I PROMESSI SPOSI, di Alessandro Manzoni - pagina 56
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Ma in que' primi tempi, l'immagine d'un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d'una vitalità vigorosa, riempivano l'animo d'una fiducia spensierata: ora all'opposto, i pensieri dell'avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato.
" Invecchiare! morire! e poi? " E, cosa notabile! l'immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d'un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell'uomo, e infondergli un'ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina.
Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s'avvicinava.
Ne' primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell'omicidio, ispirandogli un'emulazione feroce, gli avevano anche servito come d'una specie d'autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell'animo l'idea confusa, ma terribile, d'un giudizio individuale, d'una ragione indipendente dall'esempio; ora, l'essere uscito dalla turba volgare de' malvagi, l'essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d'una solitudine tremenda.
Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d'abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però.
Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d'improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento.
Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l'apparenze d'una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nasconderla a se stesso, o di soffogarla.
Invidiando (giacché non poteva annientarli né dimenticarli) que' tempi in cui era solito commettere l'iniquità senza rimorso, senz'altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell'antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer se stesso ch'era ancor quello.
Così in quest'occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l'adito a ogni esitazione.
Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s'era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l'avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio, uno de' più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio.
E, con aria risoluta, gli comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse Egidio dell'impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo.
Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l'aspettasse, con la risposta d'Egidio: che l'impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di tutto il resto, e guiderebbe la cosa.
A quest'annunzio, l'innominato, comunque stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che disponesse tutto secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli nominò, alla spedizione.
Se per rendere l'orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse dovuto far conto de' soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così subito una promessa così decisa.
Ma, in quell'asilo stesso dove pareva che tutto dovesse essere ostacolo, l'atroce giovine aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per lui.
Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l'ultima, non fu che un primo passo in una strada d'abbominazione e di sangue.
Quella stessa voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le impose ora il sagrifizio dell'innocente che aveva in custodia.
La proposta riuscì spaventosa a Gertrude.
Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione.
La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall'orribile comando; tutte, fuorché la sola ch'era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti.
Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente.
A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Era il giorno stabilito; l'ora convenuta s'avvicinava; Gertrude, ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell'ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla, l'aspetta il macellaio, a cui il pastore l'ha venduta un momento prima.
- Ho bisogno d'un gran servizio; e voi sola potete farmelo.
Ho tanta gente a' miei comandi; ma di cui mi fidi, nessuno.
Per un affare di grand'importanza, che vi dirò poi, ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de' cappuccini che v'ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche necessario che nessuno sappia che l'ho mandato a chiamare io.
Non ho che voi per far segretamente quest'imbasciata.
Lucia fu atterrita d'una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene, le ragioni che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre, senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto...
Ma Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei, e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno chiaro, quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che, quand'anche non l'avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva sbagliare!...
Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si lasciò sfuggir di bocca: - e bene; cosa devo fare?
- Andate al convento de' cappuccini: - e le descrisse la strada di nuovo: - fate chiamare il padre guardiano, ditegli, da solo a solo, che venga da me subito subito; ma che non dica a nessuno che son io che lo mando a chiamare.
- Ma cosa dirò alla fattoressa, che non m'ha mai vista uscire, e mi domanderà dove vo?
- Cercate di passare senz'esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.
Nuova difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signora si mostrò di nuovo così afflitta delle ripulse, le fece parer così brutta cosa l'anteporre un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalordita più che convinta, e soprattutto commossa più che mai, rispose: - e bene; anderò.
Dio m'aiuti! - E si mosse.
Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l'occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca, e disse: - sentite, Lucia! Questa si voltò, e tornò verso la grata.
Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata di Gertrude.
Facendo le viste di non esser contenta dell'istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che doveva tenere, e la licenziò dicendo: - fate ogni cosa come v'ho detto, e tornate presto -.
Lucia partì.
Passò inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi, rasente al muro; trovò, con l'indicazioni avute e con le proprie rimembranze, la porta del borgo, n'uscì, andò tutta raccolta e un po' tremante, per la strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e la riconobbe.
Quella strada era, ed è tutt'ora, affondata, a guisa d'un letto di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman sopra una specie di volta.
Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada.
Andando avanti, sentì uno di que' due, che diceva: - ecco una buona giovine che c'insegnerà la strada -.
Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l'aspetto, si voltò, e disse: - quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?
- Andando di lì, vanno a rovescio, - rispondeva la poverina:
- Monza è di qua...
- e si voltava, per accennar col dito; quando l'altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d'improvviso per la vita, l'alzò da terra.
Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé: un altro, mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola.
In tanto il Nibbio entrò presto presto anche lui nella carrozza: lo sportello si chiuse, e la carrozza partì di carriera.
L'altro che le aveva fatta quella domanda traditora, rimasto nella strada, diede un'occhiata in qua e in là, per veder se fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c'era nessuno; saltò sur una riva, attaccandosi a un albero della macchia, e disparve.
Era costui uno sgherro d'Egidio; era stato, facendo l'indiano, sulla porta del suo padrone, per veder quando Lucia usciva dal monastero; l'aveva osservata bene, per poterla riconoscere; ed era corso, per una scorciatoia, ad aspettarla al posto convenuto.
Chi potrà ora descrivere il terrore, l'angoscia di costei, esprimere ciò che passava nel suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore di que' visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello; ma due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza; quattro altre manacce ve l'appuntellavano.
Ogni volta che aprisse la bocca per cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola.
Intanto tre bocche d'inferno, con la voce più umana che sapessero formare, andavan ripetendo: - zitta, zitta, non abbiate paura, non vogliamo farvi male -.
Dopo qualche momento d'una lotta così angosciosa, parve che s'acquietasse; allentò le braccia, lasciò cader la testa all'indietro, alzò a stento le palpebre, tenendo l'occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostruoso: le fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s'abbandonò, e svenne.
- Su, su, coraggio, - diceva il Nibbio.
- Coraggio, coraggio, - ripetevan gli altri due birboni; ma lo smarrimento d'ogni senso preservava in quel momento Lucia dal sentire i conforti di quelle orribili voci.
- Diavolo! par morta, - disse uno di coloro: - se fosse morta davvero?
- Oh! morta! - disse l'altro: - è uno di quegli svenimenti che vengono alle donne.
Io so che, quando ho voluto mandare all'altro mondo qualcheduno, uomo o donna che fosse, c'è voluto altro.
- Via! - disse il Nibbio: - attenti al vostro dovere, e non andate a cercar altro.
Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; che in questo bosco dove s'entra ora, c'è sempre de' birboni annidati.
Non così in mano, diavolo! riponeteli dietro le spalle, stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero.
E quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno; a tenerla basto io.
E zitti: lasciate parlare a me.
Intanto la carrozza, andando sempre di corsa, s'era inoltrata nel bosco.
Dopo qualche tempo, la povera Lucia cominciò a risentirsi, come da un sonno profondo e affannoso, e aprì gli occhi.
Penò alquanto a distinguere gli spaventosi oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di nuovo la sua terribile situazione.
Il primo uso che fece delle poche forze ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi fuori; ma fu ritenuta, e non poté che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo per cui passava.
Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la manaccia col fazzoletto, - via, - le disse, più dolcemente che poté; - state zitta, che sarà meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non istate zitta, vi faremo star noi.
- Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perché m'avete presa? Lasciatemi andare, lasciatemi andare!
- Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non vogliamo farvi male.
Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.
- No, no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.
- Vi conosciamo noi.
- Oh santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità.
Chi siete voi? Perché m'avete presa?
- Perché c'è stato comandato.
- Chi? chi? chi ve lo può aver comandato?
- Zitta! - disse con un visaccio severo il Nibbio: - a noi non si fa di codeste domande.
Lucia tentò un'altra volta di buttarsi d'improvviso allo sportello; ma vedendo ch'era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, - oh - diceva: - per l'amor di Dio, e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Cosa v'ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v'ha fatto niente.
Quello che m'avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi.
Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato.
Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia.
Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada.
- Non possiamo.
- Non potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché? ...
- Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà.
Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri.
Si strinse il più che poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua.
Ogni tanto, sperando d'avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar coloro; ma sempre inutilmente.
Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce.
Ma ormai non ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr'ore; e dopo il quale avremo altre ore angosciose da passare.
Trasportiamoci al castello dove l'infelice era aspettata.
Era aspettata dall'innominato, con un'inquietudine, con una sospension d'animo insolita.
Cosa strana! quell'uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore.
Da un'alta finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perché quel primo andar di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de' cavalli.
E benché, dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle carrozzine che si dànno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si sentì il cuore batter più forte.
" Ci sarà? - pensò subito; e continuava tra sé: - che noia mi dà costei! Liberiamocene ".
E voleva chiamare uno de' suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla carrozza, a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo.
Ma un no imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel disegno.
Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella carrozza che veniva avanti passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare una sua vecchia donna.
Era costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e aveva passata lì tutta la sua vita.
Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle fasce, le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del potere de' suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta dall'istruzioni e dagli esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa, perché potevano far del gran male e del gran bene.
L'idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co' sentimenti d'un rispetto, d'un terrore, d'una cupidigia servile, s'era associata e adattata a quelli.
Quando l'innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell'uso spaventevole della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme e un sentimento più profondo di sommissione.
Col tempo, s'era avvezzata a ciò che aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi: la volontà potente e sfrenata d'un così gran signore, era per lei come una specie di giustizia fatale.
Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di casa, il quale, poco dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò l'ossa sur una strada, e lei vedova nel castello.
La vendetta che il signore ne fece subito, le diede una consolazione feroce, e le accrebbe l'orgoglio di trovarsi sotto una tal protezione.
D'allora in poi, non mise piede fuor del castello, che molto di rado; e a poco a poco non le rimase del vivere umano quasi altre idee salvo quelle che ne riceveva in quel luogo.
Non era addetta ad alcun servizio particolare, ma, in quella masnada di sgherri, ora l'uno ora l'altro, le davan da fare ogni poco; ch'era il suo rodimento.
Ora aveva cenci da rattoppare, ora da preparare in fretta da mangiare a chi tornasse da una spedizione, ora feriti da medicare.
I comandi poi di coloro, i rimproveri, i ringraziamenti, eran conditi di beffe e d'improperi: vecchia, era il suo appellativo usuale; gli aggiunti, che qualcheduno sempre ci se n'attaccava, variavano secondo le circostanze e l'umore dell'amico.
E colei, disturbata nella pigrizia, e provocata nella stizza, ch'erano due delle sue passioni predominanti, contraccambiava alle volte que' complimenti con parole, in cui Satana avrebbe riconosciuto più del suo ingegno, che in quelle de' provocatori.
- Tu vedi laggiù quella carrozza! - le disse il signore.
- La vedo, - rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e aguzzando gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell'occhiaie.
- Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte.
Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col passo della morte.
In quella carrozza c'è...
ci dev'essere...
una giovine.
Se c'è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su subito da me.
Tu starai nella bussola, con quella...
giovine; e quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera.
Se ti domanda dove la meni, di chi è il castello, guarda di non...
- Oh! - disse la vecchia.
- Ma, - continuò l'innominato, - falle coraggio.
- Cosa le devo dire?
- Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico.
Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando sI vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in que' momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora.
Va'.
E partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzo al sole, che in quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco.
Si ritirò, chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso.
CAPITOLO XXI
La vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con l'autorità di quel nome che, da chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perché a nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene falsamente.
Si trovò infatti alla Malanotte un po' prima che la carrozza ci arrivasse; e vistala venire, uscì di bussola, fece segno al cocchiere che fermasse, s'avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferì sottovoce gli ordini del padrone.
Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo.
Si sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò.
Il Nibbio s'era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello, guardando Lucia, diceva: - venite, la mia giovine; venite, poverina; venite con me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.
Al suono d'una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo.
- Chi siete? - disse con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.
- Venite, venite, poverina, - andava questa ripetendo.
Il Nibbio e gli altri due, argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita di colei, quali fossero l'intenzioni del signore, cercavano di persuader con le buone l'oppressa a ubbidire.
Ma lei seguitava a guardar fuori; e benché il luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de' suoi guardiani non le lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola.
Dopo, c'entrò la vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.
- Chi siete? - domandava con ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: - perché son con voi? dove sono? dove mi conducete?
- Da chi vuol farvi del bene, - rispondeva la vecchia, - da un gran...
Fortunati quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi.
Non abbiate paura, state allegra, ché m'ha comandato di farvi coraggio.
Glielo direte, eh? che v'ho fatto coraggio?
- Chi è? perché? che vuol da me? Io non son sua.
Ditemi dove sono; lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa.
Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine...!
Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne' primi anni, e poi non più invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, un'impressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino.
Intanto l'innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio.
Quando questo fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello.
- Ebbene? - disse, fermandosi lì.
- Tutto a un puntino, - rispose, inchinandosi, il Nibbio: - l'avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma...
- Ma che?
- Ma...
dico il vero, che avrei avuto più piacere che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.
- Cosa? cosa? che vuoi tu dire?
- Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo...
M'ha fatto troppa compassione.
- Compassione! Che sai tu di compassione? Cos'è la compassione?
- Non l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.
- Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.
- O signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere, pregare, e far cert'occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole...
" Non la voglio in casa costei, - pensava intanto l'innominato.
- Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso.
Quando sarà lontana...
" E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, - ora, - gli disse, - metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un compagno, due se vuoi; e va' di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai.
Digli che mandi...
ma subito subito, perché altrimenti...
Ma un altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire.
- No, - disse con voce risoluta, quasi per esprimere a se stesso il comando di quella voce segreta, - no: va' a riposarti; e domattina...
farai quello che ti dirò!
" Un qualche demonio ha costei dalla sua, - pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate.
- Un qualche demonio, o...
un qualche angelo che la protegge...
Compassione al Nibbio!...
Domattina, domattina di buon'ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, - proseguiva tra sé, con quell'animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, - e non ci si pensi più.
Quell'animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che...
non voglio più sentir parlar di costei.
L'ho servito perché...
perché ho promesso: e ho promesso perché...
è il mio destino.
Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui.
Vediamo un poco...
"
E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole: compassione al Nibbio! "Come può aver fatto costei? - continuava, strascinato da quel pensiero.
- Voglio vederla...
Eh! no...
Sì, voglio vederla ".
E d'una stanza in un'altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della vecchia, e picchiò all'uscio con un calcio.
- Chi è?
- Apri.
A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto negli anelli, e l'uscio si spalancò.
L'innominato, dalla soglia, diede un'occhiata in giro; e, al lume d'una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall'uscio.
- Chi t'ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? - disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo.
- S'è messa dove le è piaciuto, - rispose umilmente colei: - io ho fatto di tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c'è stato verso.
- Alzatevi, - disse l'innominato a Lucia, andandole vicino.
Ma Lucia, a cui il picchiare, l'aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell'animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.
- Alzatevi, ché non voglio farvi del male...
e posso farvi del bene, - ripeté il signore...
- Alzatevi! - tonò poi quella voce, sdegnata d'aver due volte comandato invano.
Come rinvigorita dallo spavento, l'infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine, alzò gli occhi in viso all'innominato, e riabbassandoli subito, disse: - son qui: m'ammazzi.
- V'ho detto che non voglio farvi del male, - rispose, con voce mitigata, l'innominato, fissando quel viso turbato dall'accoramento e dal terrore.
- Coraggio, coraggio, - diceva la vecchia: - se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male...
- E perché, - riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dell'indegnazione disperata, - perché mi fa patire le pene dell'inferno? Cosa le ho fatto io?...
- V'hanno forse maltrattata? Parlate.
- Oh maltrattata! M'hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m'hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio...
- Dio, Dio, - interruppe l'innominato: - sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato.
Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi...? - e lasciò la frase a mezzo.
- Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura.
Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M'hanno portata qui per forza.
Mi mandi con questa donna a *** dov'è mia madre.
Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui...
ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa.
Pregherò per lei, tutta la mia vita.
Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica.
Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!
" Oh perché non è figlia d'uno di que' cani che m'hanno bandito! - pensava l'innominato: - d'uno di que' vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece...
"
- Non iscacci una buona ispirazione! - proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una cert'aria d'esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno.
- Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei!...
Forse un giorno anche lei...
Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male.
Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene...!
- Via, fatevi coraggio, - interruppe l'innominato, con una dolcezza che fece strasecolar la vecchia.
- V'ho fatto nessun male? V'ho minacciata?
- Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura.
Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha...
un po' allargato il cuore.
Dio gliene renderà merito.
Compisca l'opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.
- Domattina...
- Oh mi liberi ora, subito...
- Domattina ci rivedremo, vi dico.
Via, intanto fatevi coraggio.
Riposate.
Dovete aver bisogno di mangiare.
Ora ve ne porteranno.
- No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio.
Mi conduca lei in chiesa...
que' passi Dio glieli conterà.
- Verrà una donna a portarvi da mangiare, - disse l'innominato; e dettolo, rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.
- E tu, - riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, - falle coraggio che mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra.
Falle coraggio, ti dico; tienla allegra.
E che non abbia a lamentarsi di te!
Così detto, si mosse rapidamente verso l'uscio.
Lucia s'alzò e corse per trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.
- Oh povera me! Chiudete, chiudete subito -.
E sentito ch'ebbe accostare i battenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio.
- Oh povera me! - esclamò di nuovo singhiozzando: - chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore...
quello che m'ha parlato?
- Chi è, eh? chi è? Volete ch'io ve lo dica.
Aspetta ch'io te lo dica.
Perché vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar di mezzo me.
Domandatene a lui.
S'io vi contentassi anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi.
- Io son vecchia, son vecchia, - continuò, mormorando tra i denti.
- Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione -.
Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: - via, non v'ho detto niente di male: state allegra.
Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo.
Oh se sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco...
nella maniera che v'ha parlato, ci sarà della roba buona.
E poi anderete a letto, e...
mi lascerete un cantuccino anche a me, spero, - soggiunse, con una voce, suo malgrado, stizzosa.
- Non voglio mangiare, non voglio dormire.
Lasciatemi stare; non v'accostate; non partite di qui!
- No, no, via, - disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d'astio insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d'esserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contro il freddo.
Ma si rallegrava col pensiero della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei.
Lucia non s'avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de' suoi dolori, de' suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all'immagini sognate da un febbricitante.
Si riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: - chi è? chi è? Non venga nessuno!
- Nulla, nulla; buone nuove, - disse la vecchia: - è Marta che porta da mangiare.
- Chiudete, chiudete! - gridava Lucia.
- Ih! subito, subito, - rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola nel mezzo della camera.
Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba.
Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de' cibi: - di que' bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co' suoi amici...
quando capita qualcheduno di quelli...! e vogliono stare allegri! Ehm! - Ma vedendo che tutti gl'incanti riuscivano inutili, - siete voi che non volete, - disse.
- Non istate poi a dirgli domani ch'io non v'ho fatto coraggio.
Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando metterete giudizio, e vorrete ubbidire -.
Così detto, si mise a mangiare avidamente.
Saziata che fu, s'alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra Lucia, l'invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto.
- No, no, non voglio nulla, - rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta.
Poi, con più risolutezza, riprese: - è serrato l'uscio? è serrato bene? - E dopo aver guardato in giro per la camera, s'alzò, e, con le mani avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte.
La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: - sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora?
- Oh contenta! contenta io qui! - disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo cantuccio.
- Ma il Signore lo sa che ci sono!
- Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S'è mai visto rifiutare i comodi, quando si possono avere?
- No, no; lasciatemi stare.
- Siete voi che lo volete.
Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda; starò incomoda per voi.
Se volete venire a letto, sapete come avete a fare.
Ricordatevi che v'ho pregata più volte -.
Così dicendo, si cacciò sotto vestita; e tutto tacque.
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani.
Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d'immaginazioni, di spaventi.
Ora, più presente a se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s'applicava dolorosamente alle circostanze dell'oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall'incertezza e dal terrore.
Stette un pezzo in quest'angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero.
Ma tutt'a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché.
Tese l'orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l'andare dell'onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli.
Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l'aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso.
L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell'avvenire, l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire.
Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un'improvvisa speranza.
Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata.
Tutt'a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta.
Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l'animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio.
S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: - o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d'altri che vostra.
Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un'armatura della nuova milizia a cui s'era ascritta.
Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia.
Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione.
I sensi affaticati da tanta guerra s'assopirono a poco a poco in quell'acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s'addormentò d'un sonno perfetto e continuo.
Ma c'era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai.
Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto.
Ma quell'immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai.
" Che sciocca curiosità da donnicciola, - pensava, - m'è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!...
Io?...
io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare.
Che diavolo! non ho mai sentito belar donne? "
E qui, senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi né lamenti non l'avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni.
Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell'animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento.
Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio.
" È viva costei, - pensava, - è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi...
Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi.
A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!...
Via! - disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: - via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte.
Passerà anche questa ".
E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna.
Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo per un'ombra, non voleva più andare avanti.
Pensando all'imprese avviate e non finite, in vece d'animarsi al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli (ché l'ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de' passi già fatti.
Il tempo gli s'affacciò davanti voto d'ogni intento, d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo.
Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl'importasse; anzi l'idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impiccio.
E se volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera fattibile, dovette pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
" La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate.
La farò accompagnare...
E la promessa? e l'impegno? e don Rodrigo?...
Chi è don Rodrigo? "
A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d'un superiore, l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l'antico.
Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender l'impegno di far tanto patire, senz'odio, senza timore, un'infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto.
Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita.
Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa.
Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione.
S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e...
al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine.
S'immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove.
Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi nemici.
Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire.
E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero.
" Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia...
E se c'è quest'altra vita...! "
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte.
Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti, tremando.
Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: " Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia! " E non gli tornavan già con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva una lontana speranza.
Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un'attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni.
Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui stesso alla madre.
" E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l'altro? che farò dopo doman l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte! " E ricaduto nel vòto penoso dell'avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti.
Ora si proponeva d'abbandonare il castello, e d'andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l'animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a' suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne' suoi pensieri.
Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d'allegro.
Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso.
Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro.
"Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti costoro? " Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò.
Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un'alacrità straordinaria.
" Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia? " E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento.
Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene.
Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo.
Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto.
Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù.
Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.
CAPITOLO XXII
Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest'arrivo ne' paesi d'intorno aveva invogliati tutti d'andare a veder quell'uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir la gente.
Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella valle, ancor più pensieroso.
" Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri, per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo tormenti.
Ma nessuno, nessuno n'avrà uno come il mio; nessuno avrà passata una notte come la mia! Cos'ha quell'uomo, per render tanta gente allegra? Qualche soldo che distribuirà così alla ventura...
Ma costoro non vanno tutti per l'elemosina.
Ebbene, qualche segno nell'aria, qualche parola...
Oh se le avesse per me le parole che possono consolare! se...! Perché non vado anch'io? Perché no?...
Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattr'occhi gli voglio parlare.
Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che...
Sentirò cosa sa dir lui, quest'uomo! "
Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi, mettendosi una sua casacca d'un taglio che aveva qualche cosa del militare; prese la terzetta rimasta sul letto, e l'attaccò alla cintura da una parte; dall'altra, un'altra che staccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il suo pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di lui, se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di tutto a quella dove aveva lasciata Lucia.
Posò fuori la carabina in un cantuccio vicino all'uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce.
La vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire.
Il signore entrò, e data un'occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta.
- Dorme? - domandò sotto voce alla vecchia: - là, dorme? eran questi i miei ordini, sciagurata?
- Io ho fatto di tutto, - rispose quella: - ma non ha mai voluto mangiare, non è mai voluta venire...
- Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si sveglierà...
Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere qualunque cosa che costei possa chiederti.
Quando si sveglierà...
dille che io...
che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che...
farà tutto quello che lei vorrà.
La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: " che sia qualche principessa costei? "
Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera, mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che quella donna mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la scesa, di corsa.
Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una lunga passeggiata.
Dal solo accorrere de' valligiani, e anche di gente più lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacché nelle memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in folla, per veder Federigo.
I bravi che s'abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al passar del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse prenderli seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua aria, e dell'occhiate che dava in risposta a' loro inchini.
Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i passeggieri, era di vederlo senza seguito.
Del resto, ognuno gli faceva luogo, prendendola larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi rispettosamente il cappello.
Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo nome passò subito di bocca in bocca; e la folla s'apriva.
S'accostò a uno, e gli domandò dove fosse il cardinale.
- In casa del curato, - rispose quello, inchinandosi, e gl'indicò dov'era.
Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c'eran molti preti, che tutti lo guardarono con un'attenzione maravigliata e sospettosa.
Vide dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti altri preti eran congregati.
Si levò la carabina, e l'appoggiò in un canto del cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate, bisbigli, un nome ripetuto, e silenzio.
Lui, voltatosi a uno di quelli, gli domandò dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli.
- Io son forestiero, - rispose l'interrogato, e data un'occhiata intorno, chiamò il cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava appunto dicendo sotto voce a un suo compagno: - colui? quel famoso? che ha a far qui colui? alla larga! - Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette venire l'innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì un poco, poi disse o balbettò: - non saprei se monsignore illustrissimo...
in questo momento...
si trovi...
sia...
possa...
Basta, vado a vedere -.
E andò a malincorpo a far l'imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il cardinale.
A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po' di tempo all'ombra d'un bell'albero, sull'erba, vicino a una fonte d'acqua viva.
Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque tempo alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo la contemplazione d'una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d'andare avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente.
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio.
La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume.
Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de' piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio, alla vera dignità e a' veri beni, che, sentite o non sentite ne' cuori, vengono trasmesse da una generazione all'altra, nel più elementare insegnamento della religione.
Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell'azioni e de' pensieri quelle che erano il vero.
Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa.
Nel 1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne prese l'abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin d'allora antica e universale, predicava santo.
Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e furono d'insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl'infermi.
Si valse dell'autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e profittevole esercitò come un primato d'esempio, un primato che le sue doti personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato l'infimo per condizione.
I vantaggi d'un altro genere, che la sua gli avrebbe potuto procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli.
Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno.
Ne credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa.
Un'altra guerra ebbe a sostenere con gl'istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s'invanisce e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que' prudenti che s'adombrano delle virtù come de' vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi.
Federigo, non che lasciarsi vincere da que' tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza.
Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a quella presenza grave, solenne, ch'esprimeva così al vivo la santità, e ne rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe aggiunto autorità ogni momento l'ossequio manifesto e spontaneo de' circostanti, quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e al pensare d'un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent'anni, fosse mancata una guida e un censore.
La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua pietà, la parentela e gl'impegni di più d'un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti un'idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a pronosticargliele.
Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno né capace di così alto e pericoloso servizio.
Perciò, venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l'arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò senza esitare.
Cedette poi al comando espresso del papa.
Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e l'ipocrisia non ha bisogno d'un più grande sforzo d'ingegno per farle, che la buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso.
Ma cessan forse per questo d'esser l'espressione naturale d'un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole ch'esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di tutti gl'impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrifizio.
In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario.
Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de' poveri: come poi intendesse infatti una tal massima, si veda da questo.
Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d'oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio.
Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d'una squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell'età sudicia e sfarzosa.
Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto.
Cure, che potrebbero forse indur concetto d'una virtù gretta, misera, angustiosa, d'una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de' già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de' più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l'Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme.
Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti.
Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l'entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l'obbligo ad ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v'unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio d'alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v'unì una stamperia di lingue orientali, dell'ebraica cioè, della caldea, dell'arabica, della persiana, dell'armena; una galleria di quadri, una di statue, e, una scuola delle tre principali arti del disegno.
Per queste, poté trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da fare gli avesse dato la raccolta de' libri e de' manoscritti; certo più difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de' tipi, gli uomini.
Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n'abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza.
Nelle regole che stabilì per l'uso e per il governo della biblioteca, si vede un intento d'utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là dell'idee e dell'abitudini comuni di quel tempo.
Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti d'Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de' libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse d'indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene, secondo il bisogno.
Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d'una biblioteca: allora non era così.
E in una storia dell'ambrosiana, scritta (col costrutto e con l'eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d'Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de' bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di studiare, non se n'aveva neppur l'idea.
Dimodoché arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all'uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n'era e ce n'è tuttavia molte, che isteriliscono il campo.
Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo.
Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, dovesse essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l'eseguì, in mezzo a quell'ignorantaggine, a quell'inerzia, a quell'antipatia generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos'importa? e c'era altro da pensare? e che bell'invenzione! e mancava anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui in quell'impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de' suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non ci sia bisogno di sapere se n'abbia spesi molt'altri in soccorso immediato de' bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile elemosina.
Ma Federigo teneva l'elemosina propriamente detta per un dovere principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei all'opinione.
La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità.
De' molti esempi singolari che d'una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui un solo.
Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il non avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi.
Forse a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente agli stolti capricci d'un superbo; e che quattromila scudi potevano esser meglio impiegati in cent'altre maniere.
A questo non abbiamo nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso eccessi d'una virtù così libera dall'opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue), così indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che mosse un uomo a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta monaca.
La carità inesausta di quest'uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo contegno.
Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo.
E qui pure ebbe a combattere co' galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne' limiti, cioè ne' loro limiti.
Uno di costoro, una volta che, nella visita d'un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli, e, tra l'interrogare e l'insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando, l'avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que' ragazzi, perche eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino.
Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de' loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene.
Ma il buon vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: - sono mie anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de' suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità straordinaria di temperamento; ed era l'effetto d'una disciplina costante sopra un'indole viva e risentita.
Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu co' pastori suoi subordinati che scoprisse rei d'avarizia o di negligenza o d'altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero.
Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d'ardore, né d'agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell'animo suo, più mirabile se vi si destavano.
Non solo da' molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all'ambizione, e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il pensiero, e si rivolse altrove.
Questa stessa modestia, quest'avversione al predominare apparivano ugualmente nell'occasioni più comuni della vita.
Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d'impicciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto potere dall'ingerirvisi ricercato: discrezione e ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era Federigo.
Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme.
Però non ometteremo di notare un'altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu d'attività, di governo, di funzioni, d'insegnamento, d'udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c'ebbe una parte, ma ce n'ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato.
E infatti, con tant'altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi contemporanei, quello d'uom dotto.
Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste.
Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch'erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall'esame particolare de' fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d'ordinario, non significa proprio nulla.
E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo un episodio, tralasceremo anche d'esporle; bastandoci d'avere accennato così alla sfuggita che, d'un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere un'orazion funebre.
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest'uomo abbia lasciato qualche monumento.
Se n'ha lasciati! Circa cento son l'opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d'antichità sacra e profana, di letteratura, d'arti e d'altro.
" E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate, o almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor d'animo, con tant'altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore, questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a procurare, almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi posteri? "
La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante; perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l'osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni simili.
Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v'andassero a genio? se vi facessero arricciare il naso? Sicché sarà meglio che riprendiamo il filo della storia, e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a vederlo in azione, con la guida del nostro autore.
CAPITOLO XXIII
Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l'ora d'andar in chiesa a celebrar gli ufizi divini, stava studiando, com'era solito di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.
- Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo!
- Chi è? - domandò il cardinale.
- Niente meno che il signor...
- riprese il cappellano- e spiccando le sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai nostri lettori.
Poi soggiunse: - è qui fuori in persona; e chiede nient'altro che d'esser introdotto da vossignoria illustrissima.
- Lui! - disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da sedere: - venga! venga subito!
- Ma...
- replicò il cappellano, senza moversi: - vossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso...
- E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare?
- Ma...
- insistette il cappellano: - noi non possiamo mai parlare di certe cose, perché monsignore dice che le son ciance: però quando viene il caso, mi pare che sia un dovere...
Lo zelo fa de' nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d'un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o l'altro...
- E che hanno fatto? - interruppe il cardinale.
- Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza co' disperati più furiosi, e che può esser mandato...
- Oh, che disciplina è codesta, - interruppe ancora sorridendo Federigo, - che i soldati esortino il generale ad aver paura? - Poi, divenuto serio e pensieroso, riprese: - san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo.
Fatelo entrar subito: ha già aspettato troppo.
Il cappellano si mosse, dicendo tra sé: " non c'è rimedio: tutti questi santi sono ostinati ".
Aperto l'uscio, e affacciatosi alla stanza dov'era il signore e la brigata, vide questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sott'occhio quello, lasciato solo in un canto.
S'avviò verso di lui; e intanto squadrandolo, come poteva, con la coda dell'occhio, andava pensando che diavolo d'armeria poteva esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima d'introdurlo, avrebbe dovuto proporgli almeno...
ma non si seppe risolvere.
Gli s'accostò, e disse: - monsignore aspetta vossignoria.
Si contenti di venir con me -.
E precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra e a sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sapete anche voi altri, che fa sempre a modo suo?
Appena introdotto l'innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi.
L'innominato, ch'era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall'altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava.
Però, alzando gli occhi in viso a quell'uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l'orgoglio di fronte, l'abbatteva, e, dirò così, gl'imponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare.
Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l'occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dell'astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c'era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l'abitudine de' pensieri solenni e benevoli, la pace interna d'una lunga vita, l'amore degli uomini, la gioia continua d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.
Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell'aspetto dell'innominato il suo sguardo penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d'una tal visita, tutt'animato, - oh! - disse: - che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d'una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po' del rimprovero!
- Rimprovero! - esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
- Certo, m'è un rimprovero, - riprese questo, - ch'io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.
- Da me, voi! Sapete chi sono? V'hanno detto bene il mio nome?
- E questa consolazione ch'io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch'io dovessi provarla all'annunzio, alla vista d'uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de' miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d'accogliere e d'abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare.
Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de' suoi poveri servi.
L'innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio.
- E che? - riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: - voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?
- Una buona nuova, io? Ho l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.
- Che Dio v'ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, - rispose pacatamente il cardinale.
- Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?
- Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l'ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v'opprime, che v'agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v'attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l'imploriate?
- Oh, certo! ho qui qualche cosa che m'opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c'è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?
Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: - cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare.
Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere...
- (l'innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); - che gloria, - proseguiva Federigo, - ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d'interesse; voci forse anche di giustizia, ma d'una giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d'invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d'animo.
Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io pover'uomo, che sappia dirvi fin d'ora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l'abbia animata, infiammata d'amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover'uomo, che vi pensiate d'aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l'opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m'infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m'ispira un amore per voi che mi divora!
A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso.
La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall'infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e più chiara risposta.
- Dio grande e buono! - esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: - che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perche Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perche mi faceste degno d'assistere a un sì giocondo prodigio! - Così dicendo, stese la mano a prender quella dell'innominato.
- No! - gridò questo, - no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica.
Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.
- Lasciate, - disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, - lasciate ch'io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.
- È troppo! - disse, singhiozzando, l'innominato.
- Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi.
Un popolo affollato v'aspetta; tant'anime buone, tant'innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete...
con chi!
- Lasciamo le novantanove pecorelle, - rispose il cardinale: - sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch'era smarrita.
Quell'anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo.
Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione.
Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne' loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch'esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto -.
Così dicendo, stese le braccia al collo dell'innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell'impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull'omero di lui il suo volto tremante e mutato.
Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l'armi della violenza e del tradimento.
L'innominato, sciogliendosi da quell'abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: - Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!
È un saggio, - disse Federigo, - che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere! - Me sventurato! - esclamò il signore, - quante, quante...
cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d'intraprese, d'appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare.
Federigo si mise in attenzione; e l'innominato raccontò brevemente, ma con parole d'esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quell'implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello...
- Ah, non perdiam tempo! - esclamò Federigo, ansante di pietà e di sollecitudine.
- Beato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina.
Dio vi benedica! Dio v'ha benedetto! Sapete di dove sia questa povera nostra travagliata?
Il signore nominò il paese di Lucia.
- Non è lontano di qui, - disse il cardinale: - lodato sia Dio; e probabilmente...
- Così dicendo, corse a un tavolino, e scosse un campanello.
E subito entrò con ansietà il cappellano crocifero, e per la prima cosa, guardò l'innominato; e vista quella faccia mutata, e quegli occhi rossi di pianto, guardò il cardinale; e sotto quell'inalterabile compostezza, scorgendogli in volto come un grave contento, e una premura quasi impaziente, era per rimanere estatico con la bocca aperta, se il cardinale non l'avesse subito svegliato da quella contemplazione, domandandogli se, tra i parrochi radunati lì, si trovasse quello di ***.
- C'è, monsignore illustrissimo, - rispose il cappellano.
- Fatelo venir subito, - disse Federigo, - e con lui il parroco qui della chiesa.
Il cappellano uscì, e andò nella stanza dov'eran que' preti riuniti: tutti gli occhi si rivolsero a lui.
Lui, con la bocca tuttavia aperta, col viso ancor tutto dipinto di quell'estasi, alzando le mani, e movendole per aria, disse: - signori! signori! haec mutatio dexterae Excelsi-.
E stette un momento senza dir altro.
Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: - sua signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della parrocchia, e il signor curato di ***.
Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo alla folla un: - io? - strascicato, con un'intonazione di maraviglia.
- Non è lei il signor curato di ***? - riprese il cappellano.
- Per l'appunto; ma...
- Sua signoria illustrissima e reverendissima vuol lei.
- Me? - disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori l'uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso tra l'attonito e il disgustato.
Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che voleva dire: a noi, andiamo; ci vuol tanto? E precedendo i due curati, andò all'uscio, l'aprì, e gl'introdusse.
Il cardinale lasciò andar la mano dell'innominato, col quale intanto aveva concertato quello che dovevan fare; si discostò un poco, e chiamò con un cenno il curato della chiesa.
Gli disse in succinto di che si trattava; e se saprebbe trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga al castello, a prender Lucia: una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una spedizione così nuova, e usar le maniere più a proposito, trovar le parole più adattate, a rincorare, a tranquillizzare quella poverina, a cui, dopo tante angosce, e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nell'animo una nuova confusione.
Pensato un momento, il curato disse che aveva la persona a proposito, e uscì.
Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al quale ordinò che facesse preparare subito la lettiga e i lettighieri, e sellare due mule.
Uscito anche il cappellano, si voltò a don Abbondio.
Questo, che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell'altro signore, e che intanto dava un'occhiatina di sotto in su ora all'uno ora all'altro, seguitando a almanaccar tra sé che cosa mai potesse essere tutto quel rigirìo, s'accostò di più, fece una riverenza, e disse: - m'hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato.
- Non hanno sbagliato, - rispose Federigo: - ho una buona nuova da darvi, e un consolante, un soavissimo incarico.
Una vostra parrocchiana, che avrete pianta per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio caro amico; e voi anderete ora con lui, e con una donna che il signor curato di qui è andato a cercare, anderete, dico, a prendere quella vostra creatura, e l'accompagnerete qui.
Don Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l'affanno e l'amaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo più a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio già formato sulla sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno d'ubbidienza.
E non l'alzò che per fare un altro profondo inchino all'innominato, con un'occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis.
Gli domandò poi il cardinale, che parenti avesse Lucia.
- Di stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre, - rispose don Abbondio.
- E questa si trova al suo paese?
- Monsignor, sì.
- Giacché, - riprese Federigo, - quella povera giovine non potrà esser così presto restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di veder subito la madre: quindi, se il signor curato di qui non torna prima ch'io vada in chiesa, fatemi voi il piacere di dirgli che trovi un baroccio o una cavalcatura; e spedisca un uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla qui.
- E se andassi io? - disse don Abbondio.
- No, no, voi: v'ho già pregato d'altro, - rispose il cardinale.
- Dicevo, - replicò don Abbondio, - per disporre quella povera madre.
È una donna molto sensitiva; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere per il suo verso, per non farle male in vece di bene.
- E per questo, vi prego d'avvertire il signor curato che scelga un uomo di proposito: voi siete molto più necessario altrove, - rispose il cardinale.
E avrebbe voluto dire: quella povera giovine ha molto più bisogno di veder subito una faccia conosciuta, una persona sicura, in quel castello, dopo tant'ore di spasimo, e in una terribile oscurità dell'avvenire.
Ma questa non era ragione da dirsi così chiaramente davanti a quel terzo.
Parve però strano al cardinale che don Abbondio non l'avesse intesa per aria, anzi pensata da sé; e così fuor di luogo gli parve la proposta e l'insistenza, che pensò doverci esser sotto qualche cosa.
Lo guardò in viso, e vi scoprì facilmente la paura di viaggiare con quell'uomo tremendo, d'andare in quella casa, anche per pochi momenti.
Volendo quindi dissipare affatto quell'ombre codarde, e non piacendogli di tirare in disparte il curato e di bisbigliar con lui in segreto, mentre il suo nuovo amico era lì in terzo, pensò che il mezzo più opportuno era di far ciò che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare all'innominato medesimo; e dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente che quello non era più uomo da averne paura.
S'avvicinò dunque all'innominato, e con quell'aria di spontanea confidenza, che si trova in una nuova e potente affezione, come in un'antica intrinsichezza, - non crediate, - gli disse, - ch'io mi contenti di questa visita per oggi.
Voi tornerete, n'è vero? in compagnia di questo ecclesiastico dabbene?
- S'io tornerò? - rispose l'innominato: - quando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero.
Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!
Federigo gli prese la mano, gliela strinse, e disse: - favorirete dunque di restare a desinare con noi.
V'aspetto.
Intanto, io vo a pregare, e a render grazie col popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia.
Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda uno accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice né approva; guarda il cane, e non ardisce accostarglisi, per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste; non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh se fossi a casa mia!
Al cardinale, che s'era mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e conducendo seco l'innominato, diede di nuovo nell'occhio il pover'uomo, che rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo.
E pensando che forse quel dispiacere gli potesse anche venire dal parergli d'esser trascurato, e come lasciato in un canto, tanto più in paragone d'un facinoroso così ben accolto, così accarezzato, se gli voltò nel passare, si fermò un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: - signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questo...
questo perierat, et inventus est.
- Oh quanto me ne rallegro! - disse don Abbondio, facendo una gran riverenza a tutt'e due in comune.
L'arcivescovo andò avanti, spinse l'uscio, che fu subito spalancato di fuori da due servitori, che stavano uno di qua e uno di là: e la mirabile coppia apparve agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza.
Si videro que' due volti sui quali era dipinta una commozione diversa, ma ugualmente profonda; una tenerezza riconoscente, un'umile gioia nell'aspetto venerabile di Federigo; in quello dell'innominato, una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore, una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura.
E si seppe poi, che a più d'uno de' riguardanti era allora venuto in mente quel detto d'Isaia: il lupo e l'agnello andranno ad un pascolo; il leone e il bue mangeranno insieme lo strame.
Dietro veniva don Abbondio, a cui nessuno badò.
Quando furono nel mezzo della stanza, entrò dall'altra parte l'aiutante di camera del cardinale, e gli s'accostò, per dirgli che aveva eseguiti gli ordini comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule eran preparate, e s'aspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta.
Il cardinale gli disse che, appena arrivato questo, lo facesse parlar subito con don Abbondio: e tutto poi fosse agli ordini di questo e dell'innominato; al quale strinse di nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: - v'aspetto -.
Si voltò a salutar don Abbondio, e s'avviò dalla parte che conduceva alla chiesa.
Il clero gli andò dietro, tra in folla e in processione: i due compagni di viaggio rimasero soli nella stanza.
Stava l'innominato tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse il momento d'andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso così diverso da quello che lo fosse il giorno avanti: e il suo viso esprimeva un'agitazione concentrata, che all'occhio ombroso di don Abbondio poteva facilmente parere qualcosa di peggio.
Lo sogguardava, avrebbe voluto attaccare un discorso amichevole; ma, " cosa devo dirgli? - pensava: - devo dirgli ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che? che essendo stato finora un demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? Bel complimento! Eh eh eh! in qualunque maniera io le rigiri, le congratulazioni non vorrebbero dir altro che questo.
E se sarà poi vero che sia diventato galantuomo: così a un tratto! Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me l'avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, m'ha da sentire la signora Perpetua, d'avermi cacciato qui per forza, quando non c'era necessità, fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi d'intorno accorrevano, anche più da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che quest'altro; e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me! Eppure qualcosa bisognerà dirgli a costui ".
E pensa e ripensa, aveva trovato che gli avrebbe potuto dire: non mi sarei mai aspettato questa fortuna d'incontrarmi in una così rispettabile compagnia; e stava per aprir bocca, quando entrò l'aiutante di camera, col curato del paese, il quale annunziò che la donna era pronta nella lettiga; e poi si voltò a don Abbondio, per ricevere da lui l'altra commissione del cardinale.
Don Abbondio se ne sbrigò come poté, in quella confusione di mente; e accostatosi poi all'aiutante, gli disse: - mi dia almeno una bestia quieta; perché, dico la verità, sono un povero cavalcatore.
- Si figuri, - rispose l'aiutante, con un mezzo sogghigno: - è la mula del segretario, che è un letterato.
- Basta...
- replicò don Abbondio, e continuò pensando: " il cielo me la mandi buona ".
Il signore s'era incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato all'uscio, s'accorse di don Abbondio, ch'era rimasto indietro.
Si fermò ad aspettarlo; e quando questo arrivò frettoloso, in aria di chieder perdono, l'inchinò, e lo fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto lo stomaco al povero tribolato.
Ma appena messo piede nel cortiletto, vide un'altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l'innominato andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina, poi per la cigna con l'altra, e, con un movimento spedito, come se facesse l'esercizio, mettersela ad armacollo.
" Ohi! ohi! ohi! - pensò don Abbondio: - cosa vuol farne di quell'ordigno, costui? Bel cilizio, bella disciplina da convertito! E se gli salta qualche grillo? Oh che spedizione! oh che spedizione! "
Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri passavano per la testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto per rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio stava attento a non far nessun atto che significasse chiaramente: non mi fido di vossignoria.
Arrivati all'uscio di strada, trovarono le due cavalcature in ordine: l'innominato saltò su quella che gli fu presentata da un palafreniere.
- Vizi non ne ha? - disse all'aiutante di camera don Abbondio, rimettendo in terra il piede, che aveva già alzato verso la staffa.
- Vada pur su di buon animo: è un agnello -.
Don Abbondio, arrampicandosi alla sella, sorretto dall'aiutante, su, su, su, è a cavallo.
La lettiga, ch'era innanzi qualche passo, portata da due mule, si mosse, a una voce del lettighiero; e la comitiva partì.
Si doveva passar davanti alla chiesa piena zeppa di popolo, per una piazzetta piena anch'essa d'altro popolo del paese e forestieri, che non avevan potuto entrare in quella.
Già la gran nuova era corsa; e all'apparir della comitiva, all'apparir di quell'uomo, oggetto ancor poche ore prima di terrore e d'esecrazione, ora di lieta maraviglia, s'alzò nella folla un mormorìo quasi d'applauso; e facendo largo, si faceva insieme alle spinte, per vederlo da vicino.
La lettiga passò, l'innominato passò; e davanti alla porta spalancata della chiesa, si levò il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin sulla criniera della mula, tra il susurro di cento voci che dicevano: Dio la benedica! Don Abbondio si levò anche lui il cappello, si chinò, si raccomandò al cielo; ma sentendo il concerto solenne de' suoi confratelli che cantavano a distesa, provò un'invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime.
Fuori poi dell'abitato, nell'aperta campagna, negli andirivieni talvolta affatto deserti della strada, un velo più nero si stese sui suoi pensieri.
Altro oggetto non aveva su cui riposar con fiducia lo sguardo, che il lettighiero, il quale, essendo al servizio del cardinale, doveva essere certamente un uomo dabbene, e insieme non aveva aria d'imbelle.
Ogni tanto, comparivano viandanti, anche a comitive, che accorrevano per vedere il cardinale; ed era un ristoro per don Abbondio; ma passeggiero, ma s'andava verso quella valle tremenda, dove non s'incontrerebbe che sudditi dell'amico: e che sudditi! Con l'amico avrebbe desiderato ora più che mai d'entrare in discorso, tanto per tastarlo sempre più, come per tenerlo in buona; ma vedendolo così soprappensiero, gliene passava la voglia.
Dovette dunque parlar con se stesso; ed ecco una parte di ciò che il pover'uomo si disse in quel tragitto: ché, a scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro.
" È un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l'argento vivo addosso, e non si contentino d'esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi per i capelli ne' loro affari: io che non chiedo altro che d'esser lasciato vivere! Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l'uomo il più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri.
Potrebbe far l'arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo.
E costui...! " E qui lo guardava, come se avesse sospetto che quel costui sentisse i suoi pensieri, " costui, dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione...
se sarà vero.
Intanto tocca a me a farne l'esperienza!...
È finita: quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso.
Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com'ho fatt'io? No signore: si deve squartare, ammazzare, fare il diavolo...
oh povero me!...
e poi uno scompiglio, anche per far penitenza.
La penitenza, quando s'ha buona volontà, si può farla a casa sua, quietamente, senza tant'apparato, senza dar tant'incomodo al prossimo.
E sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro; stare a tutto quel che gli dice costui, come se l'avesse visto far miracoli; e prendere addirittura una risoluzione, mettercisi dentro con le mani e co' piedi, presto di qua, presto di là: a casa mia si chiama precipitazione.
E senza avere una minima caparra, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giocare un uomo a pari e caffo.
Un vescovo santo, com'è lui, de' curati dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi.
Un pochino di flemma, un pochino di prudenza, un pochino di carità, mi pare che possa stare anche con la santità...
E se fosse tutto un'apparenza? Chi può conoscer tutti i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca a andar con lui, a casa sua! Ci può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è meglio non ci pensare.
Che imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse un'intesa con don Rodrigo? che gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara.
Ma come l'ha avuta nell'unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore: e a me che mi fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla.
Io non mi curo di sapere i fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche ragione di sapere.
Se fosse proprio per andare a prendere quella povera creatura, pazienza! Benché, poteva ben condurla con sé addirittura.
E poi, se è così convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno c'era di me? Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata grossa; sa il cielo cos'ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia rovina...
Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa.
Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant'Antonio nel deserto; ora pare Oloferne in persona.
Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo d'aiutarmi, perché non mi ci son messo io di mio capriccio ".
Infatti, sul volto dell'innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come, in un'ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio.
L'animo, ancor tutto inebriato dalle soavi parole di Federigo, e come rifatto e ringiovanito nella nuova vita, s'elevava a quell'idee di misericordia, di perdono e d'amore; poi ricadeva sotto il peso del terribile passato.
Correva con ansietà a cercare quali fossero le iniquità riparabili, cosa si potesse troncare a mezzo, quali i rimedi più espedienti e più sicuri, come scioglier tanti nodi, che fare di tanti complici: era uno sbalordimento a pensarci.
A quella stessa spedizione, ch'era la più facile e così vicina al termine, andava con un'impazienza mista d'angoscia, pensando che intanto quella creatura pativa, Dio sa quanto, e che lui, il quale pure si struggeva di liberarla, era lui che la teneva intanto a patire.
Dove c'eran due strade, il lettighiero si voltava, per saper quale dovesse prendere: l'innominato gliel'indicava con la mano, e insieme accennava di far presto.
Entrano nella valle.
Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle famosa, della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci dentro: que' famosi uomini, il fiore della braveria d'Italia, quegli uomini senza paura e senza misericordia, vederli in carne e in ossa; incontrarne uno o due o tre a ogni voltata di strada.
Si chinavano sommessamente al signore; ma certi visi abbronzati! certi baffi irti! certi occhiacci, che a don Abbondio pareva che volessero dire: fargli la festa a quel prete? A segno che, in un punto di somma costernazione, gli venne detto tra sé: " gli avessi maritati! non mi poteva accader di peggio ".
Intanto s'andava avanti per un sentiero sassoso, lungo il torrente: al di là quel prospetto di balze aspre, scure, disabitate; al di qua quella popolazione da far parer desiderabile ogni deserto: Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge.
Passan davanti la Malanotte; bravacci sull'uscio, inchini al signore, occhiate al suo compagno e alla lettiga.
Coloro non sapevan cosa si pensare: già la partenza dell'innominato solo, la mattina, aveva dello straordinario; il ritorno non lo era meno.
Era una preda che conduceva? E come l'aveva fatta da sé? E come una lettiga forestiera? E di chi poteva esser quella livrea? Guardavano, guardavano, ma nessuno si moveva, perché questo era l'ordine che il padrone dava loro con dell'occhiate.
Fanno la salita, sono in cima.
I bravi che si trovan sulla spianata e sulla porta, si ritirano di qua e di là, per lasciare il passo libero: l'innominato fa segno che non si movan di più; sprona, e passa davanti alla lettiga; accenna al lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da quello in un secondo; va verso un usciolino, fa stare indietro con un gesto un bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: - tu sta' costì, e non venga nessuno -.
Smonta, lega in fretta la mula a un'inferriata, va alla lettiga, s'accosta alla donna, che aveva tirata la tendina, e le dice sottovoce: - consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano d'amici.
Dio ve ne renderà merito -.
Poi fa cenno al lettighiero, che apra; poi s'avvicina a don Abbondio, e, con un sembiante così sereno come questo non gliel aveva ancor visto, né credeva che lo potesse avere, con dipintavi la gioia dell'opera buona che finalmente stava per compire, gli dice, ancora sotto voce: - signor curato, non le chiedo scusa dell'incomodo che ha per cagion mia: lei lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina -.
Ciò detto, prende con una mano il morso, con l'altra la staffa, per aiutar don Abbondio a scendere.
Quel volto, quelle parole, quell'atto, gli avevan dato la vita.
Mise un sospiro, che da un'ora gli s'aggirava dentro, senza mai trovar l'uscita; si chinò verso l'innominato, rispose a voce bassa bassa: - le pare? Ma, ma, ma, ma,...! - e sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura.
L'innominato legò anche quella, e detto al lettighiero che stesse lì a aspettare, si levò una chiave di tasca, aprì l'uscio, entrò, fece entrare il curato e la donna, s'avviò davanti a loro alla scaletta; e tutt'e tre salirono in silenzio.
CAPITOLO XXIV
Lucia s'era risentita da poco tempo; e di quel tempo una parte aveva penato a svegliarsi affatto, a separar le torbide visioni del sonno dalle memorie e dall'immagini di quella realtà troppo somigliante a una funesta visione d'infermo.
La vecchia le si era subito avvicinata, e, con quella voce forzatamente umile, le aveva detto: - ah! avete dormito? Avreste potuto dormire in letto: ve l'ho pur detto tante volte ier sera -.
E non ricevendo risposta, aveva continuato, sempre con un tono di supplicazione stizzosa: - mangiate una volta: abbiate giudizio.
Uh come siete brutta! Avete bisogno di mangiare.
E poi se, quando torna, la piglia con me?
- No, no; voglio andar via, voglio andar da mia madre.
Il padrone me l'ha promesso, ha detto: domattina.
Dov'è il padrone?
- È uscito; m'ha detto che tornerà presto, e che farà tutto quel che volete.
- Ha detto così? ha detto così? Ebbene; io voglio andar da mia madre; subito, subito.
Ed ecco si sente un calpestìo nella stanza vicina; poi un picchio all'uscio.
La vecchia accorre, domanda: - chi è?
- Apri, - risponde sommessamente la nota voce.
La vecchia tira il paletto; l'innominato, spingendo leggermente i battenti, fa un po' di spiraglio: ordina alla vecchia di venir fuori, fa entrar subito don Abbondio con la buona donna.
Socchiude poi di nuovo l'uscio, si ferma dietro a quello, e manda la vecchia in una parte lontana del castellaccio; come aveva già mandata via anche l'altra donna che stava fuori, di guardia.
