pericolo il mio decoro.
Son cavaliere.
Devo pagarla.
Ma non ho danari.
CONTE: Che dite, signor Marchese, della bellissima novità?
MARCHESE: Di quale novità?
CONTE: Il Cavaliere Selvatico, il disprezzator delle donne, è innamorato di Mirandolina.
MARCHESE: L'ho caro.
Conosca suo malgrado il merito di questa donna; veda che io non m'invaghisco di chi non merita; e peni e crepi per gastigo della sua impertinenza.
CONTE: Ma se Mirandolina gli corrisponde?
MARCHESE: Ciò non può essere.
Ella non farà a me questo torto.
Sa chi sono.
Sa cosa ho fatto per lei.
CONTE: Io ho fatto per essa assai più di voi.
Ma tutto è gettato.
Mirandolina coltiva il Cavaliere di Ripafratta, ha usato verso di lui quelle attenzioni che non ha praticato né a voi, né a me; e vedesi che, colle donne, più che si sa, meno si merita, e che burlandosi esse di che le adora, corrono dietro a chi le disprezza.
MARCHESE: Se ciò fosse vero...
ma non può essere.
CONTE: Perché non può essere?
MARCHESE: Vorreste mettere il Cavaliere a confronto di me?
CONTE: Non l'avete veduta voi stesso sedere alla di lui tavola? Con noi ha praticato mai un atto di simile confidenza? A lui biancheria distinta.
Servito in tavola prima di tutti.
Le pietanze gliele fa ella colle sue mani.
I servidori vedono tutto, e parlano.
Fabrizio freme di gelosia.
E poi quello svenimento, vero o finto che fosse, non è segno manifesto d'amore?
MARCHESE: Come! A lui si fanno gl'intingoli saporiti, e a me carnaccia di bue, e minestra di riso lungo? Sì, è vero, questo è uno strapazzo al mio grado, alla mia condizione.
CONTE: Ed io che ho speso tanto per lei?
MARCHESE: Ed io che la regalava continuamente? Le ho fino dato da bere di quel vino di Cipro così prezioso.
Il Cavaliere non avrà fatto con costei una minima parte di quello che abbiamo fatto noi.
CONTE: Non dubitate, che anch'egli l'ha regalata.
MARCHESE: Sì? Che cosa le ha donato?
CONTE: Una boccettina d'oro con dello spirito di melissa.
MARCHESE: (Oimè!) (Da sé.) Come lo avete saputo?
CONTE: Il di lui servidore l'ha detto al mio.
MARCHESE: (Sempre peggio.
Entro in un impegno col Cavaliere).
(Da sé.)
CONTE: Vedo che costei è un'ingrata; voglio assolutamente lasciarla.
Voglio partire or ora da questa locanda indegna.
MARCHESE: Sì, fate bene, andate.
CONTE: E voi che siete un cavaliere di tanta riputazione, dovreste partire con me.
MARCHESE: Ma...
dove dovrei andare?
CONTE: Vi troverò io un alloggio.
Lasciate pensare a me.
MARCHESE: Quest'alloggio...
sarà per esempio...
CONTE: Andremo in casa d'un mio paesano.
Non ispenderemo nulla.
MARCHESE: Basta, siete tanto mio amico, che non posso dirvi di no.
CONTE: Andiamo, e vendichiamoci di questa femmina sconoscente.
MARCHESE: Sì, andiamo.
(Ma come sarà poi della boccetta? Son cavaliere, non posso fare una malazione).
(Da sé.)
CONTE: Non vi pentite, signor Marchese, andiamo via di qui.
Fatemi questo piacere, e poi comandatemi dove posso, che vi servirò.
MARCHESE: Vi dirò.
In confidenza, ma che nessuno lo sappia.
Il mio fattore mi ritarda qualche volta le mie rimesse...
CONTE: Le avete forse da dar qualche cosa?
MARCHESE: Sì, dodici zecchini.
CONTE: Dodici zecchini? Bisogna che sia dei mesi, che non pagate.
MARCHESE: Così è, le devo dodici zecchini.
Non posso di qua partire senza pagarla.
Se voi mi faceste il piacere...
CONTE: Volentieri.
Eccovi dodici zecchini.
(Tira fuori la borsa.)
MARCHESE: Aspettate.
