VITA NUOVA, di Dante Alighieri - pagina 3
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Potrebbe già l'uomo opporre contra me e dicere che non sapesse a cui fosse lo mio parlare in seconda persona, però che la ballata non è altro che queste parole ched io parlo: e però dico che questo dubbio io lo intendo solvere e dichiarare in questo libello ancora in parte più dubbiosa; e allora intenda qui chi qui dubita, o chi qui volesse opporre in questo modo.
XIII.
Appresso di questa soprascritta visione, avendo già dette le parole che Amore m'avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere ed a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti quattro mi parea che ingombrassero più lo riposo de la vita.
L'uno de li quali era questo: buona è la signoria d'Amore, però che trae lo intendimento del suo fedele da tutte le vili cose.
L'altro era questo: non buona è la signoria d'Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi punti li conviene passare.
L'altro era questo: lo nome d'Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi sèguitino le nominate cose, sì come è scritto: "Nomina sunt consequentia rerum".
Lo quarto era questo: la donna per cui Amore ti stringe così, non è come l'altre donne, che leggeramente si muova dal suo cuore.
E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo cammino, e che vuole andare e non sa onde se ne vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s'accordassero, questa era via molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi ne le braccia de la Pietà.
E in questo stato dimorando, mi giunse volontade di scriverne parole rimate; e dìssine allora questo sonetto, lo quale comincia: "Tutti li miei pensier".
Tutti li miei pensier parlan d'Amore;
e hanno in loro sì gran varietate,
ch'altro mi fa voler sua potestate,
altro folle ragiona il suo valore,
altro sperando m'aporta dolzore,
altro pianger mi fa spesse fiate;
e sol s'accordano in cherer pietate,
tremando di paura, che è nel core.
Ond'io non so da qual matera prenda;
e vorrei dire, e non so ch'io mi dica:
così mi trovo in amorosa erranza.
E se con tutti vòi far accordanza,
convènemi chiamar la mia nemica,
madonna la Pietà, che mi difenda.
Questo sonetto in quattro parti si può dividere: ne la prima dico e soppongo che tutti li miei pensieri sono d'Amore; ne la seconda dico che sono diversi, e narro la loro diversitade; ne la terza dico in che tutti pare che s'accordino; ne la quarta dico che volendo dire d'Amore, non so da qual parte pigli matera, e se la voglio pigliare da tutti, convene che io chiami la mia inimica, madonna la Pietade; e dico «madonna» quasi per disdegnoso modo di parlare.
La seconda parte comincia quivi: "e hanno in loro"; la terza quivi: "e sol s'accordano"; la quarta quivi: "Ond'io non so".
XIV.
Appresso la battaglia de li diversi pensieri avvenne che questa gentilissima venne in parte ove molte donne gentili erano adunate; a la qual parte io fui condotto per amica persona, credendosi fare a me grande piacere, in quanto mi menava là ove tante donne mostravano le loro bellezze.
Onde io, quasi non sappiendo a che io fossi menato, e fidandomi ne la persona, la quale uno suo amico a l'estremitade de la vita condotto avea, dissi a lui: «Perché semo noi venuti a queste donne?».
Allora quelli mi disse: «Per fare sì ch'elle siano degnamente servite».
E lo vero è che adunate quivi erano a la compagnia d'una gentile donna che disposata era lo giorno; e però, secondo l'usanza de la sopradetta cittade, convenia che le facessero compagnia nel primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello sposo.
Sì che io credendomi fare piacere di questo amico, propuosi di stare al servigio de le donne ne la sua compagnia.
E nel fine del mio proponimento, mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo.
Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura, la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai gli occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice.
Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna.
E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: «Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno li altri nostri pari».
Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima; onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sì mi domandò che io avesse.
Allora io riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita, di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare».
E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime; ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me stesso dicea: «Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietade le ne verrebbe».
E in questo pianto stando, propuosi di dire parole, ne le quali, parlando a lei, significasse la cagione del mio trasfiguramento, e dicesse che io so bene ch'ella non è saputa, e che se fosse saputa, io credo che pietà ne giugnerebbe altrui; e propuòsile di dire, desiderando che venissero per avventura ne la sua audienza.
E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Con l'altre donne".
Con l'altre donne mia vista gabbate,
e non pensate, donna, onde si mova
ch'io vi rassembri sì figura nova
quando riguardo la vostra beltate.
Se lo saveste, non porìa Pietate
tener più contra me l'usata prova,
ché Amor, quando sì presso a voi mi trova,
prende baldanza e tanta securtate,
che fère tra' miei spiriti paurosi,
e quale ancide, e qual pinge di fore,
sì che solo remane a veder vui:
ond'io mi cangio in figura d'altrui,
ma non sì ch'io non senta bene allore
li guai de li scacciati tormentosi.
Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sentenzia de la cosa divisa; onde, con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, non ha mestiere di divisione.
Vero è che tra le parole dove si manifesta la cagione di questo sonetto, si scrivono dubbiose parole, cioè quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro.
E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d'Amore; ed a coloro che vi sono, è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare cotale dubitazione, acciò che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero di soperchio.
XV.