Tutto questo movimento, quel punto d'aspetto, il primo apparire di persone nuove, cagionarono un soprassalto d'agitazione a Lucia, alla quale, se lo stato presente era intollerabile, ogni cambiamento però era motivo di sospetto e di nuovo spavento.
Guardò, vide un prete, una donna; si rincorò alquanto: guarda più attenta: è lui, o non è lui? Riconosce don Abbondio, e rimane con gli occhi fissi, come incantata.
La donna, andatale vicino, si chinò sopra di lei, e, guardandola pietosamente, prendendole le mani, come per accarezzarla e alzarla a un tempo, le disse: - oh poverina! venite, venite con noi.
- Chi siete? - le domandò Lucia; ma, senza aspettar la risposta, si voltò ancora a don Abbondio, che s'era trattenuto discosto due passi, con un viso, anche lui, tutto compassionevole; lo fissò di nuovo, e esclamò: - lei! è lei? il signor curato? Dove siamo?...
Oh povera me! son fuori di sentimento!
- No, no, - rispose don Abbondio: - son io davvero: fatevi coraggio.
Vedete? siam qui per condurvi via.
Son proprio il vostro curato, venuto qui apposta, a cavallo...
Lucia, come riacquistate in un tratto tutte le sue forze, si rizzò precipitosamente; poi fissò ancora lo sguardo su que' due visi, e disse: - è dunque la Madonna che vi ha mandati.
- Io credo di sì, - disse la buona donna.
- Ma possiamo andar via, possiamo andar via davvero? - riprese Lucia, abbassando la voce, e con uno sguardo timido e sospettoso.
- E tutta quella gente...? - continuò, con le labbra contratte e tremanti di spavento e d'orrore: - e quel signore...! quell'uomo...! Già, me l'aveva promesso...
- È qui anche lui in persona, venuto apposta con noi, - disse don Abbondio: - è qui fuori che aspetta.
Andiamo presto; non lo facciamo aspettare, un par suo.
Allora, quello di cui si parlava, spinse l'uscio, e si fece vedere; Lucia, che poco prima lo desiderava, anzi, non avendo speranza in altra cosa del mondo, non desiderava che lui, ora, dopo aver veduti visi, e sentite voci amiche, non poté reprimere un subitaneo ribrezzo; si riscosse, ritenne il respiro, si strinse alla buona donna, e le nascose il viso in seno.
L'innominato, alla vista di quell'aspetto sul quale già la sera avanti non aveva potuto tener fermo lo sguardo, di quell'aspetto reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal patire prolungato e dal digiuno, era rimasto lì fermo, quasi sull'uscio; nel veder poi quell'atto di terrore, abbassò gli occhi, stette ancora un momento immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto, - è vero, - esclamò: - perdonatemi!
- Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi chiede perdono? - diceva la buona donna all'orecchio di Lucia.
- Si può dir di più? Via, su quella testa; non fate la bambina; che possiamo andar presto, - le diceva don Abbondio.
Lucia alzò la testa, guardò l'innominato, e, vedendo bassa quella fronte, atterrato e confuso quello sguardo, presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscenza e di pietà, disse: - oh, il mio signore! Dio le renda merito della sua misericordia!
- E a voi, cento volte, il bene che mi fanno codeste vostre parole.
Così detto, si voltò, andò verso l'uscio, e uscì il primo.
Lucia, tutta rianimata, con la donna che le dava braccio, gli andò dietro; don Abbondio in coda.
Scesero la scala, arrivarono all'uscio che metteva nel cortile.
L'innominato lo spalancò, andò alla lettiga, aprì lo sportello, e, con una certa gentilezza quasi timida (due cose nuove in lui) sorreggendo il braccio di Lucia, l'aiutò ad entrarvi, poi la buona donna.
Slegò quindi la mula di don Abbondio, e l'aiutò anche lui a montare.
- Oh che degnazione! - disse questo; e montò molto più lesto che non avesse fatto la prima volta.
La comitiva si mosse quando l'innominato fu anche lui a cavallo.
La sua fronte s'era rialzata; lo sguardo aveva ripreso la solita espressione d'impero.
I bravi che incontrava, vedevan bene sul suo viso i segni d'un forte pensiero, d'una preoccupazione straordinaria; ma non capivano, né potevan capire più in là.
Al castello, non si sapeva ancor nulla della gran mutazione di quell'uomo; e per congettura, certo, nessun di coloro vi sarebbe arrivato.
La buona donna aveva subito tirate le tendine della lettiga: prese poi affettuosamente le mani di Lucia, s'era messa a confortarla, con parole di pietà, di congratulazione e di tenerezza.
E vedendo come, oltre la fatica di tanto travaglio sofferto, la confusione e l'oscurità degli avvenimenti impedivano alla poverina di sentir pienamente la contentezza della sua liberazione, le disse quanto poteva trovar di più atto a distrigare, a ravviare, per dir così, i suoi poveri pensieri.
Le nominò il paese dove andavano.
- Sì? - disse Lucia, la qual sapeva ch'era poco discosto dal suo.
- Ah Madonna santissima, vi ringrazio! Mia madre! mia madre!
- La manderemo a cercar subito, - disse la buona donna, la quale non sapeva che la cosa era già fatta.
- Sì, sì; che Dio ve ne renda merito...
E voi, chi siete? Come siete venuta...
- M'ha mandata il nostro curato, - disse la buona donna: - perché questo signore, Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto!), ed è venuto al nostro paese, per parlare al signor cardinale arcivescovo (che l'abbiamo là in visita, quel sant'uomo), e s'è pentito de' suoi peccatacci, e vuol mutar vita; e ha detto al cardinale che aveva fatta rubare una povera innocente, che siete voi, d'intesa con un altro senza timor di Dio, che il curato non m'ha detto chi possa essere.
Lucia alzò gli occhi al cielo.
- Lo saprete forse voi, - continuò la buona donna: - basta; dunque il signor cardinale ha pensato che, trattandosi d'una giovine, ci voleva una donna per venire in compagnia, e ha detto al curato che ne cercasse una; e il curato, per sua bontà, è venuto da me...
- Oh! il Signore vi ricompensi della vostra carità!
- Che dite mai, la mia povera giovine? E m'ha detto il signor curato, che vi facessi coraggio, e cercassi di sollevarvi subito, e farvi intendere come il Signore v'ha salvata miracolosamente...
- Ah sì! proprio miracolosamente; per intercession della Madonna.
- Dunque, che stiate di buon animo, e perdonare a chi v'ha fatto del male, e esser contenta che Dio gli abbia usata misericordia, anzi pregare per lui; ché, oltre all'acquistarne merito, vi sentirete anche allargare il cuore.
Lucia rispose con uno sguardo che diceva di sì, tanto chiaro come avrebbero potuto far le parole, e con una dolcezza che le parole non avrebbero saputa esprimere.
- Brava giovine! - riprese la donna: - e trovandosi al nostro paese anche il vostro curato (che ce n'è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme quattro ufizi generali), ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche lui in compagnia; ma è stato di poco aiuto.
Già l'avevo sentito dire ch'era un uomo da poco; ma in quest'occasione, ho dovuto proprio vedere che è più impicciato che un pulcin nella stoppa.
- E questo...
- domandò Lucia, - questo che è diventato buono...
chi è?
- Come! non lo sapete? - disse la buona donna, e lo nominò.
- Oh misericordia! - esclamò Lucia.
Quel nome, quante volte l'aveva sentito ripetere con orrore in più d'una storia, in cui figurava sempre come in altre storie quello dell'orco! E ora, al pensiero d'essere stata nel suo terribil potere, e d'essere sotto la sua guardia pietosa; al pensiero d'una così orrenda sciagura, e d'una così improvvisa redenzione; a considerare di chi era quel viso che aveva veduto burbero, poi commosso, poi umiliato, rimaneva come estatica, dicendo solo, ogni poco: - oh misericordia!
- È una gran misericordia davvero! - diceva la buona donna: - dev'essere un gran sollievo per mezzo mondo.
A pensare quanta gente teneva sottosopra; e ora, come m'ha detto il nostro curato...
e poi, solo a guardarlo in viso, è diventato un santo! E poi si vedon subito le opere.
Dire che questa buona donna non provasse molta curiosità di conoscere un po' più distintamente la grand'avventura nella quale si trovava a fare una parte, non sarebbe la verità.
Ma bisogna dire a sua gloria che, compresa d'una pietà rispettosa per Lucia, sentendo in certo modo la gravità e la dignità dell'incarico che le era stato affidato, non pensò neppure a farle una domanda indiscreta, ne oziosa: tutte le sue parole, in quel tragitto, furono di conforto e di premura per la povera giovine.
- Dio sa quant'è che non avete mangiato!
- Non me ne ricordo più...
Da un pezzo.
- Poverina! Avrete bisogno di ristorarvi.
- Sì, - rispose Lucia con voce fioca.
- A casa mia, grazie a Dio, troveremo subito qualcosa.
Fatevi coraggio, che ormai c'è poco.
Lucia si lasciava poi cader languida sul fondo della lettiga, come assopita; e allora la buona donna la lasciava in riposo.
Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l'andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere.
Al cessar di quella pauraccia, s'era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono a spuntargli in cuore cent'altri dispiaceri; come, quand'è stato sbarbato un grand'albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre tutto d'erbacce.
Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel presente, quanto ne' pensieri dell'avvenire, non gli mancava pur troppo materia di tormentarsi.
Sentiva ora, molto più che nell'andare, l'incomodo di quel modo di viaggiare, al quale non era molto avvezzo; e specialmente sul principio, nella scesa dal castello al fondo della valle.
Il lettighiero, stimolato da' cenni dell'innominato, faceva andar di buon passo le sue bestie; le due cavalcature andavan dietro dietro, con lo stesso passo; onde seguiva che, a certi luoghi più ripidi, il povero don Abbondio, come se fosse messo a leva per di dietro, tracollava sul davanti, e, per reggersi, doveva appuntellarsi con la mano all'arcione; e non osava però pregare che s'andasse più adagio, e dall'altra parte avrebbe voluto esser fuori di quel paese più presto che fosse possibile.
Oltre di ciò, dove la strada era sur un rialto, sur un ciglione, la mula, secondo l'uso de' pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sull'orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto, o come pensava lui, un precipizio.
" Anche tu, - diceva tra sé alla bestia, - hai quel maledetto gusto d'andare a cercare i pericoli, quando c'è tanto sentiero! " E tirava la briglia dall'altra parte; ma inutilmente.
Sicché, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui.
I bravi non gli facevan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava il padrone.
" Ma, - rifletteva però, - se la notizia di questa gran conversione si sparge qua dentro, intanto che ci siamo ancora, chi sa come l'intenderanno costoro! Chi sa cosa nasce! Che s'andassero a immaginare che sia venuto io a fare il missionario! Povero me! mi martirizzano! " Il cipiglio dell'innominato non gli dava fastidio.
" Per tenere a segno quelle facce lì, - pensava, - non ci vuol meno di questa qui; lo capisco anch'io; ma perché deve toccare a me a trovarmi tra tutti costoro! "
Basta; s'arrivò in fondo alla scesa, e s'uscì finalmente anche dalla valle.
La fronte dell'innominato s'andò spianando.
Anche don Abbondio prese una faccia più naturale, sprigionò alquanto la testa di tra le spalle, sgranchì le braccia e le gambe, si mise a stare un po' più sulla vita, che faceva un tutt'altro vedere, mandò più larghi respiri, e, con animo più riposato, si mise a considerare altri lontani pericoli.
"Cosa dirà quel bestione di don Rodrigo? Rimaner con tanto di naso a questo modo, col danno e con le beffe, figuriamoci se la gli deve parere amara.
Ora è quando fa il diavolo davvero.
Sta a vedere che se la piglia anche con me, perché mi son trovato dentro in questa cerimonia.
Se ha avuto cuore fin d'allora di mandare que' due demòni a farmi una figura di quella sorte sulla strada, ora poi, chi sa cosa farà! Con sua signoria illustrissima non la può prendere, che è un pezzo molto più grosso di lui; lì bisognerà rodere il freno.
Intanto il veleno l'avrà in corpo, e sopra qualcheduno lo vorrà sfogare.
Come finiscono queste faccende? I colpi cascano sempre all'ingiù; i cenci vanno all'aria.
Lucia, di ragione, sua signoria illustrissima penserà a metterla in salvo: quell'altro poveraccio mal capitato è fuor del tiro, e ha già avuto la sua: ecco che il cencio son diventato io.
La sarebbe barbara, dopo tant'incomodi, dopo tante agitazioni, e senza acquistarne merito, che ne dovessi portar la pena io.
Cosa farà ora sua signoria illustrissima per difendermi, dopo avermi messo in ballo? Mi può star mallevadore lui che quel dannato non mi faccia un'azione peggio della prima? E poi, ha tanti affari per la testa! mette mano a tante cose! Come si può badare a tutto? Lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima.
Quelli che fanno il bene, lo fanno all'ingrosso: quand'hanno provata quella soddisfazione, n'hanno abbastanza, e non si voglion seccare a star dietro a tutte le conseguenze; ma coloro che hanno quel gusto di fare il male, ci mettono più diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai requie, perché hanno quel canchero che li rode.
Devo andar io a dire che son venuto qui per comando espresso di sua signoria illustrissima, e non di mia volontà? Parrebbe che volessi tenere dalla parte dell'iniquità.
Oh santo cielo! Dalla parte dell'iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il meglio sarà raccontare a Perpetua la cosa com'è; e lascia poi fare a Perpetua a mandarla in giro.
Purché a monsignore non venga il grillo di far qualche pubblicità, qualche scena inutile, e mettermici dentro anche me.
A buon conto, appena siamo arrivati, se è uscito di chiesa, vado a riverirlo in fretta in fretta; se no, lascio le mie scuse, e me ne vo diritto diritto a casa mia.
Lucia è bene appoggiata; di me non ce n'è più bisogno; e dopo tant'incomodi, posso pretendere anch'io d'andarmi a riposare.
E poi...
che non venisse anche curiosità a monsignore di saper tutta la storia, e mi toccasse a render conto dell'affare del matrimonio! Non ci mancherebbe altro.
E se viene in visita anche alla mia parrocchia!...
Oh! sarà quel che sarà; non vo' confondermi prima del tempo: n'ho abbastanza de' guai.
Per ora vo a chiudermi in casa.
Fin che monsignore si trova da queste parti, don Rodrigo non avrà faccia di far pazzie.
E poi...
E poi? Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male! "
La comitiva arrivò che le funzioni di chiesa non erano ancor terminate; passò per mezzo alla folla medesima non meno commossa della prima volta; e poi si divise.
I due a cavallo voltarono sur una piazzetta di fianco, in fondo a cui era la casa del parroco; la lettiga andò avanti verso quella della buona donna.
Don Abbondio fece quello che aveva pensato: appena smontato, fece i più sviscerati complimenti all'innominato, e lo pregò di volerlo scusar con monsignore; ché lui doveva tornare alla parrocchia addirittura, per affari urgenti.
Andò a cercare quel che chiamava il suo cavallo, cioè il bastone che aveva lasciato in un cantuccio del salotto, e s'incamminò.
L'innominato stette a aspettare che il cardinale tornasse di chiesa.
La buona donna, fatta seder Lucia nel miglior luogo della sua cucina, s'affaccendava a preparar qualcosa da ristorarla, ricusando, con una certa rustichezza cordiale, i ringraziamenti e le scuse che questa rinnovava ogni tanto.
Presto presto, rimettendo stipa sotto un calderotto, dove notava un buon cappone, fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella già guarnita di fette di pane, poté finalmente presentarla a Lucia.
E nel vedere la poverina a riaversi a ogni cucchiaiata, si congratulava ad alta voce con se stessa che la cosa fosse accaduta in un giorno in cui, com'essa diceva, non c'era il gatto nel fuoco.
- Tutti s'ingegnano oggi a far qualcosina, - aggiungeva: - meno que' poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualcosa.
Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualcosa che abbiamo al sole, si campa.
Sicché mangiate senza pensieri intanto; ché presto il cappone sarà a tiro, e potrete ristorarvi un po' meglio -.
Così detto, ritornò ad accudire al desinare, e ad apparecchiare.
Lucia, tornatele alquanto le forze, e acquietandosele sempre più l'animo, andava intanto assettandosi, per un'abitudine, per un istinto di pulizia e di verecondia: rimetteva e fermava le trecce allentate e arruffate, raccomodava il fazzoletto sul seno, e intorno al collo.
In far questo, le sue dita s'intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti; lo sguardo vi corse; si fece nella mente un tumulto istantaneo; la memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d'improvviso, e vi comparve chiara e distinta.
Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell'animo non fosse stato così preparato da una vita d'innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione.
Dopo un ribollimento di que' pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: " oh povera me, cos'ho fatto! "
Ma non appena l'ebbe pensate, ne risentì come uno spavento.
Le tornarono in mente tutte le circostanze del voto, l'angoscia intollerabile, il non avere una speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta.
E dopo avere ottenuta la grazia, pentirsi della promessa, le parve un'ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio e la Madonna; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più terribili sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare neppur nella preghiera; e s'affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo.
Si levò con divozione la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo, con una supplicazione accorata, che le fosse concessa la forza d'adempirlo, che le fossero risparmiati i pensieri e l'occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismovere il suo animo, agitarlo troppo.
La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno, quella lontananza che fin allora le era stata così amara, le parve ora una disposizione della Provvidenza, che avesse fatti andare insieme i due avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovar nell'uno la ragione d'esser contenta dell'altro.
E dietro a quel pensiero, s'andava figurando ugualmente che quella Provvidenza medesima, per compir l'opera, saprebbe trovar la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui, non pensasse più...
Ma una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch'era andata a cercarla.
La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, ritornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s'alzò, se ci si passa quest'espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico abbattuto: non dico ucciso.
Tutt'a un tratto, si sente uno scalpiccìo, e un chiasso di voci allegre.
Era la famigliola che tornava di chiesa.
Due bambinette e un fanciullo entran saltando; si fermano un momento a dare un'occhiata curiosa a Lucia, poi corrono alla mamma, e le s'aggruppano intorno: chi domanda il nome dell'ospite sconosciuta, e il come e il perché; chi vuol raccontare le maraviglie vedute: la buona donna risponde a tutto e a tutti con un - zitti, zitti -.
Entra poi, con un passo più quieto, ma con una premura cordiale dipinta in viso, il padrone di casa.
Era, se non l'abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e de' contorni; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d'una volta il Leggendario de' Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza: lode però che rifiutava modestamente, dicendo soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che se fosse andato agli studi, in vece di tant'altri...! Con questo, la miglior pasta del mondo.
Essendosi trovato presente quando sua moglie era stata pregata dal curato d'intraprendere quel viaggio caritatevole, non solo ci aveva data la sua approvazione, ma le avrebbe fatto coraggio, se ce ne fosse stato bisogno.
E ora che la funzione, la pompa, il concorso, e soprattutto la predica del cardinale avevano, come si dice, esaltati tutti i suoi buoni sentimenti, tornava a casa con un'aspettativa, con un desiderio ansioso di sapere come la cosa fosse riuscita, e di trovare la povera innocente salvata.
- Guardate un poco, - gli disse, al suo entrare, la buona donna, accennando Lucia; la quale fece il viso rosso, s'alzò, e cominciava a balbettar qualche scusa.
Ma lui, avvicinatosele, l'interruppe facendole una gran festa, e esclamando: - ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa casa.
Come son contento di vedervi qui! Già ero sicuro che sareste arrivata a buon porto; perché non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene; ma son contento di vedervi qui.
Povera giovine! Ma è però una gran cosa d'aver ricevuto un miracolo!
Né si creda che fosse lui il solo a qualificar così quell'avvenimento, perché aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt'i contorni non se ne parlò con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria.
E, a dir la verità, con le frange che vi s'attaccarono, non gli poteva convenire altro nome.
Accostatosi Poi passo passo alla moglie, che staccava il calderotto dalla catena, le disse sottovoce: - è andato bene ogni cosa?
- Benone: ti racconterò poi tutto.
- Sì, sì; con comodo.
Messo poi subito in tavola, la padrona andò a prender Lucia, ve l'accompagnò, la fece sedere; e staccata un'ala di quel cappone, gliela mise davanti; si mise a sedere anche lei e il marito, facendo tutt'e due coraggio all'ospite abbattuta e vergognosa, perché mangiasse.
Il sarto cominciò, ai primi bocconi, a discorrere con grand'enfasi, in mezzo all'interruzioni de' ragazzi, che mangiavano ritti intorno alla tavola, e che in verità avevano viste troppe cose straordinarie, per fare alla lunga la sola parte d'ascoltatori.
Descriveva le cerimonie solenni, poi saltava a parlare della conversione miracolosa.
Ma ciò che gli aveva fatto più impressione, e su cui tornava più spesso, era la predica del cardinale.
- A vederlo lì davanti all'altare, - diceva, - un signore di quella sorte, come un curato...
- E quella cosa d'oro che aveva in testa...
- diceva una bambinetta.
- Sta' zitta.
A pensare, dico, che un signore di quella sorte, e un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, né anche in Milano; a pensare che sappia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano...
- Ho inteso anch'io, - disse l'altra chiacchierina.
- Sta' zitta! cosa vuoi avere inteso, tu?
- Ho inteso che spiegava il Vangelo in vece del signor curato.
- Sta' zitta.
Non dico chi sa qualche cosa; ché allora uno è obbligato a intendere; ma anche i più duri di testa, i più ignoranti, andavan dietro al filo del discorso.
Andate ora a domandar loro se saprebbero ripeter le parole che diceva: sì; non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui.
E senza mai nominare quel signore, come si capiva che voleva parlar di lui! E poi, per capire, sarebbe bastato osservare quando aveva le lacrime agli occhi.
E allora tutta la gente a piangere...
- E proprio vero, - scappò fuori il fanciullo: - ma perché piangevan tutti a quel modo, come bambini?
- Sta' zitto.
E sì che c'è de' cuori duri in questo paese.
E ha fatto proprio vedere che, benché ci sia la carestia, bisogna ringraziare il Signore, ed esser contenti: far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi esser contenti.
Perché la disgrazia non è il patire, e l'esser poveri; la disgrazia è il far del male.
E non son belle parole; perché si sa che anche lui vive da pover'uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati; quando potrebbe far vita scelta, meglio di chi si sia.
Ah! allora un uomo dà soddisfazione a sentirlo discorrere; non come tant'altri, fate quello che dico, e non fate quel che fo.
E poi ha fatto proprio vedere che anche coloro che non son signori, se hanno più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce.
Qui interruppe il discorso da sé, come sorpreso da un pensiero.
Stette un momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch'eran sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le quattro cocche, disse alla sua bambinetta maggiore: - piglia qui -.
Le diede nell'altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: - va' qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po' allegra co' suoi bambini.
Ma con buona maniera, ve'; che non paia che tu le faccia l'elemosina.
E non dir niente, se incontri qualcheduno; e guarda di non rompere.
Lucia fece gli occhi rossi, e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice; come già da' discorsi di prima aveva ricevuto un sollievo che un discorso fatto apposta non le avrebbe potuto dare.
L'animo attirato da quelle descrizioni, da quelle fantasie di pompa, da quelle commozioni di pietà e di maraviglia, preso dall'entusiasmo medesimo del narratore, si staccava da' pensieri dolorosi di sé; e anche ritornandoci sopra, si trovava più forte contro di essi.
Il pensiero stesso del gran sacrifizio, non già che avesse perduto il suo amaro, ma insiem con esso aveva un non so che d'una gioia austera e solenne.
Poco dopo, entrò il curato del paese, e disse d'esser mandato dal cardinale a informarsi di Lucia, ad avvertirla che monsignore voleva vederla in quel giorno, e a ringraziare in suo nome il sarto e la moglie.
E questi e quella, commossi e confusi, non trovavan parole per corrispondere a tali dimostrazioni d'un tal personaggio.
- E vostra madre non è ancora arrivata? - disse il curato a Lucia.
- Mia madre! - esclamò questa.
Dicendole poi il curato, che l'aveva mandata a prendere, d'ordine dell'arcivescovo, si mise il grembiule agli occhi, e diede in un dirotto pianto, che durò un pezzo dopo che fu andato via il curato.
Quando poi gli affetti tumultuosi che le si erano suscitati a quell'annunzio, cominciarono a dar luogo a pensieri più posati, la poverina si ricordò che quella consolazione allora così vicina, di riveder la madre, una consolazione così inaspettata poche ore prima, era stata da lei espressamente implorata in quell'ore terribili, e messa quasi come una condizione al voto.
Fatemi tornar salva con mia madre, aveva detto; e queste parole le ricomparvero ora distinte nella memoria.
Si confermò più che mai nel proposito di mantener la promessa, e si fece di nuovo, e più amaramente, scrupolo di quel povera me! che le era scappato detto tra sé, nel primo momento.
Agnese infatti, quando si parlava di lei, era già poco lontana.
È facile pensare come la povera donna fosse rimasta, a quell'invito così inaspettato, e a quella notizia, necessariamente tronca e confusa, d'un pericolo, si poteva dir, cessato, ma spaventoso; d'un caso terribile, che il messo non sapeva né circostanziare né spiegare; e lei non aveva a che attaccarsi per ispiegarlo da sé.
Dopo essersi cacciate le mani ne' capelli, dopo aver gridato più volte: - ah Signore! ah Madonna! -, dopo aver fatte al messo varie domande, alle quali questo non sapeva che rispondere, era entrata in fretta e in furia nel baroccio, continuando per la strada a esclamare e interrogare, senza profitto.
Ma, a un certo punto, aveva incontrato don Abbondio che veniva adagio adagio, mettendo avanti, a ogni passo, il suo bastone.
Dopo un - oh! - di tutt'e due le parti, lui s'era fermato, lei aveva fatto fermare, ed era smontata; e s'eran tirati in disparte in un castagneto che costeggiava la strada.
Don Abbondio l'aveva ragguagliata di ciò che aveva potuto sapere e dovuto vedere.
La cosa non era chiara; ma almeno Agnese fu assicurata che Lucia era affatto in salvo; e respirò.
Dopo, don Abbondio era voluto entrare in un altro discorso, e darle una lunga istruzione sulla maniera di regolarsi con l'arcivescovo, se questo, com'era probabile, avesse desiderato di parlar con lei e con la figliuola; e soprattutto che non conveniva far parola del matrimonio...
Ma Agnese, accorgendosi che il brav'uomo non parlava che per il suo proprio interesse, l'aveva piantato, senza promettergli, anzi senza risolver nulla; ché aveva tutt'altro da pensare.
E s'era rimessa in istrada.
Finalmente il baroccio arriva, e si ferma alla casa del sarto.
Lucia s'alza precipitosamente; Agnese scende, e dentro di corsa: sono nelle braccia l'una dell'altra.
La moglie del sarto, ch'era la sola che si trovava lì presente, fa coraggio a tutt'e due, le acquieta, si rallegra con loro, e poi, sempre discreta, le lascia sole, dicendo che andava a preparare un letto per loro; che aveva il modo, senza incomodarsi; ma che, in ogni caso, tanto lei, come suo marito, avrebbero piuttosto voluto dormire in terra, che lasciarle andare a cercare un ricovero altrove.
Passato quel primo sfogo d'abbracciamenti e di singhiozzi, Agnese volle sapere i casi di Lucia, e questa si mise affannosamente a raccontarglieli.
Ma, come il lettore sa, era una storia che nessuno la conosceva tutta; e per Lucia stessa c'eran delle parti oscure, inesplicabili affatto.
E principalmente quella fatale combinazione d'essersi la terribile carrozza trovata lì sulla strada, per l'appunto quando Lucia vi passava per un caso straordinario: su di che la madre e la figlia facevan cento congetture, senza mai dar nel segno, anzi senza neppure andarci vicino.
In quanto all'autor principale della trama, tanto l'una che l'altra non potevano fare a meno di non pensare che fosse don Rodrigo.
- Ah anima nera! ah tizzone d'inferno! - esclamava Agnese: - ma verrà la sua ora anche per lui.
Domeneddio lo pagherà secondo il merito; e allora proverà anche lui...
- No, no, mamma; no! - interruppe Lucia: - non gli augurate di patire, non l'augurate a nessuno! Se sapeste cosa sia patire! Se aveste provato! No, no! preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore, come ha fatto a quest'altro povero signore, ch'era peggio di lui; e ora è un santo.
Il ribrezzo che Lucia provava nel tornare sopra memorie così recenti e così crudeli, la fece più d'una volta restare a mezzo; più d'una volta disse che non le bastava l'animo di continuare, e dopo molte lacrime, riprese la parola a stento.
Ma un sentimento diverso la tenne sospesa, a un certo punto del racconto: quando fu al voto.
Il timore che la madre le desse dell'imprudente e della precipitosa; e che, come aveva fatto nell'affare del matrimonio, mettesse in campo qualche sua regola larga di coscienza, e volesse fargliela trovar giusta per forza; o che, povera donna, dicesse la cosa a qualcheduno in confidenza, se non altro per aver lume e consiglio, e la facesse così divenir pubblica, cosa che Lucia, solamente a pensarci, si sentiva venire il viso rosso; anche una certa vergogna della madre stessa, una ripugnanza inesplicabile a entrare in quella materia; tutte queste cose insieme fecero che nascose quella circostanza importante, proponendosi di farne prima la confidenza al padre Cristoforo.
Ma come rimase allorché, domandando di lui, si sentì rispondere che non c'era più, ch'era stato mandato in un paese lontano lontano, in un paese che aveva un certo nome!
- E Renzo? - disse Agnese.
- È in salvo, n'è vero? - disse ansiosamente Lucia.
- Questo è sicuro, perché tutti lo dicono; si tien per certo che si sia ricoverato sul bergamasco; ma il luogo proprio nessuno lo sa dire: e lui finora non ha mai fatto saper nulla.
Che non abbia ancora trovata la maniera.
- Ah, se è in salvo, sia ringraziato il Signore! - disse Lucia; e cercava di cambiar discorso; quando il discorso fu interrotto da una novità inaspettata: la comparsa del cardinale arcivescovo.
Questo, tornato di chiesa, dove l'abbiam lasciato, sentito dall'innominato che Lucia era arrivata, sana e salva, era andato a tavola con lui, facendoselo sedere a destra, in mezzo a una corona di preti, che non potevano saziarsi di dare occhiate a quell'aspetto così ammansato senza debolezza, così umiliato senza abbassamento, e di paragonarlo con l'idea che da lungo tempo s'eran fatta del personaggio.
Finito di desinare, loro due s'eran ritirati di nuovo insieme.
Dopo un colloquio che durò molto più del primo, l'innominato era partito per il suo castello, su quella stessa mula della mattina; e il cardinale, fatto chiamare il curato, gli aveva detto che desiderava d'esser condotto alla casa dov'era ricoverata Lucia.
- Oh! monsignore, - aveva risposto il curato, - non s'incomodi: manderò io subito ad avvertire che venga qui la giovine, la madre, se è arrivata, anche gli ospiti, se monsignore li vuole, tutti quelli che desidera vossignoria illustrissima.
- Desidero d'andar io a trovarli, - aveva replicato Federigo.
- Vossignoria illustrissima non deve incomodarsi: manderò io subito a chiamarli: è cosa d'un momento, - aveva insistito il curato guastamestieri (buon uomo del resto), non intendendo che il cardinale voleva con quella visita rendere onore alla sventura, all'innocenza, all'ospitalità e al suo proprio ministero in un tempo.
Ma, avendo il superiore espresso di nuovo il medesimo desiderio, l'inferiore s'inchinò e si mosse.
Quando i due personaggi furon veduti spuntar nella strada, tutta la gente che c'era andò verso di loro; e in pochi momenti n'accorse da ogni parte, camminando loro ai fianchi chi poteva, e gli altri dietro, alla rinfusa.
Il curato badava a dire: - via, indietro, ritiratevi; ma! ma! - Federigo gli diceva: - lasciateli fare, - e andava avanti, ora alzando la mano a benedir la gente, ora abbassandola ad accarezzare i ragazzi che gli venivan tra' piedi.
Così arrivarono alla casa, e c'entrarono: la folla rimase ammontata al di fuori.
Ma nella folla si trovava anche il sarto, il quale era andato dietro come gli altri, con gli occhi fissi e con la bocca aperta, non sapendo dove si riuscirebbe.
Quando vide quel dove inaspettato, si fece far largo, pensate con che strepito, gridando e rigridando: - lasciate passare chi ha da passare -; e entrò.
Agnese e Lucia sentirono un ronzìo crescente nella strada; mentre pensavano cosa potesse essere, videro l'uscio spalancarsi, e comparire il porporato col parroco.
- È quella? - domandò il primo al secondo; e, a un cenno affermativo, andò verso Lucia, ch'era rimasta lì con la madre, tutt'e due immobili e mute dalla sorpresa e dalla vergogna.
Ma il tono di quella voce, l'aspetto, il contegno, e soprattutto le parole di Federigo l'ebbero subito rianimate.
- Povera giovine, - cominciò: - Dio ha permesso che foste messa a una gran prova; ma v'ha anche fatto vedere che non aveva levato l'occhio da voi, che non v'aveva dimenticata.
V'ha rimessa in salvo; e s'è servito di voi per una grand'opera, per fare una gran misericordia a uno, e per sollevar molti nello stesso tempo.
Qui comparve nella stanza la padrona, la quale, al rumore, s'era affacciata anch'essa alla finestra, e avendo veduto chi le entrava in casa, aveva sceso le scale, di corsa, dopo essersi raccomodata alla meglio; e quasi nello stesso tempo, entrò il sarto da un altr'uscio.
Vedendo avviato il discorso, andarono a riunirsi in un canto, dove rimasero con gran rispetto.
Il cardinale, salutatili cortesemente, continuò a parlar con le donne, mescolando ai conforti qualche domanda, per veder se nelle risposte potesse trovar qualche congiuntura di far del bene a chi aveva tanto patito.
- Bisognerebbe che tutti i preti fossero come vossignoria, che tenessero un po' dalla parte de' poveri, e non aiutassero a metterli in imbroglio, per cavarsene loro, - disse Agnese, animata dal contegno così famigliare e amorevole di Federigo, e stizzita dal pensare che il signor don Abbondio, dopo aver sempre sacrificati gli altri, pretendesse poi anche d'impedir loro un piccolo sfogo, un lamento con chi era al di sopra di lui, quando, per un caso raro, n'era venuta l'occasione.
- Dite pure tutto quel che pensate, - disse il cardinale: - parlate liberamente.
- Voglio dire che, se il nostro signor curato avesse fatto il suo dovere, la cosa non sarebbe andata così.
Ma facendole il cardinale nuove istanze perché si spiegasse meglio, quella cominciò a trovarsi impicciata a dover raccontare una storia nella quale aveva anch'essa una parte che non si curava di far sapere, specialmente a un tal personaggio.
Trovò però il verso d'accomodarla con un piccolo stralcio: raccontò del matrimonio concertato, del rifiuto di don Abbondio, non lasciò fuori il pretesto de' superiori che lui aveva messo in campo (ah, Agnese!); e saltò all'attentato di don Rodrigo, e come, essendo stati avvertiti, avevano potuto scappare.
- Ma sì, - soggiunse e concluse: - scappare per inciamparci di nuovo.
Se in vece il signor curato ci avesse detto sinceramente la cosa, e avesse subito maritati i miei poveri giovani, noi ce n'andavamo via subito, tutti insieme, di nascosto, lontano, in luogo che né anche l'aria non l'avrebbe saputo.
Così s'è perduto tempo; ed è nato quel che è nato.
- Il signor curato mi renderà conto di questo fatto, - disse il cardinale.
- No, signore, no, signore, - disse subito Agnese: - non ho parlato per questo: non lo gridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso.
Ma Lucia, non contenta di quella maniera di raccontar la storia, soggiunse: - anche noi abbiamo fatto del male: si vede che non era la volontà del Signore che la cosa dovesse riuscire.
- Che male avete potuto far voi, povera giovine? - disse Federigo.
Lucia, malgrado gli occhiacci che la madre cercava di farle alla sfuggita, raccontò la storia del tentativo fatto in casa di don Abbondio; e concluse dicendo: - abbiam fatto male; e Dio ci ha gastigati.
- Prendete dalla sua mano i patimenti che avete sofferti, e state di buon animo, - disse Federigo: - perché, chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non chi ha patito, e pensa ad accusar se medesimo?
Domandò allora dove fosse il promesso sposo, e sentendo da Agnese (Lucia stava zitta, con la testa e gli occhi bassi) ch'era scappato dal suo paese, ne provò e ne mostrò maraviglia e dispiacere; e volle sapere il perché.
Agnese raccontò alla meglio tutto quel poco che sapeva della storia di Renzo.
- Ho sentito parlare di questo giovine, - disse il cardinale: - ma come mai uno che si trovò involto in affari di quella sorte, poteva essere in trattato di matrimonio con una ragazza così?
- Era un giovine dabbene, - disse Lucia, facendo il viso rosso, ma con voce sicura.
- Era un giovine quieto, fin troppo, - soggiunse Agnese: - e questo lo può domandare a chi si sia, anche al signor curato.
Chi sa che imbroglio avranno fatto laggiù, che cabale? I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni.
È vero pur troppo, - disse il cardinale: - m'informerò di lui senza dubbio -: e fattosi dire nome e cognome del giovine, ne prese l'appunto sur un libriccin di memorie.
Aggiunse poi che contava di portarsi al loro paese tra pochi giorni, che allora Lucia potrebbe venir là senza timore, e che intanto penserebbe lui a provvederla d'un luogo dove potesse esser al sicuro, fin che ogni cosa fosse accomodata per il meglio.
Si voltò quindi ai padroni di casa, che vennero subito avanti.
Rinnovò i ringraziamenti che aveva fatti fare dal curato, e domandò se sarebbero stati contenti di ricoverare, per que' pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro mandate.
- Oh! sì signore, - rispose la donna, con un tono di voce e con un viso ch'esprimeva molto più di quell'asciutta risposta, strozzata dalla vergogna.
Ma il marito, messo in orgasmo dalla presenza d'un tale interrogatore, dal desiderio di farsi onore in un'occasione di tanta importanza, studiava ansiosamente qualche bella risposta.
Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l'arco dell'intelletto, cercò, frugò, sentì di dentro un cozzo d'idee monche e di mezze parole: ma il momento stringeva; il cardinale accennava già d'avere interpretato il silenzio: il pover'uomo aprì la bocca, e disse: - si figuri! - Altro non gli volle venire.
Cosa, di cui non solo rimase avvilito sul momento; ma sempre poi quella rimembranza importuna gli guastava la compiacenza del grand'onore ricevuto.
E quante volte, tornandoci sopra, e rimettendosi col pensiero in quella circostanza, gli venivano in mente, quasi per dispetto, parole che tutte sarebbero state meglio di quell'insulso si figuri! Ma, come dice un antico proverbio, del senno di poi ne son piene le fosse.
Il cardinale partì, dicendo: - la benedizione del Signore sia sopra questa casa.
Domandò poi la sera al curato come si sarebbe potuto in modo convenevole ricompensare quell'uomo, che non doveva esser ricco, dell'ospitalità costosa, specialmente in que' tempi.
Il curato rispose che, per verità, né i guadagni della professione, né le rendite di certi campicelli, che il buon sarto aveva del suo, non sarebbero bastate, in quell'annata, a metterlo in istato d'esser liberale con gli altri; ma che, avendo fatto degli avanzi negli anni addietro, si trovava de' più agiati del contorno, e poteva far qualche spesa di più, senza dissesto, come certo faceva questa volentieri; e che, del rimanente, non ci sarebbe stato verso di fargli accettare nessuna ricompensa.
- Avrà probabilmente, - disse il cardinale, - crediti con gente che non può pagare.
- Pensi, monsignore illustrissimo: questa povera gente paga con quel che le avanza della raccolta: l'anno scorso, non avanzò nulla; in questo, tutti rimangono indietro del necessario.
- Ebbene, - disse Federigo: - prendo io sopra di me tutti que' debiti; e voi mi farete il piacere d'aver da lui la nota delle partite, e di saldarle.
- Sarà una somma ragionevole.
- Tanto meglio: e avrete pur troppo di quelli ancor più bisognosi, che non hanno debiti perché non trovan credenza.
- Eh, pur troppo! Si fa quel che si può; ma come arrivare a tutto, in tempi di questa sorte?
- Fate che lui li vesta a mio conto, e pagatelo bene.
Veramente, in quest'anno, mi par rubato tutto ciò che non va in pane; ma questo è un caso particolare.
Non vogliam però chiudere la storia di quella giornata, senza raccontar brevemente come la terminasse l'innominato.
Questa volta, la nuova della sua conversione l'aveva preceduto nella valle; vi s'era subito sparsa, e aveva messo per tutto uno sbalordimento, un'ansietà, un cruccio, un susurro.
Ai primi bravi, o servitori (era tutt'uno) che vide, accennò che lo seguissero: e così di mano in mano.
Tutti venivan dietro, con una sospensione nuova, e con la suggezione solita; finché, con un seguito sempre crescente, arrivò al castello.
Accennò a quelli che si trovavan sulla porta, che gli venissero dietro con gli altri; entrò nel primo cortile, andò verso il mezzo, e lì, essendo ancora a cavallo, mise un suo grido tonante: era il segno usato, al quale accorrevano tutti que' suoi che l'avessero sentito.
In un momento, quelli ch'erano sparsi per il castello, vennero dietro alla voce, e s'univano ai già radunati, guardando tutti il padrone.
- Andate ad aspettarmi nella sala grande, - disse loro; e dall'alto della sua cavalcatura, gli stava a veder partire.
Ne scese poi, la menò lui stesso alla stalla, e andò dov'era aspettato.
Al suo apparire, cessò subito un gran bisbiglìo che c'era; tutti si ristrinsero da una parte, lasciando voto per lui un grande spazio della sala: potevano essere una trentina.
L'innominato alzò la mano, come per mantener quel silenzio improvviso; alzò la testa, che passava tutte quelle della brigata, e disse: - ascoltate tutti, e nessuno parli, se non è interrogato.
Figliuoli! la strada per la quale siamo andati finora, conduce nel fondo dell'inferno.
Non è un rimprovero ch'io voglia farvi, io che sono avanti a tutti, il peggiore di tutti; ma sentite ciò che v'ho da dire.
Dio misericordioso m'ha chiamato a mutar vita; e io la muterò, l'ho già mutata: così faccia con tutti voi.
Sappiate dunque, e tenete per fermo che son risoluto di prima morire che far più nulla contro la sua santa legge.
Levo a ognun di voi gli ordini scellerati che avete da me; voi m'intendete; anzi vi comando di non far nulla di ciò che v'era comandato.
E tenete per fermo ugualmente, che nessuno, da qui avanti, potrà far del male con la mia protezione, al mio servizio.
Chi vuol restare a questi patti, sarà per me come un figliuolo: e mi troverei contento alla fine di quel giorno, in cui non avessi mangiato per satollar l'ultimo di voi, con l'ultimo pane che mi rimanesse in casa.
Chi non vuole, gli sarà dato quello che gli è dovuto di salario, e un regalo di più: potrà andarsene; ma non metta più piede qui: quando non fosse per mutar vita; che per questo sarà sempre ricevuto a braccia aperte.
Pensateci questa notte: domattina vi chiamerò, a uno a uno, a darmi la risposta; e allora vi darò nuovi ordini.
Per ora, ritiratevi, ognuno al suo posto.
E Dio che ha usato con me tanta misericordia, vi mandi il buon pensiero.
Qui finì, e tutto rimase in silenzio.
Per quanto vari e tumultuosi fossero i pensieri che ribollivano in que' cervellacci, non ne apparve di fuori nessun segno.
Erano avvezzi a prender la voce del loro signore come la manifestazione d'una volontà con la quale non c'era da ripetere: e quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita.
A nessuno di loro passò neppur per la mente che, per esser lui convertito, si potesse prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altr'uomo.
Vedevano in lui un santo, ma un di que' santi che si dipingono con la testa alta, e con la spada in pugno.
Oltre il timore, avevano anche per lui (principalmente quelli ch'eran nati sul suo, ed erano una gran parte) un'affezione come d'uomini ligi; avevan poi tutti una benevolenza d'ammirazione; e alla sua presenza sentivano una specie di quella, dirò pur così, verecondia, che anche gli animi più zotici e più petulanti provano davanti a una superiorità che hanno già riconosciuta.
Le cose poi che allora avevan sentite da quella bocca, erano bensì odiose a' loro orecchi, ma non false né affatto estranee ai loro intelletti: se mille volte se n'eran fatti beffe, non era già perché non le credessero, ma per prevenir con le beffe la paura che gliene sarebbe venuta, a pensarci sul serio.
E ora, a veder l'effetto di quella paura in un animo come quello del loro padrone, chi più, chi meno, non ce ne fu uno che non gli se n'attaccasse, almeno per qualche tempo.
S'aggiunga a tutto ciò, che quelli tra loro che, trovandosi la mattina fuor della valle, avevan risaputa per i primi la gran nuova, avevano insieme veduto, e avevano anche riferito la gioia, la baldanza della popolazione, l'amore e la venerazione per l'innominato, ch'erano entrati in luogo dell'antico odio e dell'antico terrore.
Di maniera che, nell'uomo che avevan sempre riguardato, per dir così, di basso in alto, anche quando loro medesimi erano in gran parte la sua forza, vedevano ora la maraviglia, l'idolo d'una moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri, ben diversamente di prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sempre capo.
Stavano adunque sbalorditi, incerti l'uno dell'altro, e ognun di sé.
Chi si rodeva, chi faceva disegni del dove sarebbe andato a cercar ricovero e impiego; chi s'esaminava se avrebbe potuto adattarsi a diventar galantuomo; chi anche, tocco da quelle parole, se ne sentiva una certa inclinazione; chi, senza risolver nulla, proponeva di prometter tutto a buon conto, di rimanere intanto a mangiare quel pane offerto così di buon cuore, e allora così scarso, e d'acquistar tempo: nessuno fiatò.
E quando l'innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n'andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono.
Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s'avviasse al suo posto.
Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l'entrature, e, quando vide ch'era tutto quieto, andò finalmente a dormire.
Sì, a dormire; perché aveva sonno.
Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n'era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno.
I rimorsi che gliel avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno.
L'ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant'anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d'audacia e di perseveranza, ora l'aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la dipendenza illimitata di que' suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare, l'aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d'imbrogli, s'era messa la confusione e l'incertezza in casa; eppure aveva sonno.
Andò dunque in camera, s'accostò a quel letto in cui la notte avanti aveva trovate tante spine; e vi s'inginocchiò accanto, con l'intenzione di pregare.
Trovò in fatti in un cantuccio riposto e profondo della mente, le preghiere ch'era stato ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l'una dopo l'altra come sgomitolandosi.
Provava in questo un misto di sentimenti indefinibile; una certa dolcezza in quel ritorno materiale all'abitudini dell'innocenza; un inasprimento di dolore al pensiero dell'abisso che aveva messo tra quel tempo e questo; un ardore d'arrivare, con opere di espiazione, a una coscienza nuova, a uno stato il più vicino all'innocenza, a cui non poteva tornare; una riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre a quello stato, e che gli aveva già dati tanti segni di volerlo.
Rizzatosi poi, andò a letto, e s'addormentò immediatamente.
Così terminò quella giornata, tanto celebre ancora quando scriveva il nostro anonimo; e ora, se non era lui, non se ne saprebbe nulla, almeno de' particolari; giacché il Ripamonti e il Rivola, citati di sopra, non dicono se non che quel sì segnalato tiranno, dopo un abboccamento con Federigo, mutò mirabilmente vita, e per sempre.
E quanti son quelli che hanno letto i libri di que' due? Meno ancora di quelli che leggeranno il nostro.
E chi sa se, nella valle stessa, chi avesse voglia di cercarla, e l'abilità di trovarla, sarà rimasta qualche stracca e confusa tradizione del fatto? Son nate tante cose da quel tempo in poi!
CAPITOLO XXV
Il giorno seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco, non si parlava che di lei, dell'innominato, dell'arcivescovo e d'un altro tale, che, quantunque gli piacesse molto d'andar per le bocche degli uomini, n'avrebbe, in quella congiuntura, fatto volentieri di meno: vogliam dire il signor don Rodrigo.
Non già che prima d'allora non si parlasse de' fatti suoi; ma eran discorsi rotti, segreti: bisognava che due si conoscessero bene bene tra di loro, per aprirsi sur un tale argomento.
E anche, non ci mettevano tutto il sentimento di che sarebbero stati capaci: perché gli uomini, generalmente parlando, quando l'indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto.
Ma ora, chi si sarebbe tenuto d'informarsi, e di ragionare d'un fatto così strepitoso, in cui s'era vista la mano del cielo, e dove facevan buona figura due personaggi tali? uno, in cui un amore della giustizia tanto animoso andava unito a tanta autorità; l'altro, con cui pareva che la prepotenza in persona si fosse umiliata, che la braverìa fosse venuta, per dir così, a render l'armi, e a chiedere il riposo.
A tali paragoni, il signor don Rodrigo diveniva un po' piccino.
Allora si capiva da tutti cosa fosse tormentar l'innocenza per poterla disonorare, perseguitarla con un'insistenza così sfacciata, con sì atroce violenza, con sì abbominevoli insidie.
Si faceva, in quell'occasione, una rivista di tant'altre prodezze di quel signore: e su tutto la dicevan come la sentivano, incoraggiti ognuno dal trovarsi d'accordo con tutti.
Era un susurro, un fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti que' bravi che colui aveva d'intorno.
Una buona parte di quest'odio pubblico cadeva ancora sui suoi amici e cortigiani.
Si rosolava bene il signor podestà, sempre sordo e cieco e muto sui fatti di quel tiranno; ma alla lontana, anche lui, perché, se non aveva i bravi, aveva i birri.
Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva se non chiacchiere e cabale, e con altri cortigianelli suoi pari, non s'usava tanti riguardi: eran mostrati a dito, e guardati con occhi torti; di maniera che, per qualche tempo, stimaron bene di non farsi veder per le strade.
Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa dall'avviso che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento, stette rintanato nel suo palazzotto, solo co' suoi bravi, a rodersi, per due giorni; il terzo, partì per Milano.
Se non fosse stato altro che quel mormoracchiare della gente, forse, poiché le cose erano andate tant'avanti, sarebbe rimasto apposta per affrontarlo, anzi per cercar l'occasione di dare un esempio a tutti sopra qualcheduno de' più arditi; ma chi lo cacciò, fu l'essersi saputo per certo, che il cardinale veniva da quelle parti.
Il conte zio, il quale di tutta quella storia non sapeva se non quel che gli aveva detto Attilio, avrebbe certamente preteso che, in una congiuntura simile, don Rodrigo facesse una gran figura, e avesse in pubblico dal cardinale le più distinte accoglienze: ora, ognun vede come ci fosse incamminato.
L'avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto minutamente; perché era un'occasione importante di far vedere in che stima fosse tenuta la famiglia da una primaria autorità.
Per levarsi da un impiccio così noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del sole, si mise in una carrozza, col Griso e con altri bravi, di fuori, davanti e di dietro; e, lasciato l'ordine che il resto della servitù venisse poi in seguito, partì come un fuggitivo, come (ci sia un po' lecito di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando, e giurando di tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette.
Intanto, il cardinale veniva visitando, a una per giorno, le parrocchie del territorio di Lecco.
Il giorno in cui doveva arrivare a quella di Lucia, già una gran parte degli abitanti erano andati sulla strada a incontrarlo.
All'entrata del paese, proprio accanto alla casetta delle nostre due donne, c'era un arco trionfale, costrutto di stili per il ritto, e di pali per il traverso, rivestito di paglia e di borraccina, e ornato di rami verdi di pugnitopo e d'agrifoglio, distinti di bacche scarlatte; la facciata della chiesa era parata di tappezzerie; al davanzale d'ogni finestra pendevano coperte e lenzoli distesi, fasce di bambini disposte a guisa di pendoni; tutto quel poco necessario che fosse atto a fare, o bene o male, figura di superfluo.
Verso le ventidue, ch'era l'ora in cui s'aspettava il cardinale, quelli ch'eran rimasti in casa, vecchi, donne e fanciulli la più parte, s'avviarono anche loro a incontrarlo, parte in fila, parte in truppa, preceduti da don Abbondio, uggioso in mezzo a tanta festa, e per il fracasso che lo sbalordiva, e per il brulicar della gente innanzi e indietro, che, come andava ripetendo, gli faceva girar la testa, e per il rodìo segreto che le donne avesser potuto cicalare, e dovesse toccargli a render conto del matrimonio.
Quand'ecco si vede spuntare il cardinale, o per dir meglio, la turba in mezzo a cui si trovava nella sua lettiga, col suo seguito d'intorno; perché di tutto questo non si vedeva altro che un indizio in aria, al di sopra di tutte le teste, un pezzo della croce portata dal cappellano che cavalcava una mula.
La gente che andava con don Abbondio, s'affrettò alla rinfusa, a raggiunger quell'altra: e lui, dopo aver detto, tre e quattro volte: - adagio; in fila; cosa fate? - si voltò indispettito; e seguitando a borbottare: - è una babilonia, è una babilonia, - entrò in chiesa, intanto ch'era vota; e stette lì ad aspettare.
Il cardinale veniva avanti, dando benedizioni con la mano, e ricevendone dalle bocche della gente, che quelli del seguito avevano un bel da fare a tenere un po' indietro.
Per esser del paese di Lucia, avrebbe voluto quella gente fare all'arcivescovo dimostrazioni straordinarie; ma la cosa non era facile, perché era uso che, per tutto dove arrivava, tutti facevano più che potevano.
Già sul principio stesso del suo pontificato, nel primo solenne ingresso in duomo, la calca e l'impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far temere della sua vita; e alcuni gentiluomini che gli eran più vicini, avevano sfoderate le spade, per atterrire e respinger la folla.
Tanto c'era in que' costumi di scomposto e di violento, che, anche nel far dimostrazioni di benevolenza a un vescovo in chiesa, e nel moderarle, si dovesse andar vicino all'ammazzare.
E quella difesa non sarebbe forse bastata, se il maestro e il sottomaestro delle cerimonie, un Clerici e un Picozzi, giovani preti che stavan bene di corpo e d'animo, non l'avessero alzato sulle braccia, e portato di peso, dalla porta fino all'altar maggiore.
D'allora in poi, in tante visite episcopali ch'ebbe a fare, il primo entrar nella chiesa si può senza scherzo contarlo tra le sue pastorali fatiche, e qualche volta, tra i pericoli passati da lui.
Entrò anche in questa come poté; andò all'altare e, dopo essere stato alquanto in orazione, fece, secondo il suo solito, un piccol discorso al popolo, sul suo amore per loro, sul suo desiderio della loro salvezza, e come dovessero disporsi alle funzioni del giorno dopo.
Ritiratosi poi nella casa del parroco, tra gli altri discorsi, gli domandò informazione di Renzo.
Don Abbondio disse ch'era un giovine un po' vivo, un po' testardo, un po' collerico.
Ma, a più particolari e precise domande, dovette rispondere ch'era un galantuomo, e che anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle diavolerie che avevan detto.
- In quanto alla giovine, - riprese il cardinale, - pare anche a voi che possa ora venir sicuramente a dimorare in casa sua?