Ora che mi ricordo, sono tredici.
(Voglio rendere il suo zecchino anche al Cavaliere).
(Da sé.)
CONTE: Dodici o tredici è lo stesso per me.
Tenete.
MARCHESE: Ve li renderò quanto prima.
CONTE: Servitevi quanto vi piace.
Danari a me non ne mancano; e per vendicarmi di costei, spenderei mille doppie.
MARCHESE: Sì, veramente è un'ingrata.
Ho speso tanto per lei, e mi tratta così.
CONTE: Voglio rovinare la sua locanda.
Ho fatto andar via anche quelle due commedianti.
MARCHESE: Dove sono le commedianti?
CONTE: Erano qui: Ortensia e Dejanira.
MARCHESE: Come! Non sono dame?
CONTE: No.
Sono due comiche.
Sono arrivati i loro comnpagni, e la favola è terminata.
MARCHESE: (La mia boccetta!).
(Da sé.) Dove sono alloggiate?
CONTE: In una casa vicino al teatro.
MARCHESE: (Vado subito a ricuperare la mia boccetta).
(Da se, parte.)
CONTE: Con costei mi voglio vendicar così.
Il Cavaliere poi, che ha saputo fingere per tradirmi, in altra maniera me ne renderà conto.
(Parte.)
SCENA TREDICESIMA
Camera con tre porte.
MIRANDOLINA (sola): Oh meschina me! Sono nel brutto impegno! Se il Cavaliere mi arriva, sto fresca.
Si è indiavolato maledettamente.
Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui.
Voglio chiudere questa porta.
(Serra la porta da dove è venuta.) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto.
È vero che mi sono assai divertita nel farmi correr dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima.
Qui mi convien risolvere quelche cosa di grande.
Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda.
Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in tal caso mi potesse giovare.
Gli prometterò di sposarlo...
Ma...
prometti, prometti, si stancherà di credermi...
Sarebbe quasi meglio ch'io lo sposassi davvero.
Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto il mio interesse e la mia reputazione, senza pregiudicare alla mia libertà.
SCENA QUATTORDICESIMA
Il Cavaliere di dentro, e detta; poi Fabrizio.
Il Cavaliere batte per di dentro alla porta.
MIRANDOLINA: Battono a questa porta: chi sarà mai? (S'accosta.)
CAVALIERE: Mirandolina.
(Di dentro.)
MIRANDOLINA: (L'amico è qui).
(Da sé.)
CAVALIERE: Mirandolina, apritemi.
(Come sopra.)
MIRANDOLINA: (Aprirgli? Non sono sì gonza).
Che comanda, signor Cavaliere?
CAVALIERE: Apritemi.
(Di dentro.)
MIRANDOLINA: Favorisca andare nella sua camera, e mi aspetti, che or ora son da lei.
CAVALIERE: Perché non volete aprirmi? (Come sopra.)
MIRANDOLINA: Arrivano de' forestieri.
Mi faccia questa grazia, vada, che or ora sono da lei.
CAVALIERE: Vado: se non venite, povera voi.
(Parte.)
MIRANDOLINA: Se non venite, povera voi! Povera me, se vi andassi.
La cosa va sempre peggio.
Rimediamoci, se si può.
È andato via? (Guarda al buco della chiave.) Sì, sì, è andato.
Mi aspetta in camera, ma non vi vado.
Ehi? Fabrizio.
(Ad un'altra porta.) Sarebbe bella che ora Fabrizio si vendicasse di me, e non volesse...
Oh, non vi è pericolo.
Ho io certe manierine, certe smorfiette, che bisogna che caschino, se fossero di macigno.
Fabrizio.
(Chiama ad un'altra porta.)
FABRIZIO: Avete chiamato?
MIRANDOLINA: Venite qui; voglio farvi una confidenza.
FABRIZIO: Son qui.
MIRANDOLINA: Sappiate che il Cavaliere di Ripafratta si è scoperto innamorato di me.
FABRIZIO: Eh, me ne sono accorto.
MIRANDOLINA: Sì? Ve ne siete accorto? Io in verità non me ne sono mai avveduta.
FABRIZIO: Povera semplice! Non ve ne siete accorta! Non avete veduto, quando stiravate col ferro, le smorfie che vi faceva? La gelosia che aveva di me?
