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Aloigia, Parabolano e Rosso.
ALOIGIA Signore, piano, venite queto, datemi la mano.
PARABOLANO O Dio, quante quante grazie vi rendo, Aloigia e Rosso.
SCENA QUATTORDICESIMA
Rosso, solo.
Va pur là che mangerai di quella vacca che fai mangiare a noi, poveri servitori, tutto l'anno! E bel serÃa che qualche assassino fussi là dentro e taglià ssiti in mille pezzi, ladron, acciò che tu avessi quel de' cani!
SCENA QUINDICESIMA
Aloigia e Rosso.
ALOIGIA Egli è seco in camera e fremita come uno stallon ch'ha visto le cavalle, e sospira e piagne, fa inchini con tante 'signoria' che non ha tante la Spagna al seggio capuano, e gli promette di farla duchessa di Campo Salino e de' la Magliana.
ROSSO S'io me delettassi, arÃa trattato da signore il padrone con farli la credenza! Ma ragionamo in sul saldo; quante limosine fai tu l'anno di questa sorte, che i traditori meritano anche peggio?
ALOIGIA Le migliaia ne faccio, e arÃa faccenda a trovare le romanesche a ogni scempio! E forse ch'ogni villano ch'ha un poco di ciambellotto intorno, non fa el monsignore, e subito vuol ch'io gli conduca le gintildonne? E io con le fornare gli sfamo e son trapagata come fussino reine, goffi ribaldi! Ma che pensi tu?
ROSSO Penso che domani esco di tinello, se già la cosa non si scopre; e se la si scopre che sarà ? Io ho fatto animo che son certo che merito le forche per l'assassinamento ch'io faccio al padrone, e non ci penso!
ALOIGIA Che omo terribile!
ROSSO Non mai conobbi altra paura a' miei dÃ, che del tinello.
ALOIGIA Adonque il tinello impaurisce un sà gran braccio?
ROSSO Se tu vedessi una volta apparecchiata una tavola in tinello e avessi a mangiare le vivande che vi son suso, tu moriresti di paura.
ALOIGIA Non mai piú li attesi.
ROSSO Come tu entri in tinello, e si' di chi vuole, ti si presenta agli occhi una sà oscura tomba, che le sepolture son piú allegre, e di state bollono per el gran caldo e di verno ti fanno aghiacciare le parole in bocca e con continuo fetore e sà fiero, che torrebbe l'odore al zibetto; e non vien da altro la peste, ché come se serrassino i tinelli, Roma sarebbe subito sanata dal morbo.
ALOIGIA Misericordia!
ROSSO La tovaglia è de piú colori che un grembiule da dipintori e lavata nel sevo de le candele di porco che avanzarono la sera; ancora che 'l piú de le volte si mangia al buio, e con pane di smalto, senza potersi mai nettare né bocca né mani, si mangia de la madre di San Luca a tutto pasto.
ALOIGIA Donque si mangia de la carne de' santi?
ROSSO E de' Crocefissi! Ma io dico la madre di San Luca, perché se dipinge bue e la madre è una vacca.
ALOIGIA Ah, ah, ah!
ROSSO E quella vacca è piú vecchia che l''imprincipio', cotta sà manigoldamente che farÃa fuggire la fame a l'astinenzia.
ALOIGIA Se doverÃan vergognare!
ROSSO Mattina e sera, sempre de la medesima vacca, e fa un brodo che la liscia sarebbe uno zuccaro.
ALOIGIA Eh, eh!
ROSSO Non vomitare, che c'è peggio: cavoli, navoni e cucuzze, sempre in minestra; dico quando si getton via, altrimenti non ci pensare! È vero che ci ristorano e' frutti doi tagliature di provatura che ci fanno una colla in su lo stomaco che ammazzaria una statua.
ALOIGIA Iesus!
ROSSO Mi ero scordato la Quaresima. Odi questa: tutta la Quaresima, ci fanno digiunare. Forse che la mattina ci tratton bene? Quattro alice o diece sarde marce e vintecinque telline che fanno disperare la fame, che per stracchezza si sazia, e una scodella di fave senza olio e senza sale, poi la sera cinque bocconi de pane che guastarebbono la bocca a' satiri.
ALOIGIA Oh, oh, oh, oh! che ribalderia!
ROSSO Vien poi la state, che l'omo appetisce i luoghi freschi, e tu entri in tinello dove ti assalta un caldo creato in quelle sporcherie d'ossame coperte di mosche, che spaventaria la rabbia, non che l'appetito. El vino di poi ti ristora? Per mia fe' che è meno stomachevole una medecina! È adacquato di acqua tepida, stata un giorno in vaso di rame, che penso l'odore del vaso ti conforta tutto.
ALOIGIA Lordi, gagliofli!