- Per ora, - rispose don Abbondio, - può venire e stare, come vuole: dico, per ora; ma, - soggiunse poi con un sospiro, - bisognerebbe che vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino.
- Il Signore è sempre vicino, - disse il cardinale: - del resto, penserò io a metterla al sicuro -.
E diede subito ordine che, il giorno dopo, si spedisse di buon'ora la lettiga, con una scorta, a prender le due donne.
Don Abbondio uscì di lì tutto contento che il cardinale gli avesse parlato de' due giovani, senza chiedergli conto del suo rifiuto di maritarli.
" Dunque non sa niente, - diceva tra sé: - Agnese è stata zitta: miracolo! È vero che s'hanno a tornare a vedere; ma le daremo un'altra istruzione, le daremo ".
E non sapeva, il pover'uomo, che Federigo non era entrato in quell'argomento, appunto perché intendeva di parlargliene a lungo, in tempo più libero; e, prima di dargli ciò che gli era dovuto, voleva sentire anche le sue ragioni.
Ma i pensieri del buon prelato per metter Lucia al sicuro eran divenuti inutili: dopo che l'aveva lasciata, eran nate delle cose, che dobbiamo raccontare.
Le due donne, in que' pochi giorni ch'ebbero a passare nella casuccia ospitale del sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto, ognuna il suo antico tenor di vita.
Lucia aveva subito chiesto da lavorare; e, come aveva fatto nel monastero, cuciva, cuciva, ritirata in una stanzina, lontano dagli occhi della gente.
Agnese andava un po' fuori, un po' lavorava in compagnia della figlia.
I loro discorsi eran tanto più tristi, quanto più affettuosi: tutt'e due eran preparate a una separazione; giacché la pecora non poteva tornare a star così vicino alla tana del lupo: e quando, quale, sarebbe il termine di questa separazione? L'avvenire era oscuro, imbrogliato: per una di loro principalmente.
Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue congetture allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro, dovrebbe presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da lavorare e da stabilirsi, se (e come dubitarne?) stava fermo nelle sue promesse, perché non si potrebbe andare a star con lui? E di tali speranze, ne parlava e ne riparlava alla figlia, per la quale non saprei dire se fosse maggior dolore il sentire, o pena il rispondere.
Il suo gran segreto l'aveva sempre tenuto in sé; e, inquietata bensì dal dispiacere di fare a una madre così buona un sotterfugio, che non era il primo; ma trattenuta, come invincibilmente, dalla vergogna e da' vari timori che abbiam detto di sopra, andava d'oggi in domani, senza dir nulla.
I suoi disegni eran ben diversi da quelli della madre, o, per dir meglio, non n'aveva; s'era abbandonata alla Provvidenza.
Cercava dunque di lasciar cadere, o di stornare quel discorso; o diceva, in termini generali, di non aver più speranza, né desiderio di cosa di questo mondo, fuorché di poter presto riunirsi con sua madre; le più volte, il pianto veniva opportunamente a troncar le parole.
- Sai perché ti par così? - diceva Agnese: - perché hai tanto patito, e non ti par vero che la possa voltarsi in bene.
Ma lascia fare al Signore; e se...
Lascia che si veda un barlume, appena un barlume di speranza; e allora mi saprai dire se non pensi più a nulla -.
Lucia baciava la madre, e piangeva.
Del resto, tra loro e i loro ospiti era nata subito una grand'amicizia: e dove nascerebbe, se non tra beneficati e benefattori, quando gli uni e gli altri son buona gente? Agnese specialmente faceva di gran chiacchiere con la padrona.
Il sarto poi dava loro un po' di svago con delle storie, e con de' discorsi morali: e, a desinare soprattutto, aveva sempre qualche bella cosa da raccontare, di Bovo d'Antona o de' Padri del deserto.
Poco distante da quel paesetto, villeggiava una coppia d'alto affare; don Ferrante e donna Prassede: il casato, al solito, nella penna dell'anonimo.
Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l'uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri.
Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d'ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de' nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono.
Con l'idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n'aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata.
Tra le poche, ce n'era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care.
Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c'era di reale, o di vederci ciò che non c'era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta.
Al sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che, in quell'occasione, si diceva della giovine, le venne la curiosità di vederla; e mandò una carrozza, con un vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia.
Questa si ristringeva nelle spalle, e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro l'imbasciata, che trovasse maniera di scusarla.
Finché s'era trattato di gente alla buona che cercava di conoscer la giovine del miracolo, il sarto le aveva reso volentieri un tal servizio; ma in questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di ribellione.
Fece tanti versi, tant'esclamazioni, disse tante cose: e che non si faceva così, e ch'era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e che poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette arrendere: molto più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con altrettanti - sicuro, sicuro.
Arrivate davanti alla signora, essa fece loro grand'accoglienza, e molte congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa superiorità quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco dopo, cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da principio aveva loro incusso quella signorile presenza; anzi ci trovarono una certa attrattiva.
E per venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale s'era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta dal desiderio di secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, s'esibì di prender la giovine in casa, dove, senz'essere addetta ad alcun servizio particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l'altre donne ne' loro lavori.
E soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore.
Oltre il bene chiaro e immediato che c'era in un'opera tale, donna Prassede ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di raddirizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n'aveva gran bisogno.
Perché, fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia, s'era subito persuasa che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca in somma, qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere.
Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei.
La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione.
Non che, in fondo, come si dice, non le paresse una buona giovine; ma c'era molto da ridire.
Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee.
E quell'arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri...
Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto.
Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e stante questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine.
Giacché, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il suo cervello.
Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò bene di darne il minimo indizio.
Era una delle sue massime questa, che, per riuscire a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de' casi, è di non metterli a parte del disegno.
La madre e la figlia si guardarono in viso.
Nella dolorosa necessità di dividersi, l'esibizione parve a tutt'e due da accettarsi, se non altro per esser quella villa così vicina al loro paesetto: per cui, alla peggio de' peggi, si ravvicinerebbero e potrebbero trovarsi insieme, alla prossima villeggiatura.
Visto, l'una negli occhi dell'altra, il consenso, si voltaron tutt'e due a donna Prassede con quel ringraziare che accetta.
Essa rinnovò le gentilezze e le promesse, e disse che manderebbe subito una lettera da presentare a monsignore.
Partite le donne, la lettera se la fece distendere da don Ferrante, di cui, per esser letterato, come diremo più in particolare, si serviva per segretario, nell'occasioni d'importanza.
Trattandosi d'una di questa sorte, don Ferrante ci mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le raccomandò caldamente l'ortografia; ch'era una delle molte cose che aveva studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa.
Donna Prassede copiò diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto.
Questo fu due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per ricondur le donne al loro paese.
Arrivate, smontarono alla casa parrocchiale, dove si trovava il cardinale.
C'era ordine d'introdurle subito: il cappellano, che fu il primo a vederle, l'eseguì, trattenendole solo quant'era necessario per dar loro, in fretta in fretta, un po' d'istruzione sul cerimoniale da usarsi con monsignore, e sui titoli da dargli; cosa che soleva fare, ogni volta che lo potesse di nascosto a lui.
Era per il pover'uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine che regnava intorno al cardinale, su quel particolare: - tutto, - diceva con gli altri della famiglia, - per la troppa bontà di quel benedett'uomo; per quella gran famigliarità -.
E raccontava d'aver perfino sentito più d'una volta co' suoi orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no.
Stava in quel momento il cardinale discorrendo con don Abbondio, sugli affari della parrocchia: dimodoché questo non ebbe campo di dare anche lui, come avrebbe desiderato, le sue istruzioni alle donne.
Solo, nel passar loro accanto, mentre usciva, e quelle venivano avanti, poté dar loro d'occhio, per accennare ch'era contento di loro, e che continuassero, da brave, a non dir nulla.
Dopo le prime accoglienze da una parte, e i primi inchini dall'altra, Agnese si cavò di seno la lettera, e la presentò al cardinale, dicendo: - è della signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto vossignoria illustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro signori grandi, si devon conoscer tutti.
Quand'avrà letto, vedrà.
- Bene, - disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso da' fiori di don Ferrante.
Conosceva quella casa quanto bastasse per esser certo che Lucia c'era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe sicura dall'insidie e dalla violenza del suo persecutore.
Che concetto avesse della testa di donna Prassede, non n'abbiam notizia positiva.
Probabilmente, non era quella la persona che avrebbe scelta a un tal intento; ma, come abbiam detto o fatto intendere altrove, non era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui, per rifarle meglio.
- Prendete in pace anche questa separazione, e l'incertezza in cui vi trovate, - soggiunse poi: - confidate che sia per finir presto, e che il Signore voglia guidar le cose a quel termine a cui pare che le avesse indirizzate; ma tenete per certo che quello che vorrà Lui, sarà il meglio per voi -.
Diede a Lucia in particolare qualche altro ricordo amorevole; qualche altro conforto a tutt'e due; le benedisse, e le lasciò andare.
Appena fuori, si trovarono addosso uno sciame d'amici e d'amiche, tutto il comune, si può dire, che le aspettava, e le condusse a casa, come in trionfo.
Era tra tutte quelle donne una gara di congratularsi, di compiangere, di domandare; e tutte esclamavano dal dispiacere, sentendo che Lucia se n'anderebbe il giorno dopo.
Gli uomini gareggiavano nell'offrir servizi; ognuno voleva star quella notte a far la guardia alla casetta.
Sul qual fatto, il nostro anonimo credé bene di formare un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno.
Tante accoglienze confondevano e sbalordivano Lucia: Agnese non s'imbrogliava così per poco.
Ma in sostanza fecero bene anche a Lucia, distraendola alquanto da' pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo, anche in mezzo al frastono, le si risvegliavano, su quell'uscio, in quelle stanzucce, alla vista d'ogni oggetto.
Al tocco della campana che annunziava vicino il cominciar delle funzioni, tutti si mossero verso la chiesa, e fu per le nostre donne un'altra passeggiata trionfale.
Terminate le funzioni, don Abbondio, ch'era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale.
Andò subito dal grand'ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, - signor curato, - cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch'erano il principio d'un discorso lungo e serio: - signor curato; perché non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?
" Hanno votato il sacco stamattina coloro ", pensò don Abbondio; e rispose borbottando: - monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli scompigli che son nati in quell'affare: è stata una confusione tale, da non poter, neppure al giorno d'oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia.
- Domando, - riprese il cardinale, - se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n'eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perché.
- Veramente...
se vossignoria illustrissima sapesse...
che intimazioni...
che comandi terribili ho avuti di non parlare...
- E restò lì senza concludere, in un cert'atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più.
- Ma! - disse il cardinale, con voce e con aria grave fuor del consueto: - è il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare.
- Monsignore, - disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, - non ho già voluto dire...
Ma m'è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare...
Però, però, dico...
so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco.
Perché vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui esposto...
Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.
- Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
- E non avete avuto altro motivo? - domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito.
- Ma forse non mi sono spiegato abbastanza, - rispose questo: - sotto pena della vita, m'hanno intimato di non far quel matrimonio.
- E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d'adempire un dovere preciso?
- Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita...
- E quando vi siete presentato alla Chiesa, - disse, con accento ancor più grave, Federigo, - per addossarvi codesto ministero, v'ha essa fatto sicurtà della vita? V'ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente detto il contrario? Non v'ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c'eran de' violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l'esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l'ufizio, mise forse per condizione d'aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c'era bisogno dell'unzione santa, dell'imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina.
Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch'esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch'esso, un vangelo di superbia e d'odio; e non vuol che si dica che l'amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti.
Non lo vuole; ed è ubbidito.
E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?
Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirata.
Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: - monsignore illustrissimo, avrò torto.
Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire.
Ma quando s'ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare.
È un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla.
- E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a' poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo.
Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch'erano in vostra mano per far ciò che v'era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo.
" Anche questi santi son curiosi, - pensava intanto don Abbondio: - in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d'un povero sacerdote ".
E, in quant'a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un'apologia, qualcosa in somma.
- Torno a dire, monsignore, - rispose dunque, - che avrò torto io...
Il coraggio, uno non se lo può dare.
- E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v'è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c'è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que' milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano.
Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant'anni d'ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l'amore è intrepido.
Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v'ha fatto tremar per voi, così la carità v'avrà fatto tremar per loro.
Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l'avrete ascoltato, quello non v'avrà dato pace, quello v'avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava...
Cosa v'ha ispirato il timore, l'amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
E tacque in atto di chi aspetta.
CAPITOLO XXVI
A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s'era ingegnato di risponder qualcosa a delle meno precise, restò lì senza articolar parola.
E, per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de' nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé.
Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.
- Voi non rispondete? - riprese il cardinale.
- Ah, se aveste fatto, dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; in qualunque maniera poi le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta.
Vedete dunque voi stesso cosa avete fatto.
Avete ubbidito all'iniquità, non curando ciò che il dovere vi prescriveva.
L'avete ubbidita puntualmente: s'era fatta vedere a voi, per intimarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si facesse rumore, voleva il segreto, per maturare a suo bell'agio i suoi disegni d'insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e non parlavate.
Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi mi direte se è vero che abbiate mendicati de' pretesti al vostro rifiuto, per non rivelarne il motivo -.
E stette lì alquanto, aspettando di nuovo una risposta.
" Anche questa gli hanno rapportata le chiacchierone ", pensava don Abbondio; ma non dava segno d'aver nulla da dire; onde il cardinale riprese: - se è vero, che abbiate detto a que' poverini ciò che non era, per tenerli nell'ignoranza, nell'oscurità, in cui l'iniquità li voleva...
Dunque lo devo credere; dunque non mi resta che d'arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con me.
Vedete a che v'ha condotto (Dio buono! e pur ora voi la adducevate per iscusa) quella premura per la vita che deve finire.
V'ha condotto...
ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono...
v'ha condotto a ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli.
" Ecco come vanno le cose, - diceva ancora tra sé don Abbondio: - a quel satanasso, - e pensava all'innominato, - le braccia al collo; e con me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso.
Ma sono superiori; hanno sempre ragione.
È il mio pianeta, che tutti m'abbiano a dare addosso; anche i santi ".
E ad alta voce, disse: - ho mancato; capisco che ho mancato; ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte?
- E ancor lo domandate? E non ve l'ho detto? E dovevo dirvelo? Amare, figliuolo; amare e pregare.
Allora avreste sentito che l'iniquità può aver bensì delle minacce da fare, de' colpi da dare, ma non de' comandi; avreste unito, secondo la legge di Dio, ciò che l'uomo voleva separare; avreste prestato a quegl'innocenti infelici il ministero che avevan ragione di richieder da voi: delle conseguenze sarebbe restato mallevadore Iddio, perché si sarebbe andati per la sua strada: avendone presa un'altra, ne restate mallevadore voi; e di quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano? forse che non era aperta alcuna via di scampo, quand'aveste voluto guardarvi d'intorno, pensarci, cercare? Ora voi potete sapere che que' vostri poverini, quando fossero stati maritati, avrebbero pensato da sé al loro scampo, eran disposti a fuggire dalla faccia del potente, s'eran già disegnato il luogo di rifugio.
Ma anche senza questo, non vi venne in mente che alla fine avevate un superiore? Il quale, come mai avrebbe quest'autorità di riprendervi d'aver mancato al vostro ufizio, se non avesse anche l'obbligo d'aiutarvi ad adempirlo? Perché non avete pensato a informare il vostro vescovo dell'impedimento che un'infame violenza metteva all'esercizio del vostro ministero?
" I pareri di Perpetua! " pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a que' discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era l'immagine di que' bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l'altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato.
E benché quella dignità presente, quell'aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e gl'incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di ricalcitrare: perché c'era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né spada, né bravi.
- Come non avete pensato, - proseguiva questo, - che, se a quegli innocenti insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, c'ero io, per accoglierli, per metterli in salvo, quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei derelitti a un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze? E in quanto a voi, io, sarei divenuto inquieto per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello.
Ch'io non avessi come, dove, mettere in sicuro la vostra vita? Ma quell'uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l'ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui, note a me, ch'io vegliavo, ed ero risoluto d'usare in vostra difesa tutti i mezzi che fossero in mia mano? Non sapevate che, se l'uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s'attenti poi di commettere? Non sapevate che l'iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?
" Proprio le ragioni di Perpetua ", pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere che quel trovarsi d'accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui.
- Ma voi, - proseguì e concluse il cardinale, - non avete visto, non avete voluto veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso tale, da trascurar per esso ogni altra cosa?
- Gli è perché le ho viste io quelle facce, - scappò detto a don Abbondio; - le ho sentite io quelle parole.
Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser ne' panni d'un povero prete, e essersi trovato al punto.
Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s'accorse d'essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: " ora vien la grandine ".
Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l'aspetto di quell'uomo, che non gli riusciva mai d'indovinare né di capire, nel vederlo, dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa.
- Pur troppo! - disse Federigo, - tale è la misera e terribile nostra condizione.
Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma guai s'io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io devo dare agli altri l'esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che carica gli altri di pesi che non posson portare, e che lui non toccherebbe con un dito.
Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono spesso più noti agli altri che a loro; se voi sapete ch'io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov'è mancato l'esempio, supplisca almeno la confessione.
Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono.
" Oh che sant'uomo! ma che tormento! - pensava don Abbondio: - anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé ".
Disse poi ad alta voce: - oh, monsignore! che mi fa celia? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima? - E tra sé soggiunse: " anche troppo ".
- Io non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare, - disse Federigo, - perché Dio conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch'io, basta a confondermi.
Ma avrei voluto, vorrei che ci confondessimo insieme davanti a Lui, per confidare insieme.
Vorrei, per amor vostro, che intendeste quanto la vostra condotta sia stata opposta, quanto sia opposto il vostro linguaggio alla legge che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato.
- Tutto casca addosso a me, - disse don Abbondio: - ma queste persone che son venute a rapportare, non le hanno poi detto d'essersi introdotte in casa mia, a tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole.
- Me l'hanno detto, figliuolo: ma questo m'accora, questo m'atterra, che voi desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che prendiate materia d'accusa da ciò che dovrebb'esser parte della vostra confessione.
Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto? Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata chiusa? pensato a insidiare il pastore, se fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui? a sorprenderlo, se non si fosse nascosto? E a questi voi date carico? e vi sdegnate perché, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura, abbian detto una parola di sfogo al loro, al vostro pastore? Che il ricorso dell'oppresso, la querela dell'afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale; ma noi! E che pro sarebbe stato per voi, se avessero taciuto? Vi tornava conto che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova ragione d'amar queste persone (e già tante ragioni n'avete), che v'abbian dato occasione di sentir la voce sincera del vostro vescovo, che v'abbian dato un mezzo di conoscer meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con loro? Ah! se v'avessero provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io dirvelo?) d'amarli, appunto per questo.
Amateli perché hanno patito, perché patiscono, perché son vostri, perché son deboli, perché avete bisogno d'un perdono, a ottenervi il quale, pensate di qual forza possa essere la loro preghiera.
Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire.
Le parole che sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata.
Il male degli altri, dalla considerazion del quale l'aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un'impressione nuova.
E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l'ufizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione.
Era, se ci si lascia passare questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d'una candela, che presentato alla fiamma d'una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s'accende e, bene o male, brucia.
Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto.
- Ora, - proseguì questo, - uno fuggitivo da casa sua, l'altra in procinto d'abbandonarla, tutt'e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza probabilità di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca altrove; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete occasione di far loro del bene; né il corto nostro prevedere può scoprirne alcuna nell'avvenire.
Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non le lasciate sfuggire! cercatele, state alle velette, pregatelo che le faccia nascere.
- Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero, - rispose don Abbondio, con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore.
- Ah sì, figliuolo, sì! - esclamò Federigo; e con una dignità piena d'affetto, concluse: - lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi tutt'altri discorsi.
Tutt'e due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m'è stato duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni, de' nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così vicino.
Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi e a me.
Non fate che m'abbia a chieder conto, in quel giorno, d'avervi mantenuto in un ufizio, al quale avete così infelicemente mancato.
Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade.
Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l'avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno.
Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro.
Qui l'anonimo ci avvisa che non fu questo il solo abboccamento di que' due personaggi, né Lucia il solo argomento de' loro abboccamenti; ma che lui s'è ristretto a questo, per non andar lontano dal soggetto principale del racconto.
E che, per lo stesso motivo, non farà menzione d'altre cose notabili, dette da Federigo in tutto il corso della visita, né delle sue liberalità, né delle discordie sedate, degli odi antichi tra persone, famiglie, terre intere, spenti o (cosa ch'era pur troppo più frequente) sopiti, né di qualche bravaccio o tirannello ammansato, o per tutta la vita, o per qualche tempo; cose tutte delle quali ce n'era sempre più o meno, in ogni luogo della diocesi dove quell'uomo eccellente facesse qualche soggiorno.
Dice poi, che, la mattina seguente, venne donna Prassede, secondo il fissato, a prender Lucia, e a complimentare il cardinale, il quale gliela lodò, e raccomandò caldamente.
Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che pianti; e uscì dalla sua casetta; disse per la seconda volta addio al paese, con quel senso di doppia amarezza, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro, e che non può esserlo più.
Ma i congedi con la madre non eran gli ultimi; perché donna Prassede aveva detto che si starebbe ancor qualche giorno in quella sua villa, la quale non era molto lontana; e Agnese promise alla figlia d'andar là a trovarla, a dare e a ricevere un più doloroso addio.
Il cardinale era anche lui sulle mosse per continuar la sua visita, quando arrivò, e chiese di parlargli il curato della parrocchia, in cui era il castello dell'innominato.
Introdotto, gli presentò un gruppo e una lettera di quel signore, la quale lo pregava di far accettare alla madre di Lucia cento scudi d'oro ch'eran nel gruppo, per servir di dote alla giovine, o per quell'uso che ad esse sarebbe parso migliore; lo pregava insieme di dir loro, che, se mai, in qualunque tempo, avessero creduto che potesse render loro qualche servizio, la povera giovine sapeva pur troppo dove stesse; e per lui, quella sarebbe una delle fortune più desiderate.
Il cardinale fece subito chiamare Agnese, le riferì la commissione, che fu sentita con altrettanta soddisfazione che maraviglia; e le presentò il rotolo, ch'essa prese, senza far gran complimenti.
- Dio gliene renda merito, a quel signore, - disse: - e vossignoria illustrissima lo ringrazi tanto tanto.
E non dica nulla a nessuno, perché questo è un certo paese...
Mi scusi, veda; so bene che un par suo non va a chiacchierare di queste cose; ma...
lei m'intende.
Andò a casa, zitta, zitta; si chiuse in camera, svoltò il rotolo, e quantunque preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchietto e suoi, tanti di que' ruspi, de' quali non aveva forse mai visto più d'uno per volta, e anche di rado; li contò, penò alquanto a metterli di nuovo per taglio, e a tenerli lì tutti, ché ogni momento facevan pancia, e sgusciavano dalle sue dita inesperte; ricomposto finalmente un rotolo alla meglio, lo mise in un cencio, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene in giro con della cordellina, l'andò a ficcare in un cantuccio del suo saccone.
Il resto di quel giorno, non fece altro che mulinare, far disegni sull'avvenire, e sospirar l'indomani.
Andata a letto, stette desta un pezzo, col pensiero in compagnia di que' cento che aveva sotto: addormentata, li vide in sogno.
All'alba, s'alzò e s'incamminò subito verso la villa, dov'era Lucia.
Questa, dal canto suo, quantunque non le fosse diminuita quella gran ripugnanza a parlar del voto, pure era risoluta di farsi forza, e d'aprirsene con la madre in quell'abboccamento, che per lungo tempo doveva chiamarsi l'ultimo.
Appena poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme a voce bassa, come se ci fosse stato presente qualcheduno a cui non volesse farsi sentire, cominciò: - ho da dirti una gran cosa; - e le raccontò l'inaspettata fortuna.
- Iddio lo benedica, quel signore, - disse Lucia: - così avrete da star bene voi, e potrete anche far del bene a qualchedun altro.
- Come? - rispose Agnese: - non vedi quante cose possiamo fare, con tanti danari? Senti; io non ho altro che te, che voi due, posso dire; perché Renzo, da che cominciò a discorrerti, l'ho sempre riguardato come un mio figliuolo.
Tutto sta che non gli sia accaduta qualche disgrazia, a vedere che non ha mai fatto saper nulla: ma eh! deve andar tutto male? Speriamo di no, speriamo.
Per me, avrei avuto caro di lasciar l'ossa nel mio paese; ma ora che tu non ci puoi stare, in grazia di quel birbone, e anche solamente a pensare d'averlo vicino colui, m'è venuto in odio il mio paese: e con voi altri io sto per tutto.
Ero disposta, fin d'allora, a venir con voi altri, anche in capo al mondo; e son sempre stata di quel parere; ma senza danari come si fa? Intendi ora? Que' quattro, che quel poverino aveva messi da parte, con tanto stento e con tanto risparmio, è venuta la giustizia, e ha spazzato ogni cosa; ma, per ricompensa, il Signore ha mandato la fortuna a noi.
Dunque, quando avrà trovato il bandolo di far sapere se è vivo, e dov'è, e che intenzioni ha, ti vengo a prender io a Milano; io ti vengo a prendere.
Altre volte mi sarebbe parso un gran che; ma le disgrazie fanno diventar disinvolti; fino a Monza ci sono andata, e so cos'è viaggiare.
Prendo con me un uomo di proposito, un parente, come sarebbe a dire Alessio di Maggianico: ché, a voler dir proprio in paese, un uomo di proposito non c'è: vengo con lui: già la spesa la facciamo noi, e...
intendi?
Ma vedendo che, in vece d'animarsi, Lucia s'andava accorando, e non dimostrava che una tenerezza senz'allegria, lasciò il discorso a mezzo, e disse: - ma cos'hai? non ti pare?
- Povera mamma! - esclamò Lucia, gettandole un braccio al collo, e nascondendo il viso nel seno di lei.
- Cosa c'è? - domandò di nuovo ansiosamente la madre.
- Avrei dovuto dirvelo prima, - rispose Lucia, alzando il viso, e asciugandosi le lacrime; - ma non ho mai avuto cuore: compatitemi.
- Ma dì su, dunque.
- Io non posso più esser moglie di quel poverino!
- Come? come?
Lucia, col capo basso, col petto ansante, lacrimando senza piangere, come chi racconta una cosa che, quand'anche dispiacesse, non si può cambiare, rivelò il voto; e insieme, giungendo le mani, chiese di nuovo perdono alla madre, di non aver parlato fin allora; la pregò di non ridir la cosa ad anima vivente, e d'aiutarla ad adempire ciò che aveva promesso.
Agnese era rimasta stupefatta e costernata.
Voleva sdegnarsi del silenzio tenuto con lei; ma i gravi pensieri del caso soffogavano quel dispiacere suo proprio; voleva dirle: cos'hai fatto? ma le pareva che sarebbe un prendersela col cielo: tanto più che Lucia tornava a dipinger co' più vivi colori quella notte, la desolazione così nera, e la liberazione così impreveduta, tra le quali la promessa era stata fatta, così espressa, così solenne.
E intanto, ad Agnese veniva anche in mente questo e quell'esempio, che aveva sentito raccontar più volte, che lei stessa aveva raccontato alla figlia, di gastighi strani e terribili, venuti per la violazione di qualche voto.
Dopo esser rimasta un poco come incantata, disse: - e ora cosa farai?
- Ora, - rispose Lucia, - tocca al Signore a pensarci; al Signore e alla Madonna.
Mi son messa nelle lor mani: non m'hanno abbandonata finora; non m'abbandoneranno ora che...
La grazia che chiedo per me al Signore, la sola grazia, dopo la salvazion dell'anima, è che mi faccia tornar con voi: e me la concederà, sì, me la concederà.
Quel giorno...
in quella carrozza...
ah Vergine santissima!...
quegli uomini!...
chi m'avrebbe detto che mi menavano da colui che mi doveva menare a trovarmi con voi, il giorno dopo?
- Ma non parlarne subito a tua madre! - disse Agnese con una certa stizzetta temperata d'amorevolezza e di pietà.
- Compatitemi; non avevo cuore...
e che sarebbe giovato d'affliggervi qualche tempo prima?
- E Renzo? - disse Agnese, tentennando il capo.
`
- Ah! - esclamò Lucia, riscotendosi, - io non ci devo pensar più a quel poverino.
Già si vede che non era destinato...
Vedete come pare che il Signore ci abbia voluti proprio tener separati.
E chi sa...? ma no, no: l'avrà preservato Lui da' pericoli, e lo farà esser fortunato anche di più, senza di me.
- Ma intanto, - riprese la madre, - se non fosse che tu ti sei legata per sempre, a tutto il resto, quando a Renzo non gli sia accaduta qualche disgrazia, con que' danari io ci avevo trovato rimedio.
- Ma que' danari, - replicò Lucia, - ci sarebbero venuti, s'io non avessi passata quella notte? È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la sua volontà -.
E la parola morì nel pianto.
A quell'argomento inaspettato, Agnese rimase lì pensierosa.
Dopo qualche momento, Lucia, rattenendo i singhiozzi, riprese: - ora che la cosa è fatta, bisogna adattarsi di buon animo; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare, prima, pregando il Signore per la vostra povera figlia, e poi...
bisogna bene che quel poverino lo sappia.
Pensateci voi, fatemi anche questa carità; ché voi ci potete pensare.
Quando saprete dov'è, fategli scrivere, trovate un uomo...
appunto vostro cugino Alessio, che è un uomo prudente e caritatevole, e ci ha sempre voluto bene, e non ciarlerà: fategli scriver da lui la cosa com'è andata, dove mi son trovata, come ho patito, e che Dio ha voluto così, e che metta il cuore in pace, e ch'io non posso mai mai esser di nessuno.
E fargli capir la cosa con buona grazia, spiegargli che ho promesso, che ho proprio fatto voto.
Quando saprà che ho promesso alla Madonna...
ha sempre avuto il timor di Dio.
E voi, la prima volta che avrete le sue nuove, fatemi scrivere, fatemi saper che è sano; e poi...
non mi fate più saper nulla.
Agnese, tutta intenerita, assicurò la figlia che ogni cosa si farebbe come desiderava.
- Vorrei dirvi un'altra cosa, - riprese questa: - quel poverino, se non avesse avuto la disgrazia di pensare a me, non gli sarebbe accaduto ciò che gli è accaduto.
È per il mondo; gli hanno troncato il suo avviamento, gli hanno portato via la sua roba, que' risparmi che aveva fatti, poverino, sapete perché...
E noi abbiamo tanti danari! Oh mamma! giacché il Signore ci ha mandato tanto bene, e quel poverino, è proprio vero che lo riguardavate come vostro...
sì, come un figliuolo, oh! fate mezzo per uno; ché, sicuro, Iddio non ci mancherà.
Cercate un'occasione fidata, e mandateglieli, ché sa il cielo come n'ha bisogno!
- Ebbene, cosa credi? - rispose Agnese: - glieli manderò davvero.
Povero giovine! Perché pensi tu ch'io fossi così contenta di que' danari? Ma...! io era proprio venuta qui tutta contenta.
Basta, io glieli manderò, povero Renzo! ma anche lui...
so quel che dico; certo che i danari fanno piacere a chi n'ha bisogno; ma questi non saranno quelli che lo faranno ingrassare.
Lucia ringraziò la madre di quella pronta e liberale condiscendenza, con una gratitudine, con un affetto, da far capire a chi l'avesse osservata, che il suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse.
- E senza di te, che farò io povera donna? - disse Agnese, piangendo anch'essa.
- E io senza di voi, povera mamma? e in casa di forestieri? e laggiù in quel Milano...! Ma il Signore sarà con tutt'e due; e poi ci farà tornare insieme.
Tra otto o nove mesi ci rivedremo; e di qui allora, e anche prima, spero, avrà accomodate le cose Lui, per riunirci.
Lasciamo fare a Lui.
La chiederò sempre sempre alla Madonna questa grazia.
Se avessi qualche altra cosa da offrirle, lo farei; ma è tanto misericordiosa, che me l'otterrà per niente.
Con queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di conforto, di rammarico e di rassegnazione, con molte raccomandazioni e promesse di non dir nulla, con molte lacrime, dopo lunghi e rinnovati abbracciamenti, le donne si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi il prossimo autunno, al più tardi; come se il mantenere dipendesse da loro, e come però si fa sempre in casi simili.
Intanto cominciò a passar molto tempo senza che Agnese potesse saper nulla di Renzo.
Né lettere né imbasciate da parte di lui, non ne veniva: di tutti quelli del paese, o del contorno, a cui poté domandare, nessuno ne sapeva più di lei.
E non era la sola che facesse invano una tal ricerca: il cardinal Federigo, che non aveva detto per cerimonia alle povere donne, di voler prendere informazioni del povero giovine, aveva infatti scritto subito per averne.
Tornato poi dalla visita a Milano, aveva ricevuto la risposta in cui gli si diceva che non s'era potuto trovar recapito dell'indicato soggetto; che veramente era stato qualche tempo in casa d'un suo parente, nel tal paese, dove non aveva fatto dir di sé; ma, una mattina, era scomparso all'improvviso, e quel suo parente stesso non sapeva cosa ne fosse stato, e non poteva che ripetere certe voci in aria e contraddittorie che correvano, essersi il giovine arrolato per il Levante, esser passato in Germania, perito nel guadare un fiume: che non si mancherebbe di stare alle velette, se mai si potesse saper qualcosa di più positivo, per farne subito parte a sua signoria illustrissima e reverendissima.
Più tardi, quelle ed altre voci si sparsero anche nel territorio di Lecco, e vennero per conseguenza agli orecchi d'Agnese.
La povera donna faceva di tutto per venire in chiaro qual fosse la vera, per arrivare alla fonte di questa e di quella, ma non riusciva mai a trovar di più di quel dicono, che, anche al giorno d'oggi, basta da sé ad attestar tante cose.
Talora, appena glien'era stata raccontata una, veniva uno e le diceva che non era vero nulla; ma per dargliene in cambio un'altra, ugualmente strana o sinistra.
Tutte ciarle: ecco il fatto.
Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fernandez di Cordova, aveva fatto un gran fracasso col signor residente di Venezia in Milano, perché un malandrino, un ladrone pubblico, un promotore di saccheggio e d'omicidio, il famoso Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato sommossa per farsi liberare, fosse accolto e ricettato nel territorio bergamasco.
Il residente avea risposto che la cosa gli riusciva nuova, e che scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza quella spiegazione che il caso avesse portato.
A Venezia avevan per massima di secondare e di coltivare l'inclinazione degli operai di seta milanesi a trasportarsi nel territorio bergamasco, e quindi di far che ci trovassero molti vantaggi e, soprattutto quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza.
Siccome però, tra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel paese, e che farebbe meglio a entrare in qualche altra fabbrica, cambiando anche nome per qualche tempo.
Bortolo intese per aria, non domandò altro, corse a dir la cosa al cugino, lo prese con sé in un calessino, lo condusse a un altro filatoio, discosto da quello forse quindici miglia, e lo presentò, sotto il nome d'Antonio Rivolta, al padrone, ch'era nativo anche lui dello stato di Milano, e suo antico conoscente.
Questo, quantunque l'annata fosse scarsa, non si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato come onesto e abile, da un galantuomo che se n'intendeva.
Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell'acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine dovesse essere un po' stordito, perché, quando si chiamava: Antonio! le più volte non rispondeva.
Poco dopo, venne un ordine da Venezia, in istile pacato, al capitano di Bergamo, che prendesse e desse informazione, se nella sua giurisdizione, e segnatamente nel tal paese, si trovasse il tal soggetto.
Il capitano, fatte le sue diligenze, come aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa, la quale fu trasmessa al residente in Milano, che la trasmettesse al gran cancelliere che potrebbe trasmetterla a don Gonzalo Fernandez di Cordova.
Non mancavan poi curiosi, che volessero saper da Bortolo il perché quel giovine non c'era più, e dove fosse andato.
Alla prima domanda Bortolo rispondeva: - ma! è scomparso -.
Per mandar poi in pace i più insistenti, senza dar loro sospetto di quel che n'era davvero, aveva creduto bene di regalar loro, a chi l'una, a chi l'altra delle notizie da noi riferite di sopra: però, come cose incerte, che aveva sentite dire anche lui, senza averne un riscontro positivo.
Ma quando la domanda gli venne fatta per commission del cardinale, senza nominarlo, e con un certo apparato d'importanza e di mistero, lasciando capire ch'era in nome d'un gran personaggio, tanto più Bortolo s'insospettì, e credé necessario di risponder secondo il solito; anzi, trattandosi d'un gran personaggio, diede in una volta tutte le notizie che aveva stampate a una a una, in quelle diverse occorrenze.
Non si creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorte, l'avesse proprio davvero col povero filatore di montagna; che informato forse del poco rispetto usato, e delle cattive parole dette da colui al suo re moro incatenato per la gola, volesse fargliela pagare; o che lo credesse un soggetto tanto pericoloso, da perseguitarlo anche fuggitivo, da non lasciarlo vivere anche lontano, come il senato romano con Annibale.
Don Gonzalo aveva troppe e troppo gran cose in testa, per darsi tanto pensiero de' fatti di Renzo; e se parve che se ne desse, nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo né allora né mai, si trovò, con un sottilissimo e invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose.
CAPITOLO XXVII
Già più d'una volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c'è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita.
Ora però, all'intelligenza del nostro racconto si richiede proprio d'averne qualche notizia più particolare.
Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest'opera non possa esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi n'avesse bisogno.
Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d'un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhetel, era entrato al possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l'aveva fatto lasciar nella penna.
La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que' due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d'una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s'era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena.
Don Gonzalo, ch'era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l'intenzioni e precorrendo gli ordini della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d'invasione e di divisione del Monferrato; e n'aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole l'acquisto di Casale, ch'era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna.
Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell'imperatore; il quale, in parte per gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata l'investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere.
Cosa alla quale il Nevers non s'era voluto piegare.
Aveva anche lui amici d'importanza: il cardinale di Richelieu, i signori veneziani, e il papa, ch'era, come abbiam detto, Urbano VIII.
Ma il primo, impegnato allora nell'assedio della Roccella e in una guerra con l'Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre, Maria de' Medici, contraria, per certi suoi motivi, alla casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze.
I veneziani non volevan moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte di Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte, sull'esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti.
Il papa raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva progetti d'accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla.
Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l'impresa concertata.
Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l'assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che s'era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose.
La corte non l'aiutava a seconda de' suoi desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l'alleato l'aiutava troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna.
Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po' di rumore, che quel Carlo Emanuele, così attivo ne' maneggi e mobile ne' trattati, come prode nell'armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto.
L'assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all'indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi che faceva.
Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell'impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e, ceteris paribus, anche soltanto un po' meno danneggiati i tegoli di Casale.
In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di Milano, e ci accorse in persona.
Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e clamorosa di Renzo, de' fatti veri e supposti ch'erano stati cagione del suo arresto; e gli si seppe anche dire che questo tale s'era rifugiato sul territorio di Bergamo.
Questa circostanza fermò l'attenzione di don Gonzalo.
Era informato da tutt'altra parte, che a Venezia avevano alzata la cresta, per la sommossa di Milano; che da principio avevan creduto che sarebbe costretto a levar l'assedio da Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito, e in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell'avvenimento, era arrivata la notizia, sospirata da que' signori e temuta da lui, della resa della Roccella.
E scottandogli molto, e come uomo e come politico, che que' signori avessero un tal concetto de' fatti suoi, spiava ogni occasione di persuaderli, per via d'induzione, che non aveva perso nulla dell'antica sicurezza; giacché il dire espressamente: non ho paura, è come non dir nulla.
Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme, nella sua faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa è politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quel fracasso che sapete a proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne in conseguenza.
Dopo, non s'occupò più d'un affare così minuto e, in quanto a lui, terminato; e quando poi, che fu un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo sopra Casale, dov'era tornato, e dove aveva tutt'altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia; stette lì un momento, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che un'ombra; si rammentò della cosa, ebbe un'idea fugace e confusa del personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più.
Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s'era fatto veder per aria, doveva supporre tutt'altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz'altro pensiero o, per dir meglio, senz'altro studio, che di viver nascosto.
Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d'aver le loro; ma c'eran due gran difficoltà.
Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche.
Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de' suoi interessi, d'un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que' tempi non si trovava così facilmente; tanto più in un paese dove non s'avesse nessuna antica conoscenza.
L'altra difficoltà era d'avere anche un corriere; un uomo che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a trovarsi in un uomo solo.
Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui.
Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, credé bene di fare accluder la lettera per Agnese in un'altra diretta al padre Cristoforo.
Lo scrivano prese anche l'incarico di far recapitare il plico; lo consegnò a uno che doveva passare non lontano da Pescarenico; costui lo lasciò, con molte raccomandazioni, in un'osteria sulla strada, al punto più vicino; trattandosi che il plico era indirizzato a un convento, ci arrivò; ma cosa n'avvenisse dopo, non s'è mai saputo.
Renzo, non vedendo comparir risposta, fece stendere un'altra lettera, a un di presso come la prima, e accluderla in un'altra a un suo amico di Lecco, o parente che fosse.
Si cercò un altro latore, si trovò; questa volta la lettera arrivò a chi era diretta.
Agnese trottò a Maggianico, se la fece leggere e spiegare da quell'Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, che questo mise in carta; si trovò il mezzo di mandarla ad Antonio Rivolta nel luogo del suo domicilio: tutto questo però non così presto come noi lo raccontiamo.
Renzo ebbe la risposta, e fece riscrivere.
In somma, s'avviò tra le due parti un carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.
Ma per avere un'idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato.
Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell'arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l'informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta.
Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell'altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c'è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po' a modo suo.
Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa.
Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell'abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega.
Nascono delle questioni sul modo d'intendere; perché l'interessato, fondandosi sulla cognizione de' fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un'altra.
Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un'interpretazione simile.
Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po' geloso; se c'entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c'è stata anche l'intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr'ore disputassero sull'entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto.
Ora, il caso de' nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam detto.
La prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte materie.
Da principio, oltre un racconto della fuga, molto più conciso, ma anche più arruffato di quello che avete letto, un ragguaglio delle sue circostanze attuali; dal quale, tanto Agnese quanto il suo turcimanno furono ben lontani di ricavare un costrutto chiaro e intero: avviso segreto, cambiamento di nome, esser sicuro, ma dovere star nascosto; cose per sé non troppo famigliari a' loro intelletti, e nella lettera dette anche un po' in cifra.
C'era poi delle domande affannose, appassionate, su' casi di Lucia, con de' cenni oscuri e dolenti, intorno alle voci che n'erano arrivate fino a Renzo.
C'erano finalmente speranze incerte, e lontane, disegni lanciati nell'avvenire, e intanto promesse e preghiere di mantener la fede data, di non perder la pazienza né il coraggio, d'aspettar migliori circostanze.
Dopo un po' di tempo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire nelle mani di Renzo una risposta, co' cinquanta scudi assegnatigli da Lucia.
Al veder tant'oro, Renzo non sapeva cosa si pensare; e con l'animo agitato da una maraviglia e da una sospensione che non davan luogo a contentezza, corse in cerca del segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d'un così strano mistero.
Nella lettera, il segretario d'Agnese, dopo qualche lamento sulla poca chiarezza della proposta, passava a descrivere, con chiarezza a un di presso uguale, la tremenda storia di quella persona (così diceva); e qui rendeva ragione de' cinquanta scudi; poi veniva a parlar del voto, ma per via di perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e aperte, il consiglio di mettere il cuore in pace, e di non pensarci più.
Renzo, poco mancò che non se la prendesse col lettore interprete: tremava, inorridiva, s'infuriava, di quel che aveva capito, e di quel che non aveva potuto capire.
Tre o quattro volte si fece rileggere il terribile scritto, ora parendogli d'intender meglio, ora divenendogli buio ciò che prima gli era parso chiaro.
E in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse subito mano alla penna, e rispondesse.
Dopo l'espressioni più forti che si possano immaginare di pietà e di terrore per i casi di Lucia, - scrivete, - proseguiva dettando, - che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovine; che già la giovine dev'esser mia; che io non so di promessa; e che ho ben sempre sentito dire che la Madonna c'entra per aiutare i tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l'ho sentito mai; e che codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a metter su casa qui; e che, se ora sono un po' imbrogliato, l'è una burrasca che passerà presto -; e cose simili.
Agnese ricevé poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio continuò, nella maniera che abbiam detto.
Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla.
Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoprava anche ogni mezzo, per mandarla ad effetto.
Stava assidua al lavoro, cercava d'occuparsi tutta in quello: quando l'immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente.
Ma quell'immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più, così alla scoperta; s'introduceva di soppiatto dietro all'altre, in modo che la mente non s'accorgesse d'averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che la c'era.
Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre: come non ci sarebbe stato? e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte.
Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare.
E se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò.
Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo.
Ma c'era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall'animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso.
- Ebbene? - le diceva: - non ci pensiam più a colui?
- Io non penso a nessuno, - rispondeva Lucia.
Donna Prassede non s'appagava d'una risposta simile; replicava che ci volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, le quali, diceva, - quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è lì che inclinano sempre), non se lo staccan più.
Un partito onesto, ragionevole, d'un galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile -.
E allora principiava il panegirico del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte, sicuramente anche al suo paese.
Lucia, con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, assicurava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sé, altro che in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far testimonianza.
Anche sull'avventure di Milano, delle quali non era ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e de' suoi portamenti fino dalla fanciullezza.
Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la parola con la quale spiegava a se stessa il suo sentimento, come prossimo.
Ma da queste apologie donna Prassede ricavava nuovi argomenti per convincer Lucia, che il suo cuore era ancora perso dietro a colui.
E per verità, in que' momenti, non saprei ben dire come la cosa stesse.
L'indegno ritratto che la vecchia faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che mai, nella mente della giovine l'idea che vi s'era formata in una così lunga consuetudine; le rimembranze compresse a forza, si svolgevano in folla; l'avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima; l'odio cieco e violento faceva sorger più forte la pietà: e con questi affetti, chi sa quanto ci potesse essere o non essere di quell'altro che dietro ad essi s'introduce così facilmente negli animi; figuriamoci cosa farà in quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza.
Sia come si sia, il discorso, per la parte di Lucia, non sarebbe mai andato molto in lungo; ché le parole finivan presto in pianto.
Se donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l'avrebbero, tocca e fatta smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l'arme d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo.
Fatto però bene il suo dovere per quella volta, dalle stoccate e da' rabbuffi veniva all'esortazioni, ai consigli, conditi anche di qualche lode, per temperar così l'agro col dolce, e ottener meglio l'effetto, operando sull'animo in tutti i versi.
Certo, di quelle baruffe (che avevan sempre a un di presso lo stesso principio, mezzo e fine), non rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l'acerba predicatrice, la quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza; e anche in questo, si vedeva una buona intenzione.
Le rimaneva bensì un ribollimento, una sollevazione di pensieri e d'affetti tale, che ci voleva molto tempo e molta fatica per tornare a quella qualunque calma di prima.
Buon per lei, che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti.
Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddirizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state.
Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza.
Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare.
Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza.
Dove il suo zelo poteva esercitarsi liberamente, era in casa: lì ogni persona era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità, fuorché don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto particolare.
Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né d'ubbidire.
Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora; ma lui servo, no.
E se, pregato, le prestava a un'occorrenza l'ufizio della penna, era perché ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere.
- La s'ingegni, - diceva in que' casi; - faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara -.
Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal lasciar fare al fare, s'era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con la stizza, c'entrava anche un po' di compiacenza.
Don Ferrante passava di grand'ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato.
Nell'astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un dilettante; perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel vocabolario comune, d'influssi, d'aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito, e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de' circoli massimi, de' gradi lucidi e tenebrosi, d'esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, de' princìpi in somma più certi e più reconditi della scienza.
Ed eran forse vent'anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell'Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non voler dar ragione a' moderni, anche dove l'hanno chiara che la vedrebbe ognuno.
Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a vòto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non l'aveva saputa adoprar bene.
Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n'andava di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio.
Siccome però que' sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno; è il filosofo.
Aveva anche varie opere de' più savi e sottili seguaci di lui, tra i moderni: quelle de' suoi impugnatori non aveva mai voluto leggerle, per non buttar via il tempo, diceva; né comprarle, per non buttar via i danari.
Per eccezione però, dava luogo nella sua libreria a que' celebri ventidue libri De subtilitate, e a qualche altr'opera antiperipatetica del Cardano, in grazia del suo valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum coelestium, e il libro Duodecim geniturarum, meritava d'essere ascoltato, anche quando spropositava; e che il gran difetto di quell'uomo era stato d'aver troppo ingegno; e che nessuno si può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato sempre nella strada retta.
Del rimanente, quantunque, nel giudizio de' dotti, don Ferrante passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d'una volta disse, con gran modestia, che l'essenza, gli universali, l'anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere.
Della filosofia naturale s'era fatto più un passatempo che uno studio; l'opere stesse d'Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte incidentemente da' trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell'erbe, delle piante, degli animali, d'Alberto Magno, a qualche altr'opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l'abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l'abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si cibi d'aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l'andar de' secoli, si formi il cristallo; e altri de' più maravigliosi segreti della natura.
In quelli della magia e della stregoneria s'era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da poterli verificare.
Non c'è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva mai avuta altra mira che d'istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de' maliardi, per potersene guardare, e difendere.
E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio (l'uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell'infinite specie che, pur troppo, dice ancora l'anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi.
Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo, i più riputati in somma.
Ma cos'è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida.
C'era dunque ne' suoi scaffali un palchetto assegnato agli statisti; dove, tra molti di piccola mole, e di fama secondaria, spiccavano il Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini.
Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de' due convenisse unicamente quel grado: l'uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l'altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto.
Ma, poco prima del tempo nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto fuori il libro che terminò la questione del primato, passando avanti anche all'opere di que' due matadori, diceva don Ferrante; il libro in cui si trovan racchiuse e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù, per poterle praticare; quel libro piccino, ma tutto d'oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione, di quell'uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più gran letterati lo esaltavano a gara, e i più gran personaggi facevano a rubarselo; di quell'uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifiche lodi; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli, don Pietro di Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V, l'altro le guerre del re cattolico in Italia, l'uno e l'altro invano; di quell'uomo, che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del cardinal di Richelieu, nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì la stessa carica; in lode di cui, per tralasciare altre gloriose testimonianze, la duchessa Cristina, figlia del cristianissimo re Enrico IV, poté in un diploma, con molti altri titoli, annoverare " la certezza della fama ch'egli ottiene in Italia, di primo scrittore de' nostri tempi ".
Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce n'era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza cavalleresca.
Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequentemente d'intervenire in affari d'onore, dava sempre qualche decisione.
Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il Muzio, il Romei, l'Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi così della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria.
L'autore però degli autori, nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d'una volta, a dar giudizio sopra casi d'onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima particolare.
E fin da quando venner fuori i Discorsi Cavallereschi di quell'insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest'opera avrebbe rovinata l'autorità dell'Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con l'altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l'anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata.
Da questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d'andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l'anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s'è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo.
Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de' nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de' quali certamente il lettore s'interessa di più, se a qualche cosa s'interessa in tutto questo.
Fino all'autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per volontà, chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati, senza che ad alcuno accadesse, né che alcun altro potesse far cosa degna d'esser riferita.
Venne l'autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all'aria: e fu questo certamente uno de' suoi più piccoli effetti.
Seguiron poi altri grandi avvenimenti, che pero non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de' nostri personaggi.
Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l'erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina.
Ora, perché i fatti privati che ci rimangon da raccontare, riescan chiari, dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla meglio di quei pubblici, prendendola anche un po' da lontano.
CAPITOLO XXVIII
Dopo quella sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve che l'abbondanza fosse tornata in Milano, come per miracolo.
Pane in quantità da tutti i fornai; il prezzo, come nell'annate migliori; le farine a proporzione.
Coloro che, in que' due giorni, s'erano addati a urlare o a far anche qualcosa di più, avevano ora (meno alcuni pochi stati presi) di che lodarsi: e non crediate che se ne stessero, appena cessato quel primo spavento delle catture.
Sulle piazze, sulle cantonate, nelle bettole, era un tripudio palese, un congratularsi e un vantarsi tra' denti d'aver trovata la maniera di far rinviliare il pane.
In mezzo però alla festa e alla baldanza, c'era (e come non ci sarebbe stata?) un'inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a durare.
Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevan fatto in quell'altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla prima tariffa d'Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi aveva qualche quattrino da parte, l'investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle casse, delle botticine, delle caldaie.
Così, facendo a gara a goder del buon mercato presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sé, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea.
Ed ecco che, il 15 di novembre, Antonio Ferrer, De orden de Su Excelencia, pubblicò una grida, con la quale, a chiunque avesse granaglie o farine in casa, veniva proibito di comprarne né punto né poco, e ad ognuno di comprar pane, per più che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali, all'arbitrio di Sua Eccellenza; intimazione a chi toccava per ufizio, e a ogni persona, di denunziare i trasgressori; ordine a' giudici, di far ricerche nelle case che potessero venir loro indicate; insieme però, nuovo comando a' fornai di tener le botteghe ben fornite di pane, sotto pena in caso di mancamento, di cinque anni di galera, et maggiore, all'arbitrio di S.
E.
Chi sa immaginarsi una grida tale eseguita, deve avere una bella immaginazione; e certo, se tutte quelle che si pubblicavano in quel tempo erano eseguite, il ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in mare, quanta ne possa avere ora la gran Bretagna.
Sia com'esser si voglia, ordinando ai fornai di far tanto pane, bisognava anche fare in modo che la materia del pane non mancasse loro.
S'era immaginato (come sempre in tempo di carestia rinasce uno studio di ridurre in pane de' prodotti che d'ordinario si consumano sott'altra forma), s'era, dico, immaginato di far entrare il riso nel composto del pane detto di mistura.
Il 23 di novembre, grida che sequestra, agli ordini del vicario e de' dodici di provvisione, la metà del riso vestito (risone lo dicevano qui, e lo dicon tuttora) che ognuno possegga; pena a chiunque ne disponga senza il permesso di que' signori, la perdita della derrata, e una multa di tre scudi per moggio.
È, come ognun vede, la più onesta.
Ma questo riso bisognava pagarlo, e un prezzo troppo sproporzionato da quello del pane.
Il carico di supplire all'enorme differenza era stato imposto alla città; ma il Consiglio de' decurioni, che l'aveva assunto per essa, deliberò, lo stesso giorno 23 di novembre, di rappresentare al governatore l'impossibilità di sostenerlo più a lungo.
E il governatore, con grida del 7 di dicembre, fissò il prezzo del riso suddetto a lire dodici il moggio: a chi ne chiedesse di più, come a chi ricusasse di vendere, intimò la perdita della derrata e una multa altrettanto valore, et maggior pena pecuniaria et ancora corporale sino alla galera, all'arbitrio di S.
E., secondo la qualità de' casi et delle persone.
Al riso brillato era già stato fissato il prezzo prima della sommossa; come probabilmente la tariffa o, per usare quella denominazione celeberrima negli annali moderni, il maximum del grano e dell'altre granaglie più ordinarie sarà stato fissato con altre gride, che non c'è avvenuto di vedere.
Mantenuto così il pane e la farina a buon mercato in Milano, ne veniva di conseguenza che dalla campagna accorresse gente a processione a comprarne.