MIRANDOLINA: Io che opero senza malizia, prendo le cose con indifferenza.
Basta; ora mi ha dette certe parole, che in verità, Fabrizio, mi hanno fatto arrossire.
FABRIZIO: Vedete: questo vuol dire perché siete una giovane sola, senza padre, senza madre, senza nessuno.
Se foste maritata, non andrebbe così.
MIRANDOLINA: Orsù, capisco che dite bene; ho pensato di maritarmi.
FABRIZIO: Ricordatevi di vostro padre.
MIRANDOLINA: Sì, me ne ricordo.
SCENA QUINDICESIMA
Il Cavaliere di dentro e detti.
Il Cavaliere batte alla porta dove era prima.
MIRANDOLINA: Picchiano.
(A Fabrizio.)
FABRIZIO: Chi è che picchia? (Forte verso la porta.)
CAVALIERE: Apritemi.
(Di dentro.)
MIRANDOLINA: Il Cavaliere.
(A Fabrizio.)
FABRIZIO: Che cosa vuole? (S'accosta per aprirgli.)
MIRANDOLINA: Aspettate ch'io parta.
FABRIZIO: Di che avete timore?
MIRANDOLINA: Caro Fabrizio, non so, ho paura della mia onestà.
(Parte.)
FABRIZIO: Non dubitate, io vi difenderò.
CAVALIERE: Apritemi, giuro al cielo.
(Di dentro.)
FABRIZIO: Che comanda, signore? Che strepiti sono questi? In una locanda onorata non si fa così.
CAVALIERE: Apri questa porta.
(Si sente che la sforza.)
FABRIZIO: Cospetto del diavolo! Non vorrei precipitare.
Uomini, chi è di là? Non ci è nessuno?
SCENA SEDICESIMA
Il Marchese ed il Conte dalla porta di mezzo, e detti.
CONTE: Che c'è? (Sulla porta.)
MARCHESE: Che rumore è questo? (Sulla porta.)
FABRIZIO: Signori, li prego: il signor Cavaliere di Ripafratta vuole sforzare quella porta.
(Piano, che il Cavaliere non senta.)
CAVALIERE: Aprimi, o la getto abbasso.
(Di dentro.)
MARCHESE: Che sia diventato pazzo? Andiamo via.
(Al Conte.)
CONTE: Apritegli.
(A Fabrizio.) Ho volontà per appunto di parlar con lui.
FABRIZIO: Aprirò; ma le supplico...
CONTE: Non dubitate.
Siamo qui noi.
MARCHESE: (Se vedo niente niente, me la colgo).
(Da sé.)
(Fabrizio apre, ed entra il Cavaliere.)
CAVALIERE: Giuro al cielo, dov'è?
FABRIZIO: Chi cercate, signore?
CAVALIERE: Mirandolina dov'è?
FABRIZIO: Io non lo so.
MARCHESE: (L'ha con Mirandolina.
Non è niente).
(Da sé.)
CAVALIERE: Scellerata, la troverò.
(S'incammina, e scopre il Conte e il Marchese.)
CONTE: Con chi l'avete? (Al Cavaliere.)
MARCHESE: Cavaliere, noi siamo amici.
CAVALIERE: (Oimè! Non vorrei per tutto l'oro del mondo che nota fosse questa mia debolezza).
(Da sé.)
FABRIZIO: Che cosa vuole, signore, dalla padrona?
CAVALIERE: A te non devo rendere questi conti.
Quando comando, voglio esser servito.
Pago i miei denari per questo, e giuro al cielo, ella avrà che fare con me.
FABRIZIO: V.S.
paga i suoi denari per essere servito nelle cose lecite e oneste: ma non ha poi da pretendere, la mi perdoni, che una donna onorata...
CAVALIERE: Che dici tu? Che sai tu? Tu non entri ne' fatti miei.
So io quel che ho ordinato a colei.
FABRIZIO: Le ha ordinato di venire nella sua camera.
CAVALIERE: Va via, briccone, che ti rompo il cranio.
FABRIZIO: Mi meraviglio di lei.
MARCHESE: Zitto.
(A Fabrizio.)
CONTE: Andate via.
(A Fabrizio.)
CAVALIERE: Vattene via di qui.
(A Fabrizio.)
FABRIZIO: Dico, signore...