ROSSO Accaderà in cento anni fare un banchetto, e ci avanza colli, piedi e capi di pollami e altre cose de quali c'è dato parte; ma sonsi prima da tante mani annoverate, che doventano piú succidi che non è la cappa di Giuliano Leni su da collo; quanto c'è di buono [è] la galanteria degli ufficiali tutti sfranciosati e tignosi; e se 'l Tevere gli corressi dietro, non sarÃano per lavarsi le mani. Ma vòi vedere se stiamo male? Le mura sempre piangono, ché pare gl'incresca la miseria de chi vi mangia.
ALOIGIA Tu hai mille ragioni d'avere paura de' tinelli.
ROSSO Veneri e sabati sempre ova marce, e con piú miseria che se le fussero nate allora allora. E quel che ci fa piú renegare Iddio, è la indescrezione de lo scalco, che a pena avemo fenito l'ultimo boccone, che ci caccia col despettoso suono de la bacchetta, e non vuol mai che finiamo il pasto con le parole, poiché col cibo non è possibile.
ALOIGIA E forse ch'ognuno non corre a Roma per acconciarsi? O che crudeltà son queste? Ma ascolta!...
Oh sventurati, oh disfatti! Romore è in casa mia! Sempre n'ho avuto paura! Ohimè, ruinati siamo! Lasciamo ire. A vedere che cosa è.
SCENA SEDICESIMA
Rosso, solo.
Io son piú ruinato ch'una anticaglia. Dove anderò io, che non mi gionga! O che romore! Egli l'ammazza e la fornara e la roffiana! A rimediare!
SCENA DICIASSETTESIMA
Parabolano, solo.
Io sono el piú vituperato uomo del mondo, e stammi molto bene poich'io mi sono cosà lasciato menare da una roffiana e da un famiglio. E forse che non mi son riso di quella burla di Filippo Adimari, che, cavando i fondamenti de la casa che egli fa in Trastevere, gli fu detto che sul vespero vi era stato trovato quattro statue di bronzo: ond'egli in sottana, a piedi e solo, corse a vedere come un pazzo, e non ritrovando nulla restò com'ora son rimaso io a questa burla? E quanta noia ancora ho dato a Messer Marco Bracci fiorentino di quella imagine di cera che trovò sotto el capezzale, messagli da Piero Aretino? Imaginandosi che la fussi una malÃa, fece mettere a la corda la signora Marticci, credendosi che, essendo la notte dormita seco, gli avessi fatto tal fattura per troppo amore. Cosà m'ho preso piacer de' dieci siroppi che prese messer Francesco Tornabuoni, sendoli dato a intendere che aveva il mal francioso. Ma chi non riderà ? E tu, Valerio, da me a torto scacciato, dove sei? Adesso cognosco io ch'un servitore intende el vero.
SCENA DICIOTTESIMA
Valerio e Parabolano.
VALERIO Signore mio, ecco qui Valerio, vostro servitore e, volete o no, da voi ricognosco quel ch'io sono e mi dolgo de le pessime lingue e de la maligna sorte mia, che senza causa mi vi ha messo in disgrazia.
PARABOLANO Valerio, la colpa è d'amore che contro al mio costume m'ha fatto credere troppo: non ti dolere di me.
VALERIO Io mi dolgo de la natura di voi signori, che cosà facile credenze date agli asentatori e maligni, e senza udire il biasimato assente, sbandite ogni fedele e giusto omo da la grazia vostra.
PARABOLANO Deh, grazia! Perdona ad uno inganno che m'è stato fatto dal Rosso, il qual m'ha menato a sollazzarmi con una poltrona in cambio d'una gintildonna de Roma, la qual è regina de la mia vita.
VALERIO Donque per le ciance de un par del Rosso un sà gintilomo si lascia desviare ne le mani d'una ruffiana publica, dove pur adesso t'ho visto uscire, e per le parole del Rosso cacci uno che cotanti anni ti è stato servitore obedientissimo! L'è pur una gran disgrazia de voi signori, che ciechi di giudizio, per un vano apetito, ne date in preda a un tabacchino, sigillandoli ogni menzogna per il Vangelio!
PARABOLANO Non piú! Ch'io mi vergogno d'essere vivo e delibero ammazzare la giovene e la vecchia in questa casa.
VALERIO E questa serÃa vergogna sopra a vituperio, anzi, vi prego, le facciati escan fora e ridendo ascoltiamo la burla che v'è stata fatta con nova arte, e che poi siate el primo a contarla, acciò che piú presto si domentichino le tue gioventudini.
PARABOLANO Tu di' saviamente. Aspettami qui.
SCENA DICIANNOVESIMA
Valerio, solo.
Non m'indovinai io che 'l Rosso era stato? E infin bisogna pregare Cristo, altrimenti uno che mette in preda d'una gran donna è padrone de' padroni e può fare ciò che vuole con el proprio signore.