Don Gonzalo, per riparare a questo, come dice lui, inconveniente, proibì, con un'altra grida del 15 di dicembre, di portar fuori della città pane, per più del valore di venti soldi; pena la perdita del pane medesimo, e venticinque scudi, et in caso di inhabilità' di due tratti di corda in publico, et maggior pena ancora, secondo il solito, all'arbitrio di S.
E.
Il 22 dello stesso mese (e non si vede perché così tardi), pubblicò un ordine somigliante per le farine e per i grani.
La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda.
I mezzi erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col fine, il lettore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti.
È poi facile anche vedere, e non inutile l'osservare come tra quegli strani provvedimenti ci sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell'antecedente, e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla proporzione tra il bisogno e la quantità.
Alla moltitudine un tale espediente è sempre parso, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all'equità, altrettanto semplice e agevole a mettersi in esecuzione: è quindi cosa naturale che, nell'angustie e ne' patimenti della carestia, essa lo desideri, l'implori e, se può, l'imponga.
Di mano in mano poi che le conseguenze si fanno sentire, conviene che coloro a cui tocca, vadano al riparo di ciascheduna, con una legge la quale proibisca agli uomini di far quello a che eran portati dall'antecedente.
Ci si permetta d'osservar qui di passaggio una combinazione singolare.
In un paese e in un'epoca vicina, nell'epoca la più clamorosa e la più notabile della storia moderna, si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti (i medesimi, si potrebbe quasi dire, nella sostanza, con la sola differenza di proporzione, e a un di presso nel medesimo ordine) ad onta de' tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa, e in quel paese forse più che altrove; e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge.
Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de' conti, i frutti principali della sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta.
A questi effetti generali s'aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov'era la casa del vicario di provvisione.
Del resto, le relazioni storiche di que' tempi son fatte così a caso, che non ci si trova neppur la notizia del come e del quando cessasse quella tariffa violenta.
Se, in mancanza di notizie positive, è lecito propor congetture, noi incliniamo a credere che sia stata abolita poco prima o poco dopo il 24 di dicembre, che fu il giorno di quell'esecuzione.
E in quanto alle gride, dopo l'ultima che abbiam citata del 22 dello stesso mese, non ne troviamo altre in materia di grasce; sian esse perite, o siano sfuggite alle nostre ricerche, o sia finalmente che il governo, disanimato, se non ammaestrato dall'inefficacia di que' suoi rimedi, e sopraffatto dalle cose, le abbia abbandonate al loro corso.
Troviamo bensì nelle relazioni di più d'uno storico (inclinati, com'erano, più a descriver grand'avvenimenti, che a notarne le cagioni e il progresso) il ritratto del paese, e della città principalmente, nell'inverno avanzato e nella primavera, quando la cagion del male, la sproporzione cioè tra i viveri e il bisogno, non distrutta, anzi accresciuta da' rimedi che ne sospesero temporariamente gli effetti, e neppure da un'introduzione sufficiente di granaglie estere, alla quale ostavano l'insufficienza de' mezzi pubblici e privati, la penuria de' paesi circonvicini, la scarsezza, la lentezza e i vincoli del commercio, e le leggi stesse tendenti a produrre e mantenere il prezzo basso, quando, dico, la cagion vera della carestia, o per dir meglio, la carestia stessa operava senza ritegno, e con tutta la sua forza.
Ed ecco la copia di quel ritratto doloroso.
A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti.
Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l'elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l'avevan ricevuta.
Garzoni e giovani licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de' padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri d'ogni manifattura e d'ogn'arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese, chiedendo pietosamente l'elemosina, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e dalla fame ne' panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora i segni d'un'antica agiatezza; come nell'inerzia e nell'avvilimento, compariva non so quale indizio d'abitudini operose e franche.
Mescolati tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella solita pompa di seguito.
E a tutti questi diversi indigenti s'aggiunga un numero d'altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co' loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all'accatto.
C'eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano su' visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genìa de' bravi che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane scellerato, ne andavan chiedendo per carità.
Domati dalla fame, non gareggiando con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascicavan per le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umilmente la mano, che tante volte avevano alzata insolente a minacciare, o traditrice a ferire.
Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro.
Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n'eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n'era di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e le margini de' colpi ricevuti nel difendere quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale.
Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti da que' due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della guerra, eran venuti, venivano alla città, come a sede antica e ad ultimo asilo di ricchezza e di pia munificenza.
Si potevan distinguere gli arrivati di fresco, più ancora che all'andare incerto e all'aria nuova, a un fare maravigliato e indispettito di trovare una tal piena, una tale rivalità di miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e d'attirare a sé gli sguardi e i soccorsi.
Gli altri che da più o men tempo giravano e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co' sussidi ottenuti o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi e il bisogno, avevan dipinta ne' volti e negli atti una più cupa e stanca costernazione.
Vestiti diversamente, quelli che ancora si potevano dir vestiti; e diversi anche nell'aspetto: facce dilavate del basso paese, abbronzate del pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari; ma tutte affilate e stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi fissi, tra il torvo e l'insensato; arruffati i capelli, lunghe e irsute le barbe: corpi cresciuti e indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle braccia aduste e sugli stinchi e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai cenci scomposti.
E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di vigore abbattuto, l'aspetto d'una natura più presto vinta, d'un languore e d'uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell'età più deboli.
Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po' di paglia pesta, trita e mista d'immondo ciarpume.
E una tal porcheria era però un dono e uno studio della carità; eran covili apprestati a qualcheduno di que' meschini, per posarci il capo la notte.
Ogni tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe: qualche volta quel tristo letto portava un cadavere: qualche volta si vedeva uno cader come un cencio all'improvviso, e rimaner cadavere sul selciato.
Accanto a qualcheduno di que' covili, si vedeva pure chinato qualche passeggiero o vicino, attirato da una compassion subitanea.
In qualche luogo appariva un soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso da una mano ricca di mezzi, e avvezza a beneficare in grande; ed era la mano del buon Federigo.
Aveva scelto sei preti ne' quali una carità viva e perseverante fosse accompagnata e servita da una complessione robusta; gli aveva divisi in coppie, e ad ognuna assegnata una terza parte della città da percorrere, con dietro facchini carichi di vari cibi, d'altri più sottili e più pronti ristorativi, e di vesti.
Ogni mattina, le tre coppie si mettevano in istrada da diverse parti, s'avvicinavano a quelli che vedevano abbandonati per terra, e davano a ciascheduno aiuto secondo il bisogno.
Taluno già agonizzante e non più in caso di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della religione.
Agli affamati dispensavano minestra, ova, pane, vino; ad altri, estenuati da più antico digiuno, porgevano consumati, stillati, vino più generoso, riavendoli prima, se faceva di bisogno, con cose spiritose.
Insieme, distribuivano vesti alle nudità più sconce e più dolorose.
Né qui finiva la loro assistenza: il buon pastore aveva voluto che, almeno dov'essa poteva arrivare, recasse un sollievo efficace e non momentaneo.
Ai poverini a cui quel primo ristoro avesse rese forze bastanti per reggersi e per camminare, davano un po' di danaro, affinché il bisogno rinascente e la mancanza d'altro soccorso non li rimettesse ben presto nello stato di prima; agli altri cercavano ricovero e mantenimento, in qualche casa delle più vicine.
In quelle de' benestanti, erano per lo più ricevuti per carità, e come raccomandati dal cardinale; in altre, dove alla buona volontà mancassero i mezzi, chiedevan que' preti che il poverino fosse ricevuto a dozzina, fissavano il prezzo, e ne sborsavan subito una parte a conto.
Davano poi, di questi ricoverati, la nota ai parrochi, acciocché li visitassero; e tornavano essi medesimi a visitarli.
Non c'è bisogno di dire che Federigo non ristringeva le sue cure a questa estremità di patimenti, né l'aveva aspettata per commoversi.
Quella carità ardente e versatile doveva tutto sentire, in tutto adoprarsi, accorrere dove non aveva potuto prevenire, prender, per dir così, tante forme, in quante variava il bisogno.
Infatti, radunando tutti i suoi mezzi, rendendo più rigoroso il risparmio, mettendo mano a risparmi destinati ad altre liberalità, divenute ora d'un'importanza troppo secondaria, aveva cercato ogni maniera di far danari, per impiegarli tutti in soccorso degli affamati.
Aveva fatte gran compre di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi, che n'eran più scarsi; ed essendo il soccorso troppo inferiore al bisogno, mandò anche del sale, - con cui, - dice, raccontando la cosa, il Ripamonti (Historiae Patriae, Decadis V, Lib.
VI, pag.
386.) - l'erbe del prato e le cortecce degli alberi si convertono in cibo -.
Granaglie pure e danari aveva distribuiti ai parrochi della città; lui stesso la visitava, quartiere per quartiere, dispensando elemosine; soccorreva in segreto molte famiglie povere; nel palazzo arcivescovile, come attesta uno scrittore contemporaneo, il medico Alessandro Tadino, in un suo Ragguaglio che avremo spesso occasion di citare andando avanti, si distribuivano ogni mattina due mila scodelle di minestra di riso (Ragguaglio dell'origine et giornali sucessi della gran peste contagiosa, venefica et malefica, seguita nella città di Milano etc.
Milano, 1648, pag.
10.).
Ma questi effetti di carità, che possiamo certamente chiamar grandiosi, quando si consideri che venivano da un sol uomo e dai soli suoi mezzi (giacché Federigo ricusava, per sistema, di farsi dispensatore delle liberalità altrui); questi, insieme con le liberalità d'altre mani private, se non così feconde, pur numerose; insieme con le sovvenzioni che il Consiglio de' decurioni aveva decretate, dando al tribunal di provvisione l'incombenza di distribuirle; erano ancor poca cosa in paragone del bisogno.
Mentre ad alcuni montanari vicini a morir di fame, veniva, per la carità del cardinale, prolungata la vita, altri arrivavano a quell'estremo; i primi, finito quel misurato soccorso, ci ricadevano; in altre parti, non dimenticate, ma posposte, come meno angustiate, da una carità costretta a scegliere, l'angustie divenivan mortali; per tutto si periva, da ogni parte s'accorreva alla città.
Qui, due migliaia, mettiamo, d'affamati più robusti ed esperti a superar la concorrenza e a farsi largo, avevano acquistata una minestra, tanto da non morire in quel giorno; ma più altre migliaia rimanevano indietro, invidiando quei, diremo noi, più fortunati, quando, tra i rimasti indietro, c'erano spesso le mogli, i figli, i padri loro? E mentre in alcune parti della città, alcuni di quei più abbandonati e ridotti all'estremo venivan levati di terra, rianimati, ricoverati e provveduti per qualche tempo; in cent'altre parti, altri cadevano, languivano o anche spiravano, senza aiuto, senza refrigerio.
Tutto il giorno, si sentiva per le strade un ronzìo confuso di voci supplichevoli; la notte, un susurro di gemiti, rotto di quando in quando da alti lamenti scoppiati all'improvviso, da urli, da accenti profondi d'invocazione, che terminavano in istrida acute.
È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di querele, non si vedesse mai un tentativo, non iscappasse mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno.
Eppure, tra coloro che vivevano e morivano in quella maniera, c'era un buon numero d'uomini educati a tutt'altro che a tollerare; c'erano a centinaia, di que' medesimi che, il giorno di san Martino, s'erano tanto fatti sentire.
Né si può pensare che l'esempio de' quattro disgraziati che n'avevan portata la pena per tutti, fosse quello che ora li tenesse tutti a freno: qual forza poteva avere, non la presenza, ma la memoria de' supplizi sugli animi d'una moltitudine vagabonda e riunita, che si vedeva come condannata a un lento supplizio, che già lo pativa? Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.
Il vòto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile moltitudine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso continuo, prima da' paesi circonvicini, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre.
E intanto, anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così, preso il posto da' nuovi concorrenti d'accatto, uscivano a un'ultima disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del chiedere S'incontravano nell'opposto viaggio questi e que' pellegrini, spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati.
Ma seguitavano ognuno la sua strada, se non più per la speranza di mutar sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non rivedere i luoghi dove avevan disperato.
Se non che taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d'orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri.
" Vidi io, - scrive il Ripamonti, - nella strada che gira le mura, il cadavere d'una donna...
Le usciva di bocca dell'erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso...
Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa...
Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno ".
Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria, spettacolo ordinario de' tempi ordinari, era allora affatto cessato.
I cenci e la miseria eran quasi per tutto; e ciò che se ne distingueva, era appena un apparenza di parca mediocrità.
Si vedevano i nobili camminare in abito semplice e dimesso, o anche logoro e gretto; alcuni, perché le cagioni comuni della miseria avevan mutata a quel segno anche la loro fortuna, o dato il tracollo a patrimoni già sconcertati: gli altri, o che temessero di provocare col fasto la pubblica disperazione, o che si vergognassero d'insultare alla pubblica calamità.
Que' prepotenti odiati e rispettati, soliti a andare in giro con uno strascico di bravi, andavano ora quasi soli, a capo basso, con visi che parevano offrire e chieder pace.
Altri che, anche nella prosperità, erano stati di pensieri più umani, e di portamenti più modesti, parevano anch'essi confusi, costernati, e come sopraffatti dalla vista continua d'una miseria che sorpassava, non solo la possibilità del soccorso, ma direi quasi, le forze della compassione.
Chi aveva il modo di far qualche elemosina, doveva però fare una trista scelta tra fame e fame, tra urgenze e urgenze.
E appena si vedeva una mano pietosa avvicinarsi alla mano d'un infelice, nasceva all'intorno una gara d'altri infelici; coloro a cui rimaneva più vigore, si facevano avanti a chieder con più istanza; gli estenuati, i vecchi, i fanciulli, alzavano le mani scarne; le madri alzavano e facevan veder da lontano i bambini piangenti, mal rinvoltati nelle fasce cenciose, e ripiegati per languore nelle loro mani.
Così passò l'inverno e la primavera: e già da qualche tempo il tribunale della sanità andava rappresentando a quello della provvisione il pericolo del contagio, che sovrastava alla città, per tanta miseria ammontata in ogni parte di essa; e proponeva che gli accattoni venissero raccolti in diversi ospizi.
Mentre si discute questa proposta, mentre s'approva, mentre si pensa ai mezzi, ai modi, ai luoghi, per mandarla ad effetto, i cadaveri crescono nelle strade ogni giorno più; a proporzion di questo, cresce tutto l'altro ammasso di miserie.
Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e più speditivo, un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e curati a spese del pubblico; e così vien risoluto, contro il parere della Sanità, la quale opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si voleva metter riparo.
Il lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse nelle mani di qualcheduno che non lo conoscesse, né di vista né per descrizione) è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori della città, a sinistra della porta detta orientale, distante dalle mura lo spazio della fossa, d'una strada di circonvallazione, e d'una gora che gira il recinto medesimo.
I due lati maggiori son lunghi a un di presso cinquecento passi; gli altri due, forse quindici meno; tutti, dalla parte esterna, son divisi in piccole stanze d'un piano solo; di dentro gira intorno a tre di essi un portico continuo a volta, sostenuto da piccole e magre colonne.
Le stanzine eran dugent'ottantotto, o giu di lì: a' nostri giorni, una grande apertura fatta nel mezzo, e una piccola, in un canto della facciata del lato che costeggia la strada maestra, ne hanno portate via non so quante.
Al tempo della nostra storia, non c'eran che due entrature; una nel mezzo del lato che guarda le mura della città, l'altra di rimpetto, nell'opposto.
Nel centro dello spazio interno, c'era, e c'è tutt'ora, una piccola chiesa ottangolare.
La prima destinazione di tutto l'edifizio, cominciato nell'anno 1489, co' danari d'un lascito privato, continuato poi con quelli del pubblico e d'altri testatori e donatori, fu, come l'accenna il nome stesso, di ricoverarvi, all'occorrenza, gli ammalati di peste; la quale, già molto prima di quell'epoca, era solita, e lo fu per molto tempo dopo, a comparire quelle due, quattro, sei, otto volte per secolo, ora in questo, ora in quel paese d'Europa, prendendone talvolta una gran parte, o anche scorrendola tutta, per il lungo e per il largo.
Nel momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che per deposito delle mercanzie soggette a contumacia.
Ora, per metterlo in libertà, non si stette al rigor delle leggi sanitarie, e fatte in fretta in fretta le purghe e gli esperimenti prescritti, si rilasciaron tutte le mercanzie a un tratto.
Si fece stender della paglia in tutte le stanze, si fecero provvisioni di viveri, della qualità e nella quantità che si poté; e s'invitarono, con pubblico editto, tutti gli accattoni a ricoverarsi lì.
Molti vi concorsero volontariamente; tutti quelli che giacevano infermi per le strade e per le piazze, ci vennero trasportati; in pochi giorni, ce ne fu, tra gli uni e gli altri, più di tre mila.
Ma molti più furon quelli che restaron fuori.
O che ognun di loro aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in pochi a goder l'elemosine della città, o fosse quella natural ripugnanza alla clausura, o quella diffidenza de' poveri per tutto ciò che vien loro proposto da chi possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre proporzionata all'ignoranza comune di chi la sente e di chi l'ispira, al numero de' poveri, e al poco giudizio delle leggi), o il saper di fatto quale fosse in realtà il benefizio offerto, o fosse tutto questo insieme, o che altro, il fatto sta che la più parte, non facendo conto dell'invito, continuavano a strascicarsi stentando per le strade.
Visto ciò, si credé bene di passar dall'invito alla forza.
Si mandarono in ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzeretto, e vi menassero legati quelli che resistevano; per ognun de' quali fu assegnato a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori strettezze, i danari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito.
E quantunque, com'era stata congettura, anzi intento espresso della Provvisione, un certo numero d'accattoni sfrattasse dalla città, per andare a vivere o a morire altrove, in libertà almeno; pure la caccia fu tale che, in poco tempo, il numero de' ricoverati, tra ospiti e prigionieri, s'accostò a dieci mila.
Le donne e i bambini, si vuol supporre che saranno stati messi in quartieri separati, benché le memorie del tempo non ne dican nulla.
Regole poi e provvedimenti per il buon ordine, non ne saranno certamente mancati; ma si figuri ognuno qual ordine potesse essere stabilito e mantenuto, in que' tempi specialmente e in quelle circostanze, in una così vasta e varia riunione, dove coi volontari si trovavano i forzati; con quelli per cui l'accatto era una necessità, un dolore, una vergogna, coloro di cui era il mestiere; con molti cresciuti nell'onesta attività de' campi e dell'officine, molti altri educati nelle piazze, nelle taverne, ne' palazzi de' prepotenti, all'ozio, alla truffa, allo scherno, alla violenza.
Come stessero poi tutti insieme d'alloggio e di vitto, si potrebbe tristamente congetturarlo, quando non n'avessimo notizie positive; ma le abbiamo.
Dormivano ammontati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po' di paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra: perché, s'era bensì ordinato che la paglia fosse fresca e a sufficienza, e cambiata spesso; ma in effetto era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava.
S'era ugualmente ordinato che il pane fosse di buona qualità: giacché, quale amministratore ha mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò che non si sarebbe ottenuto nelle circostanze solite, anche per un più ristretto servizio, come ottenerlo in quel caso, e per quella moltitudine? Si disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto fosse alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo credibile che non fosse uno di que' lamenti in aria.
D'acqua perfino c'era scarsità; d'acqua, voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune, doveva esser la gora che gira le mura del recinto, bassa, lenta, dove anche motosa, e divenuta poi quale poteva renderla l'uso e la vicinanza d'una tanta e tal moltitudine.
A tutte queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano sopra corpi ammalati o ammalazzati, s'aggiunga una gran perversità della stagione: piogge ostinate, seguite da una siccità ancor più ostinata, e con essa un caldo anticipato e violento.
Ai mali s'aggiunga il sentimento de' mali, la noia e la smania della prigionia, la rimembranza dell'antiche abitudini, il dolore di cari perduti, la memoria inquieta di cari assenti, il tormento e il ribrezzo vicendevole, tant'altre passioni d'abbattimento o di rabbia, portate o nate là dentro; l'apprensione poi e lo spettacolo continuo della morte resa frequente da tante cagioni, e divenuta essa medesima una nuova e potente cagione.
E non farà stupore che la mortalità crescesse e regnasse in quel recinto a segno di prendere aspetto e, presso molti, nome di pestilenza: sia che la riunione e l'aumento di tutte quelle cause non facesse che aumentare l'attività d'un'influenza puramente epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi e men prolungate di quella) che vi avesse luogo un certo contagio, il quale ne' corpi affetti e preparati dal disagio e dalla cattiva qualità degli alimenti, dall'intemperie, dal sudiciume, dal travaglio e dall'avvilimento trovi la tempera, per dir così, e la stagione sua propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutrirsi e moltiplicare (se a un ignorante è lecito buttar là queste parole, dietro l'ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta da ultimo, con molte ragioni e con molta riserva, da uno, diligente quanto ingegnoso) (Del morbo petecchiale...
e degli altri contagi in generale, opera del dott.
F.
Enrico Acerbi, Cap.
III, § 1 e 2.): sia poi che il contagio scoppiasse da principio nel lazzeretto medesimo, come, da un'oscura e inesatta relazione, par che pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando prima d'allora (ciò che par forse più verisimile, chi pensi come il disagio era già antico e generale, e la mortalità già frequente), e che portato in quella folla permanente, vi si propagasse con nuova e terribile rapidità.
Qualunque di queste congetture sia la vera, il numero giornaliero de' morti nel lazzeretto oltrepassò in poco tempo il centinaio.
Mentre in quel luogo tutto il resto era languore, angoscia, spavento, rammarichìo, fremito, nella Provvisione era vergogna, stordimento, incertezza.
Si discusse, si sentì il parere della Sanità; non si trovò altro che di disfare ciò che s'era fatto con tanto apparato, con tanta spesa, con tante vessazioni.
S'aprì il lazzeretto, si licenziaron tutti i poveri non ammalati che ci rimanevano, e che scapparon fuori con una gioia furibonda.
La città tornò a risonare dell'antico lamento, ma più debole e interrotto; rivide quella turba più rada e più compassionevole, dice il Ripamonti, per il pensiero del come fosse di tanto scemata.
Gl'infermi furon trasportati a Santa Maria della Stella, allora ospizio di poveri; dove la più parte perirono.
Intanto però cominciavano que' benedetti campi a imbiondire.
Gli accattoni venuti dal contado se n'andarono, ognuno dalla sua parte, a quella tanto sospirata segatura.
Il buon Federigo gli accomiatò con un ultimo sforzo, e con un nuovo ritrovato di carità: a ogni contadino che si presentasse all'arcivescovado, fece dare un giulio, e una falce da mietere.
Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin nell'autunno.
Era sul finire, quand'ecco un nuovo flagello.
Molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di storiche, erano accadute in questo frattempo.
Il cardinal di Richelieu, presa, come s'è detto, la Roccella, abborracciata alla meglio una pace col re d'Inghilterra, aveva proposto e persuaso con la sua potente parola, nel Consiglio di quello di Francia, che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers; e aveva insieme determinato il re medesimo a condurre in persona la spedizione.
Mentre si facevan gli apparecchi, il conte di Nassau, commissario imperiale, intimava in Mantova al nuovo duca, che desse gli stati in mano a Ferdinando, o questo manderebbe un esercito ad occuparli.
Il duca che, in più disperate circostanze, s'era schermito d'accettare una condizione così dura e così sospetta, incoraggito ora dal vicino soccorso di Francia, tanto più se ne schermiva; però con termini in cui il no fosse rigirato e allungato, quanto si poteva, e con proposte di sommissione, anche più apparente, ma meno costosa.
Il commissario se n'era andato, protestandogli che si verrebbe alla forza.
In marzo, il cardinal di Richelieu era poi calato infatti col re, alla testa d'un esercito: aveva chiesto il passo al duca di Savoia; s'era trattato; non s'era concluso; dopo uno scontro, col vantaggio de' Francesi, s'era trattato di nuovo, e concluso un accordo, nel quale il duca, tra l'altre cose, aveva stipulato che il Cordova leverebbe l'assedio da Casale; obbligandosi, se questo ricusasse, a unirsi co' Francesi, per invadere il ducato di Milano.
Don Gonzalo, parendogli anche d'uscirne con poco, aveva levato l'assedio da Casale, dov'era subito entrato un corpo di Francesi, a rinforzar la guarnigione.
Fu in questa occasione che l'Achillini scrisse al re Luigi quel suo famoso sonetto:
Sudate, o fochi, a preparar metalli:
e un altro, con cui l'esortava a portarsi subito alla liberazione di Terra santa.
Ma è un destino che i pareri de' poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate de' fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch'eran cose risolute prima.
Il cardinal di Richelieu aveva in vece stabilito di ritornare in Francia, per affari che a lui parevano più urgenti.
Girolamo Soranzo, inviato de' Veneziani, poté bene addurre ragioni per combattere quella risoluzione; che il re e il cardinale, dando retta alla sua prosa come ai versi dell'Achillini, se ne ritornarono col grosso dell'esercito, lasciando soltanto sei mila uomini in Susa, per mantenere il passo, e per caparra del trattato.
Mentre quell'esercito se n'andava da una parte, quello di Ferdinando s'avvicinava dall'altra; aveva invaso il paese de' Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel milanese.
Oltre tutti i danni che si potevan temere da un tal passaggio, eran venuti espressi avvisi al tribunale della sanità, che in quell'esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne c'era sempre qualche sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo avanti, avevan portata in Firenze.
Alessandro Tadino, uno de' conservatori della sanità (eran sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due medici), fu incaricato dal tribunale, come racconta lui stesso, in quel suo ragguaglio già citato (Pag.
16), di rappresentare al governatore lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese, se quella gente ci passava, per andare all'assedio di Mantova, come s'era sparsa la voce.
Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran smania d'acquistarsi un posto nella storia, la quale infatti non poté non occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si curò di registrare l'atto di lui più degno di memoria, la risposta che diede al Tadino in quella circostanza.
Rispose che non sapeva cosa farci; che i motivi d'interesse e di riputazione, per i quali s'era mosso quell'esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza.
Per riparar dunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comprar roba di nessuna sorte da' soldati ch'eran per passare; ma non fu possibile far intendere la necessità d'un tal ordine al presidente, " uomo ", dice il Tadino, " di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaia di persone, per il comercio, di questa gente, et loro robbe ".
Citiamo questo tratto per uno de' singolari di quel tempo: ché di certo, da che ci son tribunali di sanità, non accadde mai a un altro presidente d'un tal corpo, di fare un ragionamento simile; se ragionamento si può chiamare.
In quanto a don Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n'andò da Milano; e la partenza fu trista per lui, come lo era la cagione.
Veniva rimosso per i cattivi successi della guerra, della quale era stato il promotore e il capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta sotto il suo governo.
(Quello che aveva fatto per la peste, o non si sapeva, o certo nessuno se n'inquietava, come vedremo più avanti, fuorché il tribunale della sanità, e i due medici specialmente).
All'uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte, in mezzo a una guardia d'alabardieri, con due trombetti a cavallo davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan seguito, fu accolto con gran fischiate da ragazzi ch'eran radunati sulla piazza del duomo, e che gli andaron dietro alla rinfusa.
Entrata la comitiva nella strada che conduce a porta ticinese, di dove si doveva uscire, cominciò a trovarsi in mezzo a una folla di gente che, parte era lì ad aspettare, parte accorreva; tanto più che i trombetti, uomini di formalità, non cessaron di sonare, dal palazzo di corte, fino alla porta.
E nel processo che si fece poi su quel tumulto, uno di costoro, ripreso che, con quel suo trombettare, fosse stato cagione di farlo crescere, risponde: - caro signore, questa è la nostra professione; et se S.
E.
non hauesse hauuto a caro che noi hauessimo sonato, doveva comandarne che tacessimo -.
Ma don Gonzalo, o per ripugnanza a far cosa che mostrasse timore, o per timore di render con questo più ardita la moltitudine, o perché fosse in effetto un po' sbalordito, non dava nessun ordine.
La moltitudine, che le guardie avevan tentato in vano di respingere, precedeva, circondava, seguiva le carrozze, gridando: - la va via la carestia, va via il sangue de' poveri, - e peggio.
Quando furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar sassi, mattoni, torsoli, bucce d'ogni sorte, la munizione solita in somma di quelle spedizioni; una parte corse sulle mura, e di là fecero un'ultima scarica sulle carrozze che uscivano.
Subito dopo si sbandarono.
In luogo di don Gonzalo, fu mandato il marchese Ambrogio Spinola, il cui nome aveva già acquistata, nelle guerre di Fiandra, quella celebrità militare che ancor gli rimane.
Intanto l'esercito alemanno, sotto il comando supremo del conte Rambaldo di Collalto, altro condottiere italiano, di minore, ma non d'ultima fama, aveva ricevuto l'ordine definitivo di portarsi all'impresa di Mantova; e nel mese di settembre, entrò nel ducato di Milano.
La milizia, a que' tempi, era ancor composta in gran parte di soldati di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi insieme con essi.
Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della licenza.
Disciplina stabile e generale non ce n'era; né avrebbe potuto accordarsi così facilmente con l'autorità in parte indipendente de' vari condottieri.
Questi poi in particolare, né erano molto raffinatori in fatto di disciplina, né, anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a mantenerla; ché soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati contro un condottiere novatore che si fosse messo in testa d'abolire il saccheggio; o per lo meno, l'avrebbero lasciato solo a guardar le bandiere.
Oltre di ciò, siccome i principi, nel prendere, per dir così, ad affitto quelle bande, guardavan più ad aver gente in quantità, per assicurar l'imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, per il solito molto scarsa; così le paghe venivano per lo più tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de' paesi a cui la toccava, ne divenivano come un supplimento tacitamente convenuto.
È celebre, poco meno del nome di Wallenstein, quella sua sentenza: esser più facile mantenere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila.
E questo di cui parliamo era in gran parte composto della gente che, sotto il suo comando, aveva desolata la Germania, in quella guerra celebre tra le guerre, e per sé e per i suoi effetti, che ricevette poi il nome da' trent'anni della sua durata: e allora ne correva l'undecimo.
C'era anzi, condotto da un suo luogotenente, il suo proprio reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevan comandato sotto di lui, e ci si trovava più d'uno di quelli che, quattr'anni dopo, dovevano aiutare a fargli far quella cattiva fine che ognun sa.
Eran vent'otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l'Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.
Una gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi quel che avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri rimanevano, o per non abbandonar qualche ammalato, o per preservar la casa dall'incendio, o per tener d'occhio cose preziose nascoste, sotterrate; altri perché non avevan nulla da perdere, o anche facevan conto d'acquistare.
Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c'era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri.
Tutti i ritrovati, tutte l'astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni maggiori.
I soldati, gente ben più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto.
Finalmente se n'andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de' tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore d'una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava un'altra squadra.
Questi, non trovando più da far preda, con tanto più furore facevano sperpero del resto, bruciavan le botti votate da quelli, gli usci delle stanze dove non c'era più nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta più rabbia, s'intende, maltrattavan le persone; e così di peggio in peggio, per venti giorni: ché in tante squadre era diviso l'esercito.
Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que' demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco.
CAPITOLO XXIX
Qui, tra i poveri spaventati troviamo persone di nostra conoscenza.
Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell'esercito, del suo avvicinarsi, e de' suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento.
Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui: tali eran le voci che passavan di bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un consultare tumultuoso, un'esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un metter le mani ne' capelli.
Don Abbondio, risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili, e pericoli spaventosi.
- Come fare? - esclamava: - dove andare? - I monti, lasciando da parte la difficoltà del cammino, non eran sicuri: già s'era saputo che i lanzichenecchi vi s'arrampicavano come gatti, dove appena avessero indizio o speranza di far preda.
Il lago era grosso; tirava un gran vento: oltre di questo, la più parte de' barcaioli, temendo d'esser forzati a tragittar soldati o bagagli, s'eran rifugiati, con le loro barche, all'altra riva: alcune poche rimaste, eran poi partite stracariche di gente; e, travagliate dal peso e dalla burrasca, si diceva che pericolassero ogni momento.
Per portarsi lontano e fuori della strada che l'esercito aveva a percorrere, non era possibile trovar né un calesse, né un cavallo, né alcun altro mezzo: a piedi, don Abbondio non avrebbe potuto far troppo cammino, e temeva d'esser raggiunto per istrada.
Il territorio bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare in una tirata; ma si sapeva ch'era stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti, il qual doveva costeggiare il confine, per tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, né più né meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano.
Il pover'uomo correva, stralunato e mezzo fuor di sé, per la casa; andava dietro a Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma Perpetua, affaccendata a raccogliere il meglio di casa, e a nasconderlo in soffitta, o per i bugigattoli, passava di corsa, affannata, preoccupata, con le mani e con le braccia piene, e rispondeva: - or ora finisco di metter questa roba al sicuro, e poi faremo anche noi come fanno gli altri -.
Don Abbondio voleva trattenerla, e discuter con lei i vari partiti; ma lei, tra il da fare, e la fretta, e lo spavento che aveva anch'essa in corpo, e la rabbia che le faceva quello del padrone, era, in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse stata mai.
- S'ingegnano gli altri; c'ingegneremo anche noi.
Mi scusi, ma non è capace che d'impedire.
Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? Che vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche dare una mano, in questi momenti, in vece di venir tra' piedi a piangere e a impicciare -.
Con queste e simili risposte si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che fosse alla meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna.
Lasciato così solo, s'affacciava alla finestra, guardava, tendeva gli orecchi; e vedendo passar qualcheduno, gridava con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero: - fate questa carità al vostro povero curato di cercargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino.
Possibile che nessuno mi voglia aiutare! Oh che gente! Aspettatemi almeno, che possa venire anch'io con voi; aspettate d'esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch'io non sia abbandonato.
Volete lasciarmi in man de' cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l'hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio? Oh che gente! Oh che gente!
Ma a chi diceva queste cose? Ad uomini che passavano curvi sotto il peso della loro povera roba, pensando a quella che lasciavano in casa, spingendo le loro vaccherelle, conducendosi dietro i figli, carichi anch'essi quanto potevano, e le donne con in collo quelli che non potevan camminare.
Alcuni tiravan di lungo, senza rispondere né guardare in su; qualcheduno diceva: - eh messere! faccia anche lei come può; fortunato lei che non ha da pensare alla famiglia; s'aiuti, s'ingegni.
- Oh povero me! - esclamava don Abbondio: - oh che gente! che cuori! Non c'è carità: ognun pensa a sé; e a me nessuno vuol pensare -.
E tornava in cerca di Perpetua.
- Oh appunto! - gli disse questa: - e i danari?
- Come faremo?
- Li dia a me, che anderò a sotterrarli qui nell'orto di casa, insieme con le posate.
- Ma...
- Ma, ma; dia qui; tenga qualche soldo, per quel che può occorrere; e poi lasci fare a me.
Don Abbondio ubbidì, andò allo scrigno, cavò il suo tesoretto, e lo consegnò a Perpetua; la quale disse: - vo a sotterrarli nell'orto, appiè del fico -; e andò.
Ricomparve poco dopo, con un paniere dove c'era della munizione da bocca, e con una piccola gerla vota; e si mise in fretta a collocarvi nel fondo un po' di biancheria sua e del padrone, dicendo intanto: - il breviario almeno lo porterà lei.
- Ma dove andiamo?
- Dove vanno tutti gli altri? Prima di tutto, anderemo in istrada; e là sentiremo, e vedremo cosa convenga di fare.
In quel momento entrò Agnese con una gerletta sulle spalle, e in aria di chi viene a fare una proposta importante.
Agnese, risoluta anche lei di non aspettare ospiti di quella sorte, sola in casa, com'era, e con ancora un po' di quell'oro dell'innominato, era stata qualche tempo in forse del luogo dove ritirarsi.
Il residuo appunto di quegli scudi, che ne' mesi della fame le avevan fatto tanto pro, era la cagion principale della sua angustia e della irresoluzione, per aver essa sentito che, ne' paesi già invasi, quelli che avevan danari, s'eran trovati a più terribil condizione, esposti insieme alla violenza degli stranieri, e all'insidie de' paesani.
Era vero che, del bene piovutole, come si dice, dal cielo, non aveva fatta la confidenza a nessuno, fuorché a don Abbondio; dal quale andava, volta per volta, a farsi spicciolare uno scudo, lasciandogli sempre qualcosa da dare a qualcheduno più povero di lei.
Ma i danari nascosti, specialmente chi non è avvezzo a maneggiarne molti, tengono il possessore in un sospetto continuo del sospetto altrui.
Ora, mentre andava anch'essa rimpiattando qua e là alla meglio ciò che non poteva portar con sé, e pensava agli scudi, che teneva cuciti nel busto, si rammentò che, insieme con essi, l'innominato, le aveva mandate le più larghe offerte di servizi; si rammentò le cose che aveva sentito raccontare di quel suo castello posto in luogo così sicuro, e dove, a dispetto del padrone, non potevano arrivar se non gli uccelli; e si risolvette d'andare a chiedere un asilo lassù.
Pensò come potrebbe farsi conoscere da quel signore, e le venne subito in mente don Abbondio; il quale, dopo quel colloquio così fatto con l'arcivescovo, le aveva sempre fatto festa, e tanto più di cuore, che lo poteva senza compromettersi con nessuno, e che, essendo lontani i due giovani, era anche lontano il caso che a lui venisse fatta una richiesta, la quale avrebbe messa quella benevolenza a un gran cimento.
Suppose che, in un tal parapiglia, il pover'uomo doveva esser ancor più impicciato e più sbigottito di lei, e che il partito potrebbe parer molto buono anche a lui; e glielo veniva a proporre.
Trovatolo con Perpetua, fece la proposta a tutt'e due.
- Che ne dite, Perpetua? - domandò don Abbondio.
- Dico che è un'ispirazione del cielo, e che non bisogna perder tempo, e mettersi la strada tra le gambe.
- E poi...
- E poi, e poi, quando saremo là, ci troveremo ben contenti.
Quel signore, ora si sa che non vorrebbe altro che far servizi al prossimo; e sarà ben contento anche lui di ricoverarci.
Là, sul confine, e così per aria, soldati non ne verrà certamente.
E poi e poi, ci troveremo anche da mangiare; ché, su per i monti, finita questa poca grazia di Dio, - e così dicendo, l'accomodava nella gerla, sopra la biancheria, - ci saremmo trovati a mal partito.
- Convertito, è convertito davvero, eh?
- Che c'è da dubitarne ancora, dopo tutto quello che si sa, dopo quello che anche lei ha veduto?
- E se andassimo a metterci in gabbia?
- Che gabbia? Con tutti codesti suoi casi, mi scusi, non si verrebbe mai a una conclusione.
Brava Agnese! v'è proprio venuto un buon pensiero -.
E messa la gerla sur un tavolino, passò le braccia nelle cigne, e la prese sulle spalle.
- Non si potrebbe, - disse don Abbondio, - trovar qualche uomo che venisse con noi, per far la scorta al suo curato? Se incontrassimo qualche birbone, che pur troppo ce n'è in giro parecchi, che aiuto m'avete a dar voi altre?
- Un'altra, per perder tempo! - esclamò Perpetua.
- Andarlo a cercar ora l'uomo, che ognuno ha da pensare a' fatti suoi.
Animo! vada a prendere il breviario e il cappello; e andiamo.
Don Abbondio andò, tornò, di lì a un momento, col breviario sotto il braccio, col cappello in capo, e col suo bordone in mano; e uscirono tutt'e tre per un usciolino che metteva sulla piazzetta.
Perpetua richiuse, più per non trascurare una formalità, che per fede che avesse in quella toppa e in que' battenti, e mise la chiave in tasca.
Don Abbondio diede, nel passare, un'occhiata alla chiesa, e disse tra i denti: - al popolo tocca a custodirla, che serve a lui.
Se hanno un po' di cuore per la loro chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di loro.
Presero per i campi, zitti zitti, pensando ognuno a' casi suoi, e guardandosi intorno, specialmente don Abbondio, se apparisse qualche figura sospetta, qualcosa di straordinario.
Non s'incontrava nessuno: la gente era, o nelle case a guardarle, a far fagotto, a nascondere, o per le strade che conducevan direttamente all'alture.
Dopo aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappar qualche interiezione, don Abbondio cominciò a brontolare più di seguito.
Se la prendeva col duca di Nevers, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; con l'imperatore, che avrebbe dovuto aver giudizio per gli altri, lasciar correr l'acqua all'ingiù, non istar su tutti i puntigli: ché finalmente, lui sarebbe sempre stato l'imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio.
L'aveva principalmente col governatore, a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani i flagelli dal paese, ed era lui che ce gli attirava: tutto per il gusto di far la guerra.
- Bisognerebbe, - diceva, - che fossero qui que' signori a vedere, a provare, che gusto è.
Hanno da rendere un bel conto! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa.
- Lasci un po' star codesta gente; che già non son quelli che ci verranno a aiutare, - diceva Perpetua.
- Codeste, mi scusi, sono di quelle sue solite chiacchiere che non concludon nulla.
Piuttosto, quel che mi dà noia...
- Cosa c'è?
Perpetua, la quale, in quel pezzo di strada, aveva pensato con comodo al nascondimento fatto in furia, cominciò a lamentarsi d'aver dimenticata la tal cosa, d'aver mal riposta la tal altra; qui, d'aver lasciata una traccia che poteva guidare i ladroni, là...
- Brava! - disse don Abbondio, ormai sicuro della vita, quanto bastava per poter angustiarsi della roba: - brava! così avete fatto? Dove avevate la testa?
- Come! - esclamò Perpetua, fermandosi un momento su due piedi, e mettendo i pugni su' fianchi, in quella maniera che la gerla glielo permetteva: - come! verrà ora a farmi codesti rimproveri, quand'era lei che me la faceva andar via, la testa, in vece d'aiutarmi e farmi coraggio! Ho pensato forse più alla roba di casa che alla mia; non ho avuto chi mi desse una mano; ho dovuto far da Marta e Maddalena; se qualcosa anderà a male, non so cosa mi dire: ho fatto anche più del mio dovere.
Agnese interrompeva questi contrasti, entrando anche lei a parlare de' suoi guai: e non si rammaricava tanto dell'incomodo e del danno, quanto di vedere svanita la speranza di riabbracciar presto la sua Lucia; ché, se vi rammentate, era appunto quell'autunno sul quale avevan fatto assegnamento: né era da supporre che donna Prassede volesse venire a villeggiare da quelle parti, in tali circostanze: piuttosto ne sarebbe partita, se ci si fosse trovata, come facevan tutti gli altri villeggianti.
La vista de' luoghi rendeva ancor più vivi que' pensieri d'Agnese, e più pungente il suo dispiacere.
Usciti da' sentieri, avevan presa la strada pubblica, quella medesima per cui la povera donna era venuta riconducendo, per così poco tempo, a casa la figlia, dopo aver soggiornato con lei, in casa del sarto.
E già si vedeva il paese.
- Anderemo bene a salutar quella brava gente, - disse Agnese.
- E anche a riposare un pochino: ché di questa gerla io comincio ad averne abbastanza; e poi per mangiare un boccone, - disse Perpetua.
- Con patto di non perder tempo; ché non siamo in viaggio per divertimento, - concluse don Abbondio.
Furono ricevuti a braccia aperte, e veduti con gran piacere: rammentavano una buona azione.
Fate del bene a quanti più potete, dice qui il nostro autore; e vi seguirà tanto più spesso d'incontrar de' visi che vi mettano allegria.
Agnese, nell'abbracciar la buona donna, diede in un dirotto pianto, che le fu d'un gran sollievo; e rispondeva con singhiozzi alle domande che quella e il marito le facevan di Lucia.
- Sta meglio di noi, - disse don Abbondio: - è a Milano, fuor de' pericoli, lontana da queste diavolerie.
- Scappano, eh? il signor curato e la compagnia, - disse il sarto.
- Sicuro, - risposero a una voce il padrone e la serva.
- Li compatisco.
- Siamo incamminati, - disse don Abbondio; - al castello di ***.
- L'hanno pensata bene: sicuri come in chiesa.
- E qui, non hanno paura? - disse don Abbondio.
- Dirò, signor curato: propriamente in ospitazione, come lei sa che si dice, a parlar bene, qui non dovrebbero venire coloro: siam troppo fuori della loro strada, grazie al cielo.
Al più al più, qualche scappata, che Dio non voglia: ma in ogni caso c'è tempo; s'hanno a sentir prima altre notizie da' poveri paesi dove anderanno a fermarsi.
Si concluse di star lì un poco a prender fiato; e, siccome era l'ora del desinare, - signori, - disse il sarto: - devono onorare la mia povera tavola: alla buona: ci sarà un piatto di buon viso.
Perpetua disse d'aver con sé qualcosa da rompere il digiuno.
Dopo un po' di cerimonie da una parte e dall'altra, si venne a patti d'accozzar, come si dice, il pentolino, e di desinare in compagnia.
I ragazzi s'eran messi con gran festa intorno ad Agnese loro amica vecchia.
Presto, presto; il sarto ordinò a una bambina (quella che aveva portato quel boccone a Maria vedova: chi sa se ve ne rammentate più!), che andasse a diricciar quattro castagne primaticce, ch'eran riposte in un cantuccio: e le mettesse a arrostire.
- E tu, - disse a un ragazzo, - va' nell'orto, a dare una scossa al pesco, da farne cader quattro, e portale qui: tutte, ve'.
E tu, - disse a un altro, - va' sul fico, a coglierne quattro de' più maturi.
Già lo conoscete anche troppo quel mestiere -.
Lui andò a spillare una sua botticina; la donna a prendere un po' di biancheria da tavola.
Perpetua cavò fuori le provvisioni; s'apparecchiò: un tovagliolo e un piatto di maiolica al posto d'onore, per don Abbondio, con una posata che Perpetua aveva nella gerla.
Si misero a tavola, e desinarono, se non con grand'allegria, almeno con molta più che nessuno de' commensali si fosse aspettato d'averne in quella giornata.
- Cosa ne dice, signor curato, d'uno scombussolamento di questa sorte? - disse il sarto: - mi par di leggere la storia de' mori in Francia.
- Cosa devo dire? Mi doveva cascare addosso anche questa!
- Però, hanno scelto un buon ricovero, - riprese quello: - chi diavolo ha a andar lassù per forza? E troveranno compagnia: ché già s'è sentito che ci sia rifugiata molta gente, e che ce n'arrivi tuttora.
- Voglio sperare, - disse don Abbondio, - che saremo ben accolti.
Lo conosco quel bravo signore; e quando ho avuto un'altra volta l'onore di trovarmi con lui, fu così compito!
- E a me, - disse Agnese, - m'ha fatto dire dal signor monsignor illustrissimo, che, quando avessi bisogno di qualcosa, bastava che andassi da lui.
- Gran bella conversione! - riprese don Abbondio: - e si mantiene, n'è vero? si mantiene.
Il sarto si mise a parlare alla distesa della santa vita dell'innominato, e come, dall'essere il flagello de' contorni, n'era divenuto l'esempio e il benefattore.
- E quella gente che teneva con sé?...
tutta quella servitù?...
- riprese don Abbondio, il quale n'aveva più d'una volta sentito dir qualcosa, ma non era mai quieto abbastanza.
- Sfrattati la più parte, - rispose il sarto: - e quelli che son rimasti, han mutato sistema, ma come! In somma è diventato quel castello una Tebaide: lei le sa queste cose.
Entrò poi a parlar con Agnese della visita del cardinale.
- Grand'uomo! - diceva; - grand'uomo! Peccato che sia passato di qui così in furia, che non ho né anche potuto fargli un po' d'onore.
Quanto sarei contento di potergli parlare un'altra volta, un po' più con comodo.
Alzati poi da tavola, le fece osservare una stampa rappresentante il cardinale, che teneva attaccata a un battente d'uscio, in venerazione del personaggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, che non era somigliante; giacché lui aveva potuto esaminar da vicino e con comodo il cardinale in persona, in quella medesima stanza.
- L'hanno voluto far lui, con questa cosa qui? - disse Agnese.
- Nel vestito gli somiglia; ma...
- N'è vero che non somiglia? - disse il sarto: - lo dico sempre anch'io: noi, non c'ingannano, eh? ma, se non altro, c'è sotto il suo nome: è una memoria.
Don Abbondio faceva fretta; il sarto s'impegnò di trovare un baroccio che li conducesse appiè della salita; n'andò subito in cerca, e poco dopo, tornò a dire che arrivava.
Si voltò poi a don Abbondio, e gli disse: - signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da pover'uomo posso servirla: ché anch'io mi diverto un po' a leggere.
Cose non da par suo, libri in volgare; ma però...
- Grazie, grazie, - rispose don Abbondio: - son circostanze, che si ha appena testa d'occuparsi di quel che è di precetto.
Mentre si fanno e si ricusano ringraziamenti, e si barattano saluti e buoni augùri, inviti e promesse d'un'altra fermata al ritorno, il baroccio è arrivato davanti all'uscio di strada.
Ci metton le gerle, salgon su, e principiano, con un po' più d'agio e di tranquillità d'animo, la seconda metà del viaggio.
Il sarto aveva detto la verità a don Abbondio, intorno all'innominato.
Questo, dal giorno che l'abbiam lasciato, aveva sempre continuato a far ciò che allora s'era proposto, compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri, sempre del bene in somma, secondo l'occasione.
Quel coraggio che altre volte aveva mostrato nell'offendere e nel difendersi, ora lo mostrava nel non fare né l'una cosa né l'altra.
Andava sempre solo e senz'armi, disposto a tutto quello che gli potesse accadere dopo tante violenze commesse, e persuaso che sarebbe commetterne una nuova l'usar la forza in difesa di chi era debitore di tanto e a tanti; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un'ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione; e che dell'ingiuria, lui meno d'ogni altro, aveva diritto di farsi punitore.
Con tutto ciò, era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante braccia e il suo.
La rimembranza dell'antica ferocia, e la vista della mansuetudine presente, una, che doveva aver lasciati tanti desidèri di vendetta, l'altra, che la rendeva tanto agevole, cospiravano in vece a procacciargli e a mantenergli un'ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia.
Era quell'uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s'era umiliato da sé.
I rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà: gli offesi avevano ottenuta, contro ogni aspettativa, e senza pericolo, una soddisfazione che non avrebbero potuta promettersi dalla più fortunata vendetta, la soddisfazione di vedere un tal uomo pentito de' suoi torti, e partecipe, per dir così, della loro indegnazione.
Molti, il cui dispiacere più amaro e più intenso era stato per molt'anni, di non veder probabilità di trovarsi in nessun caso più forti di colui, per ricattarsi di qualche gran torto; incontrandolo poi solo, disarmato, e in atto di chi non farebbe resistenza, non s'eran sentiti altro impulso che di fargli dimostrazioni d'onore.
In quell'abbassamento volontario, la sua presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza che lui lo sapesse, un non so che di più alto e di più nobile; perché ci si vedeva, ancor meglio di prima, la noncuranza d'ogni pericolo.
Gli odi, anche i più rozzi e rabbiosi, si sentivano come legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica per l'uomo penitente e benefico.
Questa era tale, che spesso quell'uomo si trovava impicciato a schermirsi dalle dimostrazioni che gliene venivan fatte, e doveva star attento a non lasciar troppo trasparire nel volto e negli atti il sentimento interno di compunzione, a non abbassarsi troppo, per non esser troppo esaltato.
S'era scelto nella chiesa l'ultimo luogo; e non c'era pericolo che nessuno glielo prendesse: sarebbe stato come usurpare un posto d'onore.
Offender poi quell'uomo, o anche trattarlo con poco riguardo, poteva parere non tanto un'insolenza e una viltà, quanto un sacrilegio: e quelli stessi a cui questo sentimento degli altri poteva servir di ritegno, ne partecipavano anche loro, più o meno.
Queste medesime ed altre cagioni, allontanavano pure da lui le vendette della forza pubblica, e gli procuravano, anche da questa parte, la sicurezza della quale non si dava pensiero.
Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano state di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già illustre e infame, andava aggiunta la lode d'una condotta esemplare, la gloria della conversione.
I magistrati e i grandi s'eran rallegrati di questa, pubblicamente come il popolo; e sarebbe parso strano l'infierire contro chi era stato soggetto di tante congratulazioni.
Oltre di ciò, un potere occupato in una guerra perpetua, e spesso infelice, contro ribellioni vive e rinascenti, poteva trovarsi abbastanza contento d'esser liberato dalla più indomabile e molesta, per non andare a cercar altro: tanto più, che quella conversione produceva riparazioni che non era avvezzo ad ottenere, e nemmeno a richiedere.
Tormentare un santo, non pareva un buon mezzo di cancellar la vergogna di non aver saputo fare stare a dovere un facinoroso: e l'esempio che si fosse dato col punirlo, non avrebbe potuto aver altro effetto, che di stornare i suoi simili dal divenire inoffensivi.
Probabilmente anche la parte che il cardinal Federigo aveva avuta nella conversione, e il suo nome associato a quello del convertito, servivano a questo come d'uno scudo sacro.
E in quello stato di cose e d'idee, in quelle singolari relazioni dell'autorità spirituale e del poter civile, ch'eran così spesso alle prese tra loro, senza mirar mai a distruggersi, anzi mischiando sempre alle ostilità atti di riconoscimento e proteste di deferenza, e che, spesso pure, andavan di conserva a un fine comune, senza far mai pace, poté parere, in certa maniera, che la riconciliazione della prima portasse con sé l'oblivione, se non l'assoluzione del secondo, quando quella s'era sola adoprata a produrre un effetto voluto da tutt'e due.
Così quell'uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti.
È vero ch'eran anche molti a cui quella strepitosa mutazione dovette far tutt'altro che piacere: tanti esecutori stipendiati di delitti, tanti compagni nel delitto, che perdevano una così gran forza sulla quale erano avvezzi a fare assegnamento, che anche si trovavano a un tratto rotti i fili di trame ordite da un pezzo, nel momento forse che aspettavano la nuova dell'esecuzione.
Ma già abbiam veduto quali diversi sentimenti quella conversione facesse nascere negli sgherri che si trovavano allora con lui, e che la sentirono annunziare dalla sua bocca: stupore, dolore, abbattimento, stizza; un po' di tutto, fuorché disprezzo né odio.
Lo stesso accadde agli altri che teneva sparsi in diversi posti, lo stesso a' complici di più alto affare, quando riseppero la terribile nuova, e a tutti per le cagioni medesime.
Molt'odio, come trovo nel luogo, altrove citato, del Ripamonti, ne venne piuttosto al cardinal Federigo.
Riguardavan questo come uno che s'era mischiato ne' loro affari, per guastarli; l'innominato aveva voluto salvar l'anima sua: nessuno aveva ragion di lagnarsene.
Di mano in mano poi, la più parte degli sgherri di casa, non potendo accomodarsi alla nuova disciplina, né vedendo probabilità che s'avesse a mutare, se n'erano andati.
Chi avrà cercato altro padrone, e fors'anche tra gli antichi amici di quello che lasciava; chi si sarà arrolato in qualche terzo, come allora dicevano, di Spagna o di Mantova, o di qualche altra parte belligerante; chi si sarà messo alla strada, per far la guerra a minuto, e per conto suo; chi si sarà anche contentato d'andar birboneggiando in libertà.
E il simile avranno fatto quegli altri che stavano prima a' suoi ordini, in diversi paesi.