(Riscaldandosi.)
MARCHESE: Via.
CONTE: Via.
(Lo cacciano via.)
FABRIZIO: (Corpo di bacco! Ho proprio voglia di precipitare).
(Da sé, parte.)
SCENA DICIASSETTESIMA
Il Cavaliere, il Marchese ed il Conte.
CAVALIERE: (Indegna! Farmi aspettar nella camera?).
(Da sé.)
MARCHESE: (Che diamine ha?).
(Piano al Conte.)
CONTE: (Non lo vedete? È innamorato di Mirandolina).
CAVALIERE: (E si trattiene con Fabrizio? E parla seco di matrimonio?).
(Da sé.)
CONTE: (Ora è il tempo di vendicarmi).
(Da sé.) Signor Cavaliere, non conviene ridersi delle debolezze altrui, quando si ha un cuore fragile come il vostro.
CAVALIERE: Di che intendete voi di parlare?
CONTE: So da che provengono le vostre smanie.
CAVALIERE: Intendete voi di che parli? (Alterato, al Marchese.)
MARCHESE: Amico, io non so niente.
CONTE: Parlo di voi, che col pretesto di non poter soffrire le donne, avete tentato rapirmi il cuore di Mirandolina, ch'era già mia conquista.
CAVALIERE: Io? (Alterato, verso il Marchese.)
MARCHESE: Io non parlo.
CONTE: Voltatevi a me, a me rispondete.
Vi vergognate forse d'aver mal proceduto?
CAVALIERE: Io mi vergogno d'ascoltarvi più oltre, senza dirvi che voi mentite.
CONTE: A me una mentita?
MARCHESE: (La cosa va peggiorando).
(Da sé.)
CAVALIERE: Con qual fondamento potete voi dire?...
(Il Conte non sa ciò che si dica).
(Al Marchese, irato.)
MARCHESE: Ma io non me ne voglio impiciare.
CONTE: Voi siete un mentitore.
MARCHESE: Vado via.
(Vuol partire.)
CAVALIERE: Fermatevi.
(Lo trattiene per forza.)
CONTE: E mi renderete conto...
CAVALIERE: Sì, vi renderò conto...
Datemi la vostra spada.
(Al Marchese.)
MARCHESE: Eh via, acquietatevi tutti due.
Caro Conte, cosa importa a voi che il Cavaliere ami Mirandolina?...
CAVALIERE: Io l'amo? Non è vero; mente chi lo dice.
MARCHESE: Mente? La mentita non viene da me.
Non sono io che lo dico.
CAVALIERE: Chi dunque?
CONTE: Io lo dico e lo sostengo, e non ho soggezione di voi.
CAVALIERE: Datemi quella spada.
(Al Marchese.)
MARCHESE: No, dico.
CAVALIERE: Siete ancora voi mio nemico?
MARCHESE: Io sono amico di tutti.
CONTE: Azioni indegne son queste.
CAVALIERE: Ah giuro al Cielo! (Leva la spada al Marchese, la quale esce col fodero.)
MARCHESE: Non mi perdete il rispetto.
(Al Cavaliere.)
CAVALIERE: Se vi chiamate offeso, darò soddisfazione anche a voi.
(Al Marchese.)
MARCHESE: Via; siete troppo caldo.
(Mi dispiace...) (Da se, rammaricandosi.)
CONTE: Io voglio soddisfazione.
(Si mette in guardia.)
CAVALIERE: Ve la darò.
(Vuol levar il fodero, e non può.)
MARCHESE: Quella spada non vi conosce...
CAVALIERE: Oh maledetta! (Sforza per cavarlo.)
MARCHESE: Cavaliere, non farete niente...
CONTE: Non ho più sofferenza.
CAVALIERE: Eccola.
(Cava la spada, e vede essere mezza lama.) Che è questo?
MARCHESE: Mi avete rotta la spada.
CAVALIERE: Il resto dov'è? Nel fodero non v'è niente.
MARCHESE: Sì, è vero; l'ho rotta nell'ultimo duello; non me ne ricordavo.
CAVALIERE: Lasciatemi provveder d'una spada.
(Al Conte.)
CONTE: Giuro al cielo, non mi fuggirete di mano.
CAVALIERE: Che fuggire? Ho cuore di farvi fronte anche con questo pezzo di lama.