SCENA VENTESIMA
Parabolano, Togna, Aloigia e Valerio.
PARABOLANO Sà ch'in sogno m'è stato cavato di bocca ch'io era inamorato, e il Rosso è stato l'autore de vituperarmi!
ALOIGIA Signor sÃ, e mi reccomando a Vostra Signoria perché l'esser troppo compassionevole e bona m'ha fatto errare; uh, uh, uh!
PARABOLANO Oh, tu piangi! Per Dio, ch'io ho a rifarti!
ALOIGIA Per vedervi stare sà mal d'amore e dubitando che per troppo amore voi non ammalasti, presi questo partito.
VALERIO Per Dio che la merita perdono, poiché l'è sà pietosa e ingeniosa che gli basta l'animo fare cosà ingeniose opere.
PARABOLANO Ah, ah, ah! Sono io el primo?
ALOIGIA Signor no.
PARABOLANO Ah, ah, per Dio, ch'i mi voglio mutare di proposito e ridermi di questa cosà ladra burla e de la mia pazzia! E stammi benissimo ogni male, ché non ci doveva venire; e Aloigia ha fatto el debito suo.
VALERIO Or vi cognosco io savio; e voi madonna, state cosà malinconosa e sètevi ringrandita a sollazzare con sà gran maestro.
TOGNA Ohimè, ch'io son stata tradita e menataci per forza con questi panni del mio marito.
ALOIGIA Tu non dici el vero!
SCENA VENTUNESIMA
Erculano, Togna, Aloigia, Valerio e Parabolano.
ERCOLANO Ahi, puttana, pur ti trovai! Ahi, porca! Non me tenete!
PARABOLANO Sta saldo; non fare! Tirati indietro! Tu sei vestito da femmina; ah, ah!
ERCOLANO La mia moglie, la vo' castigare!
TOGNA Tu menti!
ERCOLANO Ahi, ribalda! A questo modo io ti paio omo da corna, che servo Lorenzo Cibo e tutti i cardinali di Palazzo!
TOGNA Che è, poi, si son ben la tua?
ERCOLANO Lassatemi, non me tenete, io la voglio scannare! A Ercolano si fanno le corna?
VALERIO Gli è el fornaro di Palazzo. Ah, ah! Sta' indietro, sta' fermo, remetti l'arme!
PARABOLANO Questa novella scoppia se la non finisce in tragedia. Ma Ercolano e Togna, state in pace, ch'anch'io so' in questo ballo e voglio ch'a mie spese s'acconcino le inemicizie, e io ne vado bene poiché non sète peggio che fornaia.
ERCOLANO Pur che la torni, io gli perdono!
TOGNA E io farò quel che piace qui al signor.
SCENA VENTIDUESIMA
Parabolano, Messer Maco in camisa, Valerio, Ercolano, Aloigia.
MESS. MACO Gli spagnoli, gli spagnoli!
PARABOLANO Che romore è questo? Che cosa è?
MESS. MACO Gli spagnoli m'hanno ferito; ladri, bestie, furfanti!
PARABOLANO Che vuol dir questo, messer Maco? Siate voi fuora de' gangheri?
MESS. MACO I traditori m'hanno fatto un buco dietro con la spada!
VALERIO Ah, ah, ah, ah, che favole d'Orlando e de Isopo! VÃ dasi a riporre el Poggio co' le Facezie!
PARABOLANO Dite su, che cosa è? Ancora oggi eravate dietro a queste pratiche!
MESS, MACO Io mi fussi...! Ora io vi voglio dire. Maestro Andrea m'aveva fatto cortigiano novo, el piú bel de Roma, e come el diavol volse, mi guastai in le forme, e come piacque a Dio, poi ch'io fui guasto, mi rifece e racconciòmi benissimo; e, come fui rifatto, volevo fare a mio modo et era onesto, e andai in casa a una signora e, spogliatomi per andare seco a dormire per sguazzare, gli spagnoli mi volloro ammazzare, e io saltai da la fenestra e m'ho avuto a rompere le gambe, sapete, messere?
VALERIO Bene è vero che Domenedio aiuta i putti e i pazzi. Donque, essendo guasto, in Roma avete trovato chi v'ha riconcio!
MESS. MACO Al piacere vostro, messer sÃ!
VALERIO Quanta piú ventura che senno avete avuto! Quanti de piú qualità de voi ne vengono a Roma acconciatamente, che disfatti e fracassati ritornono a casa loro! Non si pon mente a virtú e qualità niuna, anzi non si attende ad altro che guastare gli acconci òmini e rovinarli per sempre.
PARABOLANO Ah, ah! Valerio, meniamo questo a casa con questa istoria ch'io voglio che ce n'abbiamo un altro pezzo di piacere; e scoppio del riso che mi viene a sentire le ciance che c'intertengono, e domattina dira...
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