Di quelli poi che s'eran potuti avvezzare al nuovo tenor di vita, o che lo avevano abbracciato volentieri, i più, nativi della valle, eran tornati ai campi, o ai mestieri imparati nella prima età, e poi abbandonati; i forestieri eran rimasti nel castello, come servitori: gli uni e gli altri, quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né ricever torti, inermi e rispettati.
Ma quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi di paesi invasi o minacciati capitarono su al castello a chieder ricovero, l'innominato, tutto contento che quelle sue mura fossero cercate come asilo da' deboli, che per tanto tempo le avevan guardate da lontano come un enorme spauracchio, accolse quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia; fece sparger la voce, che la sua casa sarebbe aperta a chiunque ci si volesse rifugiare, e pensò subito a mettere, non solo questa, ma anche la valle, in istato di difesa, se mai lanzichenecchi o cappelletti volessero provarsi di venirci a far delle loro.
Radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e valenti, come i versi di Torti; fece loro una parlata sulla buona occasione che Dio dava loro e a lui, d'impiegarsi una volta in aiuto del prossimo, che avevan tanto oppresso e spaventato; e, con quel tono naturale di comando, ch'esprimeva la certezza dell'ubbidienza, annunziò loro in generale ciò che intendeva che facessero, e soprattutto prescrisse come dovessero contenersi, perché la gente che veniva a ricoverarsi lassù, non vedesse in loro che amici e difensori.
Fece poi portar giù da una stanza a tetto l'armi da fuoco, da taglio, in asta, che da un pezzo stavan lì ammucchiate, e gliele distribuì; fece dire a' suoi contadini e affittuari della valle, che chiunque si sentiva, venisse con armi al castello; a chi non n'aveva, ne diede; scelse alcuni, che fossero come ufiziali, e avessero altri sotto il loro comando; assegnò i posti all'entrature e in altri luoghi della valle, sulla salita, alle porte del castello; stabilì l'ore e i modi di dar la muta, come in un campo, o come già s'era costumato in quel castello medesimo, ne' tempi della sua vita disperata.
In un canto di quella stanza a tetto, c'erano in disparte l'armi che lui solo aveva portate; quella sua famosa carabina, moschetti, spade, spadoni, pistole, coltellacci, pugnali, per terra, o appoggiati al muro.
Nessuno de' servitori le toccò; ma concertarono di domandare al padrone quali voleva che gli fossero portate.
- Nessuna, - rispose; e, fosse voto, fosse proposito, restò sempre disarmato, alla testa di quella specie di guarnigione.
Nello stesso tempo, aveva messo in moto altr'uomini e donne di servizio, o suoi dipendenti, a preparar nel castello alloggio a quante più persone fosse possibile, a rizzar letti, a disporre sacconi e strapunti nelle stanze, nelle sale, che diventavan dormitòri.
E aveva dato ordine di far venire provvisioni abbondanti, per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe, e i quali infatti andavan crescendo di giorno in giorno.
Lui intanto non istava mai fermo; dentro e fuori del castello, su e giù per la salita, in giro per la valle, a stabilire, a rinforzare, a visitar posti, a vedere, a farsi vedere, a mettere e a tenere in regola, con le parole, con gli occhi, con la presenza.
In casa, per la strada, faceva accoglienza a quelli che arrivavano; e tutti, o lo avessero già visto, o lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i guai e i timori che gli avevano spinti lassù; e si voltavano ancora a guardarlo, quando, staccatosi da loro, seguitava la sua strada.
CAPITOLO XXX
Quantunque il concorso maggiore non fosse dalla parte per cui i nostri tre fuggitivi s'avvicinavano alla valle, ma all'imboccatura opposta, con tutto ciò, cominciarono a trovar compagni di viaggio e di sventura, che da traverse e viottole erano sboccati o sboccavano nella strada.
In circostanze simili, tutti quelli che s'incontrano, è come se si conoscessero.
Ogni volta che il baroccio aveva raggiunto qualche pedone, si barattavan domande e risposte.
Chi era scappato, come i nostri, senza aspettar l'arrivo de' soldati; chi aveva sentiti i tamburi o le trombe; chi gli aveva visti coloro, e li dipingeva come gli spaventati soglion dipingere.
- Siamo ancora fortunati, - dicevan le due donne: - ringraziamo il cielo.
Vada la roba; ma almeno siamo in salvo.
Ma don Abbondio non trovava che ci fosse tanto da rallegrarsi; anzi quel concorso, e più ancora il maggiore che sentiva esserci dall'altra parte, cominciava a dargli ombra.
- Oh che storia! - borbottava alle donne, in un momento che non c'era nessuno d'intorno: - oh che storia! Non capite, che radunarsi tanta gente in un luogo è lo stesso che volerci tirare i soldati per forza? Tutti nascondono, tutti portan via; nelle case non resta nulla; crederanno che lassù ci siano tesori.
Ci vengono sicuro: sicuro ci vengono.
Oh povero me! dove mi sono imbarcato!
- Oh! voglion far altro che venir lassù, - diceva Perpetua: - anche loro devono andar per la loro strada.
E poi, io ho sempre sentito dire che, ne' pericoli, è meglio essere in molti.
- In molti? in molti? - replicava don Abbondio: - povera donna! Non sapete che ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro? E poi, se volessero far delle pazzie, sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia.
Oh povero me! Era meno male andar su per i monti.
Che abbian tutti a voler cacciarsi in un luogo!...
Seccatori! - borbottava poi, a voce più bassa: - tutti qui: e via, e via, e via; l'uno dietro l'altro, come pecore senza ragione.
- A questo modo, - disse Agnese, - anche loro potrebbero dir lo stesso di noi.
- Chetatevi un po', - disse don Abbondio: - ché già le chiacchiere non servono a nulla.
Quel ch'è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci.
Sarà quel che vorrà la Provvidenza: il cielo ce la mandi buona.
Ma fu ben peggio quando, all'entrata della valle, vide un buon posto d'armati, parte sull'uscio d'una casa, e parte nelle stanze terrene: pareva una caserma.
Li guardò con la coda dell'occhio: non eran quelle facce che gli era toccato a vedere nell'altra dolorosa sua gita, o se ce n'era di quelle, erano ben cambiate; ma con tutto ciò, non si può dire che noia gli desse quella vista.
" Oh povero me! - pensava: - ecco se le fanno le pazzie.
Già non poteva essere altrimenti: me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità.
Ma cosa vuol fare? vuol far la guerra? vuol fare il re, lui? Oh povero me! In circostanze che si vorrebbe potersi nasconder sotto terra, e costui cerca ogni maniera di farsi scorgere, di dar nell'occhio; par che li voglia invitare! "
- Vede ora, signor padrone, - gli disse Perpetua, - se c'è della brava gente qui, che ci saprà difendere.
Vengano ora i soldati: qui non sono come que' nostri spauriti, che non son buoni che a menar le gambe.
- Zitta! - rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio: - zitta! che non sapete quel che vi dite.
Pregate il cielo che abbian fretta i soldati, o che non vengano a sapere le cose che si fanno qui, e che si mette all'ordine questo luogo come una fortezza.
Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze; perché tutto quel che trovano è per loro, e passano la gente a fil di spada.
Oh povero me! Basta, vedrò se ci sarà maniera di mettersi in salvo su per queste balze.
In una battaglia non mi ci colgono oh! in una battaglia non mi ci colgono.
- Se ha poi paura anche d'esser difeso e aiutato...
- ricominciava Perpetua; ma don Abbondio l'interruppe aspramente, sempre però a voce bassa: - zitta! E badate bene di non riportare questi discorsi.
Ricordatevi che qui bisogna far sempre viso ridente, e approvare tutto quello che si vede.
Alla Malanotte, trovarono un altro picchetto d'armati, ai quali don Abbondio fece una scappellata, dicendo intanto tra sé: " ohimè, ohimè: son proprio venuto in un accampamento! " Qui il baroccio si fermò; ne scesero; don Abbondio pagò in fretta, e licenziò il condottiere; e s'incamminò con le due compagne per la salita, senza far parola.
La vista di que' luoghi gli andava risvegliando nella fantasia, e mescolando all'angosce presenti, la rimembranza di quelle che vi aveva sofferte l'altra volta.
E Agnese, la quale non gli aveva mai visti que' luoghi, e se n'era fatta in mente una pittura fantastica che le si rappresentava ogni volta che pensava al viaggio spaventoso di Lucia, vedendoli ora quali eran davvero, provava come un nuovo e più vivo sentimento di quelle crudeli memorie.
- Oh signor curato! - esclamò: - a pensare che la mia povera Lucia è passata per questa strada!
- Volete stare zitta? donna senza giudizio! - le gridò in un orecchio don Abbondio: - son discorsi codesti da farsi qui? Non sapete che siamo in casa sua? Fortuna che ora nessun vi sente; ma se parlate in questa maniera...
- Oh! - disse Agnese: - ora che è santo...!
- State zitta, - le replicò don Abbondio: - credete voi che ai santi si possa dire, senza riguardo, tutto ciò che passa per la mente? Pensate piuttosto a ringraziarlo del bene che v'ha fatto.
- Oh! per questo, ci avevo già pensato: che crede che non le sappia un pochino le creanze?
- La creanza è di non dir le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è avvezzo a sentirne.
E intendetela bene tutt'e due, che qui non è luogo da far pettegolezzi, e da dir tutto quello che vi può venire in testa.
E casa d'un gran signore, già lo sapete: vedete che compagnia c'è d'intorno: ci vien gente di tutte le sorte; sicché, giudizio, se potete: pesar le parole, e soprattutto dirne poche, e solo quando c'è necessità: ché a stare zitti non si sbaglia mai.
- Fa peggio lei con tutte codeste sue...
- riprendeva Perpetua.
Ma: - zitta! - gridò sottovoce don Abbondio, e insieme si levò il cappello in fretta, e fece un profondo inchino: ché, guardando in su, aveva visto l'innominato scender verso di loro.
Anche questo aveva visto e riconosciuto don Abbondio; e affrettava il passo per andargli incontro.
- Signor curato, - disse, quando gli fu vicino, - avrei voluto offrirle la mia casa in miglior occasione; ma, a ogni modo, son ben contento di poterle esser utile in qualche cosa.
- Confidato nella gran bontà di vossignoria illustrissima, - rispose don Abbondio, - mi son preso l'ardire di venire, in queste triste circostanze, a incomodarla: e, come vede vossignoria illustrissima, mi son preso anche la libertà di menar compagnia.
Questa è la mia governante...
- Benvenuta, - disse l'innominato.
- E questa, - continuò don Abbondio, - è una donna a cui vossignoria ha già fatto del bene: la madre di quella...
di quella...
- Di Lucia, - disse Agnese.
- Di Lucia! - esclamò l'innominato, voltandosi, con la testa bassa, ad Agnese.
- Del bene, io! Dio immortale! Voi, mi fate del bene, a venir qui...
da me...
in questa casa.
Siate la benvenuta.
Voi ci portate la benedizione.
- Oh giusto! - disse Agnese: - vengo a incomodarla.
Anzi, - continuò, avvicinandosegli all'orecchio, - ho anche a ringraziarla...
L'innominato troncò quelle parole, domandando premurosamente le nuove di Lucia; e sapute che l'ebbe, si voltò per accompagnare al castello i nuovi ospiti, come fece, malgrado la loro resistenza cerimoniosa.
Agnese diede al curato un'occhiata che voleva dire: veda un poco se c'è bisogno che lei entri di mezzo tra noi due a dar pareri.
- Sono arrivati alla sua parrocchia? - gli domandò l'innominato.
- No, signore, che non gli ho voluti aspettare que' diavoli, - rispose don Abbondio.
- Sa il cielo se avrei potuto uscir vivo dalle loro mani, e venire a incomodare vossignoria illustrissima.
- Bene, si faccia coraggio, - riprese l'innominato: - ché ora è in sicuro.
Quassù non verranno; e se si volessero provare, siam pronti a riceverli.
- Speriamo che non vengano, - disse don Abbondio.
- E sento, - soggiunse, accennando col dito i monti che chiudevano la valle di rimpetto, - sento che, anche da quella parte, giri un'altra masnada di gente, ma...
ma...
- E vero, - rispose l'innominato: - ma non dubiti, che siam pronti anche per loro.
" Tra due fuochi, - diceva tra sé don Abbondio: - proprio tra due fuochi.
Dove mi son lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c'è a questo mondo! "
Entrati nel castello, il signore fece condurre Agnese e Perpetua in una stanza del quartiere assegnato alle donne, che occupava tre lati del secondo cortile, nella parte posteriore dell'edifizio situata sur un masso sporgente e isolato, a cavaliere a un precipizio.
Gli uomini alloggiavano ne' lati dell'altro cortile a destra e a sinistra, e in quello che rispondeva sulla spianata.
Il corpo di mezzo, che separava i due cortili, e dava passaggio dall'uno all'altro, per un vasto andito di rimpetto alla porta principale, era in parte occupato dalle provvisioni, e in parte doveva servir di deposito per la roba che i rifugiati volessero mettere in salvo lassù.
Nel quartiere degli uomini, c'erano alcune camere destinate agli ecclesiastici che potessero capitare.
L'innominato v'accompagnò in persona don Abbondio, che fu il primo a prenderne il possesso.
Ventitre o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi nel castello, in mezzo a un movimento continuo, in una gran compagnia, e che ne' primi tempi, andò sempre crescendo; ma senza che accadesse nulla di straordinario.
Non passò forse giorno, che non si desse all'armi.
Vengon lanzichenecchi di qua; si son veduti cappelletti di là.
A ogni avviso, l'innominato mandava uomini a esplorare; e, se faceva bisogno, prendeva con sé della gente che teneva sempre pronta a ciò, e andava con essa fuor della valle, dalla parte dov'era indicato il pericolo.
Ed era cosa singolare, vedere una schiera d'uomini armati da capo a piedi, e schierati come una truppa, condotti da un uomo senz'armi.
Le più volte non erano che foraggieri e saccheggiatori sbandati, che se n'andavano prima d'esser sorpresi.
Ma una volta, cacciando alcuni di costoro, per insegnar loro a non venir più da quelle parti, l'innominato ricevette avviso che un paesetto vicino era invaso e messo a sacco.
Erano lanzichenecchi di vari corpi che, rimasti indietro per rubare, s'eran riuniti, e andavano a gettarsi all'improvviso sulle terre vicine a quelle dove alloggiava l'esercito; spogliavano gli abitanti, e gliene facevan di tutte le sorte.
L'innominato fece un breve discorso a' suoi uomini, e li condusse al paesetto.
Arrivarono inaspettati.
I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il saccheggio a mezzo, e se n'andarono in fretta, senz'aspettarsi l'uno con l'altro, dalla parte dond'eran venuti.
L'innominato gl'inseguì per un pezzo di strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne ritornò.
E ripassando nel paesetto salvato, non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero.
Nel castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di condizione, di costumi, di sesso e d'età, non nacque mai alcun disordine d'importanza.
L'innominato aveva messe guardie in diversi luoghi, le quali tutte invigilavano che non seguisse nessun inconveniente, con quella premura che ognuno metteva nelle cose di cui s'avesse a rendergli conto.
Aveva poi pregati gli ecclesiastici, e gli uomini più autorevoli che si trovavan tra i ricoverati, d'andare in giro e d'invigilare anche loro.
E più spesso che poteva, girava anche lui, e si faceva veder per tutto; ma, anche in sua assenza, il ricordarsi di chi s'era in casa, serviva di freno a chi ne potesse aver bisogno.
E, del resto, era tutta gente scappata, e quindi inclinata in generale alla quiete: i pensieri della casa e della roba, per alcuni anche di congiunti o d'amici rimasti nel pericolo, le nuove che venivan di fuori, abbattendo gli animi, mantenevano e accrescevano sempre più quella disposizione.
C'era però anche de' capi scarichi, degli uomini d'una tempra più salda e d'un coraggio più verde, che cercavano di passar que' giorni in allegria.
Avevano abbandonate le loro case, per non esser forti abbastanza da difenderle; ma non trovavan gusto a piangere e a sospirare sur una cosa che non c'era rimedio, né a figurarsi e a contemplar con la fantasia il guasto che vedrebbero pur troppo co' loro occhi.
Famiglie amiche erano andate di conserva, o s'eran ritrovate lassù, s'eran fatte amicizie nuove; e la folla s'era divisa in crocchi, secondo gli umori e l'abitudini.
Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù nella valle, dove in quella circostanza, s'eran rizzate in fretta osterie: in alcune, i bocconi erano alternati co' sospiri, e non era lecito parlar d'altro che di sciagure: in altre, non si rammentavan le sciagure, se non per dire che non bisognava pensarci.
A chi non poteva o non voleva farsi le spese, si distribuiva nel castello pane, minestra e vino: oltre alcune tavole ch'eran servite ogni giorno, per quelli che il padrone vi aveva espressamente invitati; e i nostri eran di questo numero.
Agnese e Perpetua, per non mangiare il pane a ufo, avevan voluto essere impiegate ne' servizi che richiedeva una così grande ospitalità; e in questo spendevano una buona parte della giornata; il resto nel chiacchierare con certe amiche che s'eran fatte, o col povero don Abbondio.
Questo non aveva nulla da fare, ma non s'annoiava però; la paura gli teneva compagnia.
La paura proprio d'un assalto, credo che la gli fosse passata, o se pur gliene rimaneva, era quella che gli dava meno fastidio; perché, pensandoci appena appena, doveva capire quanto poco fosse fondata.
Ma l'immagine del paese circonvicino inondato, da una parte e dall'altra, da soldatacci, le armi e gli armati che vedeva sempre in giro, un castello, quel castello, il pensiero di tante cose che potevan nascere ogni momento in tali circostanze, tutto gli teneva addosso uno spavento indistinto, generale, continuo; lasciando stare il rodìo che gli dava il pensare alla sua povera casa.
In tutto il tempo che stette in quell'asilo, non se ne discostò mai quanto un tiro di schioppo, né mai mise piede sulla discesa: l'unica sua passeggiata era d'uscire sulla spianata, e d'andare, quando da una parte e quando dall'altra del castello, a guardar giù per le balze e per i burroni, per istudiare se ci fosse qualche passo un po' praticabile, qualche po' di sentiero, per dove andar cercando un nascondiglio in caso d'un serra serra.
A tutti i suoi compagni di rifugio faceva gran riverenze o gran saluti, ma bazzicava con pochissimi: la sua conversazione più frequente era con le due donne, come abbiam detto; con loro andava a fare i suoi sfoghi, a rischio che talvolta gli fosse dato sulla voce da Perpetua, e che lo svergognasse anche Agnese.
A tavola poi, dove stava poco e parlava pochissimo, sentiva le nuove del terribile passaggio, le quali arrivavano ogni giorno, o di paese in paese e di bocca in bocca, o portate lassù da qualcheduno, che da principio aveva voluto restarsene a casa, e scappava in ultimo, senza aver potuto salvar nulla, e a un bisogno anche malconcio: e ogni giorno c'era qualche nuova storia di sciagura.
Alcuni, novellisti di professione, raccoglievan diligentemente tutte le voci, abburattavan tutte le relazioni, e ne davan poi il fiore agli altri.
Si disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fosse peggio la fanteria o la cavalleria; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di condottieri; d'alcuni si raccontavan l'imprese passate, si specificavano le stazioni e le marce: quel giorno, il tale reggimento si spandeva ne' tali paesi, domani anderebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva il diavolo e peggio.
Sopra tutto si cercava d'aver informazione, e si teneva il conto de' reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perché quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente del paese.
Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l'ultimo.
Lo squadron volante de' veneziani finì d'allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero.
Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un temporale d'autunno, si vede dai palchi fronzuti d'un grand'albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s'erano riparati.
Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene; e ciò per volere di don Abbondio, il quale temeva, se si tornasse subito a casa, di trovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro sbrancati, in coda all'esercito.
Perpetua ebbe un bel dire che, quanto più s'indugiava, tanto più si dava agio ai birboni del paese d'entrare in casa a portar via il resto; quando si trattava d'assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la vinceva; meno che l'imminenza del pericolo non gli avesse fatto perdere affatto la testa.
Il giorno fissato per la partenza, l'innominato fece trovar pronta alla Malanotte una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per Agnese.
E tiratala in disparte, le fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa; quantunque, battendo la mano sul petto, essa andasse ripetendo che ne aveva lì ancora de' vecchi.
- Quando vedrete quella vostra buona, povera Lucia...
- le disse in ultimo: - già son certo che prega per me, poiché le ho fatto tanto male: ditele adunque ch'io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta benedizione per lei.
Volle poi accompagnar tutti e tre gli ospiti, fino alla carrozza.
I ringraziamenti umili e sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua, se gl'immagini il lettore.
Partirono; fecero, secondo il fissato, una fermatina, ma senza neppur mettersi a sedere, nella casa del sarto, dove sentirono raccontar cento cose del passaggio: la solita storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di sporchizie: ma lì, per buona sorte, non s'eran visti lanzichenecchi.
- Ah signor curato! - disse il sarto, dandogli di braccio a rimontare in carrozza: - s'ha da far de' libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte.
Dopo un'altra po' di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co' loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via.
Ne' paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d'ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un'aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l'elemosina.
Con queste immagini, ora davanti agli occhi, ora nella mente, e con l'aspettativa di trovare altrettanto a casa loro, ci arrivarono; e trovarono infatti quello che s'aspettavano.
Agnese fece posare i fagotti in un canto del cortiletto, ch'era rimasto il luogo più pulito della casa; si mise poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare quella poca roba che le avevan lasciata; fece venire un legnaiolo e un fabbro, per riparare i guasti più grossi, e guardando poi, capo per capo, la biancheria regalata, e contando que' nuovi ruspi, diceva tra sé: " son caduta in piedi; sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio dire d'esser caduta in piedi ".
Don Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell'andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li respinge indietro; con la mano al naso, vanno all'uscio di cucina; entrano in punta di piedi, studiando dove metterli, per iscansar più che possono la porcheria che copre il pavimento; e dànno un'occhiata in giro.
Non c'era nulla d'intero; ma avanzi e frammenti di quel che c'era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de' calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato.
Solo nel focolare si potevan vedere i segni d'un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo.
C'era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d'essere stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d'armadio, una panca di letto, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio.
Il resto era cenere e carboni; e con que' carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole, di farne de' preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti.
- Ah porci! - esclamò Perpetua.
- Ah baroni! - esclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altr'uscio che metteva nell'orto.
Respirarono; andaron diviato al fico; ma già prima d'arrivarci, videro la terra smossa, e misero un grido tutt'e due insieme; arrivati, trovarono effettivamente, in vece del morto, la buca aperta.
Qui nacquero de' guai: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase zitta: dopo ch'ebbero ben gridato, tutt'e due col braccio teso, e con l'indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando.
E fate conto che per tutto trovarono a un di presso la medesima cosa.
Penarono non so quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in que' giorni, era difficile trovar aiuto; e non so quanto dovettero stare come accampati, accomodandosi alla meglio, o alla peggio, e rifacendo a poco a poco usci, mobili, utensili, con danari prestati da Agnese.
Per giunta poi, quel disastro fu una semenza d'altre questioni molto noiose; perché Perpetua, a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper di certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio de' soldati, erano in vece sane e salve in casa di gente del paese; e tempestava il padrone che si facesse sentire, e richiedesse il suo.
Tasto più odioso non si poteva toccare per don Abbondio; giacché la sua roba era in mano di birboni, cioè di quella specie di persone con cui gli premeva più di stare in pace.
- Ma se non ne voglio saper nulla di queste cose, - diceva.
- Quante volte ve lo devo ripetere, che quel che è andato è andato? Ho da esser messo anche in croce, perché m'è stata spogliata la casa?
- Se lo dico, - rispondeva Perpetua, - che lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa.
Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare.
- Ma vedete se codesti sono spropositi da dirsi! - replicava don Abbondio: - ma volete stare zitta?
Perpetua si chetava, ma non subito subito; e prendeva pretesto da tutto per riprincipiare.
Tanto che il pover'uomo s'era ridotto a non lamentarsi più, quando trovava mancante qualche cosa, nel momento che ne avrebbe avuto bisogno; perché, più d'una volta, gli era toccato a sentirsi dire: - vada a chiederlo al tale che l'ha, e non l'avrebbe tenuto fino a quest'ora, se non avesse che fare con un buon uomo.
Un'altra e più viva inquietudine gli dava il sentire che giornalmente continuavano a passar soldati alla spicciolata, come aveva troppo bene congetturato; onde stava sempre in sospetto di vedersene capitar qualcheduno o anche una compagnia sull'uscio, che aveva fatto raccomodare in fretta per la prima cosa, e che teneva chiuso con gran cura; ma, per grazia del cielo, ciò non avvenne mai.
Né però questi terrori erano ancora cessati, che un nuovo ne sopraggiunse.
Ma qui lasceremo da parte il pover'uomo: si tratta ben d'altro che di sue apprensioni private, che de' guai d'alcuni paesi, che d'un disastro passeggiero.
CAPITOLO XXXI
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d'Italia.
Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s'intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni.
E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.
Delle molte relazioni contemporanee, non ce n'è alcuna che basti da sé a darne un'idea un po' distinta e ordinata; come non ce n'è alcuna che non possa aiutare a formarla.
In ognuna di queste relazioni, senza eccettuarne quella del Ripamonti (Josephi Ripamontii, canonici scalensis, chronistae urbis Mediolani, De peste quae fuit anno 1630, Libri V.
Mediolani, 1640, apud Malatestas.), la quale le supera tutte, per la quantità e per la scelta de' fatti, e ancor più per il modo d'osservarli, in ognuna sono omessi fatti essenziali, che son registrati in altre; in ognuna ci sono errori materiali, che si posson riconoscere e rettificare con l'aiuto di qualche altra, o di que' pochi atti della pubblica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell'altra s'eran visti, come in aria, gli effetti.
In tutte poi regna una strana confusione di tempi e di cose; è un continuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza disegno ne' particolari: carattere, del resto, de' più comuni e de' più apparenti ne' libri di quel tempo, principalmente in quelli scritti in lingua volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d'Europa, i dotti lo sapranno, noi lo sospettiamo.
Nessuno scrittore d'epoca posteriore s'è proposto d'esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l'idea che se ne ha generalmente, dev'essere, di necessità, molto incerta, e un po' confusa: un'idea indeterminata di gran mali e di grand'errori (e per verità ci fu dell'uno e dell'altro, al di là di quel che si possa immaginare), un'idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d'effetto, di corso, di progressione.
Noi, esaminando e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d'una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto.
Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria.
Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un'idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell'opere di quel genere, comunque concepite e condotte.
Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli nell'ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d'essi, d'osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro.
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall'esercito, s'era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada.
Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de' viventi.
C'era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que' pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatre anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo.
Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d'un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d'un uomo, perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de' mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que' guai, perché in tutti l'ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d'una calamità per tutti, far per quest'uomo come un'impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.
Il protofisico Lodovico Settala, ché, non solo aveva veduta quella peste, ma n'era stato uno de' più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de' più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all'erta e sull'informazioni, riferì, il 20 d'ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l'ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio.
Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino (Pag.
24.).
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano.
Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati.
Tutt'e due, " o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste " (Tadino, ivi.); ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell'emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de' disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni.
Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale.
Quando questi giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca.
Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d'Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all'entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi: " et ci parevano, - dice il Tadino, - tante creature seluatiche, portando in mano chi l'herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d'aceto ".
S'informarono del numero de' morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza.
Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d'ottobre, " si dispose ", dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da' paesi dove il contagio s'era manifestato; " et mentre si compilaua la grida ", ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a' gabellieri.
Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d'esporgli lo stato delle cose.
V'andarono, e riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas.
Così il Ripamonti, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell'esito.
Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d'un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla.
Era quest'uomo, come già s'è detto, il celebre Ambrogio Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d'affanno e di struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d'ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva.
La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l'altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l'attività, la costanza: poteva anche cercare cos'abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa.
Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un'altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo.
All'arrivo di quelle nuove de' paesi che n'erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d'accordo, è nell'attestare che non ne fu nulla.
La penuria dell'anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d'animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo.
La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de' decurioni, in ogni magistrato.
Trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a' parrochi, tra le altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell'importanza e dell'obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette (Vita di Federigo Borromeo, compilata da Francesco Rivola.
Milano, 1666, pag.
582.): e anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità.
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente.
E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l'urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell'imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri.
Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell'operare, anzi nell'informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori.
Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d'ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29.
La peste era già entrata in Milano.
Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell'osservare i princìpi d'una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all'incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que' primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell'esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.
L'uno e l'altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d'accordo, neppur sul nome.
Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna.
Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d'ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare né all'uno né all'altro.
Tutt'e due l'epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate.
Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale de' decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l'informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d'ogn'altro, essere informato d'un fatto di questo genere.
Del resto, dal riscontro d'altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa.
Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s'ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un'ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch'era infatti; il quarto giorno morì.
Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati.
Due serventi che l'avevano avuto in cura, e un buon frate che l'aveva assistito, caddero anch'essi ammalati in pochi giorni, tutt'e tre di peste.
Il dubbio che in quel luogo s'era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più.
Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare.
Il primo a cui s'attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto.
Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d'ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s'ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio.
Nella città, quello che già c'era stato disseminato da costoro, da' loro panni, da' loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c'entrava di nuovo, per l'imperfezion degli editti, per la trascuranza nell'eseguirli, e per la destrezza nell'eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell'anno, e ne' primi mesi del susseguente 1630.
Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s'attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de' casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento.
Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de' pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso.
Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti.
Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s'ebbero, con danari, falsi attestati.
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l'ira e la mormorazione del pubblico, " della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe ", dice il Tadino; persuasi, com'eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto.
L'odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi.
E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d'affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d'incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d'essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti.
Di quell'odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza.
I più discreti li tacciavano di credulità e d'ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento.
Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all'università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d'altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo.
Alla riputazione della scienza s'aggiungeva quella della vita, e all'ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri.
E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover'uomo partecipava de' pregiudizi più comuni e più funesti de' suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l'autorità acquistata in altre maniere.
Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l'opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall'animosità e dagl'insulti di quella parte di esso che corre più facilmente da' giudizi alle dimostrazioni e ai fatti.
Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici.
La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d'amici, che per sorte era vicina.
Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei (Storia di Milano del Conte Pietro Verri; Milano, 1825, Tom.
4, pag.
155.), allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.
Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia.
I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per mezzo del contatto.
I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po' più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale.
Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all'erario regio.
Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore, ch'era andato di nuovo a metter l'assedio a quel povero Casale; faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica dagli altri paesi; perché trovassero il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori.
I decurioni cercavano di far danari per via d'imprestiti, d'imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po' alla Sanità, un po' a' poveri; un po' di grano compravano: supplivano a una parte del bisogno.
E le grandi angosce non erano ancor venute.
Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un'altra ardua impresa quella d'assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da' primi momenti, c'era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de' serventi.
Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de' soggetti abili a governare quel regno desolato.
Il commissario propose loro, per principale, un padre Felice Casati, uomo d'età matura, il quale godeva una gran fama di carità, d'attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d'animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come d'aspetto.
Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto.
Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gl'impiegati d'ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità.
Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò crescendo, v'accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse.
Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando un'asta, talvolta non armato che di cilizio; animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime.
Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima.
I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza.
Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d'una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò.
Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e dell'abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest'uomini sostenere un tal carico così bravamente.
E fu bello lo stesso averlo accettato, senz'altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz'altro fine che di servire, senz'altra speranza in questo mondo, che d'una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro offerto, solo perché era difficile e pericoloso, e si supponeva che il vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que' momenti, essi lo dovevano avere.
E perciò l'opera e il cuore di que' frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa.
" Che se questi Padri iui non si ritrouauano, - dice il Tadino, - al sicuro tutta la Città annichilata si trouaua; puoiché fu cosa miracolosa l'hauer questi Padri fatto in così puoco spatio di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto agiutto, o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano mantenuto nel Lazeretto tante migliaia de poueri ".
Le persone ricoverate in quel luogo, durante i sette mesi che il padre Felice n'ebbe il governo, furono circa cinquantamila, secondo il Ripamonti; il quale dice con ragione, che d'un uomo tale avrebbe dovuto ugualmente parlare, se in vece di descriver le miserie d'una città, avesse dovuto raccontar le cose che posson farle onore.
Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra' poveri, cominciò a toccar persone più conosciute.
E tra queste, come allora fu il più notato, così merita anche adesso un'espressa menzione il protofisico Settala.
Avranno almen confessato che il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio.
Lui e uno de' figliuoli n'usciron salvi; il resto morì.
" Questi casi, - dice il Tadino, - occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia ".
Ma l'uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della caparbietà convinta, sono alle volte tali da far desiderare che fosse rimasta ferma e invitta, fino all'ultimo, contro la ragione e l'evidenza: e questa fu bene una di quelle volte.
Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que' mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand'inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo.
Per disgrazia, ce n'era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d'Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe.
Già cose tali, o somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi.
S'aggiunga che, fin dall'anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch'erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all'erta, se mai coloro fossero capitati a Milano.
Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; né, per allora, pare che ci si badasse più che tanto.
Però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell'avviso poté servir di conferma al sospetto indeterminato d'una frode scellerata; poté anche essere la prima occasione di farlo nascere.
Ma due fatti, l'uno di cieca e indisciplinata paura, l'altro di non so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d'un attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d'un attentato positivo, e d'una trama reale.
Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a' due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l'assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell'ufizio, avendo visitato l'assito, le panche, le pile dell'acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l'ignorante sospetto d'un attentato venefico, avesse, per compiacere all'immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all'assito.
Quel volume di roba accatastata produsse una grand'impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento.
Si disse e si credette generalmente che fossero state unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin le corde delle campane.
Né si disse soltanto allora: tutte le memorie de' contemporanei che parlano di quel fatto (alcune scritte molt'anni dopo), ne parlano con ugual sicurezza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe indovinarla, se non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al governatore, che si conserva nell'archivio detto di san Fedele; dalla quale l'abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiam messe in corsivo.
La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de' cittadini.
In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne.
O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d'accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole l'attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d'alcuni: fatto, del resto, che non sarebbe stato, né il primo né l'ultimo di tal genere.
Il Ripamonti, che spesso, su questo particolare dell'unzioni, deride, e più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma d'aver veduto quell'impiastramento, e lo descrive (...et nos quoque ivimus visere.
Maculae erant sparsim inaequaliterque manantes, veluti si quis haustam spongia saniem adspersisset, impressissetve parieti et ianuae passim ostiaque aedium eadem adspergine contaminata cernebantur.
Pag.
75.).
Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontan la cosa ne' medesimi termini; parlan di visite, d'esperimenti fatti con quella materia sopra de' cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, esser loro opinione, che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d'animo bastante per non vedere ciò che non ci fosse stato.
L'altre memorie contemporanee, raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime, opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; nessuna parla di nessuno che la negasse; e n'avrebbero parlato certamente, se ce ne fosse stati; se non altro, per chiamarli stravaganti.
Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d'un celebre delirio; perche, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l'apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle.
La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano.
I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia.
Si fecero interrogatòri, esami d'arrestati, d'arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d'esaminare, d'intendere.
Il tribunale della sanità pubblicò una grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in chiaro l'autore o gli autori del fatto.
Ad ogni modo non parendoci conueniente, dicono que' signori nella citata lettera, che porta la data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19, giorno segnato nella grida stampata, che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio del fatto, habbiamo oggi publicata grida, etc.
Nella grida stessa però, nessun cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura, che partecipavano al governatore: silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più biasimevole, quanto più poteva esser perniciosa.
Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato.
Coloro che credevano esser quella un'unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl'insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell'altro gentiluomo milanese.
Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l'attribuivano a scolari, a signori, a ufiziali che s'annoiassero all'assedio di Casale.
Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s'andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblìo.
C'era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse.
E perché, tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, " si diceua " (gli ultimi argomenti d'una opinione battuta dall'evidenza son sempre curiosi a sapersi), " si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti " (Tadino, pag.
93.).
Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo.
In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San Gregorio, fuori di Porta Orientale, a pregar per i morti dell'altro contagio, ch'eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse.
Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un'intera famiglia.
Nell'ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza.
Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva.
La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo.
Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo.
Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome.
Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d'esser molto versato nella storia dell'idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso.
Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d'una tal sorte, e d'una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d'un tal genere.
Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d'osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire.
CAPITOLO XXXII
Divenendo sempre più difficile il supplire all'esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de' decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore.
E, il 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il governatore, marchese d'Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l'imposizioni fossero sospese, come s'era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati.
Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que' signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d'ingegnarsi in ogni maniera.
In quanto alle richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren.
E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse.
Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo; ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni.
Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il governatore trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer medesimo, avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra.
La quale, sia detto qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de' soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s'è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa.
Bisogna però dire che fu obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato, della rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla altre terre, della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e segretissimo, col quale il duca di Savoia suddetto cedé Pinerolo alla Francia: trattato eseguito qualche tempo dopo, sott'altri pretesti, e a furia di furberie.
Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un'altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo.
Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni.
Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo (Memoria delle cose notabili successe in Milano intorno al mal contaggioso l'anno 1630, ec.
raccolte da D.
Pio la Croce, Milano, 1730.
È tratta evidentemente da scritto inedito d'autore vissuto al tempo della pestilenza: se pure non è una semplice edizione, piuttosto che una nuova compilazione.).
Temeva di più, che, se pur c'era di questi untori, la processione fosse un'occasion troppo comoda al delitto: se non ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale (Si unguenta scelerata et unctores in urbe essent...
Si non essent...
Certiusque adeo malum.
Ripamonti, pag 185.).
Ché il sospetto sopito dell'unzioni s'era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima.
S'era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d'edifizi pubblici, usci di case, martelli.
Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l'effetto del vedere.
Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de' mali, irritati dall'insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d'ingegno (P.
Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d'economia politica: parte moderna, tom.
17, pag.
203.), le piace più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi.
Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo.
Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d'atroce.
Vi s'aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà.
Se gli effetti non s'eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l'arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell'infernale proposito.
Ormai chi avesse sostenuto ancora ch'era stata una burla, chi avesse negata l'esistenza d'una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal vero l'attenzion del pubblico, di complice, d'untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo.
Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all'erta; ogni atto poteva dar gelosia.
E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.
Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d'averli scelti, non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell'uno e dell'altro era stato pur troppo testimonio.
Nella chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca.
- Quel vecchio unge le panche! - gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto.
La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture.
" Io lo vidi mentre lo strascinavan così, - dice il Ripamonti: - e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento ".
L'altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto.
Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l'Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s'erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente.
Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d'occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch'era peggio, di francesi.
Come per accertarsi ch'era marmo, stesero essi la mano a toccare.
Bastò.
Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri.
Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.
Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s'era propagata come il contagio.
Il viandante che fosse incontrato da de' contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d'un ragazzo, si sonava a martello, s'accorreva; gl'infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione.
Così il Ripamonti medesimo.
E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento.
Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente.
Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno d'un uomo, contro la forza de' tempi, e l'insistenza di molti.
In quello stato d'opinioni, con l'idea del pericolo, confusa com'era allora, contrastata, ben lontana dall'evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri.
Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po' di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano.
Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l'errore all'intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que' pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de' quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere.
Al replicar dell'istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov'eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull'altar maggiore del duomo.
Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né opposizione di sorte alcuna.
Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore.
Prescrisse più strette regole per l'entrata delle persone in città; e, per assicurarne l'esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d'escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d'uno scrittore, e d'uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento (Alleggiamento dello Stato di Milano etc.
di C.
G.
Cavatio della Somaglia.
Milano, 1653, pag.
482.).
Tre giorni furono spesi in preparativi: l'undici di giugno, ch'era il giorno stabilito, la processione uscì, sull'alba, dal duomo.
Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d'ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco.
Venivan poi l'arti, precedute da' loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l'insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano.
Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto.
Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell'antico sembiante, quale lo rappresentano l'immagini, quale alcuni si ricordavan d'averlo visto e onorato in vita.
Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l'arcivescovo Federigo.
Seguiva l'altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con torcetti.
Finalmente una coda d'altro popolo misto.
Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de' vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c'eran de' rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su' davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi.
A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l'accompagnavano con le loro preci.
L'altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l'orecchio al ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa.
La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que' crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne' borghi, e che allora serbavano l'antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.
Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima.
Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno.
Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto.
Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all'occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su' muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell'altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d'Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de' vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi.
" Vide pertanto, - dice uno scrittore contemporaneo (Agostino Lampugnano; La pestilenza seguita in Milano, l'anno 1630.
Milano 1634, pag.
44.), - l'istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l'empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l'acquisto ".
Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co' fantasmi creati da sé.
Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila.
Il 4 di luglio, come trovo in un'altra lettera de' conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento.
Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino.
Il quale anche afferma che, " per le diligenze fatte ", dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila.
Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de' morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da' registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto.
Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.
Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c'era di riparabile in un tal disastro.
Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari.
I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl'infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta.
Il nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco monos; Gaspare Bugatti (in una descrizion della peste antecedente), dal latino monere; ma insieme dubita, con più ragione, che sia parola tedesca, per esser quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne' Grigioni.
Né sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del vocabolo monathlich (mensuale); giacché, nell'incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese.
L'impiego speciale degli apparitori era di precedere i carri, avvertendo, col suono d'un campanello, i passeggieri, che si ritirassero.
I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità.
Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d'infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno.
Si fecero a quest'effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone.
E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d'ogni genere, rimasero in tronco.
I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva.
E non solo l'esecuzione rimaneva sempre addietro de' progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s'arrivò a quest'eccesso d'impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera.
Moriva, per esempio, d'abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s'istituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non poté ottener nulla.
" Si doueua non di meno, - dice il Tadino, - compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldatesca senza regola, et rispetto alcuno; come molto meno nell'infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, né prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati " (Pag.
117.).
Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta!
Così pure, trovandosi colma di cadaveri un'ampia, ma unica fossa, ch'era stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s'eran ridotti a dire di non saper più che partito prendere.
Né si vede come sarebbe andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario.
Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que' due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s'impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell'avvenire.
Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l'autorità del tribunale, parte con quella dell'abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita.
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d'onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno.
Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s'avesse a morire anche di fame; e più d'una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento generale, all'indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la carità nacque al cessare d'ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego.
Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici.
Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n'era; sempre si videro mescolati, confusi co' languenti, co' moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze.
Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni, all'incirca.
Federigo dava a tutti, com'era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio.
Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s'allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all'istanze, con quell'animo, con cui scriveva ai parrochi: " siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un'anima a Cristo " (Ripamonti, pag.
164.).
Non trascurò quelle cautele che non gl'impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, né parve che se n'avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello.
Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l'adito a chiunque avesse bisogno di lui.
Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl'infermi, e per animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio.
Si cacciò in somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d'esserne uscito illeso.
Così, ne' pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d'ordinario ben più generale, di perversità.
E questo pure fu segnalato.
I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d'ogni forza pubblica, una nuova occasione d'attività, e una nuova sicurezza d'impunità a un tempo.
Che anzi, l'uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de' peggiori tra loro.
All'impiego di monatti e d'apparitori non s'adattavano generalmente che uomini sui quali l'attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo.
Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de' commissari, come abbiam detto; sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l'autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo.
Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d'ogni cosa.
Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de' rubamenti, e come trattavano gl'infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con danari.
Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi.
Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e l'afferma anche il Tadino (Pag.
102.), che monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un'entrata, un regno, una festa.
Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com'era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s'introducevano nelle case a farne di tutte le sorte.
In alcune, aperte e vote d'abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo stesso, e anche cose peggiori.
Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall'agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti.
E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell'unzioni, la quale, ne' suoi effetti, ne' suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un'altra perversità.
L'immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente.
" E mentre, - dice il Ripamonti, - i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra' piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c'era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell'accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti...
Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell'amico, dell'ospite; ma que' nomi, que' vincoli dell'umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio ".
La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca.
Da principio, si credeva soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall'ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà diabolica in quell'ungere, un'attrattiva che dominasse le volontà.
I vaneggiamenti degl'infermi che accusavan se stessi di ciò che avevan temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d'ognuno.
E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s'erano figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a dar miglior ragione della persuasion generale e dell'affermazioni di molti scrittori.
Così, nel lungo e tristo periodo de' processi per stregoneria, le confessioni, non sempre estorte, degl'imputati, non serviron poco a promovere e a mantener l'opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un'opinione regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte le maniere, a tentar tutte l'uscite, a scorrer per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla.
Tra le storie che quel delirio dell'unzioni fece immaginare, una merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece.
Si raccontava, non da tutti nell'istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia.
Mentre quel tale stava intento a guardare, la carrozza s'era fermata; e il cocchiere l'aveva invitato a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no.
Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d'un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio.
Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che accettasse un vasetto d'unguento, e andasse con esso ungendo per la città.
Ma, non avendo voluto acconsentire, s'era trovato, in un batter d'occhio, nel medesimo luogo dove era stato preso.
Questa storia, creduta qui generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso (Apud prudentium plerosque, non sicuti debuerat irrisa.
De Peste etc., pag.
77.), girò per tutta Italia e fuori.
In Germania se ne fece una stampa: l'elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si dovesse credere de' fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e n'ebbe in risposta ch'eran sogni.
D'ugual valore, se non in tutto d'ugual natura, erano i sogni de' dotti; come disastrosi del pari n'eran gli effetti.
Vedevano, la più parte di loro, l'annunzio e la ragione insieme de' guai in una cometa apparsa l'anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove, " inclinando, - scrive il Tadino, - la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere.
Mortales parat morbos, miranda videntur ".
Questa predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti.
Un'altra cometa, apparsa nel giugno dell'anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell'unzioni.
Pescavan ne' libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza.
Citavano cent'altri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malìe, d'unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb'essere uno de' più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a più uomini che l'imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Disquisizioni Magiche (il ristretto di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a' suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più d'un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine.
Da' trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da' trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l'aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d'occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l'era peste, e s'attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell'unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova dell'unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d'aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come al suo rifiuto quelli se n'erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, " che sino al far del giorno vi dimororno " (Pag.
123, 124.).
Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà occasion d'osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d'idee possa essere scompigliata da un'altra serie d'idee, che ci si getti a traverso.
Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo.
Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell'unzioni (Muratori; Del governo della peste, Modena, 1714, pag.
117.
- P.
Verri; opuscolo citato, pag.
261.).
Noi vorremmo poter dare a quell'inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant'altre cose, superiore alla più parte de' suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d'un'opinione comune anche sulle menti più nobili.
S'è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell'opinione avesse gran parte la credulità, l'ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d'aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d'esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero.
Nella biblioteca ambrosiana si conserva un'operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento c'è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente.
" Era opinion comune, - dice a un di presso, - che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l'arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate " (Ecco le sue parole: Unguenta uero haec aiebant componi conficique multifariam, fraudisque uias fuisse complures; quarum sane fraudum, et artium aliis quidem assentimur, alias uero fictas fuisse comentitiasque arbitramur.
De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit.
Cap.
V.).
Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d'alcuni, un errore che non s'attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione.
" Ho trovato gente savia in Milano, - dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, - che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi ".
Si vede ch'era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.
I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, per dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l'impiegarono a cercar di questi untori.
Tra le carte del tempo della peste, che si conservano nell'archivio nominato di sopra, c'è una lettera (senza alcun altro documento relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il governatore d'aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de' fratelli Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta quantità, che quaranta uomini erano occupati en este exercicio, con l'assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali dal veneziano, para la fábrica del veneno.
Soggiunge che lui aveva preso, in gran segreto, i concerti necessari per mandar là il podestà di Milano e l'auditore della Sanità, con trenta soldati di cavalleria; che pur troppo uno de' fratelli era stato avvertito a tempo per poter trafugare gl'indizi del delitto, e probabilmente dall'auditor medesimo, suo amico; e che questo trovava delle scuse per non partire; ma che non ostante, il podestà co' soldati era andato a reconocer la casa, y a ver si hallará algunos vestigios, e prendere informazioni, e arrestar tutti quelli che fossero incolpati.
La cosa dové finire in nulla, giacché gli scritti del tempo che parlano de' sospetti che c'eran su que' gentiluomini, non citano alcun fatto.
Ma pur troppo, in un'altra occasione, si credé d'aver trovato.
I processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d'un tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza.
Ché, per tacere dell'antichità, e accennar solo qualcosa de' tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim'anno 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d'aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme.
Ma l'affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors'anche il più osservabile; o, almeno, c'è più campo di farci sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici.
E quantunque uno scrittore lodato poco sopra se ne sia occupato, pure, essendosi lui proposto, non tanto di farne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza, c'è parso che la storia potesse esser materia d'un nuovo lavoro.
Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l'estensione che merita.
E oltre di ciò, dopo essersi fermato su que' casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto.
Serbando però a un altro scritto la storia e l'esame di quelli (V.
l'opuscolo in fine del volume.), torneremo finalmente a' nostri personaggi, per non lasciarli più, fino alla fine.
CAPITOLO XXXIII
Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l'uno de' tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi.
Tornava da un ridotto d'amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n'eran de' nuovi, e ne mancava de' vecchi.
Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de' più allegri; e tra l'altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un'arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione.
Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d'ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera.
Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l'occhio medico.
- Sto bene, ve', - disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente.
- Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po' troppo.
C'era una vernaccia!...
Ma, con una buona dormita, tutto se ne va.
Ho un gran sonno...
Levami un po' quel lume dinanzi, che m'accieca...
mi dà una noia...!
- Scherzi della vernaccia, - disse il Griso, tenendosi sempre alla larga.
- Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.
- Hai ragione: se posso dormire...
Del resto, sto bene.
Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta' attento, ve', se mai senti sonare.
Ma non avrò bisogno di nulla...
Porta via presto quel maledetto lume, - riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l'ordine, avvicinandosi meno che poteva.
- Diavolo! che m'abbia a dar tanto fastidio!
Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n'andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna.
Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno.
Ma, appena velato l'occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania.
Ricorreva col pensiero all'agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch'entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s'era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo.
E d'uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n'era arrabbiato.
Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da' rotti si vedevano macchie e bubboni.
- Largo canaglia! - gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que' sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte.
Ma nessuno di quegl'insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d'avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante.
E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo.
Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte.
Strepitava, era tutt'affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que' visi si rivolgessero a una parte.
Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo.
Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto.
Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo; e si destò.
Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra.
Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto.
Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo.
L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato, buttato al lazzeretto.
E cercando la maniera d'evitare quest'orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione.
Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza.
Comparve subito il Griso, il quale stava all'erta.
Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s'accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
- Griso! - disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: - tu sei sempre stato il mio fido.
- Sì, signore.
- T'ho sempre fatto del bene.
- Per sua bontà.
- Di te mi posso fidare...!
- Diavolo!
- Sto male, Griso.
- Me n'ero accorto.
- Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n'ho fatto per il passato.
Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli.
- Non voglio fidarmi d'altri che di te, - riprese don Rodrigo: - fammi un piacere, Griso.
- Comandi, - disse questo, rispondendo con la formola solita a quell'insolita.
- Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?
- Lo so benissimo.
- È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati.
Va' a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa' la cosa bene, che nessun se n'avveda.
- Ben pensato, - disse il Griso: - vo e torno subito.
- Senti, Griso: dammi prima un po' d'acqua.
Mi sento un'arsione, che non ne posso più.
- No, signore, - rispose il Griso: - niente senza il parere del medico.
Son mali bisbetici: non c'è tempo da perdere.
Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo.
Così detto, uscì, raccostando l'uscio.
Don Rodrigo, tornato sotto, l'accompagnava con l'immaginazione alla casa del Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo.
Ogni tanto ritornava a guardare il suo bubbone; ma voltava subito la testa dall'altra parte, con ribrezzo.
Dopo qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava: e quello sforzo d'attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in sesto i suoi pensieri.
Tutt'a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada.
Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente.
Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d'un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all'uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.
- Ah traditore infame!...
Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato! - grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l'afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: - ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l'opere di misericordia!
- Tienlo bene, fin che lo portiam via, - disse il compagno, andando verso uno scrigno.
E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura.
- Scellerato! - urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all'altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute.
- Lasciatemi ammazzar quell'infame, - diceva quindi ai monatti, - e poi fate di me quel che volete -.
Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perché l'abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d'andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie.
- Sta' buono, sta' buono, - diceva allo sventurato Rodrigo l'aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto.
E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: - fate le cose da galantuomini!
- Tu! tu! - mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, - Tu! dopo...! Ah diavolo dell'inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! - Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole.
- Tienlo forte, - diceva l'altro monatto: - è fuor di sé.
Ed era ormai vero.
Dopo un grand'urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt'a un tratto rifinito e stupido: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.
I monatti lo presero, uno per i piedi, e l'altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.
Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n'andò.
Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell'ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro.
C'ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de' brividi, gli s'abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò.
Abbandonato da' compagni, andò in mano de' monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d'arrivare al lazzeretto, dov'era stato portato il suo padrone.
Lasciando ora questo nel soggiorno de' guai, dobbiamo andare in cerca d'un altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non l'avesse voluto per forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia né l'uno né l'altro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo filatoio, sotto il nome d'Antonio Rivolta.
C'era stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata l'inimicizia tra la repubblica e il re di Spagna, e cessato quindi ogni timore di ricerche e d'impegni dalla parte di qui, Bortolo s'era dato premura d'andarlo a prendere, e di tenerlo ancora con sé, e perché gli voleva bene, e perché Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano.
Siccome anche questa ragione c'era entrata per qualche cosa, così abbiam dovuto accennarla.
Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo.
Quello era così.
Renzo era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui.
Più d'una volta, e specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelle benedette lettere da parte d'Agnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato, e finirla: e l'occasioni non mancavano; ché, appunto in quell'intervallo di tempo, la repubblica aveva avuto bisogno di far gente.
La tentazione era qualche volta stata per Renzo tanto più forte, che s'era anche parlato d'invadere il milanese; e naturalmente a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con lei.
Ma Bortolo, con buona maniera, aveva sempre saputo smontarlo da quella risoluzione.
- Se ci hanno da andare, - gli diceva, - ci anderanno anche senza di te, e tu potrai andarci dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarà meglio essere stato a casa tua? Disperati che vadano a far la strada, non ne mancherà.
E, prima che ci possan mettere i piedi...! Per me, sono eretico: costoro abbaiano; ma sì; lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi così facilmente.
Si tratta della Spagna, figliuolo mio: sai che affare è la Spagna? San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro.
Abbi pazienza: non istai bene qui?...
Vedo cosa vuoi dire; ma, se è destinato lassù che la cosa riesca, sta' sicuro che, a non far pazzie, riuscirà anche meglio.
Qualche santo t'aiuterà.
Credi pure che non è mestiere per te.
Ti par che convenga lasciare d'incannar seta, per andare a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini fatti apposta.
Altre volte Renzo si risolveva d'andar di nascosto, travestito, e con un nome finto.
Ma anche da questo, Bortolo seppe svolgerlo ogni volta, con ragioni troppo facili a indovinarsi.
Scoppiata poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul confine del bergamasco, non tardò molto a passarlo; e...
non vi sgomentate, ch'io non vi voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la c'è, scritta per ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de' libri! Quel ch'io volevo dire è che Renzo prese anche lui la peste, si curò da sé, cioè non fece nulla; ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male: in pochi giorni, si trovò fuor di pericolo.