MARCHESE: È lama di Spagna, non ha paura.
CONTE: Non tanta bravura, signor gradasso.
CAVALIERE: Sì, con questa lama.
(S'avventa verso il Conte.)
CONTE: Indietro.
(Si pone in difesa.)
SCENA DICIOTTESIMA
Mirandolina, Fabrizio e detti.
FABRIZIO: Alto, alto, padroni.
MIRANDOLINA: Alto, signori miei, alto.
CAVALIERE: (Ah maledetta!).
(Vedendo Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Povera me! Colle spade?
MARCHESE: Vedete? Per causa vostra.
MIRANDOLINA: Come per causa mia?
CONTE: Eccolo lì il signor Cavaliere.
È innamorato di voi.
CAVALIERE: Io innamorato? Non è vero; mentite.
MIRANDOLINA: Il signor Cavaliere innamorato di me? Oh no, signor Conte, ella s'inganna.
Posso assicurarla, che certamente s'inganna.
CONTE: Eh, che siete voi pur d'accordo...
MIRANDOLINA: Si, si vede...
CAVALIERE: Che si sa? Che si vede? (Alterato, verso il Marchese.)
MARCHESE: Dico, che quando è, si sa...
Quando non è, non si vede.
MIRANDOLINA: Il signor cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia, mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza.
Confesso il vero, che se riuscito mi fosse d'innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del mondo.
Un uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto, non si può sperare d'innamorarlo.
Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e non posso celare la verità.
Ho tentato d'innamorare il signor Cavaliere, ma non ho fatto niente.
(Al Cavaliere.)
CAVALIERE: (Ah! Non posso parlare).
(Da sé.)
CONTE: Lo vedete? Si confonde.
(A Mirandolina.)
MARCHESE: Non ha coraggio di dir di no.
(A Mirandolina.)
CAVALIERE: Voi non sapete quel che vi dite.
(Al Marchese, irato.)
MARCHESE: E sempre l'avete con me.
(Al Cavaliere, dolcemente.)
MIRANDOLINA: Oh, il signor Cavaliere non s'innamora.
Conosce l'arte.
Sa la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida.
Degli svenimenti poi se ne ride.
CAVALIERE: Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti?
MIRANDOLINA: Come! Non lo sa, o finge di non saperlo?
CAVALIERE: Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile nel cuore.
MIRANDOLINA: Signor Cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch'è innamorato davvero.
CONTE: Sì, lo è, non lo può nascondere.
MARCHESE: Si vede negli occhi.
CAVALIERE: No, non lo sono.
(Irato al Marchese.)
MARCHESE: E sempre con me.
MIRANDOLINA: No signore, non è innamorato.
Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo.
CAVALIERE: (Non posso più).
(Da sé.) Conte, ad altro tempo mi troverete provveduto di spada.
(Getta via la mezza spada del Marchese.)
MARCHESE: Ehi! la guardia costa denari.
(La prende di terra.)
MIRANDOLINA: Si fermi, signor Cavaliere, qui ci va della sua riputazione.
Questi signori credono ch'ella sia innamorato; bisogna disingannarli.
CAVALIERE: Non vi è questo bisogno.
MIRANDOLINA: Oh sì, signore.
Si trattenga un momento.
CAVALIERE: (Che far intende costei?).
(Da sé.)
MIRANDOLINA: Signori, il più certo segno d'amore è quello della gelosia, e chi non sente la gelosia, certamente non ama.
Se il signor Cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire ch'io fossi d'un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno...
CAVALIERE: Di chi volete voi essere?
MIRANDOLINA: Di quello a cui mi ha destinato mio padre.
FABRIZIO: Parlate forse di me? (A Mirandolina.)
MIRANDOLINA: Sì, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo' dar la mano di sposa.
CAVALIERE: (Oimè! Con colui? non ho cuor di soffrirlo).
(Da sé, smaniando.)
CONTE: (Se sposa Fabrizio, non ama il Cavaliere).
(Da sé.) Sì, sposatevi, e vi prometto trecento scudi.
MARCHESE: Mirandolina, è meglio un uovo oggi, che una gallina domani.
Sposatevi ora, e vi do subito dodici zecchini.
MIRANDOLINA: Grazie, signori, non ho bisogno di dote.
Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d'innamorar persone di merito.
Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza loro lo sposo...
CAVALIERE: Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi.
So che tu m'ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d'avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare la mia tolleranza.
Meriteresti che io pagassi gli inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch'io ti strappassi il cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici.
Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi.
Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo.
(Parte.)
SCENA DICIANNOVESIMA
Mirandolina, il Conte, il Marchese e Fabrizio.
CONTE: Dica ora di non essere innamorato.
MARCHESE: Se mi dà un'altra mentita, da cavaliere lo sfido.
MIRANDOLINA: Zitto, signori zitto.
È andato via, e se non torna, e se la cosa passa così, posso dire di essere fortunata.
Pur troppo, poverino, mi è riuscito d'innamorarlo, e mi son messa ad un brutto rischio.
Non ne vo' saper altro.
Fabrizio, vieni qui, caro, dammi la mano.
FABRIZIO: La mano? Piano un poco, signora.
Vi dilettate d'innamorar la gente in questa maniera, e credete ch'io vi voglia sposare?
MIRANDOLINA: Eh via, pazzo! È stato uno scherzo, una bizzarria, un puntiglio.
Ero fanciulla, non avevo nessuno che mi comandasse.
Quando sarò maritata, so io quel che farò.
FABRIZIO: Che cosa farete?
SCENA ULTIMA
Il Servitore del Cavaliere e detti.
SERVITORE: Signora padrona, prima di partire son venuto a riverirvi.
MIRANDOLINA: Andate via?
SERVITORE: Sì.
Il padrone va alla Posta.
Fa attaccare: mi aspetta colla roba, e ce ne andiamo a Livorno.
MIRANDOLINA: Compatite, se non vi ho fatto...
SERVITORE: Non ho tempo da trattenermi.
Vi ringrazio, e vi riverisco.
(Parte.)
MIRANDOLINA: Grazie al cielo, è partito.
Mi resta qualche rimorso; certamente è partito con poco gusto.
Di questi spassi non me ne cavo mai più.
CONTE: Mirandolina, fanciulla o maritata che siate, sarò lo stesso per voi.
MARCHESE: Fate pure capitale della mia protezione.
MIRANDOLINA: Signori miei, ora che mi marito, non voglio protettori, non voglio spasimanti, non voglio regali.
Sinora mi sono divertita, e ho fatto male, e mi sono arrischiata troppo, e non lo voglio fare mai più.
Questi è mio marito...
FABRIZIO: Ma piano, signora...
MIRANDOLINA: Che piano! Che cosa c'è? Che difficoltà ci sono? Andiamo.
Datemi quella mano.
FABRIZIO: Vorrei che facessimo prima i nostri patti.
MIRANDOLINA: Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese.
FABRIZIO: Vi darò la mano...
ma poi...
MIRANDOLINA: Ma poi, sì, caro, sarò tutta tua; non dubitare di me ti amerò sempre, sarai l'anima mia.
FABRIZIO: Tenete, cara, non posso più.
(Le dà la mano.)
MIRANDOLINA: (Anche questa è fatta).
(Da sé.)
CONTE: Mirandolina, voi siete una gran donna, voi avete l'abilità di condur gli uomini dove volete.
MARCHESE: Certamente la vostra maniera obbliga infinitamente.
MIRANDOLINA: Se è vero ch'io possa sperar grazie da lor signori, una ne chiedo loro per ultimo.
CONTE: Dite pure.
MARCHESE: Parlate.
FABRIZIO: (Che cosa mai adesso domanderà?).
(Da sé.)
MIRANDOLINA: Le supplico per atto di grazia, a provvedersi di un'altra locanda.
FABRIZIO: (Brava; ora vedo che la mi vuol bene).
(Da sé.)
CONTE: Sì, vi capisco e vi lodo.
Me ne andrò, ma dovunque io sia, assicuratevi della mia stima.
MARCHESE: Ditemi: avete voi perduta una boccettina d'oro?
MIRANDOLINA: Sì signore.
MARCHESE: Eccola qui.
L'ho ritrovata, e ve la rendo.
Partirò per compiacervi, ma in ogni luogo fate pur capitale della mia protezione.
MIRANDOLINA: Queste espressioni mi saran care, nei limiti della convenienza e dell'onestà.
Cambiando stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera.
Fine della Commedia
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