Col tornar della vita, risorsero più che mai rigogliose nell'animo suo le memorie, i desidèri, le speranze, i disegni della vita; val a dire che pensò più che mai a Lucia.
Cosa ne sarebbe di lei, in quel tempo, che il vivere era come un'eccezione? E, a così poca distanza, non poterne saper nulla? E rimaner, Dio sa quanto, in una tale incertezza! E quand'anche questa si fosse poi dissipata, quando, cessato ogni pericolo, venisse a risaper che Lucia fosse in vita; c'era sempre quell'altro mistero, quell'imbroglio del voto.
" Anderò io, anderò a sincerarmi di tutto in una volta, - disse tra sé, e lo disse prima d'essere ancora in caso di reggersi.
- Purché sia viva! Trovarla, la troverò io; sentirò una volta da lei proprio, cosa sia questa promessa, le farò conoscere che non può stare, e la conduco via con me, lei e quella povera Agnese, se è viva! che m'ha sempre voluto bene, e son sicuro che me ne vuole ancora.
La cattura? eh! adesso hanno altro da pensare, quelli che son vivi.
Giran sicuri, anche qui, certa gente, che n'hann'addosso...
Ci ha a esser salvocondotto solamente per i birboni? E a Milano, dicono tutti che l'è una confusione peggio.
Se lascio scappare una occasion così bella, - (La peste! Vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!) - non ne ritorna più una simile! "
Giova sperare, caro il mio Renzo.
Appena poté strascicarsi, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora, aveva potuto scansar la peste, e stava riguardato.
Non gli entrò in casa, ma, datogli una voce dalla strada, lo fece affacciare alla finestra.
- Ah ah! - disse Bortolo: - l'hai scampata, tu.
Buon per te!
- Sto ancora un po' male in gambe, come vedi, ma, in quanto al pericolo, ne son fuori.
- Eh! vorrei esser io ne' tuoi piedi.
A dire: sto bene, le altre volte, pareva di dir tutto; ma ora conta poco.
Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sì è una bella parola!
Renzo, fatto al cugino qualche buon augurio, gli comunicò la sua risoluzione.
- Va', questa volta, che il cielo ti benedica, - rispose quello: - cerca di schivar la giustizia, com'io cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole che la ci vada bene a tutt'e due, ci rivedremo.
- Oh! torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero.
- Torna pure accompagnato; chè, se Dio vuole, ci sarà da lavorar per tutti, e ci faremo buona compagnia.
Purché tu mi ritrovi, e che sia finito questo diavolo d'influsso!
- Ci rivedremo, ci rivedremo; ci dobbiam rivedere!
- Torno a dire: Dio voglia!
Per alquanti giorni, Renzo si tenne in esercizio, per esperimentar le sue forze, e accrescerle; e appena gli parve di poter far la strada, si dispose a partire.
Si mise sotto panni una cintura, con dentro que' cinquanta scudi, che non aveva mai intaccati, e de' quali non aveva mai fatto parola, neppur con Bortolo; prese alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per giorno, risparmiando su tutto; prese sotto il braccio un fagottino di panni; si mise in tasca un benservito, che s'era fatto fare a buon conto, dal secondo padrone, sotto il nome d'Antonio Rivolta; in un taschino de' calzoni si mise un coltellaccio, ch'era il meno che un galantuomo potesse portare a que' tempi; e s'avviò, agli ultimi d'agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato al lazzeretto.
Prese verso Lecco, volendo, per non andar così alla cieca a Milano, passar dal suo paese, dove sperava di trovare Agnese viva, e di cominciare a saper da lei qualcheduna delle tante cose che si struggeva di sapere.
I pochi guariti dalla peste erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una classe privilegiata.
Una gran parte dell'altra gente languiva o moriva; e quelli ch'erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi sospettosi, con fretta ed esitazione insieme: ché tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale.
Quegli altri all'opposto, sicuri a un di presso del fatto loro (giacché aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri d'un'epoca del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni accomodati anch'essi, per quanto era fattibile, in quella maniera, andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d'erranti), a zonzo e alla ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci.
Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un trattato d'economia politica.
Con una tale sicurezza, temperata però dall'inquietudini che il lettore sa, e contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamità comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa, senza onor d'esequie, senza canto, senza accompagnamento.
A mezzo circa della giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un po' di pane e di companatico che aveva portato con sé.
Frutte, n'aveva a sua disposizione, lungo la strada, anche più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n'avesse volute; bastava ch'entrasse ne' campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi, dove ce n'era come se fosse grandinato; giacché l'anno era straordinariamente abbondante, di frutte specialmente; e non c'era quasi chi se ne prendesse pensiero: anche l'uve nascondevano, per dir così, i pampani, ed eran lasciate in balìa del primo occupante.
Verso sera, scoprì il suo paese.
A quella vista, quantunque ci dovesse esser preparato, si sentì dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva d'aver negli orecchi que' sinistri tocchi a martello che l'avevan come accompagnato, inseguito, quand'era fuggito da que' luoghi; e insieme sentiva, per dir così, un silenzio di morte che ci regnava attualmente.
Un turbamento ancor più forte provò allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa; e ancora peggio s'aspettava al termine del cammino: ché dove aveva disegnato d'andare a fermarsi, era a quella casa ch'era stato solito altre volte di chiamar la casa di Lucia.
Ora non poteva essere, tutt'al più, che quella d'Agnese; e la sola grazia, che sperava dal cielo era di trovarcela in vita e in salute.
E in quella casa si proponeva di chiedere alloggio, congetturando bene che la sua non dovesse esser più abitazione che da topi e da faine.
Non volendo farsi vedere, prese per una viottola di fuori, quella stessa per cui era venuto in buona compagnia, quella notte così fatta, per sorprendere il curato.
A mezzo circa, c'era da una parte la vigna, e dall'altra la casetta di Renzo; sicché, passando, potrebbe entrare un momento nell'una e nell'altra, a vedere un poco come stesse il fatto suo.
Andando, guardava innanzi, ansioso insieme e timoroso di veder qualcheduno; e, dopo pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, con le spalle appoggiate a una siepe di gelsomini, in un'attitudine d'insensato: e, a questa, e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo scemo di Gervaso ch'era venuto per secondo testimonio alla sciagurata spedizione.
Ma essendosegli avvicinato, dovette accertarsi ch'era in vece quel Tonio così sveglio che ce l'aveva condotto.
La peste, togliendogli il vigore del corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un piccolo e velato germe di somiglianza che aveva con l'incantato fratello.
- Oh Tonio! - gli disse Renzo, fermandosegli davanti: - sei tu?
Tonio alzò gli occhi, senza mover la testa.
- Tonio! non mi riconosci?
- A chi la tocca, la tocca, - rispose Tonio, rimanendo poi con la bocca aperta.
- L'hai addosso eh? povero Tonio; ma non mi riconosci più?
- A chi la tocca, la tocca, - replicò quello, con un certo sorriso sciocco.
Renzo, vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, più contristato.
Ed ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera, che riconobbe subito per don Abbondio.
Camminava adagio adagio, portando il bastone come chi n'è portato a vicenda; e di mano in mano che s'avvicinava, sempre più si poteva conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto, che anche lui doveva aver passata la sua burrasca.
Guardava anche lui; gli pareva e non gli pareva: vedeva qualcosa di forestiero nel vestiario; ma era appunto forestiero di quel di Bergamo.
" È lui senz'altro! " disse tra sé, e alzò le mani al cielo, con un movimento di maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone che teneva nella destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche, dove altre volte stavano appena per l'appunto.
Renzo gli andò incontro, allungando il passo, e gli fece una riverenza; ché, sebbene si fossero lasciati come sapete, era però sempre il suo curato.
- Siete qui, voi? - esclamò don Abbondio.
- Son qui, come lei vede.
Si sa niente di Lucia?
- Che volete che se ne sappia? Non se ne sa niente.
È a Milano, se pure è ancora in questo mondo.
Ma voi...
- E Agnese, è viva?
- Può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui.
Ma...
- Dov'è?
- È andata a starsene nella Valsassina, da que' suoi parenti, a Pasturo, sapete bene; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui.
Ma voi, dico...
- Questa la mi dispiace.
E il padre Cristoforo...?
- È andato via che è un pezzo.
Ma...
- Lo sapevo; me l'hanno fatto scrivere: domandavo se per caso fosse tornato da queste parti.
- Oh giusto! non se n'è più sentito parlare.
Ma voi...
- La mi dispiace anche questa.
- Ma voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per l'amor del cielo? Non sapete che bagattella di cattura...?
- Cosa m'importa? Hanno altro da pensare.
Ho voluto venire anch'io una volta a vedere i fatti miei.
E non si sa proprio...?
- Cosa volete vedere? che or ora non c'è più nessuno, non c'è più niente.
E dico, con quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo, c'è giudizio? Fate a modo d'un vecchio che è obbligato ad averne più di voi, e che vi parla per l'amore che vi porta; legatevi le scarpe bene, e, prima che nessuno vi veda, tornate di dove siete venuto; e se siete stato visto, tanto più tornatevene di corsa.
Vi pare che sia aria per voi, questa? Non sapete che sono venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, buttato sottosopra...
- Lo so pur troppo, birboni!
- Ma dunque...!
- Ma se le dico che non ci penso.
E colui, è vivo ancora? è qui?
- Vi dico che non c'è nessuno; vi dico che non pensiate alle cose di qui; vi dico che...
- Domando se è qui, colui.
- Oh santo cielo! Parlate meglio.
Possibile che abbiate ancora addosso tutto quel fuoco, dopo tante cose!
- C'è, o non c'è?
- Non c'è, via.
Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in giro, in questi tempi?
- Se non ci fosse altro che la peste in questo mondo...
dico per me: l'ho avuta, e son franco.
- Ma dunque! ma dunque! non sono avvisi questi? Quando se n'è scampata una di questa sorte, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e...
- Lo ringrazio bene.
- E non andarne a cercar dell'altre, dico.
Fate a modo mio...
- L'ha avuta anche lei, signor curato, se non m'inganno.
- Se l'ho avuta! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire che m'ha conciato in questa maniera che vedete.
Ora avevo proprio bisogno d'un po' di quiete, per rimettermi in tono: via, cominciavo a stare un po' meglio...
In nome del cielo, cosa venite a far qui? Tornate...
- Sempre l'ha con questo tornare, lei.
Per tornare, tanto n'avevo a non movermi.
Dice: cosa venite? cosa venite? Oh bella! vengo, anch'io, a casa mia.
- Casa vostra...
- Mi dica; ne son morti molti qui?...
- Eh eh! - esclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, nominò una filastrocca di persone e di famiglie intere.
Renzo s'aspettava pur troppo qualcosa di simile; ma al sentir tanti nomi di persone che conosceva, d'amici, di parenti, stava addolorato, col capo basso, esclamando ogni momento: - poverino! poverina! poverini!
- Vedete! - continuò don Abbondio: - e non è finita.
Se quelli che restano non metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non c'è più altro che la fine del mondo.
- Non dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui.
- Ah! sia ringraziato il cielo, che la v'è entrata! E, già s'intende, fate ben conto di ritornar sul bergamasco.
- Di questo non si prenda pensiero.
- Che! non vorreste già farmi qualche sproposito peggio di questo?
- Lei non ci pensi, dico; tocca a me: non son più bambino: ho l'uso della ragione.
Spero che, a buon conto, non dirà a nessuno d'avermi visto.
È sacerdote; sono una sua pecora: non mi vorrà tradire.
- Ho inteso, - disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: - ho inteso.
Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me.
Non vi basta di quelle che avete passate voi; non vi basta di quelle che ho passate io.
Ho inteso, ho inteso -.
E, continuando a borbottar tra i denti quest'ultime parole, riprese per la sua strada.
Renzo rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi.
In quella enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, c'era una famiglia di contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dell'età di Renzo a un di presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del paese.
Pensò d'andar lì.
E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse.
Una vetticciola, una fronda d'albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza.
S'affacciò all'apertura (del cancello non c'eran più neppure i gangheri); diede un'occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna - nel luogo di quel poverino -, come dicevano.
Viti, gelsi, frutti d'ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede.
Si vedevano però ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo.
Era una marmaglia d'ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile.
Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri.
Tra questa marmaglia di piante ce n'era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l'uva turca, più alta di tutte, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co' suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all'aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne' rami, nelle foglie, ne' calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri.
Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co' suoi chicchi vermigli, s'era avviticchiata ai nuovi tralci d'una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l'uno con l'altro per appoggio.
Il rovo era per tutto; andava da una pianta all'altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.
Ma questo non si curava d'entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po' di schizzo.
Tirò di lungo: poco lontano c'era la sua casa; attraversò l'orto, camminando fino a mezza gamba tra l'erbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna.
Mise piede sulla soglia d'una delle due stanze che c'era a terreno: al rumore de' suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglìo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il letto de' lanzichenecchi.
Diede un'occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate, affumicate.
Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli.
Non c'era altro.
Se n'andò anche di là, mettendosi le mani ne' capelli; tornò indietro, rifacendo il sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi, prese un'altra straducola a mancina, che metteva ne' campi; e senza veder né sentire anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di fermarsi.
Già principiava a farsi buio.
L'amico era sull'uscio, a sedere sur un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine.
Sentendo un calpestìo, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere così al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le mani: - non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po' stare, che sarà anche questa un'opera di misericordia.
Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.
- Renzo...! - disse quello, esclamando insieme e interrogando.
- Proprio, - disse Renzo; e si corsero incontro.
- Sei proprio tu! - disse l'amico, quando furon vicini: - oh che gusto ho di vederti! Chi l'avrebbe pensato? T'avevo preso per Paolin de' morti, che vien sempre a tormentarmi, perché vada a sotterrare.
Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito!
- Lo so pur troppo, - disse Renzo.
E così, barattando e mescolando in fretta saluti, domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia.
E lì, senza sospendere i discorsi, l'amico si mise in faccende per fare un po' d'onore a Renzo, come si poteva così all'improvviso e in quel tempo.
Mise l'acqua al fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedé poi il matterello a Renzo, perché la dimenasse; e se n'andò dicendo: - son rimasto solo; ma! son rimasto solo!
Tornò con un piccol secchio di latte, con un po' di carne secca, con un paio di raveggioli, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla tafferìa, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l'uno della visita, l'altro del ricevimento.
E, dopo un'assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo d'essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all'uno e all'altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia all'animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri.
Certo, nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo d'Agnese, né consolarlo della di lei assenza, non solo per quell'antica e speciale affezione, ma anche perché, tra le cose che a lui premeva di decifrare, ce n'era una di cui essa sola aveva la chiave.
Stette un momento tra due, se dovesse continuare il suo viaggio, o andar prima in cerca d'Agnese, giacché n'era così poco lontano; ma, considerato che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe nulla, restò nel primo proposito d'andare addirittura a levarsi questo dubbio, a aver la sua sentenza, e di portar poi lui le nuove alla madre.
Però, anche dall'amico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se n'era andato con la coda tra le gambe, e non s'era più veduto da quelle parti; insomma su tutto quell'intreccio di cose.
Seppe anche (e non era per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: ché Agnese gliel aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo com'era stato scritto; e l'interprete bergamasco, nel leggergli la lettera, n'aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona che indovinasse di chi voleva parlare.
Eppure quello era l'unico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia.
In quanto alla giustizia, poté confermarsi sempre più ch'era un pericolo abbastanza lontano, per non darsene gran pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando se ne manderebbe un altro; anche la sbirraglia se n'era andata la più parte; quelli che rimanevano, avevan tutt'altro da pensare che alle cose vecchie.
Raccontò anche lui all'amico le sue vicende, e n'ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell'esercito, della peste, d'untori, di prodigi.
- Son cose brutte, - disse l'amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; - cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l'allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo.
Allo spuntar del giorno, eran tutt'e due in cucina; Renzo in arnese da viaggio, con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel taschino de' calzoni: il fagottino, per andar più lesto, lo lasciò in deposito presso all'ospite.
- Se la mi va bene, - gli disse, - se la trovo in vita, se...
basta...
ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e poi, e poi...
Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia...
allora, non so quel che farò, non so dov'anderò: certo, da queste parti non mi vedete più -.
E così parlando, ritto sulla soglia dell'uscio, con la testa per aria, guardava con un misto di tenerezza e d'accoramento, l'aurora del suo paese che non aveva più veduta da tanto tempo.
L'amico gli disse, come s'usa, di sperar bene; volle che prendesse con sé qualcosa da mangiare; l'accompagnò per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augùri.
Renzo, s'incamminò con la sua pace, bastandogli d'arrivar vicino a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buon'ora, e cominciar subito la sua ricerca.
Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo da' suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie.
Come aveva fatto il giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a riposarsi.
Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c'era de' pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso.
Il fornaio, gl'intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, l'uno dopo l'altro, i due pani, che Renzo si mise uno per tasca.
Verso sera, arriva a Greco, senza però saperne il nome; ma, tra un po' di memoria de' luoghi, che gli era rimasta dell'altro viaggio, e il calcolo del cammino fatto da Monza in poi, congetturando che doveva esser poco lontano dalla città, uscì dalla strada maestra, per andar ne' campi in cerca di qualche cascinotto, e lì passar la notte; ché con osterie non si voleva impicciare.
Trovò meglio di quel che cercava: vide un'apertura in una siepe che cingeva il cortile d'una cascina; entrò a buon conto.
Non c'era nessuno: vide da un canto un gran portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala a mano; diede un'occhiata in giro, e poi salì alla ventura; s'accomodò per dormire, e infatti s'addormentò subito, per non destarsi che all'alba.
Allora, andò carpon carponi verso l'orlo di quel gran letto; mise la testa fuori, e non vedendo nessuno, scese di dov'era salito, uscì di dov'era entrato, s'incamminò per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta Nuova, e molto vicino a questa.
CAPITOLO XXXIV
In quanto alla maniera di penetrare in città, Renzo aveva sentito, così all'ingrosso, che c'eran ordini severissimi di non lasciar entrar nessuno, senza bulletta di sanità; ma che in vece ci s'entrava benissimo, chi appena sapesse un po' aiutarsi e cogliere il momento.
Era infatti così; e lasciando anche da parte le cause generali, per cui in que' tempi ogni ordine era poco eseguito; lasciando da parte le speciali, che rendevano così malagevole la rigorosa esecuzione di questo; Milano si trovava ormai in tale stato, da non veder cosa giovasse guardarlo, e da cosa; e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de' cittadini.
Su queste notizie, il disegno di Renzo era di tentare d'entrar dalla prima porta a cui si fosse abbattuto; se ci fosse qualche intoppo, riprender le mura di fuori, finché ne trovasse un'altra di più facile accesso.
E sa il cielo quante porte s'immaginava che Milano dovesse avere.
Arrivato dunque sotto le mura, si fermò a guardar d'intorno, come fa chi, non sapendo da che parte gli convenga di prendere, par che n'aspetti, e ne chieda qualche indizio da ogni cosa.
Ma, a destra e a sinistra, non vedeva che due pezzi d'una strada storta; dirimpetto, un tratto di mura; da nessuna parte, nessun segno d'uomini viventi: se non che, da un certo punto del terrapieno, s'alzava una colonna d'un fumo oscuro e denso, che salendo s'allargava e s'avvolgeva in ampi globi, perdendosi poi nell'aria immobile e bigia.
Eran vestiti, letti e altre masserizie infette che si bruciavano: e di tali triste fiammate se ne faceva di continuo, non lì soltanto, ma in varie parti delle mura.
Il tempo era chiuso, l'aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna d'intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti.
Per di più, quella solitudine, quel silenzio, così vicino a una gran città, aggiungevano una nuova costernazione all'inquietudine di Renzo, e rendevan più tetri tutti i suoi pensieri.
Stato lì alquanto, prese la diritta, alla ventura, andando, senza saperlo, verso porta Nuova, della quale, quantunque vicina, non poteva accorgersi, a cagione d'un baluardo, dietro cui era allora nascosta.
Dopo pochi passi, principiò a sentire un tintinnìo di campanelli, che cessava e ricominciava ogni tanto, e poi qualche voce d'uomo.
Andò avanti e, passato il canto del baluardo, vide per la prima cosa, un casotto di legno, e sull'uscio, una guardia appoggiata al moschetto, con una cert'aria stracca e trascurata: dietro c'era uno stecconato, e dietro quello, la porta, cioè due alacce di muro, con una tettoia sopra, per riparare i battenti; i quali erano spalancati, come pure il cancello dello stecconato.
Però, davanti appunto all'apertura, c'era in terra un tristo impedimento: una barella, sulla quale due monatti accomodavano un poverino, per portarlo via.
Era il capo de' gabellieri, a cui, poco prima, s'era scoperta la peste.
Renzo si fermò, aspettando la fine: partito il convoglio, e non venendo nessuno a richiudere il cancello, gli parve tempo, e ci s'avviò in fretta; ma la guardia, con una manieraccia, gli gridò: - olà! - Renzo si fermò di nuovo su due piedi, e, datogli d'occhio, tirò fuori un mezzo ducatone, e glielo fece vedere.
Colui, o che avesse già avuta la peste, o che la temesse meno di quel che amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che glielo buttasse; e vistoselo volar subito a' piedi, susurrò: - va' innanzi presto -.
Renzo non se lo fece dir due volte; passò lo stecconato, passò la porta, andò avanti, senza che nessuno s'accorgesse di lui, o gli badasse; se non che, quando ebbe fatti forse quaranta passi, sentì un altro - olà - che un gabelliere gli gridava dietro.
Questa volta, fece le viste di non sentire, e, senza voltarsi nemmeno, allungò il passo.
- Olà! - gridò di nuovo il gabelliere, con una voce però che indicava più impazienza che risoluzione di farsi ubbidire; e non essendo ubbidito, alzò le spalle, e tornò nella sua casaccia, come persona a cui premesse più di non accostarsi troppo ai passeggieri, che d'informarsi de' fatti loro.
La strada che Renzo aveva presa, andava allora, come adesso, diritta fino al canale detto il Naviglio: i lati erano siepi o muri d'orti, chiese e conventi, e poche case.
In cima a questa strada, e nel mezzo di quella che costeggia il canale, c'era una colonna, con una croce detta la croce di sant'Eusebio.
E per quanto Renzo guardasse innanzi, non vedeva altro che quella croce.
Arrivato al crocicchio che divide la strada circa alla metà, e guardando dalle due parti, vide a dritta, in quella strada che si chiama lo stradone di santa Teresa, un cittadino che veniva appunto verso di lui.
" Un cristiano, finalmente! " disse tra sé; e si voltò subito da quella parte, pensando di farsi insegnar la strada da lui.
Questo pure aveva visto il forestiero che s'avanzava; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e tanto più, quando s'accorse che, in vece d'andarsene per i fatti suoi, gli veniva incontro.
Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l'altra mano nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto.
Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso bastone, e voltata la punta, ch'era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: - via! via! via!
- Oh oh! - gridò il giovine anche lui; rimise il cappello in testa, e, avendo tutt'altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la cosa, che di metter su lite in quel momento, voltò le spalle a quello stravagante, e continuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in cui si trovava avviato.
L'altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi, ogni momento, indietro.
E arrivato a casa, raccontò che gli s'era accostato un untore, con un'aria umile, mansueta, con un viso d'infame impostore, con lo scatolino dell'unto, o l'involtino della polvere (non era ben certo qual de' due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non l'avesse saputo tener lontano.
- Se mi s'accostava un passo di più, - soggiunse, - l'infilavo addirittura, prima che avesse tempo d'accomodarmi me, il birbone.
La disgrazia fu ch'eravamo in un luogo così solitario, ché se era in mezzo Milano, chiamavo gente, e mi facevo aiutare a acchiapparlo.
Sicuro che gli si trovava quella scellerata porcheria nel cappello.
Ma lì da solo a solo, mi son dovuto contentare di fargli paura, senza risicare di cercarmi un malanno; perché un po' di polvere è subito buttata; e coloro hanno una destrezza particolare; e poi hanno il diavolo dalla loro.
Ora sarà in giro per Milano: chi sa che strage fa! - E fin che visse, che fu per molt'anni, ogni volta che si parlasse d'untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: - quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste.
Renzo, lontano dall'immaginarsi come l'avesse scampata bella, e agitato più dalla rabbia che dalla paura, pensava, camminando, a quell'accoglienza, e indovinava bene a un di presso ciò che lo sconosciuto aveva pensato di lui; ma la cosa gli pareva così irragionevole, che concluse tra sé che colui doveva essere un qualche mezzo matto.
" La principia male, - pensava però: - par che ci sia un pianeta per me, in questo Milano.
Per entrare, tutto mi va a seconda; e poi, quando ci son dentro, trovo i dispiaceri lì apparecchiati.
Basta...
coll'aiuto di Dio...
se trovo...
se ci riesco a trovare...
eh! tutto sarà stato niente ".
Arrivato al ponte, voltò, senza esitare, a sinistra, nella strada di san Marco, parendogli, a ragione, che dovesse condurre verso l'interno della città.
E andando avanti, guardava in qua e in là, per veder se poteva scoprire qualche creatura umana; ma non ne vide altra che uno sformato cadavere nel piccol fosso che corre tra quelle poche case (che allora erano anche meno), e un pezzo della strada.
Passato quel pezzo, sentì gridare: - o quell'uomo! - e guardando da quella parte, vide poco lontano, a un terrazzino d'una casuccia isolata, una povera donna, con una nidiata di bambini intorno; la quale, seguitandolo a chiamare, gli fece cenno anche con la mano.
Ci andò di corsa; e quando fu vicino, - o quel giovine, - disse quella donna: - per i vostri poveri morti, fate la carità d'andare a avvertire il commissario che siamo qui dimenticati.
Ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l'uscio, come vedete; e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare.
In tante ore che siam qui, non m'è mai capitato un cristiano che me la facesse questa carità: e questi poveri innocenti moion di fame.
- Di fame! - esclamò Renzo; e, cacciate le mani nelle tasche, - ecco, ecco, - disse, tirando fuori i due pani: - calatemi giù qualcosa da metterli dentro.
- Dio ve ne renda merito; aspettate un momento, - disse quella donna; e andò a cercare un paniere, e una fune da calarlo, come fece.
A Renzo intanto gli vennero in mente que' pani che aveva trovati vicino alla croce, nell'altra sua entrata in Milano, e pensava: " ecco: è una restituzione, e forse meglio che se gli avessi restituiti al proprio padrone: perché qui è veramente un'opera di misericordia ".
In quanto al commissario che dite, la mia donna, - disse poi, mettendo i pani nel paniere, - io non vi posso servire in nulla; perché, per dirvi la verità, son forestiero, e non son niente pratico di questo paese.
Però, se incontro qualche uomo un po' domestico e umano, da potergli parlare, lo dirò a lui.
La donna lo pregò che facesse così, e gli disse il nome della strada, onde lui sapesse indicarla.
- Anche voi, - riprese Renzo, - credo che potrete farmi un piacere, una vera carità, senza vostro incomodo.
Una casa di cavalieri, di gran signoroni, qui di Milano, casa *** sapreste insegnarmi dove sia?
- So che la c'è questa casa, - rispose la donna: - ma dove sia, non lo so davvero.
Andando avanti di qua, qualcheduno che ve la insegni, lo troverete.
E ricordatevi di dirgli anche di noi.
- Non dubitate, - disse Renzo, e andò avanti.
A ogni passo, sentiva crescere e avvicinarsi un rumore che già aveva cominciato a sentire mentre era lì fermo a discorrere: un rumor di ruote e di cavalli, con un tintinnìo di carnpanelli, e ogni tanto un chioccar di fruste, con un accompagnamento d'urli.
Guardava innanzi, ma non vedeva nulla.
Arrivato allo sbocco di quella strada, scoprendosegli davanti la piazza di san Marco, la prima cosa che gli diede nell'occhio, furon due travi ritte, con una corda, e con certe carrucole; e non tardò a riconoscere (ch'era cosa famigliare in quel tempo) l'abbominevole macchina della tortura.
Era rizzata in quel luogo, e non in quello soltanto, ma in tutte le piazze e nelle strade più spaziose, affinché i deputati d'ogni quartiere, muniti a questo d'ogni facoltà più arbitraria, potessero farci applicare immediatamente chiunque paresse loro meritevole di pena: o sequestrati che uscissero di casa, o subalterni che non facessero il loro dovere, o chiunque altro.
Era uno di que' rimedi eccessivi e inefficaci de' quali, a quel tempo, e in que' momenti specialmente, si faceva tanto scialacquìo.
Ora, mentre Renzo guarda quello strumento, pensando perché possa essere alzato in quel luogo, sente avvicinarsi sempre più il rumore, e vede spuntar dalla cantonata della chiesa un uomo che scoteva un campanello: era un apparitore; e dietro a lui due cavalli che, allungando il collo, e puntando le zampe, venivano avanti a fatica; e strascinato da quelli, un carro di morti, e dopo quello un altro, e poi un altro e un altro; e di qua e di là, monatti alle costole de' cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie.
Eran que' cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio, ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano al tepore della primavera; ché, a ogni intoppo, a ogni scossa, si vedevan que' mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all'occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio.
Il giovine s'era fermato sulla cantonata della piazza, vicino alla sbarra del canale, e pregava intanto per que' morti sconosciuti.
Un atroce pensiero gli balenò in mente: " forse là, là insieme, là sotto...
Oh, Signore! fate che non sia vero! fate ch'io non ci pensi! "
Passato il convoglio funebre, Renzo si mosse, attraversò la piazza, prendendo lungo il canale a mancina, senz'altra ragione della scelta, se non che il convoglio era andato dall'altra parte.
Fatti que' quattro passi tra il fianco della chiesa e il canale, vide a destra il ponte Marcellino; prese di lì, e riuscì in Borgo Nuovo.
E guardando innanzi, sempre con quella mira di trovar qualcheduno da farsi insegnar la strada, vide in fondo a quella un.prete in farsetto, con un bastoncino in mano, ritto vicino a un uscio socchiuso, col capo chinato, e l'orecchio allo spiraglio; e poco dopo lo vide alzar la mano e benedire.
Congetturò quello ch'era di fatto, cioè che finisse di confessar qualcheduno; e disse tra sé: " questo è l'uomo che fa per me.
Se un prete, in funzion di prete, non ha un po' di carità, un po' d'amore e di buona grazia, bisogna dire che non ce ne sia più in questo mondo ".
Intanto il prete, staccatosi dall'uscio, veniva dalla parte di Renzo, tenendosi, con gran riguardo, nel mezzo della strada.
Renzo, quando gli fu vicino, si levò il cappello, e gli accennò che desiderava parlargli, fermandosi nello stesso tempo, in maniera da fargli intendere che non si sarebbe accostato di più.
Quello pure si fermò, in atto di stare a sentire, puntando però in terra il suo bastoncino davanti a sé, come per farsene un baluardo.
Renzo espose la sua domanda, alla quale il prete soddisfece, non solo con dirgli il nome della strada dove la casa era situata, ma dandogli anche, come vide che il poverino n'aveva bisogno, un po' d'itinerario; indicandogli, cioè, a forza di diritte e di mancine, di chiese e di croci, quell'altre sei o otto strade che aveva da passare per arrivarci.
- Dio la mantenga sano, in questi tempi, e sempre, - disse Renzo: e mentre quello si moveva per andarsene, - un'altra carità, - soggiunse; e gli disse della povera donna dimenticata.
Il buon prete ringraziò lui d'avergli dato occasione di fare una carità così necessaria; e, dicendo che andava ad avvertire chi bisognava, tirò avanti.
Renzo si mosse anche lui, e, camminando, cercava di fare a se stesso una ripetizione dell'itinerario, per non esser da capo a dover domandare a ogni cantonata.
Ma non potreste immaginarvi come quell'operazione gli riuscisse penosa, e non tanto per la difficoltà della cosa in sé, quanto per un nuovo turbamento che gli era nato nell'animo.
Quel nome della strada, quella traccia del cammino l'avevan messo così sottosopra.
Era l'indizio che aveva desiderato e domandato, e del quale non poteva far di meno; né gli era stato detto nient'altro, da che potesse ricavare nessun augurio sinistro; ma che volete? quell'idea un po' più distinta d'un termine vicino, dove uscirebbe d'una grand'incertezza, dove potrebbe sentirsi dire: è viva, o sentirsi dire: è morta; quell'idea l'aveva così colpito che, in quel momento, gli sarebbe piaciuto più di trovarsi ancora ai buio di tutto, d'essere al principio del viaggio, di cui ormai toccava la fine.
Raccolse però le sue forze, e disse a se stesso: " ehi! se principiamo ora a fare il ragazzo, com'anderà? " Così rinfrancato alla meglio, seguitò la sua strada, inoltrandosi nella città.
Quale città! e cos'era mai, al paragone, quello ch'era stata l'anno avanti, per cagion della fame!
Renzo s'abbatteva appunto a passare per una delle parti più squallide e più desolate: quella crociata di strade che si chiamava il carrobio di porta Nuova.
(C'era allora una croce nel mezzo, e, dirimpetto ad essa, accanto a dove ora è san Francesco di Paola, una vecchia chiesa col titolo di sant'Anastasia).
Tanta era stata in quel vicinato la furia del contagio, e il fetor de' cadaveri lasciati lì che i pochi rimasti vivi erano stati costretti a sgomberare: sicché, alla mestizia che dava al passeggiero quell'aspetto di solitudine e d'abbandono, s'aggiungeva l'orrore e lo schifo delle tracce e degli avanzi della recente abitazione.
Renzo affrettò il passo, facendosi coraggio col pensare che la meta non doveva essere così vicina, e sperando che, prima d'arrivarci, troverebbe mutata, almeno in parte, la scena; e infatti, di lì a non molto, riuscì in un luogo che poteva pur dirsi città di viventi; ma quale città ancora, e quali viventi! Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci di strada, salvo quelli che fossero spalancati per esser le case disabitate, o invase; altri inchiodati e sigillati, per esser nelle case morta o ammalata gente di peste; altri segnati d'una croce fatta col carbone, per indizio ai monatti, che c'eran de' morti da portar via: il tutto più alla ventura che altro, secondo che si fosse trovato piuttosto qua che là un qualche commissario della Sanità o altro impiegato, che avesse voluto eseguir gli ordini, o fare un'angheria.
Per tutto cenci e, più ributtanti de' cenci, fasce marciose, strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di persone morte all'improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da portarli via, o cascati da' carri medesimi, o buttati anch'essi dalle finestre: tanto l'insistere e l'imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni, riguardo sociale! Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni chiacchierìo di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichìo d'infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti.
All'alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall'arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell'altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto.
Morti a quell'ora forse i due terzi de' cittadini, andati via o ammalati una buona parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso della gente di fuori, de' pochi che andavan per le strade, non se ne sarebbe per avventura, in un lungo giro, incontrato uno solo in cui non si vedesse qualcosa di strano, e che dava indizio d'una funesta mutazione di cose.
Si vedevano gli uomini più qualificati, senza cappa né mantello, parte allora essenzialissima del vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de' religiosi in farsetto; dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli untori.
E fuor di questa cura d'andar succinti e ristretti il più che fosse possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe le barbe di quelli che usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe pure e arruffate le capigliature, non solo per quella trascuranza che nasce da un invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era stato preso e condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora: nome che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d'infamia, e ne meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà.
I più tenevano da una mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse voluto avvicinarsi troppo; dall'altra pasticche odorose, o palle di metallo o di legno traforate, con dentro spugne inzuppate d'aceti medicati; e se le andavano ogni tanto mettendo al naso, o ce le tenevano di continuo.
Portavano alcuni attaccata al collo una boccetta con dentro un po' d'argento vivo, persuasi che avesse la virtù d'assorbire e di ritenere ogni esalazione pestilenziale; e avevan poi cura di rinnovarlo ogni tanti giorni.
I gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto.
Gli amici, quando pur due s'incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni taciti e frettolosi.
Ognuno, camminando, aveva molto da fare, per iscansare gli schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era sparso e, in qualche luogo, anche affatto ingombro: ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per timore d'altro sudiciume, o d'altro più funesto peso che potesse venir giù dalle finestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva esser spesso buttate da quelle su' passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte.
Così l'ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora angustie all'angustie, e dava falsi terrori, in compenso de' ragionevoli e salutari che aveva levati da principio.
Tal era ciò che di meno deforme e di men compassionevole si faceva vedere intorno, i sani, gli agiati: ché, dopo tante immagini di miseria, e pensando a quella ancor più grave, per mezzo alla quale dovrem condurre il lettore, non ci fermeremo ora a dir qual fosse lo spettacolo degli appestati che si strascicavano o giacevano per le strade, de' poveri, de' fanciulli, delle donne.
Era tale, che il riguardante poteva trovar quasi un disperato conforto in ciò che ai lontani e ai posteri fa la più forte e dolorosa impressione; nel pensare, dico, nel vedere quanto que' viventi fossero ridotti a pochi.
In mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona parte del suo cammino, quando, distante ancor molti passi da una strada in cui doveva voltare, sentì venir da quella un vario frastono, nel quale si faceva distinguere quel solito orribile tintinnìo.
Arrivato alla cantonata della strada, ch'era una delle più larghe, vide quattro carri fermi nel mezzo; e come, in un mercato di granaglie, si vede un andare e venire di gente, un caricare e un rovesciar di sacchi, tale era il movimento in quel luogo: monatti ch'entravan nelle case, monatti che n'uscivan con un peso su le spalle, e lo mettevano su l'uno o l'altro carro: alcuni con la divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso, pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per segno d'allegria, in tanto pubblico lutto.
Ora da una, ora da un'altra finestra, veniva una voce lugubre: - qua, monatti! - E con suono ancor più sinistro, da quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che rispondeva: - ora, ora -.
Ovvero eran pigionali che brontolavano, e dicevano di far presto: ai quali i monatti rispondevano con bestemmie.
Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl'ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s'incontrò in un oggetto singolare di pietà, d'una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo.
La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo.
Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori.
Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio.
Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria.
Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -.
Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese.
Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina.
La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme.
Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -.
Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto.
Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve.
E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
- O Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!
Riavuto da quella commozione straordinaria, e mentre cerca di tirarsi in mente l'itinerario per trovare se alla prima strada deve voltare, e se a diritta o a mancina, sente anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, un pianger di donne, un mugolìo di fanciulli.
Andò avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa.
Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s'avanzava, e si fermò lì, per lasciarla passare.
Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de' monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne co' bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro.
Ahi! e forse la madre, che credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s'era buttata, sorpresa tutt'a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro veniva più tardi.
Forse, o sciagura degna di lacrime ancor più amare! la madre, tutta occupata de' suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i figli, e non aveva più che un pensiero: di morire in pace.
Pure, in tanta confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto: né adulti soltanto, ma ragazzetti, ma fanciulline che guidavano i fratellini più teneri, e, con giudizio e con compassione da grandi, raccomandavano loro d'essere ubbidienti, gli assicuravano che s'andava in un luogo dove c'era chi avrebbe cura di loro per farli guarire.
In mezzo alla malinconia e alla tenerezza di tali viste, una cosa toccava più sul vivo, e teneva in agitazione il nostro viaggiatore.
La casa doveva esser lì vicina, e chi sa se tra quella gente...
Ma passata tutta la comitiva, e cessato quel dubbio, si voltò a un monatto che veniva dietro, e gli domandò della strada e della casa di don Ferrante.
- In malora, tanghero, - fu la risposta che n'ebbe.
Né si curò di dare a colui quella che si meritava; ma, visto, a due passi, un commissario che veniva in coda al convoglio, e aveva un viso un po' più di cristiano, fece a lui la stessa domanda.
Questo, accennando con un bastone la parte donde veniva, disse: - la prima strada a diritta, l'ultima casa grande a sinistra.
Con una nuova e più forte ansietà in cuore, il giovine prende da quella parte.
È nella strada; distingue subito la casa tra l'altre, più basse e meschine; s'accosta al portone che è chiuso, mette la mano sul martello, e ce la tien sospesa, come in un'urna, prima di tirar su la polizza dove fosse scritta la sua vita, o la sua morte.
Finalmente alza il martello, e dà un picchio risoluto.
Dopo qualche momento, s'apre un poco una finestra; una donna fa capolino, guardando chi era, con un viso ombroso che par che dica: monatti? vagabondi? commissari? untori? diavoli?
- Quella signora, - disse Renzo guardando in su, e con voce non troppo sicura: - ci sta qui a servire una giovine di campagna, che ha nome Lucia?
- La non c'è più; andate, - rispose quella donna, facendo atto di chiudere.
- Un momento, per carità! La non c'è più? Dov'è?
- Al lazzeretto -; e di nuovo voleva chiudere.
- Ma un momento, per l'amor del cielo! Con la peste?
- Già.
Cosa nuova, eh? Andate.
- Oh povero me! Aspetti: era ammalata molto? Quanto tempo è...?
Ma intanto la finestra fu chiusa davvero.
- Quella signora! quella signora! una parola, per carità! per i suoi poveri morti! Non le chiedo niente del suo: ohe! - Ma era come dire al muro.
Afflitto della nuova, e arrabbiato della maniera, Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l'alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso.
In quest'agitazione, si voltò per vedere se mai ci fosse d'intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume.
Ma la prima, l'unica persona che vide, fu un'altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch'esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert'occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d'artigli, come se cercasse d'acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno non se n'accorgesse.
Quando s'incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa.
- Che diamine...? - cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all'improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: - l'untore! dàgli! dàgli! dàgli all'untore!
- Chi? io! ah strega bugiarda! sta' zitta, - gridò Renzo; e fece un salto verso di lei, per impaurirla e farla chetare.
Ma s'avvide subito, che aveva bisogno piuttosto di pensare ai casi suoi.
Allo strillar della vecchia, accorreva gente di qua e di là; non la folla che, in un caso simile, sarebbe stata, tre mesi prima; ma più che abbastanza per poter fare d'un uomo solo quel che volessero.
Nello stesso tempo, s'aprì di nuovo la finestra, e quella medesima sgarbata di prima ci s'affacciò questa volta, e gridava anche lei: - pigliatelo, pigliatelo; che dev'essere uno di que' birboni che vanno in giro a unger le porte de' galantuomini.
Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un'occhiata a destra e a sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là.
Rispinse con un urtone uno che gli parava la strada; con un gran punzone nel petto, fece dare indietro otto o dieci passi un altro che gli correva incontro; e via di galoppo, col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra' piedi.
La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: - dàgli! dàgli! all'untore! - Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo.
L'ira divenne rabbia, l'angoscia si cangiò in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a' suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: - chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l'ungerò io davvero con questo.
Ma, con maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i suoi persecutori s'eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che, seguitando a urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati, come a gente che venisse di lontano dietro a lui.
Si voltò di nuovo, e vide (ché il gran turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un carro che s'avanzava, anzi una fila di que' soliti carri funebri, col solito accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un altro mucchietto di gente che avrebbero voluto anche loro dare addosso all'untore, e prenderlo in mezzo; ma eran trattenuti dall'impedimento medesimo.
Vistosi così tra due fuochi, gli venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio voto.
Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate.
- Bravo! bravo! - esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de' quali seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l'orribil cosa com'era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro.
- Bravo! bel colpo!
- Sei venuto a metterti sotto la protezione de' monatti; fa' conto d'essere in chiesa, - gli disse uno de' due che stavano sul carro dov'era montato.
I nemici, all'avvicinarsi del treno, avevano, i più, voltate le spalle, e se n'andavano, non lasciando di gridare: - dàgli! dàgli! all'untore! - Qualcheduno si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con gesti di minaccia, a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i pugni in aria.
- Lascia fare a me, - gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un cadavere un laido cencio, l'annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: - aspetta, canaglia! - A quell'atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere.
Tra i monatti s'alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un - uh! - prolungato, come per accompagnar quella fuga.
- Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel monatto: - val più uno di noi che cento di que' poltroni.
- Certo, posso dire che vi devo la vita, - rispose Renzo: - e vi ringrazio con tutto il cuore.
- Di che cosa? - disse il monatto: - tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine.
Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non quando son morti; che, per ricompensa della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci voglion fare impiccar tutti.
Hanno a finir prima loro che la morìa, e i monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano.
- Viva la morìa, e moia la marmaglia! - esclamò l'altro; e, con questo bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt'e due le mani, tra le scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: - bevi alla nostra salute.
- Ve l'auguro a tutti, con tutto il cuore, - disse Renzo: - ma non ho sete; non ho proprio voglia di bere in questo momento.
- Tu hai avuto una bella paura, a quel che mi pare, - disse il monatto: - m'hai l'aria d'un pover'uomo; ci vuol altri visi a far l'untore.
- Ognuno s'ingegna come può, - disse l'altro.
- Dammelo qui a me, - disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al carro, - ché ne voglio bere anch'io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che si trova qui in questa bella compagnia...
lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella carrozzata.
E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello su cui stava il povero Renzo.
Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor più bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: - si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l'abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura.
E poi, già a loro signori il vino fa subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono.
E tra le risate de' compagni, prese il fiasco, e l'alzò; ma, prima di bere, si voltò a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert'aria di compassione sprezzante: - bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto, sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un bell'aiuto -.
E tra un nuovo scroscio di risa, s'attaccò il fiasco alle labbra.
- E noi? eh! e noi? - gridaron più voci dal carro ch'era avanti.
Il birbone, tracannato quanto ne volle, porse, con tutt'e due le mani, il gran fiasco a quegli altri suoi simili, i quali se lo passaron dall'uno all'altro, fino a uno che, votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò a fracassarsi sulle lastre, gridando: - viva la morìa! - Dietro a queste parole, intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s'accompagnaron tutte l'altre di quel turpe coro.
La cantilena infernale, mista al tintinnìo de' campanelli, al cigolìo de' carri, al calpestìo de' cavalli, risonava nel voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il cuore de' pochi che ancor le abitavano.
Ma cosa non può alle volte venire in acconcio? cosa non può far piacere in qualche caso? Il pericolo d'un momento prima aveva resa più che tollerabile a Renzo la compagnia di que' morti e di que' vivi; e ora fu a' suoi orecchi una musica, sto per dire, gradita, quella che lo levava dall'impiccio d'una tale conversazione.
Ancor mezzo affannato, e tutto sottosopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d'essere uscito d'un tal frangente, senza ricever male né farne; la pregava che l'aiutasse ora a liberarsi anche da' suoi liberatori; e dal canto suo, stava all'erta, guardava quelli, guardava la strada, per cogliere il tempo di sdrucciolar giù quatto quatto, senza dar loro occasione di far qualche rumore, qualche scenata, che mettesse in malizia i passeggieri.
Tutt'a un tratto, a una cantonata, gli parve di riconoscere il luogo: guardò più attentamente, e ne fu sicuro.
Sapete dov'era? Sul corso di porta orientale, in quella strada per cui era venuto adagio, e tornato via in fretta, circa venti mesi prima.
Gli venne subito in mente che di lì s'andava diritto al lazzeretto; e questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l'ebbe per un tratto speciale della Provvidenza, e per buon augurio del rimanente.
In quel punto, veniva incontro ai carri un commissario, gridando a' monatti di fermare, e non so che altro: il fatto è che il convoglio si fermò, e la musica si cambiò in un diverbio rumoroso, Uno de' monatti ch'eran sul carro di Renzo, saltò giù: Renzo disse all'altro: - vi ringrazio della vostra carità: Dio ve ne renda merito -; e giù anche lui, dall'altra parte.
- Va', va', povero untorello, - rispose colui: - non sarai tu quello che spianti Milano.
Per fortuna, non c'era chi potesse sentire.
Il convoglio era fermato sulla sinistra del corso: Renzo prende in fretta dall'altra parte, e, rasentando il muro, trotta innanzi verso il ponte; lo passa, continua per la strada del borgo, riconosce il convento de' cappuccini, è vicino alla porta, vede spuntar l'angolo del lazzeretto, passa il cancello, e gli si spiega davanti la scena esteriore di quel recinto: un indizio appena e un saggio, e già una vasta, diversa, indescrivibile scena.
Lungo i due lati che si presentano a chi guardi da quel punto, era tutto un brulichìo; erano ammalati che andavano, in compagnie, al lazzeretto; altri che sedevano o giacevano sulle sponde del fossato che lo costeggia; sia che le forze non fosser loro bastate per condursi fin dentro al ricovero, sia che, usciti di là per disperazione, le forze fosser loro ugualmente mancate per andar più avanti.
Altri meschini erravano sbandati, come stupidi, e non pochi fuor di sé affatto; uno stava tutto infervorato a raccontar le sue immaginazioni a un disgraziato che giaceva oppresso dal male; un altro dava nelle smanie; un altro guardava in qua e in là con un visino ridente, come se assistesse a un lieto spettacolo.
Ma la specie più strana e più rumorosa d'una tal trista allegrezza, era un cantare alto e continuo, il quale pareva che non venisse fuori da quella miserabile folla, e pure si faceva sentire più che tutte l'altre voci: una canzone contadinesca d'amore gaio e scherzevole, di quelle che chiamavan villanelle; e andando con lo sguardo dietro al suono, per iscoprire chi mai potesse esser contento, in quel tempo, in quel luogo, si vedeva un meschino che, seduto tranquillamente in fondo al fossato, cantava a più non posso, con la testa per aria.
Renzo aveva appena fatti alcuni passi lungo il lato meridionale dell'edifizio, che si sentì in quella moltitudine un rumore straordinario, e di lontano voci che gridavano: guarda! piglia! S'alza in punta di piedi, e vede un cavallaccio che andava di carriera, spinto da un più strano cavaliere: era un frenetico che, vista quella bestia sciolta e non guardata, accanto a un carro, c'era montato in fretta a bisdosso, e, martellandole il collo co' pugni, e facendo sproni de' calcagni, la cacciava in furia; e monatti dietro, urlando; e tutto si ravvolse in un nuvolo di polvere, che volava lontano.
Così, già sbalordito e stanco di veder miserie, il giovine arrivò alla porta di quel luogo dove ce n'erano adunate forse più che non ce ne fosse di sparse in tutto lo spazio che gli era già toccato di percorrere.
S'affaccia a quella porta, entra sotto la volta, e rimane un momento immobile a mezzo del portico.
CAPITOLO XXXV
S'immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt'ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichìo, come un ondeggiamento; e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi.
Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì, sopraffatto e compreso.
Questo spettacolo, noi non ci proponiam certo di descriverlo a parte a parte, né il lettore lo desidera; solo, seguendo il nostro giovine nel suo penoso giro, ci fermeremo alle sue fermate, e di ciò che gli toccò di vedere diremo quanto sia necessario a raccontar ciò che fece, e ciò che gli seguì.
Dalla porta dove s'era fermato, fino alla cappella del mezzo, e di là all'altra porta in faccia, c'era come un viale sgombro di capanne e d'ogni altro impedimento stabile; e alla seconda occhiata, Renzo vide in quello un tramenìo di carri, un portar via roba, per far luogo; vide cappuccini e secolari che dirigevano quell'operazione, e insieme mandavan via chi non ci avesse che fare.
E temendo d'essere anche lui messo fuori in quella maniera, si cacciò addirittura tra le capanne, dalla parte a cui si trovava casualmente voltato, alla diritta.
Andava avanti, secondo che vedeva posto da poter mettere il piede, da capanna a capanna, facendo capolino in ognuna, e osservando i letti ch'eran fuori allo scoperto, esaminando volti abbattuti dal patimento, o contratti dallo spasimo, o immobili nella morte, se mai gli venisse fatto di trovar quello che pur temeva di trovare.
Ma aveva già fatto un bel pezzetto di cammino, e ripetuto più e più volte quel doloroso esame, senza veder mai nessuna donna: onde s'immaginò che dovessero essere in un luogo separato.
E indovinava; ma dove fosse, non n'aveva indizio, né poteva argomentarlo.
Incontrava ogni tanto ministri, tanto diversi d'aspetto e di maniere e d'abito, quanto diverso e opposto era il principio che dava agli uni e agli altri una forza uguale di vivere in tali servizi: negli uni l'estinzione d'ogni senso di pietà, negli altri una pietà sovrumana.
Ma né agli uni né agli altri si sentiva di far domande, per non procacciarsi alle volte un inciampo; e deliberò d'andare, andare, fin che arrivasse a trovar donne.
E andando non lasciava di spiare intorno; ma di tempo in tempo era costretto a ritirare lo sguardo contristato, e come abbagliato da tante piaghe.
Ma dove rivolgerlo, dove riposarlo, che sopra altre piaghe?
L'aria stessa e il cielo accrescevano, se qualche cosa poteva accrescerlo, l'orrore di quelle viste.
La nebbia s'era a poco a poco addensata e accavallata in nuvoloni che, rabbuiandosi sempre più, davano idea d'un annottar tempestoso; se non che, verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da un fitto velo, la spera del sole, pallida, che spargeva intorno a sé un barlume fioco e sfumato, e pioveva un calore morto e pesante.
Ogni tanto, tra mezzo al ronzìo continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; né, tendendo l'orecchio, avreste saputo distinguere da che parte venisse; o avreste potuto crederlo un correr lontano di carri, che si fermassero improvvisamente.
Non si vedeva, nelle campagne d'intorno, moversi un ramo d'albero, né un uccello andarvisi a posare, o staccarsene: solo la rondine, comparendo subitamente di sopra il tetto del recinto, sdrucciolava in giù con l'ali tese, come per rasentare il terreno del campo; ma sbigottita da quel brulichìo, risaliva rapidamente, e fuggiva.
Era uno di que' tempi, in cui, tra una compagnia di viandanti non c'è nessuno che rompa il silenzio; e il cacciatore cammina pensieroso, con lo sguardo a terra; e la villana, zappando nel campo, smette di cantare, senza avvedersene; di que' tempi forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so quale gravezza a ogni operazione, all'ozio, all'esistenza stessa.
Ma in quel luogo destinato per sé al patire e al morire, si vedeva l'uomo già alle prese col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l'ultima lotta era più affannosa, e nell'aumento de' dolori, i gemiti più soffogati: né forse su quel luogo di miserie era ancor passata un'ora crudele al par di questa.
Già aveva il giovine girato un bel pezzo, e senza frutto, per quell'andirivieni di capanne, quando, nella varietà de' lamenti e nella confusione del mormorìo, cominciò a distinguere un misto singolare di vagiti e di belati; fin che arrivò a un assito scheggiato e sconnesso, di dentro il quale veniva quel suono straordinario.
Mise un occhio a un largo spiraglio, tra due asse, e vide un recinto con dentro capanne sparse, e, così in quelle, come nel piccol campo, non la solita infermeria, ma bambinelli a giacere sopra materassine, o guanciali, o lenzoli distesi, o topponi; e balie e altre donne in faccende; e, ciò che più di tutto attraeva e fermava lo sguardo, capre mescolate con quelle, e fatte loro aiutanti: uno spedale d'innocenti, quale il luogo e il tempo potevan darlo.
Era, dico, una cosa singolare a vedere alcune di quelle bestie, ritte e quiete sopra questo e quel bambino, dargli la poppa; e qualche altra accorrere a un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso il piccolo allievo, e procurar d'accomodarcisi sopra, e belare, e dimenarsi, quasi chiamando chi venisse in aiuto a tutt'e due.
Qua e là eran sedute balie con bambini al petto; alcune in tal atto d'amore, da far nascer dubbio nel riguardante, se fossero state attirate in quel luogo dalla paga, o da quella carità spontanea che va in cerca de' bisogni e de' dolori.
Una di esse, tutta accorata, staccava dal suo petto esausto un meschinello piangente, e andava tristamente cercando la bestia, che potesse far le sue veci.
Un'altra guardava con occhio di compiacenza quello che le si era addormentato alla poppa, e baciatolo mollemente, andava in una capanna a posarlo sur una materassina.
Ma una terza, abbandonando il suo petto al lattante straniero, con una cert'aria però non di trascuranza, ma di preoccupazione, guardava fisso il cielo: a che pensava essa, in quell'atto, con quello sguardo, se non a un nato dalle sue viscere, che, forse poco prima, aveva succhiato quel petto, che forse c'era spirato sopra? Altre donne più attempate attendevano ad altri servizi.
Una accorreva alle grida d'un bambino affamato, lo prendeva, e lo portava vicino a una capra che pascolava a un mucchio d'erba fresca, e glielo presentava alle poppe, gridando l'inesperto animale e accarezzandolo insieme, affinché si prestasse dolcemente all'ufizio.
Questa correva a prendere un poverino, che una capra tutt'intenta a allattarne un altro, pestava con una zampa: quella portava in qua e in la il suo, ninnandolo, cercando, ora d'addormentarlo col canto, ora d'acquietarlo con dolci parole, chiamandolo con un nome ch'essa medesima gli aveva messo.
Arrivò in quel punto un cappuccino con la barba bianchissima, portando due bambini strillanti, uno per braccio, raccolti allora vicino alle madri spirate; e una donna corse a riceverli, e andava guardando tra la brigata e nel gregge, per trovar subito chi tenesse lor luogo di madre.
Più d'una volta il giovine, spinto da quello ch'era il primo, e il più forte de' suoi pensieri, s'era staccato dallo spiraglio per andarsene; e poi ci aveva rimesso l'occhio, per guardare ancora un momento.
Levatosi di lì finalmente, andò costeggiando l'assito, fin che un mucchietto di capanne appoggiate a quello, lo costrinse a voltare.
Andò allora lungo le capanne, con la mira di riguadagnar l'assito, d'andar fino alla fine di quello, e scoprir paese nuovo.
Ora, mentre guardava innanzi, per studiar la strada, un'apparizione repentina, passeggiera, istantanea, gli ferì lo sguardo, e gli mise l'animo sottosopra.
Vide, a un cento passi di distanza, passare e perdersi subito tra le baracche un cappuccino, un cappuccino che, anche così da lontano e così di fuga, aveva tutto l'andare, tutto il fare, tutta la forma del padre Cristoforo.
Con la smania che potete pensare, corse verso quella parte; e lì, a girare, a cercare, innanzi, indietro, dentro e fuori, per quegli andirivieni, tanto che rivide, con altrettanta gioia, quella forma, quel frate medesimo; lo vide poco lontano, che, scostandosi da una caldaia, andava, con una scodella in mano, verso una capanna; poi lo vide sedersi sull'uscio di quella, fare un segno di croce sulla scodella che teneva dinanzi; e, guardando intorno, come uno che stia sempre all'erta, mettersi a mangiare.
Era proprio il padre Cristoforo.
La storia del quale, dal punto che l'abbiam perduto di vista, fino a quest'incontro, sarà raccontata in due parole.
Non s'era mai mosso da Rimini, né aveva pensato a moversene, se non quando la peste scoppiata in Milano gli offrì occasione di ciò che aveva sempre tanto desiderato, di dar la sua vita per il prossimo.
Pregò, con grand'istanza, d'esserci richiamato, per assistere e servire gli appestati.
Il conte zio era morto; e del resto c'era più bisogno d'infermieri che di politici: sicché fu esaudito senza difficoltà.
Venne subito a Milano; entrò nel lazzeretto; e c'era da circa tre mesi.
Ma la consolazione di Renzo nel ritrovare il suo buon frate, non fu intera neppure un momento: nell'atto stesso d'accertarsi ch'era lui, dovette vedere quant'era mutato.
Il portamento curvo e stentato; il viso scarno e smorto; e in tutto si vedeva una natura esausta, una carne rotta e cadente, che s'aiutava e si sorreggeva, ogni momento, con uno sforzo dell'animo.
Andava anche lui fissando lo sguardo nel giovine che veniva verso di lui, e che, col gesto, non osando con la voce, cercava di farsi distinguere e riconoscere.
- Oh padre Cristoforo! - disse poi, quando gli fu vicino da poter esser sentito senza alzar la voce.
- Tu qui! - disse il frate, posando in terra la scodella, e alzandosi da sedere.
- Come sta, padre? come sta?
- Meglio di tanti poverini che tu vedi qui, - rispose il frate: e la sua voce era fioca, cupa, mutata come tutto il resto.
L'occhio soltanto era quello di prima, e un non so che più vivo e più splendido; quasi la carità, sublimata nell'estremo dell'opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo principio, ci rimettesse un fuoco più ardente e più puro di quello che l'infermità ci andava a poco a poco spegnendo.
- Ma tu, - proseguiva, - come sei qui? perché vieni così ad affrontar la peste?
- L'ho avuta, grazie al cielo.
Vengo...
a cercar di...
Lucia.
- Lucia! è qui Lucia?
- È qui: almeno spero in Dio che ci sia ancora.
- È tua moglie?
- Oh caro padre! no che non è mia moglie.
Non sa nulla di tutto quello che è accaduto?
- No, figliuolo: da che Dio m'ha allontanato da voi altri, io non n'ho saputo più nulla; ma ora ch'Egli mi ti manda, dico la verità che desidero molto di saperne.
Ma...
e il bando?
- Le sa dunque, le cose che m'hanno fatto?
- Ma tu, che avevi fatto?
- Senta, se volessi dire d'aver avuto giudizio, quel giorno in Milano, direi una bugia; ma cattive azioni non n'ho fatte punto.
- Te lo credo, e lo credevo anche prima.
- Ora dunque le potrò dir tutto.
- Aspetta, - disse il frate; e andato alcuni passi fuor della capanna, chiamò: - padre Vittore! - Dopo qualche momento, comparve un giovine cappuccino, al quale disse: - fatemi la carità, padre Vittore, di guardare anche per me, a questi nostri poverini, intanto ch'io me ne sto ritirato; e se alcuno però mi volesse, chiamatemi.
Quel tale principalmente! se mai desse il più piccolo segno di tornare in sé, avvisatemi subito, per carità.
- Non dubitate, - rispose il giovine; e il vecchio, tornato verso Renzo, - entriamo qui, - gli disse.
- Ma...
- soggiunse subito, fermandosi, - tu mi pari ben rifinito: devi aver bisogno di mangiare.
- È vero, - disse Renzo: - ora che lei mi ci fa pensare, mi ricordo che sono ancora digiuno.
- Aspetta, - disse il frate; e, presa un'altra scodella, l'andò a empire alla caldaia: tornato, la diede, con un cucchiaio, a Renzo; lo fece sedere sur un saccone che gli serviva di letto; poi andò a una botte ch'era in un canto, e ne spillò un bicchier di vino, che mise sur un tavolino, davanti al suo convitato; riprese quindi la sua scodella, e si mise a sedere accanto a lui.
- Oh padre Cristoforo! - disse Renzo: - tocca a lei a far codeste cose? Ma già lei è sempre quel medesimo.
La ringrazio proprio di cuore.
- Non ringraziar me, - disse il frate: - è roba de' poveri; ma anche tu sei un povero, in questo momento.
Ora dimmi quello che non so, dimmi di quella nostra poverina; e cerca di spicciarti; ché c'è poco tempo, e molto da fare, come tu vedi.
Renzo principiò, tra una cucchiaiata e l'altra, la storia di Lucia: com'era stata ricoverata nel monastero di Monza, come rapita...
All'immagine di tali patimenti e di tali pericoli, al pensiero d'essere stato lui quello che aveva indirizzata in quel luogo la povera innocente, il buon frate rimase senza fiato; ma lo riprese subito, sentendo com'era stata mirabilmente liberata, resa alla madre, e allogata da questa presso a donna Prassede.
- Ora le racconterò di me, - proseguì Renzo; e raccontò in succinto la giornata di Milano, la fuga; e come era sempre stato lontano da casa, e ora, essendo ogni cosa sottosopra, s'era arrischiato d'andarci; come non ci aveva trovato Agnese; come in Milano aveva saputo che Lucia era al lazzeretto.
- E son qui, - concluse, - son qui a cercarla, a veder se è viva, e se...
mi vuole ancora...
perché...
alle volte...
- Ma, - domandò il frate, - hai qualche indizio dove sia stata messa, quando ci sia venuta?
- Niente, caro padre; niente se non che è qui, se pur la c'è, che Dio voglia!
- Oh poverino! ma che ricerche hai tu finora fatte qui?
- Ho girato e rigirato; ma, tra l'altre cose, non ho mai visto quasi altro che uomini.
Ho ben pensato che le donne devono essere in un luogo a parte, ma non ci sono mai potuto arrivare: se è così, ora lei me l'insegnerà.
- Non sai, figliuolo, che è proibito d'entrarci agli uomini che non abbiano qualche incombenza?
- Ebbene, cosa mi può accadere?
- La regola è giusta e santa, figliuolo caro; e se la quantità e la gravezza de' guai non lascia che si possa farla osservar con tutto il rigore, è una ragione questa perché un galantuomo la trasgredisca?
- Ma, padre Cristoforo! - disse Renzo: - Lucia doveva esser mia moglie; lei sa come siamo stati separati; son venti mesi che patisco, e ho pazienza; son venuto fin qui, a rischio di tante cose, l'una peggio dell'altra, e ora...
- Non so cosa dire, - riprese il frate, rispondendo piuttosto a' suoi pensieri che alle parole del giovine: - tu vai con buona intenzione; e piacesse a Dio che tutti quelli che hanno libero l'accesso in quel luogo, ci si comportassero come posso fidarmi che farai tu.
Dio, il quale certamente benedice questa tua perseveranza d'affetto, questa tua fedeltà in volere e in cercare colei ch'Egli t'aveva data; Dio, che è più rigoroso degli uomini, ma più indulgente, non vorrà guardare a quel che ci possa essere d'irregolare in codesto tuo modo di cercarla.
Ricordati solo, che, della tua condotta in quel luogo, avremo a render conto tutt'e due; agli uomini facilmente no, ma a Dio senza dubbio.
Vien qui -.
In così dire, s'alzò, e nel medesimo tempo anche Renzo; il quale, non lasciando di dar retta alle sue parole, s'era intanto consigliato tra sé di non parlare, come s'era proposto prima, di quella tal promessa di Lucia.
" Se sente anche questo, - aveva pensato, - mi fa dell'altre difficoltà sicuro.
O la trovo; e saremo sempre a tempo a discorrerne; o...
e allora! che serve? "
Tiratolo sull'uscio della capanna, ch'era a settentrione, il frate riprese: - Senti; il nostro padre Felice, che è il presidente qui del lazzeretto, conduce oggi a far la quarantina altrove i pochi guariti che ci sono.
Tu vedi quella chiesa lì nel mezzo...
- e, alzando la mano scarna e tremolante, indicava a sinistra nell'aria torbida la cupola della cappella, che torreggiava sopra le miserabili tende; e proseguì: - là intorno si vanno ora radunando, per uscire in processione dalla porta per la quale tu devi essere entrato.
- Ah! era per questo dunque, che lavoravano a sbrattare la strada.
- Per l'appunto: e tu devi anche aver sentito qualche tocco di quella campana.
- N'ho sentito uno.
- Era il secondo: al terzo saran tutti radunati: il padre Felice farà loro un piccolo discorso; e poi s'avvierà con loro.
Tu, a quel tocco, portati là; cerca di metterti dietro quella gente, da una parte della strada, dove, senza disturbare, né dar nell'occhio, tu possa vederli passare; e vedi...
vedi...
se la ci fosse.
Se Dio non ha voluto che la ci sia; quella parte, - e alzò di nuovo la mano, accennando il lato dell'edifizio che avevan dirimpetto: - quella parte della fabbrica, e una parte del terreno che è lì davanti, è assegnata alle donne.
Vedrai uno stecconato che divide questo da quel quartiere, ma in certi luoghi interrotto, in altri aperto, sicché non troverai difficoltà per entrare.
Dentro poi, non facendo tu nulla che dia ombra a nessuno, nessuno probabilmente non dirà nulla a te.
Se però ti si facesse qualche ostacolo, dì che il padre Cristoforo da *** ti conosce, e renderà conto di te.
Cercala lì; cercala con fiducia e...
con rassegnazione.
Perché, ricordati che non è poco ciò che tu sei venuto a cercar qui: tu chiedi una persona viva al lazzeretto! Sai tu quante volte io ho veduto rinnovarsi questo mio povero popolo! quanti ne ho veduti portar via! quanti pochi uscire!...
Va' preparato a fare un sacrifizio...
- Già; intendo anch'io, - interruppe Renzo stravolgendo gli occhi, e cambiandosi tutto in viso; - intendo! Vo: guarderò, cercherò, in un luogo, nell'altro, e poi ancora, per tutto il lazzeretto, in lungo e in largo...
e se non la trovo!...
- Se non la trovi? - disse il frate, con un'aria di serietà e d'aspettativa, e con uno sguardo che ammoniva.
Ma Renzo, a cui la rabbia riaccesa dall'idea di quel dubbio aveva fatto perdere il lume degli occhi, ripeté e seguitò: - se non la trovo, vedrò di trovare qualchedun altro.
O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo al mondo, o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante che ci ha separati; quel birbone che, se non fosse stato lui, Lucia sarebbe mia, da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti insieme.
Se c'è ancora colui, lo troverò...
- Renzo! - disse il frate, afferrandolo per un braccio, e guardandolo ancor più severamente.
- E se lo trovo, - continuò Renzo, cieco affatto dalla collera, - se la peste non ha già fatto giustizia...
Non è più il tempo che un poltrone, co' suoi bravi d'intorno, possa metter la gente alla disperazione, e ridersene: è venuto un tempo che gli uomini s'incontrino a viso a viso: e...
la farò io la giustizia!
- Sciagurato! - gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripresa tutta l'antica pienezza e sonorità: - sciagurato! - e la sua testa cadente sul petto s'era sollevata; le gote si colorivano dell'antica vita; e il fuoco degli occhi aveva un non so che di terribile.
- Guarda, sciagurato! - E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il braccio di Renzo, girava l'altra davanti a sé, accennando quanto più poteva della dolorosa scena all'intorno.
- Guarda chi è Colui che gastiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va', sciagurato, vattene! Io, speravo...
sì, ho sperato che, prima della mia morte, Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentir che la mia povera Lucia fosse viva; forse di vederla, e di sentirmi prometter da lei che rivolgerebbe una preghiera là verso quella fossa dov'io sarò.
Va', tu m'hai levata la mia speranza.
Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l'ardire di crederti degno che Dio pensi a consolarti.
Avrà pensato a lei, perché lei è una di quell'anime a cui son riservate le consolazioni eterne.
Va'! non ho più tempo di darti retta.
E così dicendo, rigettò da sé il braccio di Renzo, e si mosse verso una capanna d'infermi.
- Ah padre! - disse Renzo, andandogli dietro in atto supplichevole: - mi vuol mandar via in questa maniera?
- Come! - riprese, con voce non meno severa, il cappuccino.
- Ardiresti tu di pretendere ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, i quali aspettano ch'io parli loro del perdono di Dio, per ascoltar le tue voci di rabbia, i tuoi proponimenti di vendetta? T'ho ascoltato quando chiedevi consolazione e aiuto; ho lasciata la carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore: che vuoi da me? vattene.
Ne ho visti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all'offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che ho da fare?
- Ah gli perdono! gli perdono davvero, gli perdono per sempre! - esclamò il giovine.
- Renzo! - disse, con una serietà più tranquilla, il frate: pensaci; e dimmi un poco quante volte gli hai perdonato.
E, stato alquanto senza ricever risposta, tutt'a un tratto abbassò il capo, e, con voce cupa e lenta, riprese: - tu sai perché io porto quest'abito.
Renzo esitava.
- Tu lo sai! - riprese il vecchio.
- Lo so, - rispose Renzo.
- Ho odiato anch'io: io, che t'ho ripreso per un pensiero, per una parola, l'uomo ch'io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l'ho ucciso.
- Sì, ma un prepotente, uno di quelli...
- Zitto! - interruppe il frate: - credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io non l'avrei trovata in trent'anni? Ah! s'io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l'uomo ch'io odiavo! S'io potessi! io? ma Dio lo può: Egli lo faccia!...
Senti, Renzo: Egli ti vuol più bene di quel che te ne vuoi tu: tu hai potuto macchinar la vendetta; ma Egli ha abbastanza forza e abbastanza misericordia per impedirtela; ti fa una grazia di cui qualchedun altro era troppo indegno.
Tu sai, tu l'hai detto tante volte, ch'Egli può fermar la mano d'un prepotente; ma sappi che può anche fermar quella d'un vendicativo.
E perché sei povero, perché sei offeso, credi tu ch'Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato a sua immagine? Credi tu ch'Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! ma sai tu cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento, allontanar da te ogni benedizione.
Perché, in qualunque maniera t'andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finché tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono.
- Sì, sì, - disse Renzo, tutto commosso, e tutto confuso: capisco che non gli avevo mai perdonato davvero; capisco che ho parlato da bestia, e non da cristiano: e ora, con la grazia del Signore, sì, gli perdono proprio di cuore.
- E se tu lo vedessi?
- Pregherei il Signore di dar pazienza a me, e di toccare il cuore a lui.
- Ti ricorderesti che il Signore non ci ha detto di perdonare a' nostri nemici, ci ha detto d'amarli? Ti ricorderesti ch'Egli lo ha amato a segno di morir per lui?
- Sì, col suo aiuto.
- Ebbene, vieni con me.
Hai detto: lo troverò; lo troverai.
Vieni, e vedrai con chi tu potevi tener odio, a chi potevi desiderar del male, volergliene fare, sopra che vita tu volevi far da padrone.
E, presa la mano di Renzo, e strettala come avrebbe potuto fare un giovine sano, si mosse.
Quello, senza osar di domandar altro, gli andò dietro.
Dopo pochi passi, il frate si fermò vicino all'apertura d'una capanna, fissò gli occhi in viso a Renzo, con un misto di gravità e di tenerezza; e lo condusse dentro.
La prima cosa che si vedeva, nell'entrare, era un infermo seduto sulla paglia nel fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla convalescenza; il quale, visto il padre, tentennò la testa, come accennando di no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e di rassegnazione.
Renzo intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa, involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè del covile, e, stesavi sopra l'altra mano, accennava col dito l'uomo che vi giaceva.
Stava l'infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l'avreste detto il viso d'un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d'una vita tenace.
Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.
- Tu vedi! - disse il frate, con voce bassa e grave.
- Può esser gastigo, può esser misericordia.
Il sentimento che tu proverai ora per quest'uomo che t'ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno.
Benedicilo, e sei benedetto.
Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento.
Forse il Signore è pronto a concedergli un'ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d'un cuore afflitto e rassegnato.
Forse la salvezza di quest'uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione...
d'amore!
Tacque; e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse, e pregò: Renzo fece lo stesso.
Erano da pochi momenti in quella positura, quando scoccò la campana.
Si mossero tutt'e due, come di concerto; e uscirono.
Né l'uno fece domande, né l'altro proteste: i loro visi parlavano.
- Va' ora, - riprese il frate, - va' preparato, sia a ricevere una grazia, sia a fare un sacrifizio; a lodar Dio, qualunque sia l'esito delle tue ricerche.
E qualunque sia, vieni a darmene notizia; noi lo loderemo insieme.
Qui, senza dir altro, si separarono; uno tornò dond'era venuto; l'altro s'avviò alla cappella, che non era lontana più d'un cento passi.
CAPITOLO XXXVI
Chi avrebbe mai detto a Renzo, qualche ora prima, che, nel forte d'una tal ricerca, al cominciar de' momenti più dubbiosi e più decisivi, il suo cuore sarebbe stato diviso tra Lucia e don Rodrigo? Eppure era così: quella figura veniva a mischiarsi con tutte l'immagini care o terribili che la speranza o il timore gli mettevan davanti a vicenda, in quel tragitto; le parole sentite appiè di quel covile, si cacciavano tra i sì e i no, ond'era combattuta la sua mente; e non poteva terminare una preghiera per l'esito felice del gran cimento, senza attaccarci quella che aveva principiata là, e che lo scocco della campana aveva troncata.
La cappella ottangolare che sorge, elevata d'alcuni scalini, nel mezzo del lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperta da tutti i lati, senz'altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per dir così, traforata: in ogni facciata un arco tra due intercolunni; dentro girava un portico intorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta che d'otto archi, rispondenti a quelli delle facciate, con sopra una cupola; di maniera che l'altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto del campo.
Ora, convertito l'edifizio a tutt'altr'uso, i vani delle facciate son murati; ma l'antica ossatura, rimasta intatta, indica chiaramente l'antico stato, e l'antica destinazione di quello.
Renzo s'era appena avviato, che vide il padre Felice comparire nel portico della cappella, e affacciarsi sull'arco di mezzo del lato che guarda verso la città; davanti al quale era radunata la comitiva, al piano, nella strada di mezzo; e subito dal suo contegno s'accorse che aveva cominciata la predica.
Girò per quelle viottole, per arrivare alla coda dell'uditorio, come gli era stato suggerito.
Arrivatoci, si fermò cheto cheto, lo scorse tutto con lo sguardo; ma non vedeva di là altro che un folto, direi quasi un selciato di teste.
Nel mezzo, ce n'era un certo numero coperte di fazzoletti, o di veli: in quella parte ficcò più attentamente gli occhi; ma, non arrivando a scoprirci dentro nulla di più, gli alzò anche lui dove tutti tenevan fissi i loro.
Rimase tocco e compunto dalla venerabil figura del predicatore; e, con quel che gli poteva restar d'attenzione in un tal momento d'aspettativa, sentì questa parte del solenne ragionamento.
- Diamo un pensiero ai mille e mille che sono usciti di là -; e, col dito alzato sopra la spalla, accennava dietro sé la porta che mette al cimitero detto di san Gregorio, il quale allora era tutto, si può dire, una gran fossa: - diamo intorno un'occhiata ai mille e mille che rimangon qui, troppo incerti di dove sian per uscire; diamo un'occhiata a noi, così pochi, che n'usciamo a salvamento.
Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia! benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perché l'ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall'afflizione, e infervorato dalla gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l'impieghiamo nell'opere che si possono offrire a Lui? se non a fine che la memoria de' nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi? Questi intanto, in compagnia de' quali abbiamo penato, sperato, temuto; tra i quali lasciamo degli amici, de' congiunti; e che tutti son poi finalmente nostri fratelli; quelli tra questi, che ci vedranno passare in mezzo a loro, mentre forse riceveranno qualche sollievo nel pensare che qualcheduno esce pur salvo di qui, ricevano edificazione dal nostro contegno.
Dio non voglia che possano vedere in noi una gioia rumorosa, una gioia mondana d'avere scansata quella morte, con la quale essi stanno ancor dibattendosi.
Vedano che partiamo ringraziando per noi, e pregando per loro; e possan dire: anche fuor di qui, questi si ricorderanno di noi, continueranno a pregare per noi meschini.
Cominciamo da questo viaggio, da' primi passi che siam per fare, una vita tutta di carità.
Quelli che sono tornati nell'antico vigore, diano un braccio fraterno ai fiacchi; giovani, sostenete i vecchi; voi che siete rimasti senza figliuoli, vedete, intorno a voi, quanti figliuoli rimasti senza padre! siatelo per loro! E questa carità, ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà anche i vostri dolori.
Qui un sordo mormorìo di gemiti, un singhiozzìo che andava crescendo nell'adunanza, fu sospeso a un tratto, nel vedere il predicatore mettersi una corda al collo, e buttarsi in ginocchio: e si stava in gran silenzio, aspettando quel che fosse per dire.
- Per me, - disse, - e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all'alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero.
Se la pigrizia, se l'indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un'ingiusta impazienza, se un colpevol tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell'umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandolo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica -.
E, fatto sull'udienza un gran segno di croce, s'alzò.
Noi abbiam potuto riferire, se non le precise parole, il senso almeno, il tema di quelle che proferì davvero; ma la maniera con cui furon dette non è cosa da potersi descrivere.
Era la maniera d'un uomo che chiamava privilegio quello di servir gli appestati, perché lo teneva per tale; che confessava di non averci degnamente corrisposto, perché sentiva di non averci corrisposto degnamente; che chiedeva perdono, perché era persuaso d'averne bisogno.
Ma la gente che s'era veduti d'intorno que' cappuccini non occupati d'altro che di servirla, e tanti n'aveva veduti morire, e quello che parlava per tutti, sempre il primo alla fatica, come nell'autorità, se non quando s'era trovato anche lui in fin di morte; pensate con che singhiozzi, con che lacrime rispose a tali parole.
Il mirabil frate prese poi una gran croce ch'era appoggiata a un pilastro, se la inalberò davanti, lasciò sull'orlo del portico esteriore i sandali, scese gli scalini, e, tra la folla che gli fece rispettosamente largo, s'avviò per mettersi alla testa di essa.
Renzo, tutto lacrimoso, né più né meno che se fosse stato uno di quelli a cui era chiesto quel singolare perdono, si ritirò anche lui, e andò a mettersi di fianco a una capanna; e stette lì aspettando, mezzo nascosto, con la persona indietro e la testa avanti, con gli occhi spalancati, con una gran palpitazion di cuore, ma insieme con una certa nuova e particolare fiducia, nata, cred'io, dalla tenerezza che gli aveva ispirata la predica, e lo spettacolo della tenerezza generale.
Ed ecco arrivare il padre Felice, scalzo, con quella corda al collo, con quella lunga e pesante croce alzata; pallido e scarno il viso, un viso che spirava compunzione insieme e coraggio; a passo lento, ma risoluto, come di chi pensa soltanto a risparmiare l'altrui debolezza; e in tutto come un uomo a cui un di più di fatiche e di disagi desse la forza di sostenere i tanti necessari e inseparabili da quel suo incarico.
Subito dopo lui, venivano i fanciulli più grandini, scalzi una gran parte, ben pochi interamente vestiti, chi affatto in camicia.
Venivan poi le donne, tenendo quasi tutte per la mano una bambina, e cantando alternativamente il Miserere; e il suono fiacco di quelle voci, il pallore e la languidezza di que' visi eran cose da occupar tutto di compassione l'animo di chiunque si fosse trovato lì come semplice spettatore.
Ma Renzo guardava, esaminava, di fila in fila, di viso in viso, senza passarne uno; ché la processione andava tanto adagio, da dargliene tutto il comodo.
Passa e passa; guarda e guarda; sempre inutilmente: dava qualche occhiata di corsa alle file che rimanevano ancora indietro: sono ormai poche; siamo all'ultima; son passate tutte; furon tutti visi sconosciuti.
Con le braccia ciondoloni, e con la testa piegata sur una spalla, accompagnò con l'occhio quella schiera, mentre gli passava davanti quella degli uomini.
Una nuova attenzione, una nuova speranza gli nacque nel veder, dopo questi, comparire alcuni carri, su cui erano i convalescenti che non erano ancora in istato di camminare.
Lì le donne venivan l'ultime; e il treno andava così adagio che Renzo poté ugualmente esaminarle tutte, senza che gliene sfuggisse una.
Ma che? esamina il primo carro, il secondo, il terzo, e via discorrendo, sempre con la stessa riuscita, fino a uno, dietro al quale non veniva più che un altro cappuccino, con un aspetto serio, e con un bastone in mano, come regolatore della comitiva.
Era quel padre Michele che abbiam detto essere stato dato per compagno nel governo al padre Felice.
Così svanì affatto quella cara speranza; e, andandosene, non solo portò via il conforto che aveva recato, ma, come accade le più volte, lasciò l'uomo in peggiore stato di prima.
Ormai quel che ci poteva esser di meglio, era di trovar Lucia ammalata.
Pure, all'ardore d'una speranza presente sottentrando quello del timore cresciuto, il poverino s'attaccò con tutte le forze dell'animo a quel tristo e debole filo; entrò nella corsia, e s'incamminò da quella parte di dove era venuta la processione.
Quando fu appiè della cappella, andò a inginocchiarsi sull'ultimo scalino; e lì fece a Dio una preghiera, o, per dir meglio, una confusione di parole arruffate, di frasi interrotte, d'esclamazioni, d'istanze, di lamenti, di promesse: uno di que' discorsi che non si fanno agli uomini, perche non hanno abbastanza penetrazione per intenderli, né pazienza per ascoltarli; non son grandi abbastanza per sentirne compassione senza disprezzo.
S'alzò alquanto più rincorato; girò intorno alla cappella; si trovò nell'altra corsia che non aveva ancora veduta, e che riusciva all'altra porta; dopo pochi passi, vide lo stecconato di cui gli aveva parlato il frate, ma interrotto qua e là, appunto come questo aveva detto; entrò per una di quelle aperture, e si trovò nel quartiere delle donne.
Quasi al primo passo che fece, vide in terra un campanello, di quelli che i monatti portavano a un piede; gli venne in mente che un tale strumento avrebbe potuto servirgli come di passaporto là dentro; lo prese, guardò se nessuno lo guardava, e se lo legò come usavan quelli.
E si mise subito alla ricerca, a quella ricerca, che, per la quantità sola degli oggetti sarebbe stata fieramente gravosa, quand'anche gli oggetti fossero stati tutt'altri; cominciò a scorrer con l'occhio, anzi a contemplar nuove miserie, così simili in parte alle già vedute, in parte così diverse: ché, sotto la stessa calamità, era qui un altro patire, per dir così, un altro languire, un altro lamentarsi, un altro sopportare, un altro compatirsi e soccorrersi a vicenda; era, in chi guardasse, un'altra pietà e un altro ribrezzo.
Aveva già fatto non so quanta strada, senza frutto e senza accidenti; quando si sentì dietro le spalle un - oh! - una chiamata, che pareva diretta a lui.
Si voltò e vide, a una certa distanza, un commissario, che alzò una mano, accennando proprio a lui, e gridando: - là nelle stanze, ché c'è bisogno d'aiuto: qui s'è finito ora di sbrattare.
Renzo s'avvide subito per chi veniva preso, e che il campanello era la cagione dell'equivoco; si diede della bestia d'aver pensato solamente agl'impicci che quell'insegna gli poteva scansare, e non a quelli che gli poteva tirare addosso; ma pensò nello stesso tempo alla maniera di sbrigarsi subito da colui.
Gli fece replicatamente e in fretta un cenno col capo, come per dire che aveva inteso, e che ubbidiva; e si levò dalla sua vista, cacciandosi da una parte tra le capanne.
Quando gli parve d'essere abbastanza lontano, pensò anche a liberarsi dalla causa dello scandolo; e, per far quell'operazione senz'essere osservato, andò a mettersi in un piccolo spazio tra due capanne che si voltavan, per dir così, la schiena.
Si china per levarsi il campanello, e stando così col capo appoggiato alla parete di paglia d'una delle capanne, gli vien da quella all'orecchio una voce...
Oh cielo! è possibile? Tutta la sua anima è in quell'orecchio: la respirazione è sospesa...
Sì! sì! è quella voce!...
- Paura di che? - diceva quella voce soave: - abbiam passato ben altro che un temporale.
Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso.
Se Renzo non cacciò un urlo, non fu per timore di farsi scorgere, fu perché non n'ebbe il fiato.
Gli mancaron le ginocchia, gli s'appannò la vista; ma fu un primo momento; al secondo, era ritto, più desto, più vigoroso di prima; in tre salti girò la capanna, fu sull'uscio, vide colei che aveva parlato, la vide levata, chinata sopra un lettuccio.
Si volta essa al rumore; guarda, crede di travedere, di sognare; guarda più attenta, e grida: - oh Signor benedetto!
- Lucia! v'ho trovata! vi trovo! siete proprio voi! siete viva! esclamò Renzo, avanzandosi, tutto tremante.
- Oh Signor benedetto! - replicò, ancor più tremante, Lucia: - voi? che cosa è questa! in che maniera? perché? La peste!
- L'ho avuta.
E voi...?
- Ah!...
anch'io.
E di mia madre...?
- Non l'ho vista, perché è a Pasturo; credo però che stia bene.
Ma voi...
come siete ancora pallida! come parete debole! Guarita però, siete guarita?
- Il Signore m'ha voluto lasciare ancora quaggiù.
Ah Renzo! perché siete voi qui?
- Perché? - disse Renzo avvicinandosele sempre più: - mi domandate perché? Perché ci dovevo venire? Avete bisogno che ve lo dica? Chi ho io a cui pensi? Non mi chiamo più Renzo, io? Non siete più Lucia, voi?
- Ah cosa dite! cosa dite! Ma non v'ha fatto scrivere mia madre...?
- Sì: pur troppo m'ha fatto scrivere.
Belle cose da fare scrivere a un povero disgraziato, tribolato, ramingo, a un giovine che, dispetti almeno, non ve n'aveva mai fatti!
- Ma Renzo! Renzo! giacché sapevate...
perché venire? perché?
- Perché venire! Oh Lucia! perché venire, mi dite? Dopo tante promesse! Non siam più noi? Non vi ricordate più? Che cosa ci mancava?
- Oh Signore! - esclamò dolorosamente Lucia, giungendo le mani, e alzando gli occhi al cielo: - perché non m'avete fatta la grazia di tirarmi a Voi...! Oh Renzo! cos'avete mai fatto? Ecco; cominciavo a sperare che...
col tempo...
mi sarei dimenticata...
- Bella speranza! belle cose da dirmele proprio sul viso!
- Ah, cos'avete fatto! E in questo luogo! tra queste miserie! tra questi spettacoli! qui dove non si fa altro che morire, avete potuto...!
- Quelli che moiono, bisogna pregare Iddio per loro, e sperare che anderanno in un buon luogo; ma non è giusto, né anche per questo, che quelli che vivono abbiano a viver disperati...
- Ma, Renzo! Renzo! voi non pensate a quel che dite.
Una promessa alla Madonna!...
Un voto!
- E io vi dico che son promesse che non contan nulla.
- Oh Signore! Cosa dite? Dove siete stato in questo tempo? Con chi avete trattato? Come parlate?
- Parlo da buon cristiano; e della Madonna penso meglio io che voi; perché credo che non vuol promesse in danno del prossimo.
Se la Madonna avesse parlato, oh, allora! Ma cos'è stato? una vostra idea.
Sapete cosa dovete promettere alla Madonna? Promettetele che la prima figlia che avremo, le metteremo nome Maria: ché questo son qui anch'io a prometterlo: queste son cose che fanno ben più onore alla Madonna: queste son divozioni che hanno più costrutto, e non portan danno a nessuno.
- No no; non dite così: non sapete quello che vi dite: non lo sapete voi cosa sia fare un voto: non ci siete stato voi in quel caso: non avete provato.
Andate, andate, per amor del cielo!
E si scostò impetuosamente da lui, tornando verso il lettuccio.
- Lucia! - disse Renzo, senza moversi: - ditemi almeno, ditemi: se non fosse questa ragione...
sareste la stessa per me?
- Uomo senza cuore! - rispose Lucia, voltandosi, e rattenendo a stento le lacrime: - quando m'aveste fatte dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbero forse peccati, sareste contento? Andate, oh andate! dimenticatevi di me: si vede che non eravamo destinati! Ci rivedremo lassù: già non ci si deve star molto in questo mondo.
Andate; cercate di far sapere a mia madre che son guarita, che anche qui Dio m'ha sempre assistita, che ho trovato un'anima buona, questa brava donna, che mi fa da madre; ditele che spero che lei sarà preservata da questo male, e che ci rivedremo quando Dio vorrà, e come vorrà...
Andate, per amor del cielo, e non pensate a me...
se non quando pregherete il Signore.
E, come chi non ha più altro da dire, né vuol sentir altro, come chi vuol sottrarsi a un pericolo, si ritirò ancor più vicino al lettuccio, dov'era la donna di cui aveva parlato.
- Sentite, Lucia, sentite! - disse Renzo, senza però accostarsele di più.
- No, no; andate per carità!
- Sentite: il padre Cristoforo...
- Che?
- È qui.
- Qui? dove? Come lo sapete?
- Gli ho parlato poco fa; sono stato un pezzo con lui: e un religioso della sua qualità, mi pare...
- È qui! per assistere i poveri appestati, sicuro.
Ma lui? l'ha avuta la peste?
- Ah Lucia! ho paura, ho paura pur troppo...
- e mentre Renzo esitava così a proferir la parola dolorosa per lui, e che doveva esserlo tanto a Lucia, questa s'era staccata di nuovo dal lettuccio, e si ravvicinava a lui: - ho paura che l'abbia adesso!
- Oh povero sant'uomo! Ma cosa dico, pover'uomo? Poveri noi! Com'è? è a letto? è assistito?
- È levato, gira, assiste gli altri; ma se lo vedeste, che colore che ha, come si regge! Se n'è visti tanti e tanti, che pur troppo...
non si sbaglia!
- Oh poveri noi! E è proprio qui!
- Qui, e poco lontano: poco più che da casa vostra a casa mia...
se vi ricordate...!
- Oh Vergine Santissima!
- Bene, poco più.
E pensate se abbiam parlato di voi! M'ha detto delle cose...
E se sapeste cosa m'ha fatto vedere! Sentirete; ma ora voglio cominciare a dirvi quel che m'ha detto prima, lui, con la sua propria bocca.
M'ha detto che facevo bene a venirvi a cercare, e che al Signore gli piace che un giovine tratti così, e m'avrebbe aiutato a far che vi trovassi; come è proprio stato la verità: ma già è un santo.
Sicché, vedete!
- Ma, se ha parlato così, è perché lui non sa...
- Che volete che sappia lui delle cose che avete fatte voi di vostra testa, senza regola e senza il parere di nessuno? Un brav'uomo, un uomo di giudizio, come è lui, non va a pensar cose di questa sorte.
Ma quel che m'ha fatto vedere! - E qui raccontò la visita fatta a quella capanna: Lucia, quantunque i suoi sensi e il suo animo, avessero, in quel soggiorno, dovuto avvezzarsi alle più forti impressioni, stava tutta compresa d'orrore e di compassione.
- E anche lì, - proseguì Renzo, - ha parlato da santo: ha detto che il Signore forse ha destinato di far la grazia a quel meschino...
(ora non potrei proprio dargli un altro nome)...
che aspetta di prenderlo in un buon punto; ma vuole che noi preghiamo insieme per lui...
Insieme! avete inteso?
- Sì, sì; lo pregheremo, ognuno dove il Signore ci terrà: le orazioni le sa mettere insieme Lui.
- Ma se vi dico le sue parole...!
- Ma Renzo, lui non sa...
- Ma non capite che, quando è un santo che parla, è il Signore che lo fa parlare? e che non avrebbe parlato così, se non dovesse esser proprio così?...
E l'anima di quel poverino? Io ho bensì pregato, e pregherò per lui: di cuore ho pregato, proprio come se fosse stato per un mio fratello.
Ma come volete che stia nel mondo di là, il poverino, se di qua non s'accomoda questa cosa, se non è disfatto il male che ha fatto lui? Che se voi intendete la ragione, allora tutto è come prima: quel che è stato è stato: lui ha fatto la sua penitenza di qua...
- No, Renzo, no: il Signore non vuole che facciamo del male, per far Lui misericordia.
Lasciate fare a Lui, per questo: noi, il nostro dovere è di pregarlo.
S'io fossi morta quella notte, non gli avrebbe dunque potuto perdonare? E se non son morta, se sono stata liberata...
- E vostra madre, quella povera Agnese, che m'ha sempre voluto tanto bene, e che si struggeva tanto di vederci marito e moglie, non ve l'ha detto anche lei che l'è un'idea storta? Lei, che v'ha fatto intender la ragione anche dell'altre volte, perché, in certe cose, pensa più giusto di voi...
- Mia madre! volete che mia madre mi desse il parere di mancare a un voto! Ma, Renzo! non siete in voi.
- Oh! volete che ve la dica? Voi altre donne, queste cose non le potete sapere.
Il padre Cristoforo m'ha detto che tornassi da lui a raccontargli se v'avevo trovata.
Vo: lo sentiremo: quel che dirà lui...
- Sì, sì; andate da quel sant'uomo; ditegli che prego per lui, e che preghi per me, che n'ho bisogno tanto tanto! Ma, per amor del cielo, per l'anima vostra, per l'anima mia, non venite più qui, a farmi del male, a...
tentarmi.
Il padre Cristoforo, lui saprà spiegarvi le cose, e farvi tornare in voi; lui vi farà mettere il cuore in pace.
- Il cuore in pace! Oh! questo, levatevelo dalla testa.
Già me l'avete fatta scrivere questa parolaccia; e so io quel che m'ha fatto patire; e ora avete anche il cuore di dirmela.
E io in vece vi dico chiaro e tondo che il cuore in pace non lo metterò mai.
Voi volete dimenticarvi di me; e io non voglio dimenticarmi di voi.
E vi prometto, vedete, che, se mi fate perdere il giudizio, non lo racquisto più.
Al diavolo il mestiere, al diavolo la buona condotta! Volete condannarmi a essere arrabbiato per tutta la vita; e da arrabbiato viverò...
E quel disgraziato! Lo sa il Signore se gli ho perdonato di cuore; ma voi...
Volete dunque farmi pensare per tutta la vita che se non era lui...? Lucia! avete detto ch'io vi dimentichi: ch'io vi dimentichi! Come devo fare? A chi credete ch'io pensassi in tutto questo tempo?...
E dopo tante cose! dopo tante promesse! Cosa v'ho fatto io, dopo che ci siamo lasciati? Perché ho patito, mi trattate così? perché ho avuto delle disgrazie? perché la gente del mondo m'ha perseguitato? perché ho passato tanto tempo fuori di casa, tristo, lontano da voi? perché, al primo momento che ho potuto, son venuto a cercarvi?
Lucia, quando il pianto le permise di formar parole, esclamò, giungendo di nuovo le mani, e alzando al cielo gli occhi pregni di lacrime: - o Vergine santissima, aiutatemi voi! Voi sapete che, dopo quella notte, un momento come questo non l'ho mai passato.
M'avete soccorsa allora; soccorretemi anche adesso!
- Sì, Lucia; fate bene d'invocar la Madonna; ma perché volete credere che Lei che è tanto buona, la madre delle misericordie, possa aver piacere di farci patire...
me almeno...
per una parola scappata in un momento che non sapevate quello che vi dicevate? Volete credere che v'abbia aiutata allora, per lasciarci imbrogliati dopo?...
Se poi questa fosse una scusa; se è ch'io vi sia venuto in odio...
ditemelo...
parlate chiaro.
- Per carità, Renzo, per carità, per i vostri poveri morti, finitela, finitela; non mi fate morire...
Non sarebbe un buon momento.
Andate dal padre Cristoforo; raccomandatemi a lui, non tornate più qui, non tornate più qui.
- Vo; ma pensate se non voglio tornare! Tornerei se fosse in capo al mondo, tornerei -.
E disparve.
Lucia andò a sedere, o piuttosto si lasciò cadere in terra, accanto al lettuccio; e, appoggiata a quello la testa, continuò a piangere dirottamente.
La donna, che fin allora era stata a occhi e orecchi aperti, senza fiatare, domandò cosa fosse quell'apparizione, quella contesa, questo pianto.
Ma forse il lettore domanda dal canto suo chi fosse costei; e, per soddisfarlo, non ci vorranno, né anche qui, troppe parole.
Era un'agiata mercantessa, di forse trent'anni.
Nello spazio di pochi giorni, s'era visto morire in casa il marito e tutti i figliuoli: di lì a poco, venutale la peste anche a lei, era stata trasportata al lazzeretto, e messa in quella capannuccia, nel tempo che Lucia, dopo aver superata, senza avvedersene, la furia del male, e cambiate, ugualmente senza avvedersene, più compagne, cominciava a riaversi, e a tornare in sé; ché, fin dal principio della malattia, trovandosi ancora in casa di don Ferrante, era rimasta come insensata.
La capanna non poteva contenere che due persone: e tra queste due, afflitte, derelitte, sbigottite, sole in tanta moltitudine, era presto nata un'intrinsichezza, un'affezione, che appena sarebbe potuta venire da un lungo vivere insieme.
In poco tempo, Lucia era stata in grado di poter aiutar l'altra, che s'era trovata aggravatissima.
Ora che questa pure era fuori di pericolo, si facevano compagnia e coraggio e guardia a vicenda; s'eran promesse di non uscir dal lazzeretto, se non insieme; e avevan presi altri concerti per non separarsi neppur dopo.
La mercantessa che, avendo lasciata in custodia d'un suo fratello commissario della Sanità, la casa e il fondaco e la cassa, tutto ben fornito, era per trovarsi sola e trista padrona di molto più di quel che le bisognasse per viver comodamente, voleva tener Lucia con sé, come una figliuola o una sorella.
Lucia aveva aderito, pensate con che gratitudine per lei, e per la Provvidenza; ma soltanto fin che potesse aver nuove di sua madre, e sapere, come sperava, la volontà di essa.
Del resto, riservata com'era, né della promessa dello sposalizio, né dell'altre sue avventure straordinarie, non aveva mai detta una parola.
Ma ora, in un così gran ribollimento d'affetti, aveva almen tanto bisogno di sfogarsi, quanto l'altra desiderio di sentire.
E, stretta con tutt'e due le mani la destra di lei, si mise subito a soddisfare alla domanda, senz'altro ritegno, che quello che le facevano i singhiozzi.
Renzo intanto trottava verso il quartiere del buon frate.
Con un po' di studio, e non senza dover rifare qualche pezzetto di strada, gli riuscì finalmente d'arrivarci.
Trovò la capanna; lui non ce lo trovò; ma, ronzando e cercando nel contorno, lo vide in una baracca, che, piegato a terra, e quasi bocconi, stava confortando un moribondo.
Si fermò lì, aspettando in silenzio.
Poco dopo, lo vide chiuder gli occhi a quel poverino, poi mettersi in ginocchio, far orazione un momento, e alzarsi.
Allora si mosse, e gli andò incontro
- Oh! - disse il frate, vistolo venire; - ebbene?
- La c'è: l'ho trovata!
- In che stato?
- Guarita, o almeno levata.
- Sia ringraziato il Signore!
- Ma...
- disse Renzo, quando gli fu vicino da poter parlar sottovoce: - c'è un altro imbroglio.
- Cosa c'è?
- Voglio dire che...
Già lei lo sa come è buona quella povera giovine; ma alle volte è un po' fissa nelle sue idee.
Dopo tante promesse, dopo tutto quello che sa anche lei, ora dice che non mi può sposare, perché dice, che so io? che, quella notte della paura, s'è scaldata la testa, e s'è, come a dire, votata alla Madonna.
Cose senza costrutto, n'è vero? Cose buone, chi ha la scienza e il fondamento da farle, ma per noi gente ordinaria, che non sappiamo bene come si devon fare...
n'è vero che son cose che non valgono?
- Dimmi: è molto lontana di qui?
- Oh no: pochi passi di là dalla chiesa.
- Aspettami qui un momento, - disse il frate: - e poi ci anderemo insieme.
- Vuol dire che lei le farà intendere...
- Non so nulla, figliuolo; bisogna ch'io senta lei.
- Capisco, - disse Renzo, e stette con gli occhi fissi a terra, e con le braccia incrociate sul petto, a masticarsi la sua incertezza, rimasta intera.
Il frate andò di nuovo in cerca di quel padre Vittore, lo pregò di supplire ancora per lui, entrò nella sua capanna, n'uscì con la sporta in braccio, tornò da Renzo, gli disse: - andiamo -; e andò innanzi, avviandosi a quella tal capanna, dove, qualche tempo prima, erano entrati insieme.
Questa volta, entrò solo, e dopo un momento ricomparve, e disse: - niente! Preghiamo; preghiamo -.
Poi riprese: - ora, conducimi tu.
E senza dir altro, s'avviarono.
Il tempo s'era andato sempre più rabbuiando, e annunziava ormai certa e poco lontana la burrasca.
De' lampi fitti rompevano l'oscurità cresciuta, e lumeggiavano d'un chiarore istantaneo i lunghissimi tetti e gli archi de' portici, la cupola della cappella, i bassi comignoli delle capanne; e i tuoni scoppiati con istrepito repentino, scorrevano rumoreggiando dall'una all'altra regione del cielo.
Andava innanzi il giovine, attento alla strada, con una grand'impazienza d'arrivare, e rallentando però il passo, per misurarlo alle forze del compagno; il quale, stanco dalle fatiche, aggravato dal male, oppresso dall'afa, camminava stentatamente, alzando ogni tanto al cielo la faccia smunta, come per cercare un respiro più libero.
Renzo, quando vide la capanna, si fermò, si voltò indietro, disse con voce tremante: - è qui.
Entrano...
- Eccoli! - grida la donna del lettuccio.
Lucia si volta, s'alza precipitosamente, va incontro al vecchio, gridando: - oh chi vedo! O padre Cristoforo!
- Ebbene, Lucia! da quante angustie v'ha liberata il Signore! Dovete esser ben contenta d'aver sempre sperato in Lui.
- Oh sì! Ma lei, padre? Povera me, come è cambiato! Come sta? dica: come sta?
- Come Dio vuole, e come, per sua grazia, voglio anch'io, rispose, con volto sereno, il frate.
E, tiratala in un canto, soggiunse: - sentite: io non posso rimaner qui che pochi momenti.
Siete voi disposta a confidarvi in me, come altre volte?
- Oh! non è lei sempre il mio padre?
- Figliuola, dunque; cos'è codesto voto che m'ha detto Renzo?
- È un voto che ho fatto alla Madonna...
oh! in una gran tribolazione!...
di non maritarmi.
- Poverina! Ma avete pensato allora, ch'eravate legata da una promessa?
- Trattandosi del Signore e della Madonna!...
non ci ho pensato.
- Il Signore, figliuola, gradisce i sagrifizi, l'offerte, quando le facciamo del nostro.
È il cuore che vuole, è la volontà: ma voi non potevate offrirgli la volontà d'un altro, al quale v'eravate già obbligata.
- Ho fatto male?
- No, poverina, non pensate a questo: io credo anzi che la Vergine santa avrà gradita l'intenzione del vostro cuore afflitto, e l'avrà offerta a Dio per voi.
Ma ditemi; non vi siete mai consigliata con nessuno su questa cosa?
- Io non pensavo che fosse male, da dovermene confessare: e quel poco bene che si può fare, si sa che non bisogna raccontarlo.
- Non avete nessun altro motivo che vi trattenga dal mantener la promessa che avete fatta a Renzo?
- In quanto a questo...
per me...
che motivo...? Non potrei proprio dire...
- rispose Lucia, con un'esitazione che indicava tutt'altro che un'incertezza del pensiero; e il suo viso ancora scolorito dalla malattia, fiorì tutt'a un tratto del più vivo rossore.
- Credete voi, - riprese il vecchio, abbassando gli occhi, - che Dio ha data alla sua Chiesa l'autorità di rimettere e di ritenere, secondo che torni in maggior bene, i debiti e gli obblighi che gli uomini possono aver contratti con Lui?
- Sì, che lo credo.
- Ora sappiate che noi, deputati alla cura dell'anime in questo luogo, abbiamo, per tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa; e che per conseguenza, io posso, quando voi lo chiediate, sciogliervi dall'obbligo, qualunque sia, che possiate aver contratto a cagion di codesto voto.
- Ma non è peccato tornare indietro, pentirsi d'una promessa fatta alla Madonna? Io allora l'ho fatta proprio di cuore...
- disse Lucia, violentemente agitata dall'assalto d'una tale inaspettata, bisogna pur dire speranza, e dall'insorgere opposto d'un terrore fortificato da tutti i pensieri che, da tanto tempo, eran la principale occupazione dell'animo suo.
- Peccato, figliuola? - disse il padre: - peccato il ricorrere alla Chiesa, e chiedere al suo ministro che faccia uso dell'autorità che ha ricevuto da essa, e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati condotti ad unirvi; e, certo, se mai m'è parso che due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli: ora non vedo perché Dio v'abbia a voler separati.
E lo benedico che m'abbia dato, indegno come sono, il potere di parlare in suo nome, e di rendervi la vostra parola.
E se voi mi chiedete ch'io vi dichiari sciolta da codesto voto, io non esiterò a farlo; e desidero anzi che me lo chiediate.
- Allora...! allora...! lo chiedo; - disse Lucia, con un volto non turbato più che di pudore.
Il frate chiamò con un cenno il giovine, il quale se ne stava nel cantuccio il più lontano, guardando (giacché non poteva far altro) fisso fisso al dialogo in cui era tanto interessato; e, quando quello fu lì, disse, a voce più alta, a Lucia: - con l'autorità che ho dalla Chiesa, vi dichiaro sciolta dal voto di verginità, annullando ciò che ci poté essere d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione che poteste averne contratta.
Pensi il lettore che suono facessero all'orecchio di Renzo tali parole.
Ringraziò vivamente con gli occhi colui che le aveva proferite; e cercò subito, ma invano, quelli di Lucia.
- Tornate, con sicurezza e con pace, ai pensieri d'una volta, seguì a dirle il cappuccino: - chiedete di nuovo al Signore le grazie che Gli chiedevate, per essere una moglie santa; e confidate che ve le concederà più abbondanti, dopo tanti guai.
E tu, - disse, voltandosi a Renzo, - ricordati, figliuolo, che se la Chiesa ti rende questa compagna, non lo fa per procurarti una consolazione temporale e mondana, la quale, se anche potesse essere intera, e senza mistura d'alcun dispiacere, dovrebbe finire in un gran dolore, al momento di lasciarvi; ma lo fa per avviarvi tutt'e due sulla strada della consolazione che non avrà fine.
Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d'avere a lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi per sempre.
Ringraziate il cielo che v'ha condotti a questo stato, non per mezzo dell'allegrezze turbolente e passeggiere, ma co' travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla.
Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira d'allevarli per Lui, d'istillar loro l'amore di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto.
Lucia! v'ha detto, - e accennava Renzo, - chi ha visto qui?
- Oh padre, me l'ha detto!
- Voi pregherete per lui! Non ve ne stancate.
E anche per me pregherete!...
Figliuoli! voglio che abbiate un ricordo del povero frate -.
E qui levò dalla sporta una scatola d'un legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa finitezza cappuccinesca; e proseguì: - qui dentro c'è il resto di quel pane...
il primo che ho chiesto per carità; quel pane, di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli.
Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a' superbi e a' provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino, anche loro, per il povero frate!
E porse la scatola a Lucia, che la prese con rispetto, come si farebbe d'una reliquia.
Poi, con voce più tranquilla, riprese: - ora ditemi; che appoggi avete qui in Milano? Dove pensate d'andare a alloggiare, appena uscita di qui? E chi vi condurrà da vostra madre, che Dio voglia aver conservata in salute?
- Questa buona signora mi fa lei intanto da madre: noi due usciremo di qui insieme, e poi essa penserà a tutto.
- Dio la benedica, - disse il frate, accostandosi al lettuccio.
- La ringrazio anch'io, - disse la vedova, - della consolazione che ha data a queste povere creature; sebbene io avessi fatto conto di tenerla sempre con me, questa cara Lucia.
Ma la terrò intanto; l'accompagnerò io al suo paese, la consegnerò a sua madre; e, soggiunse poi sottovoce, - voglio farle io il corredo.
N'ho troppa della roba; e di quelli che dovevan goderla con me, non ho più nessuno!
- Così, - rispose il frate, - lei può fare un gran sacrifizio al Signore, e del bene al prossimo.
Non le raccomando questa giovine: già vedo che è come sua: non c'è che da lodare il Signore, il quale sa mostrarsi padre anche ne' flagelli, e che, col farle trovare insieme, ha dato un così chiaro segno d'amore all'una e all'altra.
Orsù, riprese poi, voltandosi a Renzo, e prendendolo per una mano: noi due non abbiam più nulla da far qui: e ci siamo stati anche troppo.
Andiamo.
- Oh padre! - disse Lucia: - la vedrò ancora? Io sono guarita, io che non fo nulla di bene a questo mondo; e lei...!
- È già molto tempo, - rispose con tono serio e dolce il vecchio, - che chiedo al Signore una grazia, e ben grande: di finire i miei giorni in servizio del prossimo.
Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno carità per me, m'aiutino a ringraziarlo.
Via; date a Renzo le vostre commissioni per vostra madre.
- Raccontatele quel che avete veduto, - disse Lucia al promesso sposo: - che ho trovata qui un'altra madre, che verrò con questa più presto che potrò, e che spero, spero di trovarla sana.
- Se avete bisogno di danari, - disse Renzo, - ho qui tutti quelli che m'avete mandati, e...
- No, no, - interruppe la vedova: - ne ho io anche troppi.
- Andiamo, - replicò il frate.
- A rivederci, Lucia...! e anche lei, dunque, quella buona signora, - disse Renzo, non trovando parole che significassero quello che sentiva.
- Chi sa che il Signore ci faccia la grazia di rivederci ancora tutti! - esclamò Lucia.
- Sia Egli sempre con voi, e vi benedica, - disse alle due compagne fra Cristoforo; e uscì con Renzo dalla capanna.
Mancava poco alla sera, e il tempo pareva sempre più vicino a risolversi.
Il cappuccino esibì di nuovo al giovine di ricoverarlo per quella notte nella sua baracca.
- Compagnia, non te ne potrò fare, - soggiunse: - ma avrai da stare al coperto.
Renzo però si sentiva una smania d'andare; e non si curava di rimaner più a lungo in un luogo simile, quando non poteva profittarne per veder Lucia, e non avrebbe neppur potuto starsene un po' col buon frate.
In quanto all'ora e al tempo, si può dire che notte e giorno, sole e pioggia, zeffiro e tramontano, eran tutt'uno per lui in quel momento.
Ringraziò dunque il frate, dicendo che voleva andar più presto che fosse possibile in cerca d'Agnese.
Quando furono nella strada di mezzo, il frate gli strinse la mano, e disse: - se la trovi, che Dio voglia! quella buona Agnese, salutala anche in mio nome; e a lei, e a tutti quelli che rimangono, e si ricordano di fra Cristoforo, dì che preghin per lui.
Dio t'accompagni, e ti benedica per sempre.
- Oh caro padre...! ci rivedremo? ci rivedremo?
- Lassù, spero -.
E con queste parole, si staccò da Renzo; il quale, stato lì a guardarlo fin che non l'ebbe perso di vista, prese in fretta verso la porta, dando a destra e a sinistra l'ultime occhiate di compassione a quel luogo di dolori.
C'era un movimento straordinario, un correr di monatti, un trasportar di roba, un accomodar le tende delle baracche, uno strascicarsi di convalescenti a queste e ai portici, per ripararsi dalla burrasca imminente.
CAPITOLO XXXVII
Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzeretto e preso a diritta, per ritrovar la viottola di dov'era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie.
Renzo, in vece d'inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel susurrìo, in quel brulichìo dell'erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s'era fatto nel suo destino.
Ma quanto più schietto e intero sarebbe stato questo sentimento, se Renzo avesse potuto indovinare quel che si vide pochi giorni dopo: che quell'acqua portava via il contagio; che, dopo quella, il lazzeretto, se non era per restituire ai viventi tutti i viventi che conteneva, almeno non n'avrebbe più ingoiati altri; che, tra una settimana, si vedrebbero riaperti usci e botteghe, non si parlerebbe quasi più che di quarantina; e della peste non rimarrebbe se non qualche resticciolo qua e là; quello strascico che un tal flagello lasciava sempre dietro a sé per qualche tempo.
Andava dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato né dove, né come, né quando, né se avesse da fermarsi la notte, premuroso soltanto di portarsi avanti, d'arrivar presto al suo paese, di trovar con chi parlare, a chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo, in cerca d'Agnese.
Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel giorno; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino: l'ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e con ciò dava un'annaffiata all'intorno, come un can barbone uscito dall'acqua; qualche volta si contentava d'una fregatina di mani; e avanti, con più ardore di prima.
Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci aveva lasciati la mattina e il giorno avanti, nel venire; e con più piacere quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! " E l'ho trovata viva! " concludeva.
Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più terribili di quella giornata; si figurava con quel martello in mano: ci sarà o non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento quando fu finita di passare la processione de' convalescenti: che momento! che crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla.
E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l'aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma che? c'era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai.
Sciolto anche questo.
E quell'odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello.
Talmenteché non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata l'incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste.
Arrivò a Sesto, sulla sera; né pareva che l'acqua volesse cessare.
Ma, sentendosi più in gambe che mai, e con tante difficoltà di trovar dove alloggiare, e così inzuppato, non ci pensò neppure.
La sola cosa che l'incomodasse, era un grand'appetito: ché una consolazione come quella gli avrebbe fatto smaltire altro che la poca minestra del cappuccino.
Guardò se trovasse anche qui una bottega di fornaio; ne vide una; ebbe due pani con le molle, e con quell'altre cerimonie.
Uno in tasca e l'altro alla bocca, e avanti.
Quando passò per Monza, era notte fatta: nonostante, gli riuscì di trovar la porta che metteva sulla strada giusta.
Ma meno questo, che, per dir la verità, era un gran merito, potete immaginarvi come fosse quella strada, e come andasse facendosi di momento in momento.
Affondata (com'eran tutte; e dobbiamo averlo detto altrove) tra due rive, quasi un letto di fiume, si sarebbe a quell'ora potuta dire, se non un fiume, una gora davvero; e ogni tanto pozze, da volerci del buono e del bello a levarne i piedi, non che le scarpe.
Ma Renzo n'usciva come poteva, senz'atti d'impazienza, senza parolacce, senza pentimenti; pensando che ogni passo, per quanto costasse, lo conduceva avanti, e che l'acqua cesserebbe quando a Dio piacesse, e che, a suo tempo, spunterebbe il giorno, e che la strada che faceva intanto, allora sarebbe fatta.
E dirò anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno.
Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di que' tristi anni passati: tant'imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di contrapporci l'immaginazioni d'un avvenire così diverso: e l'arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita.
Come la facesse quando trovava due strade; se quella poca pratica, con quel poco barlume, fossero quelli che l'aiutassero a trovar sempre la buona, o se l'indovinasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; ché lui medesimo, il quale soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l'avesse sentita da lui più d'una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella notte, non se ne rammentava che come se l'avesse passata in letto a sognare.
Il fatto sta che, sul finir di essa, si trovò alla riva dell'Adda.
Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un'acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d'intorno.
C'era dentro il suo; e quel che sentì, a quella vista, non si saprebbe spiegare.
Altro non vi so dire, se non che que' monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era diventato tutto come roba sua.
Diede un'occhiata anche a sé, e si trovò un po' strano, quale, per dir la verità, da quel che si sentiva, s'immaginava già di dover parere: sciupata e attaccata addosso ogni cosa: dalla testa alla vita, tutto un fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta de' piedi, melletta e mota: le parti dove non ce ne fosse si sarebbero potute chiamare esse zacchere e schizzi.
E se si fosse visto tutt'intero in uno specchio, con la tesa del cappello floscia e cascante, e i capelli stesi e incollati sul viso, si sarebbe fatto ancor più specie.
In quanto a stanco, lo poteva essere, ma non ne sapeva nulla: e il frescolino dell'alba aggiunto a quello della notte e di quel poco bagno, non gli dava altro che una fierezza, una voglia di camminar più presto.
È a Pescate; costeggia quell'ultimo tratto dell'Adda, dando però un'occhiata malinconica a Pescarenico; passa il ponte; per istrade e campi, arriva in un momento alla casa dell'ospite amico.
Questo, che s'era levato allora, e stava sull'uscio, a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così inzuppata, così infangata, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a' suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento.
- Ohe! - disse: - già qui? e con questo tempo? Com'è andata?
- La c'è, - disse Renzo: - la c'è: la c'è.
- Sana?
- Guarita, che è meglio.
Devo ringraziare il Signore e la Madonna fin che campo.
Ma cose grandi, cose di fuoco: ti racconterò poi tutto.
- Ma come sei conciato!
- Son bello eh?
- A dir la verità, potresti adoprare il da tanto in su, per lavare il da tanto in giù.
Ma, aspetta, aspetta; che ti faccia un buon fuoco.
- Non dico di no.
Sai dove la m'ha preso? proprio alla porta del lazzeretto.
Ma niente! il tempo il suo mestiere, e io il mio.
L'amico andò e tornò con due bracciate di stipa: ne mise una in terra, l'altra sul focolare, e, con un po' di brace rimasta della sera avanti, fece presto una bella fiammata.
Renzo intanto s'era levato il cappello, e, dopo averlo scosso due o tre volte, l'aveva buttato in terra: e, non così facilmente, s'era tirato via anche il farsetto.
Levò poi dal taschino de' calzoni il coltello, col fodero tutto fradicio, che pareva stato in molle; lo mise su un panchetto, e disse: - anche costui è accomodato a dovere; ma l'è acqua! l'è acqua! sia ringraziato il Signore...
Sono stato lì lì...! Ti dirò poi -.
E si fregava le mani.
- Ora fammi un altro piacere, - soggiunse: - quel fagottino che ho lasciato su in camera, va' a prendermelo, ché prima che s'asciughi questa roba che ho addosso...!
Tornato col fagotto, l'amico disse: - penso che avrai anche appetito: capisco che da bere, per la strada, non te ne sarà mancato; ma da mangiare...
- Ho trovato da comprar due pani, ieri sul tardi; ma, per dir la verità, non m'hanno toccato un dente.
- Lascia fare, - disse l'amico; mise l'acqua in un paiolo, che attaccò poi alla catena; e soggiunse: - vado a mungere: quando tornerò col latte, l'acqua sarà all'ordine; e si fa una buona polenta.
Tu intanto fa' il tuo comodo.
Renzo, rimasto solo, si levò, non senza fatica, il resto de' panni, che gli s'eran come appiccicati addosso; s'asciugò, si rivestì da capo a piedi.
L'amico tornò, e andò al suo paiolo: Renzo intanto si mise a sedere, aspettando.
- Ora sento che sono stanco, - disse: - ma è una bella tirata! Però questo è nulla! Ne ho da raccontartene per tutta la giornata.
Com'è conciato Milano! Le cose che bisogna vedere! Le cose che bisogna toccare! Cose da farsi poi schifo a se medesimo.
Sto per dire che non ci voleva meno di quel bucatino che ho avuto.
E quel che m'hanno voluto fare que' signori di laggiù! Sentirai.
Ma se tu vedessi il lazzeretto! C'è da perdersi nelle miserie.
Basta; ti racconterò tutto...
E la c'è, e la verrà qui, e sarà mia moglie; e tu devi far da testimonio, e, peste o non peste, almeno qualche ora, voglio che stiamo allegri.
Del resto mantenne ciò, che aveva detto all'amico, di voler raccontargliene per tutta la giornata; tanto più, che, avendo sempre continuato a piovigginare, questo la passò tutta in casa, parte seduto accanto all'amico, parte in faccende intorno a un suo piccolo tino, e a una botticina, e ad altri lavori, in preparazione della vendemmia; ne' quali Renzo non lasciò di dargli una mano; ché, come soleva dire, era di quelli che si stancano più a star senza far nulla, che a lavorare.
Non poté però tenersi di non fare una scappatina alla casa d'Agnese, per rivedere una certa finestra, e per dare anche lì una fregatina di mani.
Tornò senza essere stato visto da nessuno; e andò subito a letto.
S'alzò prima che facesse giorno; e, vedendo cessata l'acqua, se non ritornato il sereno, si mise in cammino per Pasturo.
Era ancor presto quando ci arrivò: ché non aveva meno fretta e voglia di finire, di quel che possa averne il lettore.
Cercò d'Agnese; sentì che stava bene, e gli fu insegnata una casuccia isolata dove abitava.
Ci andò; la chiamò dalla strada: a una tal voce, essa s'affacciò di corsa alla finestra; e, mentre stava a bocca aperta per mandar fuori non so che parola, non so che suono, Renzo la prevenne dicendo: - Lucia è guarita: l'ho veduta ierlaltro; vi saluta; verrà presto.
E poi ne ho, ne ho delle cose da dirvi.
Tra la sorpresa dell'apparizione, e la contentezza della notizia, e la smania di saperne di più, Agnese cominciava ora un'esclamazione, ora una domanda, senza finir nulla: poi, dimenticando le precauzioni ch'era solita a prendere da molto tempo, disse: - vengo ad aprirvi.
- Aspettate: e la peste? - disse Renzo: - voi non l'avete avuta, credo.
- Io no: e voi?
- Io sì; ma voi dunque dovete aver giudizio.
Vengo da Milano; e, sentirete, sono proprio stato nel contagio fino agli occhi.
È vero che mi son mutato tutto da capo a piedi; ma l'è una porcheria che s'attacca alle volte come un malefizio.
E giacché il Signore v'ha preservata finora, voglio che stiate riguardata fin che non è finito quest'influsso; perché siete la nostra mamma: e voglio che campiamo insieme un bel pezzo allegramente, a conto del gran patire che abbiam fatto, almeno io.
- Ma...
- cominciava Agnese.
- Eh! - interruppe Renzo: - non c'è ma che tenga.
So quel che volete dire; ma sentirete, sentirete, che de' ma non ce n'è più.
Andiamo in qualche luogo all'aperto, dove si possa parlar con comodo, senza pericolo; e sentirete.
Agnese gl'indicò un orto ch'era dietro alla casa; e soggiunse: - entrate lì, e vedrete che c'è due panche, l'una in faccia all'altra, che paion messe apposta.
Io vengo subito.
Renzo andò a mettersi a sedere sur una: un momento dopo, Agnese si trovò lì sull'altra: e son certo che, se il lettore, informato come è delle cose antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo, a veder con gli occhi quella conversazione così animata, a sentir con gli orecchi que' racconti, quelle domande, quelle spiegazioni, quell'esclamare, quel condolersi, quel rallegrarsi, e don Rodrigo, e il padre Cristoforo, e tutto il resto, e quelle descrizioni dell'avvenire, chiare e positive come quelle del passato, son certo, dico, che ci avrebbe preso gusto, e sarebbe stato l'ultimo a venir via.
Ma d'averla sulla carta tutta quella conversazione, con parole mute, fatte d'inchiostro, e senza trovarci un solo fatto nuovo, son di parere che non se ne curi molto, e che gli piaccia più d'indovinarla da sé.
La conclusione fu che s'anderebbe a metter su casa tutti insieme in quel paese del bergamasco dove Renzo aveva già un buon avviamento: in quanto al tempo, non si poteva decider nulla, perché dipendeva dalla peste, e da altre circostanze: appena cessato il pericolo, Agnese tornerebbe a casa, ad aspettarvi Lucia, o Lucia ve l'aspetterebbe: intanto Renzo farebbe spesso qualche altra corsa a Pasturo, a veder la sua mamma, e a tenerla informata di quel che potesse accadere.
Prima di partire, offrì anche a lei danari, dicendo: - gli ho qui tutti, vedete, que' tali: avevo fatto voto anch'io di non toccarli, fin che la cosa non fosse venuta in chiaro.
Ora, se n'avete bisogno, portate qui una scodella d'acqua e aceto; vi butto dentro i cinquanta scudi belli e lampanti.
- No, no, - disse Agnese: - ne ho ancora più del bisogno per me: i vostri, serbateli, che saran buoni per metter su casa.
Renzo tornò al paese con questa consolazione di più d'aver trovata sana e salva una persona tanto cara.
Stette il rimanente di quella giornata, e la notte, in casa dell'amico; il giorno dopo, in viaggio di nuovo, ma da un'altra parte, cioè verso il paese adottivo.
Trovò Bortolo, in buona salute anche lui, e in minor timore di perderla; ché, in que' pochi giorni, le cose, anche là, avevan preso rapidamente una bonissima piega.
Pochi eran quelli che s'ammalavano; e il male non era più quello; non più que' lividi mortali, né quella violenza di sintomi; ma febbriciattole, intermittenti la maggior parte, con al più qualche piccol bubbone scolorito, che si curava come un fignolo ordinario.
Già l'aspetto del paese compariva mutato; i rimasti vivi cominciavano a uscir fuori, a contarsi tra loro, a farsi a vicenda condoglianze e congratulazioni.
Si parlava già di ravviare i lavori: i padroni pensavano già a cercare e a caparrare operai, e in quell'arti principalmente dove il numero n'era stato scarso anche prima del contagio, com'era quella della seta.
Renzo, senza fare il lezioso, promise (salve però le debite approvazioni) al cugino di rimettersi al lavoro, quando verrebbe accompagnato, a stabilirsi in paese.
S'occupò intanto de' preparativi più necessari: trovò una casa più grande; cosa divenuta pur troppo facile e poco costosa; e la fornì di mobili e d'attrezzi, intaccando questa volta il tesoro, ma senza farci un gran buco, ché tutto era a buon mercato, essendoci molta più roba che gente che la comprassero.
Dopo non so quanti giorni, ritornò al paese nativo, che trovò ancor più notabilmente cambiato in bene.
Trottò subito a Pasturo; trovò Agnese rincoraggita affatto, e disposta a ritornare a casa quando si fosse; di maniera che ce la condusse lui: né diremo quali fossero i loro sentimenti, quali le parole, al rivedere insieme que' luoghi.
Agnese trovò ogni cosa come l'aveva lasciata.
Sicché non poté far a meno di non dire che, questa volta, trattandosi d'una povera vedova e d'una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli.
- E l'altra volta, - soggiungeva, - che si sarebbe creduto che il Signore guardasse altrove, e non pensasse a noi, giacché lasciava portar via il povero fatto nostro; ecco che ha fatto vedere il contrario, perché m'ha mandato da un'altra parte di bei danari, con cui ho potuto rimettere ogni cosa.
Dico ogni cosa, e non dico bene; perché il corredo di Lucia che coloro avevan portato via bell'e nuovo, insieme col resto, quello mancava ancora; ma ecco che ora ci viene da un'altra parte.
Chi m'avesse detto, quando io m'arrapinavo tanto a allestir quell'altro: tu credi di lavorar per Lucia: eh povera donna! lavori per chi non sai: sa il cielo, questa tela, questi panni, a che sorte di creature anderanno indosso: quelli per Lucia, il corredo davvero che ha da servire per lei, ci penserà un'anima buona, la quale tu non sai né anche che la sia in questo mondo.
Il primo pensiero d'Agnese fu quello di preparare nella sua povera casuccia l'alloggio il più decente che potesse, a quell'anima buona: poi andò in cerca di seta da annaspare; e lavorando ingannava il tempo.
Renzo, dal canto suo, non passò in ozio que' giorni già tanto lunghi per sé: sapeva far due mestieri per buona sorte; si rimise a quello del contadino.
Parte aiutava il suo ospite, per il quale era una gran fortuna l'avere in tal tempo spesso al suo comando un'opera, e un'opera di quell'abilità; parte coltivava, anzi dissodava l'orticello d'Agnese, trasandato affatto nell'assenza di lei.
In quanto al suo proprio podere, non se n'occupava punto, dicendo ch'era una parrucca troppo arruffata, e che ci voleva altro che due braccia a ravviarla.
E non ci metteva neppure i piedi; come né anche in casa: ché gli avrebbe fatto male a vedere quella desolazione; e aveva già preso il partito di disfarsi d'ogni cosa, a qualunque prezzo, e d'impiegar nella nuova patria quel tanto che ne potrebbe ricavare.
Se i rimasti vivi erano, l'uno per l'altro, come morti resuscitati, Renzo, per quelli del suo paese, lo era, come a dire, due volte: ognuno gli faceva accoglienze e congratulazioni, ognuno voleva sentir da lui la sua storia.
Direte forse: come andava col bando? L'andava benone: lui non ci pensava quasi più, supponendo che quelli i quali avrebbero potuto eseguirlo, non ci pensassero più né anche loro: e non s'ingannava.
E questo non nasceva solo dalla peste che aveva fatto monte di tante cose; ma era, come s'è potuto vedere anche in vari luoghi di questa storia, cosa comune a que' tempi, che i decreti, tanto generali quanto speciali, contro le persone, se non c'era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi, e li facesse valere, rimanevano spesso senza effetto, quando non l'avessero avuto sul primo momento; come palle di schioppo, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non dànno fastidio a nessuno.
Conseguenza necessaria della gran facilità con cui li seminavano que' decreti.
L'attività dell'uomo è limitata; e tutto il di più che c'era nel comandare, doveva tornare in tanto meno nell'eseguire.
Quel che va nelle maniche, non può andar ne' gheroni.
Chi volesse anche sapere come Renzo se la passasse con don Abbondio, in quel tempo d'aspetto, dirò che stavano alla larga l'uno dall'altro: don Abbondio, per timore di sentire intonar qualcosa di matrimonio: e, al solo pensarci, si vedeva davanti agli occhi don Rodrigo da una parte, co' suoi bravi, il cardinale dall'altra, co' suoi argomenti: Renzo, perché aveva fissato di non parlargliene che al momento di concludere, non volendo risicare di farlo inalberar prima del tempo, di suscitar, chi sa mai? qualche difficoltà, e d'imbrogliar le cose con chiacchiere inutili.
Le sue chiacchiere, le faceva con Agnese.
- Credete voi che verrà presto? - domandava l'uno.
- Io spero di sì, - rispondeva l'altro: e spesso quello che aveva data la risposta, faceva poco dopo la domanda medesima.
E con queste e con simili furberie, s'ingegnavano a far passare il tempo, che pareva loro più lungo, di mano in mano che n'era più passato.
Al lettore noi lo faremo passare in un momento tutto quel tempo, dicendo in compendio che, qualche giorno dopo la visita di Renzo al lazzeretto, Lucia n'uscì con la buona vedova; che, essendo stata ordinata una quarantina generale, la fecero insieme, rinchiuse nella casa di quest'ultima; che una parte del tempo fu spesa in allestire il corredo di Lucia, al quale, dopo aver fatto un po' di cerimonie, dovette lavorare anche lei; e che, terminata che fu la quarantina, la vedova lasciò in consegna il fondaco e la casa a quel suo fratello commissario; e si fecero i preparativi per il viaggio.
Potremmo anche soggiunger subito: partirono, arrivarono, e quel che segue; ma, con tutta la volontà che abbiamo di secondar la fretta del lettore, ci son tre cose appartenenti a quell'intervallo di tempo, che non vorremmo passar sotto silenzio; e, per due almeno, crediamo che il lettore stesso dirà che avremmo fatto male.
La prima, che, quando Lucia tornò a parlare alla vedova delle sue avventure, più in particolare, e più ordinatamente di quel che avesse potuto in quell'agitazione della prima confidenza, e fece menzione più espressa della signora che l'aveva ricoverata nel monastero di Monza, venne a sapere di costei cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempiron l'animo d'una dolorosa e paurosa maraviglia.
Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d'atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s'era ravveduta, s'era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo.
Chi volesse conoscere un po' più in particolare questa trista storia, la troverà nel libro e al luogo che abbiam citato altrove, a proposito della stessa persona (Ripam.
Hist.
Pat., Dec.
V, Lib.
VI, Cap.
III.).
L'altra cosa è che Lucia, domandando del padre Cristoforo a tutti i cappuccini che poté vedere nel lazzeretto, sentì, con più dolore che maraviglia, ch'era morto di peste.
Finalmente, prima di partire, avrebbe anche desiderato di saper qualcosa de' suoi antichi padroni, e di fare, come diceva, un atto del suo dovere, se alcuno ne rimaneva.
La vedova l'accompagnò alla casa, dove seppero che l'uno e l'altra erano andati tra que' più.
Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch'era stato dotto, l'anonimo ha creduto d'estendersi un po' più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto.
Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all'ultimo, quell'opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
- In rerum natura, - diceva, - non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l'uno né l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera.
E son qui.
Le sostanze sono, o spirituali, o materiali.
Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne.
Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte.
Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole.
Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera.
Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da' venti.
Non è ignea; perché brucerebbe.
Non è terrea; perché sarebbe visibile.
Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente.
Peggio che peggio.
Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto.
Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all'altro.
Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando.
Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d'esantemi, d'antraci...?
- Tutte corbellerie, - scappò fuori una volta un tale.
- No, no, - riprese don Ferrante: - non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare.
Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che fare con la questione.
Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.
Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante.
Fin che non faceva che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l'autorità d'un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi.
Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.
- La c'è pur troppo la vera cagione, - diceva; - e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in aria...
La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove.
E quando mai s'è sentito dire che l'influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?...
Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de' corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli.
CAPITOLO XXXVIII
Una sera, Agnese sente fermarsi un legno all'uscio.
- È lei, di certo! - Era proprio lei, con la buona vedova.
L'accoglienze vicendevoli se le immagini il lettore.
La mattina seguente, di buon'ora, capita Renzo che non sa nulla, e vien solamente per isfogarsi un po' con Agnese su quel gran tardare di Lucia.
Gli atti che fece, e le cose che disse, al trovarsela davanti, si rimettono anche quelli all'immaginazion del lettore.
Le dimostrazioni di Lucia in vece furon tali, che non ci vuol molto a descriverle.
- Vi saluto: come state? - disse, a occhi bassi, e senza scomporsi.
E non crediate che Renzo trovasse quel fare troppo asciutto, e se l'avesse per male.
Prese benissimo la cosa per il suo verso; e, come, tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti, così lui intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava nel cuore di Lucia.
Del resto, era facile accorgersi che aveva due maniere di pronunziarle: una per Renzo, e un'altra per tutta la gente che potesse conoscere.
- Sto bene quando vi vedo, - rispose il giovine, con una frase vecchia, ma che avrebbe inventata lui, in quel momento.
- Il nostro povero padre Cristoforo...! - disse Lucia: - pregate per l'anima sua: benché si può esser quasi sicuri che a quest'ora prega lui per noi lassù.
- Me l'aspettavo, pur troppo, - disse Renzo.
E non fu questa la sola trista corda che si toccasse in quel colloquio.
Ma che? di qualunque cosa si parlasse, il colloquio gli riusciva sempre delizioso.
Come que' cavalli bisbetici che s'impuntano, e si piantan lì, e alzano una zampa e poi un'altra, e le ripiantano al medesimo posto, e fanno mille cerimonie prima di fare un passo, e poi tutto a un tratto prendon l'andare, e via, come se il vento li portasse, così era divenuto il tempo per lui: prima i minuti gli parevan ore; poi l'ore gli parevan minuti.
La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma ci faceva dentro molto bene; e certamente, Renzo, quando la vide in quel lettuccio, non se la sarebbe potuta immaginare d'un umore così socievole e gioviale.
Ma il lazzeretto e la campagna, la morte e le nozze, non son tutt'uno.
Con Agnese essa aveva già fatto amicizia; con Lucia poi era un piacere a vederla, tenera insieme e scherzevole, e come la stuzzicava garbatamente, e senza spinger troppo, appena quanto ci voleva per obbligarla a dimostrar tutta l'allegria che aveva in cuore.
Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio, a prendere i concerti per lo sposalizio.
Ci andò, e, con un certo fare tra burlesco e rispettoso, - signor curato, - gli disse: - le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? Ora siamo a tempo; la sposa c'è: e son qui per sentire quando le sia di comodo: ma questa volta, sarei a pregarla di far presto -.
Don Abbondio non disse di no; ma cominciò a tentennare, a trovar cert'altre scuse, a far cert'altre insinuazioni: e perché mettersi in piazza, e far gridare il suo nome, con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi ugualmente altrove; e questo e quest'altro.
- Ho inteso, - disse Renzo: - lei ha ancora un po' di quel mal di capo.
Ma senta, senta -.
E cominciò a descrivere in che stato aveva visto quel povero don Rodrigo; e che già a quell'ora doveva sicuramente essere andato.
- Speriamo, - concluse, - che il Signore gli avrà usato misericordia.
- Questo non ci ha che fare, - disse don Abbondio: - v'ho forse detto di no? Io non dico di no; parlo...
parlo per delle buone ragioni.
Del resto, vedete, fin che c'è fiato...
Guardatemi me: sono una conca fessa; sono stato anch'io, più di là che di qua: e son qui; e...
se non mi vengono addosso de' guai...
basta...
posso sperare di starci ancora un pochino.
Figuratevi poi certi temperamenti.
Ma, come dico, questo non ci ha che far nulla.
Dopo qualche altra botta e risposta, né più né meno concludenti, Renzo strisciò una bella riverenza, se ne tornò alla sua compagnia, fece la sua relazione, e finì con dire: - son venuto via, che n'ero pieno, e per non risicar di perdere la pazienza, e di levargli il rispetto.
In certi momenti, pareva proprio quello dell'altra volta; proprio quella mutria, quelle ragioni: son sicuro che, se la durava ancora un poco, mi tornava in campo con qualche parola in latino.
Vedo che vuol essere un'altra lungagnata: è meglio fare addirittura come dice lui, andare a maritarsi dove andiamo a stare.
- Sapete cosa faremo? - disse la vedova: - voglio che andiamo noi altre donne a fare un'altra prova, e vedere se ci riesce meglio.
Così avrò anch'io il gusto di conoscerlo quest'uomo, se è proprio come dite.
Dopo desinare voglio che andiamo; per non tornare a dargli addosso subito.
Ora, signore sposo, menateci un po' a spasso noi altre due, intanto che Agnese è in faccende: ché a Lucia farò io da mamma: e ho proprio voglia di vedere un po' meglio queste montagne, questo lago, di cui ho sentito tanto parlare; e il poco che n'ho già visto, mi pare una gran bella cosa.
Renzo le condusse prima di tutto alla casa del suo ospite, dove fu un'altra festa: e gli fecero promettere che, non solo quel giorno, ma tutti i giorni, se potesse, verrebbe a desinare con loro.
Passeggiato, desinato, Renzo se n'andò, senza dir dove.
Le donne rimasero un pezzetto a discorrere, a concertarsi sulla maniera di prender don Abbondio; e finalmente andarono all'assalto.
" Son qui loro ", disse questo tra sé; ma fece faccia tosta: gran congratulazioni a Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera.
Le fece mettere a sedere, e poi entrò subito a parlar della peste: volle sentir da Lucia come l'aveva passata in que' guai: il lazzeretto diede opportunità di far parlare anche quella che l'era stata compagna; poi, com'era giusto, don Abbondio parlò anche della sua burrasca; poi de' gran mirallegri anche a Agnese, che l'aveva passata liscia.
La cosa andava in lungo: già fin dal primo momento, le due anziane stavano alle velette, se mai venisse l'occasione d'entrar nel discorso essenziale: finalmente non so quale delle due ruppe il ghiaccio.
Ma cosa volete? Don Abbondio era sordo da quell'orecchio.
Non che dicesse di no; ma eccolo di nuovo a quel suo serpeggiare, volteggiare e saltar di palo in frasca.
- Bisognerebbe, - diceva, - poter far levare quella catturaccia.
Lei, signora, che è di Milano, conoscerà più o meno il filo delle cose, avrà delle buone protezioni, qualche cavaliere di peso: ché con questi mezzi si sana ogni piaga.
Se poi si volesse andar per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie; giacché codesti giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di spatriarsi (e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene), mi pare che si potrebbe far tutto là, dove non c'è cattura che tenga.
Non vedo proprio l'ora di saperlo concluso questo parentado, ma lo vorrei concluso bene, tranquillamente.
Dico la verità: qui, con quella cattura viva, spiattellar dall'altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo farei col cuor quieto: gli voglio troppo bene; avrei paura di fargli un cattivo servizio.
Veda lei; vedete voi altre.
Qui, parte Agnese, parte la vedova, a ribatter quelle ragioni; don Abbondio a rimetterle in campo, sott'altra forma: s'era sempre da capo; quando entra Renzo, con un passo risoluto, e con una notizia in viso; e dice: - è arrivato il signor marchese ***.
- Cosa vuol dir questo? arrivato dove? - domanda don Abbondio, alzandosi.
- E arrivato nel suo palazzo, ch'era quello di don Rodrigo; perché questo signor marchese è l'erede per fidecommisso, come dicono; sicché non c'è più dubbio.
Per me, ne sarei contento, se potessi sapere che quel pover'uomo fosse morto bene.
A buon conto, finora ho detto per lui de' paternostri, adesso gli dirò de' De profundis.
E questo signor marchese è un bravissim'uomo.
- Sicuro, - disse don Abbondio: - l'ho sentito nominar più d'una volta per un bravo signore davvero, per un uomo della stampa antica.
Ma che sia proprio vero...?
- Al sagrestano gli crede?
- Perché?
- Perché lui l'ha veduto co' suoi occhi.
Io sono stato solamente lì ne' contorni, e, per dir la verità, ci sono andato appunto perché ho pensato: qualcosa là si dovrebbe sapere.
E più d'uno m'ha detto lo stesso.
Ho poi incontrato Ambrogio che veniva proprio di lassu, e che l'ha veduto, come dico, far da padrone.
Lo vuol sentire, Ambrogio? L'ho fatto aspettar qui fuori apposta.
- Sentiamo, - disse don Abbondio.
Renzo andò a chiamare il sagrestano.
Questo confermò la cosa in tutto e per tutto, ci aggiunse altre circostanze, sciolse tutti i dubbi; e poi se n'andò.
- Ah! è morto dunque! è proprio andato! - esclamò don Abbondio.
- Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente.
Sapete che l'è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui.
E stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro l'esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci.
E in un batter d'occhio, sono spariti, a cento per volta.
Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell'albagìa, con quell'aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione.
Intanto, lui non c'è più, e noi ci siamo.
Non manderà più di quell'imbasciate ai galantuomini.
Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: ché adesso lo possiamo dire.
- Io gli ho perdonato di cuore, - disse Renzo.
- E fai il tuo dovere, - rispose don Abbondio: - ma si può anche ringraziare il cielo, che ce n'abbia liberati.
Ora, tornando a noi, vi ripeto: fate voi altri quel che credete.
Se volete che vi mariti io, son qui; se vi torna più comodo in altra maniera, fate voi altri.
In quanto alla cattura, vedo anch'io che, non essendoci ora più nessuno che vi tenga di mira, e voglia farvi del male, non è cosa da prendersene gran pensiero: tanto più, che c'è stato di mezzo quel decreto grazioso, per la nascita del serenissimo infante.
E poi la peste! la peste! ha dato di bianco a di gran cose la peste! Sicché, se volete...
oggi è giovedì...
domenica vi dico in chiesa; perché quel che s'è fatto l'altra volta, non conta più niente, dopo tanto tempo; e poi ho la consolazione di maritarvi io.
- Lei sa bene ch'eravamo venuti appunto per questo, - disse Renzo.
- Benissimo; e io vi servirò: e voglio darne parte subito a sua eminenza.
- Chi è sua eminenza? - domandò Agnese.
- Sua eminenza, - rispose don Abbondio, - è il nostro cardinale arcivescovo, che Dio conservi.
- Oh! in quanto a questo mi scusi, - replicò Agnese: - ché, sebbene io sia una povera ignorante, le posso accertare che non gli si dice così; perché, quando siamo state la seconda volta per parlargli, come parlo a lei, uno di que' signori preti mi tirò da parte, e m'insegnò come si doveva trattare con quel signore, e che gli si doveva dire vossignoria illustrissima, e monsignore.
- E ora, se vi dovesse tornare a insegnare, vi direbbe che gli va dato dell'eminenza: avete inteso? Perché il papa, che Dio lo conservi anche lui, ha prescritto, fin dal mese di giugno, che ai cardinali si dia questo titolo.
E sapete perché sarà venuto a questa risoluzione? Perché l'illustrissimo, ch'era riservato a loro e a certi principi, ora, vedete anche voi altri, cos'è diventato, a quanti si dà: e come se lo succiano volentieri! E cosa doveva fare, il papa? Levarlo a tutti? Lamenti, ricorsi, dispiaceri, guai; e per di più, continuar come prima.
Dunque ha trovato un bonissimo ripiego.
A poco a poco poi, si comincerà a dar dell'eminenza ai vescovi; poi lo vorranno gli abati, poi i proposti: perché gli uomini son fatti così; sempre voglion salire, sempre salire; poi i canonici...
- Poi i curati, - disse la vedova.
- No no, - riprese don Abbondio: - i curati a tirar la carretta: non abbiate paura che gli avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla fin del mondo.
Piuttosto, non mi maraviglierei punto che i cavalieri, i quali sono avvezzi a sentirsi dar dell'illustrissimo, a esser trattati come i cardinali, un giorno volessero dell'eminenza anche loro.
E se la vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà.
E allora, il papa che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali.
Orsù, ritorniamo alle nostre cose: domenica vi dirò in chiesa; e intanto, sapete cos'ho pensato per servirvi meglio? Intanto chiederemo la dispensa per l'altre due denunzie.
Hanno a avere un bel da fare laggiù in curia, a dar dispense, se la va per tutto come qui.
Per domenica ne ho già...
uno...
due...
tre; senza contarvi voi altri: e ne può capitare ancora.
E poi vedrete, andando avanti, che affare vuol essere: non ne deve rimanere uno scompagnato.
Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; ché questo era il momento che trovava l'avventore anche lei.
E a Milano, signora, mi figuro che sarà lo stesso.
- Eccome! si figuri che, solamente nella mia cura, domenica passata, cinquanta denunzie.
- Se lo dico; il mondo non vuol finire.
E lei, signora, non hanno principiato a ronzarle intorno de' mosconi?
- No, no; io non ci penso, né ci voglio pensare.
- Sì, sì, che vorrà esser lei sola.
Anche Agnese, veda; anche Agnese...
- Uh! ha voglia di scherzare, lei, - disse questa.
- Sicuro che ho voglia di scherzare: e mi pare che sia ora finalmente.
Ne abbiam passate delle brutte, n'è vero, i miei giovani? delle brutte n'abbiam passate: questi quattro giorni che dobbiamo stare in questo mondo, si può sperare che vogliano essere un po' meglio.
Ma! fortunati voi altri, che, non succedendo disgrazie, avete ancora un pezzo da parlare de' guai passati: io in vece, sono alle ventitre e tre quarti, e...
i birboni posson morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c'è rimedio: e, come dice, senectus ipsa est morbus.
- Ora, - disse Renzo, - parli pur latino quanto vuole; che non me n'importa nulla.
- Tu l'hai ancora col latino, tu: bene bene, t'accomoderò io: quando mi verrai davanti, con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe paroline in latino, ti dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace.
Ti piacerà?
- Eh! so io quel che dico, - riprese Renzo: - non è quel latino lì che mi fa paura: quello è un latino sincero, sacrosanto, come quel della messa: anche loro, lì, bisogna che leggano quel che c'è sul libro.
Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a tradimento, nel buono d'un discorso.
Per esempio, ora che siam qui, che tutto è finito; quel latino che andava cavando fuori, lì proprio, in quel canto, per darmi ad intendere che non poteva, e che ci voleva dell'altre cose, e che so io? me lo volti un po' in volgare ora.
- Sta' zitto, buffone, sta' zitto: non rimestar queste cose; ché, se dovessimo ora fare i conti, non so chi avanzerebbe.
Io ho perdonato tutto: non ne parliam più: ma me n'avete fatti de' tiri.
Di te non mi fa specie, che sei un malandrinaccio; ma dico quest'acqua cheta, questa santerella, questa madonnina infilzata, che si sarebbe creduto far peccato a guardarsene.
Ma già, lo so io chi l'aveva ammaestrata, lo so io, lo so io -.
Così dicendo, accennava Agnese col dito, che prima aveva tenuto rivolto a Lucia: e non si potrebbe spiegare con che bonarietà, con che piacevolezza facesse que' rimproveri.
Quella notizia gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran tempo; e saremmo ancor ben lontani dalla fine, se volessimo riferir tutto il rimanente di que' discorsi, che lui tirò in lungo, ritenendo più d'una volta la compagnia che voleva andarsene, e fermandola poi ancora un pochino sull'uscio di strada, sempre a parlar di bubbole.
Il giorno seguente, gli capitò una visita, quanto meno aspettata tanto più gradita: il signor marchese del quale s'era parlato: un uomo tra la virilità e la vecchiezza, il cui aspetto era come un attestato di ciò che la fama diceva di lui: aperto, cortese, placido, umile, dignitoso, e qualcosa che indicava una mestizia rassegnata.
- Vengo, - disse, - a portarle i saluti del cardinale arcivescovo.
- Oh che degnazione di tutt'e due!
- Quando fui a prender congedo da quest'uomo incomparabile, che m'onora della sua amicizia, mi parlò di due giovani di codesta cura, ch'eran promessi sposi, e che hanno avuto de' guai, per causa di quel povero don Rodrigo.
Monsignore desidera d'averne notizia.
Son vivi? E le loro cose sono accomodate?
- Accomodato ogni cosa.
Anzi, io m'era proposto di scriverne a sua eminenza; ma ora che ho l'onore...
- Si trovan qui?
- Qui; e, più presto che si potrà, saranno marito e moglie.
- E io la prego di volermi dire se si possa far loro del bene, e anche d'insegnarmi la maniera più conveniente.
In questa calamità, ho perduto i due soli figli che avevo, e la madre loro, e ho avute tre eredità considerabili.
Del superfluo, n'avevo anche prima: sicché lei vede che il darmi una occasione d'impiegarne, e tanto più una come questa, è farmi veramente un servizio.
- Il cielo la benedica! Perché non sono tutti come lei i...? Basta; la ringrazio anch'io di cuore per questi miei figliuoli.
E giacché vossignoria illustrissima mi dà tanto coraggio, sì signore, che ho un espediente da suggerirle, il quale forse non le dispiacerà.
Sappia dunque che questa buona gente son risoluti d'andare a metter su casa altrove, e di vender quel poco che hanno al sole qui: una vignetta il giovine, di nove o dieci pertiche, salvo il vero, ma trasandata affatto: bisogna far conto del terreno, nient'altro; di più una casuccia lui, e un'altra la sposa: due topaie, veda.
Un signore come vossignoria non può sapere come la vada per i poveri, quando voglion disfarsi del loro.
Finisce sempre a andare in bocca di qualche furbo, che forse sarà già un pezzo che fa all'amore a quelle quattro braccia di terra, e quando sa che l'altro ha bisogno di vendere, si ritira, fa lo svogliato; bisogna corrergli dietro, e dargliele per un pezzo di pane: specialmente poi in circostanze come queste.
Il signor marchese ha già veduto dove vada a parare il mio discorso.
La carità più fiorita che vossignoria illustrissima possa fare a questa gente, è di cavarli da quest'impiccio, comprando quel poco fatto loro.
Io, ner dir la verità, do un parere interessato, perché verrei ad acquistare nella mia cura un compadrone come il signor marchese; ma vossignoria deciderà secondo che le parrà meglio: io ho parlato per ubbidienza.
Il marchese lodò molto il suggerimento; ringraziò don Abbondio, e lo pregò di voler esser arbitro del prezzo, e di fissarlo alto bene; e lo fece poi restar di sasso, col proporgli che s'andasse subito insieme a casa della sposa, dove sarebbe probabilmente anche lo sposo.
Per la strada, don Abbondio, tutto gongolante, come vi potete immaginare, ne pensò e ne disse un'altra.
- Giacché vossignoria illustrissima è tanto inclinato a far del bene a questa gente, ci sarebbe un altro servizio da render loro.
Il giovine ha addosso una cattura, una specie di bando, per qualche scappatuccia che ha fatta in Milano, due anni sono, quel giorno del gran fracasso, dove s'è trovato impicciato, senza malizia, da ignorante, come un topo nella trappola: nulla di serio, veda: ragazzate, scapataggini: di far del male veramente, non è capace: e io posso dirlo, che l'ho battezzato, e l'ho veduto venir su: e poi, se vossignoria vuol prendersi il divertimento di sentir questa povera gente ragionar su alla carlona, potrà fargli raccontar la storia a lui, e sentirà.
Ora, trattandosi di cose vecchie, nessuno gli dà fastidio; e, come le ho detto, lui pensa d'andarsene fuor di stato; ma, col tempo, o tornando qui, o altro, non si sa mai, lei m'insegna che è sempre meglio non esser su que' libri.
Il signor marchese, in Milano, conta, come è giusto, e per quel gran cavaliere, e per quel grand'uomo che è...
No, no, mi lasci dire; ché la verità vuole avere il suo luogo.
Una raccomandazione, una parolina d'un par suo, è più del bisogno per ottenere una buona assolutoria.
- Non c'è impegni forti contro codesto giovine?
- No, no; non crederei.
Gli hanno fatto fuoco addosso nel primo momento; ma ora credo che non ci sia più altro che la semplice formalità.
- Essendo così, la cosa sarà facile; e la prendo volentieri sopra di me
- E poi non vorrà che si dica che è un grand'uomo.
Lo dico, e lo voglio dire; a suo dispetto, lo voglio dire.
E anche se io stessi zitto, già non servirebbe a nulla, perché parlan tutti; e vox populi, vox Dei.
Trovarono appunto le tre donne e Renzo.
Come questi rimanessero, lo lascio considerare a voi: io credo che anche quelle nude e ruvide pareti, e l'impannate, e i panchetti, e le stoviglie si maravigliassero di ricever tra loro una visita così straordinaria.
Avviò lui la conversazione, parlando del cardinale e dell'altre cose, con aperta cordialità, e insieme con delicati riguardi.
Passò poi a far la proposta per cui era venuto.
Don Abbondio, pregato da lui di fissare il prezzo, si fece avanti; e, dopo un po' di cerimonie e di scuse, e che non era sua farina, e che non potrebbe altro che andare a tastoni, e che parlava per ubbidienza, e che si rimetteva, proferì, a parer suo, uno sproposito.
Il compratore disse che, per la parte sua, era contentissimo, e, come se avesse franteso, ripeté il doppio; non volle sentir rettificazioni, e troncò e concluse ogni discorso invitando la compagnia a desinare per il giorno dopo le nozze, al suo palazzo, dove si farebbe l'istrumento in regola.
" Ah! - diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: - se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti d'averla; ma guarire, ve' ".
Venne la dispensa, venne l'assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove, proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi.
Un altro trionfo, e ben più singolare, fu l'andare a quel palazzotto; e vi lascio pensare che cose dovessero passar loro per la mente, in far quella salita, all'entrare in quella porta; e che discorsi dovessero fare, ognuno secondo il suo naturale.
Accennerò soltanto che, in mezzo all'allegria, ora l'uno, ora l'altro motivò più d'una volta, che, per compir la festa, ci mancava il povero padre Cristoforo.
- Ma per lui, - dicevan poi, - sta meglio di noi sicuramente.
Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl'invitati, e aiutò anzi a servirli.
A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola.
Ve l'ho dato per un brav'uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v'ho detto ch'era umile, non già che fosse un portento d'umiltà.
N'aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.
Dopo i due pranzi, fu steso il contratto per mano d'un dottore, il quale non fu l'Azzecca-garbugli.
Questo, voglio dire la sua spoglia, era ed è tuttavia a Canterelli.
E per chi non è di quelle parti, capisco anch'io che qui ci vuole una spiegazione.
Sopra Lecco forse un mezzo miglio, e quasi sul fianco dell'altro paese chiamato Castello, c'è un luogo detto Canterelli, dove s'incrocian due strade; e da una parte del crocicchio, si vede un rialto, come un poggetto artificiale, con una croce in cima; il quale non è altro che un gran mucchio di morti in quel contagio.
La tradizione, per dir la verità, dice semplicemente i morti del contagio; ma dev'esser quello senz'altro, che fu l'ultimo, e il più micidiale di cui rimanga memoria.
E sapete che le tradizioni, chi non le aiuta, da sé dicon sempre troppo poco.
Nel ritorno non ci fu altro inconveniente, se non che Renzo era un po' incomodato dal peso de' quattrini che portava via.
Ma l'uomo, come sapete, aveva fatto ben altre vite.
Non parlo del lavoro della mente, che non era piccolo, a pensare alla miglior maniera di farli fruttare.
A vedere i progetti che passavan per quella mente, le riflessioni, l'immaginazioni; a sentire i pro e i contro, per l'agricoltura e per l'industria, era come se ci si fossero incontrate due accademie del secolo passato.
E per lui l'impiccio era ben più reale; perché, essendo un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c'è di scegliere? l'uno e l'altro, alla buon'ora; ché i mezzi, in sostanza, sono i medesimi; e son due cose come le gambe, che due vanno meglio d'una sola.
Non si pensò più che a fare i fagotti, e a mettersi in viaggio: casa Tramaglino per la nuova patria, e la vedova per Milano.
Le lacrime, i ringraziamenti, le promesse d'andarsi a trovare furon molte.
Non meno tenera, eccettuate le lacrime, fu la separazione di Renzo e della famiglia dall'ospite amico: e non crediate che con don Abbondio le cose passassero freddamente.
Quelle buone creature avevan sempre conservato un certo attaccamento rispettoso per il loro curato; e questo, in fondo, aveva sempre voluto bene a loro.
Son que' benedetti affari, che imbroglian gli affetti.
Chi domandasse se non ci fu anche del dolore in distaccarsi dal paese nativo, da quelle montagne; ce ne fu sicuro: ché del dolore, ce n'è, sto per dire, un po' per tutto.
Bisogna però che non fosse molto forte, giacché avrebbero potuto risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grand'inciampi, don Rodrigo e il bando, eran levati.
Ma, già da qualche tempo, erano avvezzi tutt'e tre a riguardar come loro il paese dove andavano.
Renzo l'aveva fatto entrare in grazia alle donne, raccontando l'agevolezze che ci trovavano gli operai, e cento cose della bella vita che si faceva là.
Del resto, avevan tutti passato de' momenti ben amari in quello a cui voltavan le spalle; e le memorie triste, alla lunga guastan sempre nella mente i luoghi che le richiamano.
E se que' luoghi son quelli dove siam nati, c'è forse in tali memorie qualcosa di più aspro e pungente.
Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l'ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la bagna d'assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca.
Cosa direte ora, sentendo che, appena arrivati e accomodati nel nuovo paese, Renzo ci trovò de' disgusti bell'e preparati? Miserie; ma ci vuol così poco a disturbare uno stato felice! Ecco, in poche parole, la cosa.
Il parlare che, in quel paese, s'era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza.
Ora sapete come è l'aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione.
Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d'oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: - eh! l'è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s'aspettava qualcosa di meglio.
Cos'è poi? Una contadina come tant'altre.
Eh! di queste e delle meglio, ce n'è per tutto -.
Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto.
Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; così non c'era gran male fin lì.
Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo.
Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e più a lungo tra sé.
" E cosa v'importa a voi altri? E chi v'ha detto d'aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v'ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V'ho detto mai che v'avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate.
N'avete delle belle donne: guardate quelle ".
E vedete un poco come alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato d'un uomo per tutta la vita.
Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese, secondo il suo primo disegno, sarebbe stata una vita poco allegra.
A forza d'esser disgustato, era ormai diventato disgustoso.
Era sgarbato con tutti, perché ognuno poteva essere uno de' critici di Lucia.
Non già che trattasse proprio contro il galateo; ma sapete quante belle cose si posson fare senza offender le regole della buona creanza: fino sbudellarsi.
Aveva un non so che di sardonico in ogni sua parola; in tutto trovava anche lui da criticare, a segno che, se faceva cattivo tempo due giorni di seguito, subito diceva: - eh già, in questo paese! - Vi dico che non eran pochi quelli che l'avevan già preso a noia, e anche persone che prima gli volevan bene; e col tempo, d'una cosa nell'altra, si sarebbe trovato, per dir così, in guerra con quasi tutta la popolazione, senza poter forse né anche lui conoscer la prima cagione d'un così gran male.
Ma si direbbe che la peste avesse preso l'impegno di raccomodar tutte le malefatte di costui.
Aveva essa portato via il padrone d'un altro filatoio, situato quasi sulle porte di Bergamo; e l'erede, giovine scapestrato, che in tutto quell'edifizio non trovava che ci fosse nulla di divertente, era deliberato, anzi smanioso di vendere, anche a mezzo prezzo; ma voleva i danari l'uno sopra l'altro, per poterli impiegar subito in consumazioni improduttive.
Venuta la cosa agli orecchi di Bortolo, corse a vedere; trattò: patti più grassi non si sarebbero potuti sperare; ma quella condizione de' pronti contanti guastava tutto, perché quelli che aveva messi da parte, a poco a poco, a forza di risparmi, erano ancor lontani da arrivare alla somma.
Tenne l'amico in mezza parola, tornò indietro in fretta, comunicò l'affare al cugino, e gli propose di farlo a mezzo.
Una così bella proposta troncò i dubbi economici di Renzo, che si risolvette subito per l'industria, e disse di sì.
Andarono insieme, e si strinse il contratto.
Quando poi i nuovi padroni vennero a stare sul loro, Lucia, che lì non era aspettata per nulla, non solo non andò soggetta a critiche, ma si può dire che non dispiacque; e Renzo venne a risapere che s'era detto da più d'uno: - avete veduto quella bella baggiana che c'è venuta? - L'epiteto faceva passare il sostantivo.
E anche del dispiacere che aveva provato nell'altro paese, gli restò un utile ammaestramento.
Prima d'allora era stato un po' lesto nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticar la donna d'altri, e ogni cosa.
Allora s'accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi; e prese un po' più d'abitudine d'ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle.
Non crediate però che non ci fosse qualche fastidiuccio anche lì.
L'uomo (dice il nostro anonimo: e già sapete per prova che aveva un gusto un po' strano in fatto di similitudini; ma passategli anche questa, che avrebbe a esser l'ultima), l'uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone.
Ma se gli riesce di cambiare, appena s'è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima.
E per questo, soggiunge l'anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio.
È tirata un po' con gli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione.
Per altro, prosegue, dolori e imbrogli della qualità e della forza di quelli che abbiam raccontati, non ce ne furon più per la nostra buona gente: fu, da quel punto in poi, una vita delle più tranquille, delle più felici, delle più invidiabili; di maniera che, se ve l'avessi a raccontare, vi seccherebbe a morte.
Gli affari andavan d'incanto: sul principio ci fu un po' d'incaglio per la scarsezza de' lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni de' pochi ch'eran rimasti.
Furon pubblicati editti che limitavano le paghe degli operai; malgrado quest'aiuto, le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si rincamminino.
Arrivò da Venezia un altro editto, un po' più ragionevole: esenzione, per dieci anni, da ogni carico reale e personale ai forestieri che venissero a abitare in quello stato.
Per i nostri fu una nuova cuccagna.
Prima che finisse l'anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d'adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria.
Ne vennero poi col tempo non so quant'altri, dell'uno e dell'altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l'uno dopo l'altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de' bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo.
E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c'era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro.
Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire.
- Ho imparato, - diceva, - a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c'è lì d'intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d'aver pensato quel che possa nascere -.
E cent'altre cose.
Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n'era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa.
A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, - e io, - disse un giorno al suo moralista, - cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me.
Quando non voleste dire, - aggiunse, soavemente sorridendo, - che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.
Renzo, alla prima, rimase impicciato.
Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.
Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c'è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.
La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata.
Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.
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