Appresso la nuova trasfigurazione, mi giunse uno pensamento forte, lo quale poco si partìa da me, anzi continuamente mi riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: «Poscia che tu perviene a così dischernevole vista, quando tu se' presso di questa donna, perché pur cerchi di vedere lei? Ecco che tu fossi domandato da lei, che avrestù da rispondere, ponendo che tu avessi libera ciascuna tua vertude, in quanto tu le rispondessi? » Ed a costui rispondea un altro umile pensero, e dicea: «S'io non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto che io le potessi rispondere, io le direi che, sì tosto com'io imagino la sua mirabile bellezza, sì tosto mi giugne uno desiderio di vederla, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge ne la mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei».
Onde io, mosso da cotali pensamenti, propuosi di dire certe parole, ne le quali, escusandomi a lei da cotale riprensione, ponesse anche di quello che mi diviene presso di lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Ciò che m'incontra".
Ciò che m'incontra ne la mente, more,
quand'i' vegno a veder voi, bella gioia;
e quand'io vi son presso, i' sento Amore
che dice: «Fuggi, se 'l perir t'è noia».
Lo viso mostra lo color del core,
che, tramortendo, ovunque pò s'appoia;
e per la ebrietà del gran tremore
le pietre par che gridin: «Moia, moia».
Peccato face chi allora mi vide,
se l'alma sbigottita non conforta,
sol dimostrando che di me li doglia,
per la pietà, che 'l vostro gabbo ancide,
la qual si cria ne la vista morta
de li occhi, c'hanno di lor morte voglia.
Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico la cagione per che non mi tengo di gire presso di questa donna; ne la seconda dico quello che mi diviene per andare presso di lei; e comincia questa parte quivi: "e quand'io vi son presso".
Ed anche si divide questa seconda parte in cinque, secondo cinque diverse narrazioni: che ne la prima dico quello che Amore, consigliato da la ragione, mi dice quando le sono presso; ne la seconda manifesto lo stato del cuore per esemplo del viso; ne la terza dico sì come onne sicurtade mi viene meno; ne la quarta dico che pecca quelli che non mostra pietà di me, acciò che mi sarebbe alcuno conforto; ne l'ultima dico perché altri doverebbe avere pietà, e ciò è per la pietosa vista che ne li occhi mi giugne; la quale vista pietosa è distrutta, cioè non pare altrui, per lo gabbare di questa donna, la quale trae a sua simile operazione coloro che forse vederebbono questa pietà.
La seconda parte comincia quivi: "Lo viso mostra"; la terza quivi: "e per la ebrietà"; la quarta: "Peccato face"; la quinta: "per la pietà".
XVI.
Appresso ciò, che io dissi questo sonetto, mi mosse una volontade di dire anche parole, ne le quali io dicesse quattro cose ancora sopra lo mio stato, le quali non mi parea che fossero manifestate ancora per me.
La prima de le quali si è che molte volte io mi dolea, quando a mia memoria movesse la fantasia ad imaginare quale Amore mi facea.
La seconda si è che Amore spesse volte di subito m'assalia sì forte, che 'n me non rimanea altro di vita se non un pensero che parlava di questa donna.
La terza si è che quando questa battaglia d'Amore mi pugnava così, io mi movea quasi discolorito tutto per vedere questa donna, credendo che mi difendesse la sua veduta da questa battaglia, dimenticando quello che per appropinquare a tanta gentilezza m'addivenia.
La quarta si è come cotale veduta non solamente non mi difendea, ma finalmente disconfiggea la mia poca vita.
E però dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Spesse fiate".
Spesse fiate vègnonmi a la mente
le oscure qualità ch'Amor mi dona,
e vènnemi pietà, sì che sovente
io dico: «Lasso! avvien elli a persona?»;
ch'Amor m'assale subitanamente,
sì che la vita quasi m'abbandona:
càmpami uno spirto vivo solamente,
e que' riman, perché di voi ragiona.
Poscia mi sforzo, ché mi voglio atare;
e così smorto, d'onne valor vòto,
vegno a vedervi, credendo guerire:
e se io levo li occhi per guardare,
nel cor mi si comincia uno tremoto,
che fa de' polsi l'anima partire.
Questo sonetto si divide in quattro parti, secondo che quattro cose sono in esso narrate; e però che sono di sopra ragionate, non m'intrametto se non di distinguere le parti per li loro cominciamenti.
Onde dico che la seconda parte comincia quivi: "ch'Amor"; la terza quivi: "Poscia mi sforzo"; la quarta quivi: "e se io levo".
XVII.
Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna, però che fuoro narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai avere manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nuova e più nobile che la passata.
E però che la cagione de la nuova matera è dilettevole a udire, la dicerò, quanto potrò più brievemente.
XVIII.
Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate s'erano, dilettandosi l'una ne la compagnia de l'altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte; ed io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne.
La donna che m'avea chiamato, era donna di molto leggiadro parlare; sì che quand'io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi le salutai, e domandai che piacesse loro.
Le donne erano molte, tra le quali n'avea certe che si rideano tra loro.
Altre v'erano che mi guardavano, aspettando che io dovessi dire.
Altre v'erano che parlavano tra loro.
De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo».
E poi che m'ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l'altre cominciaro ad attendere in vista la mia risponsione.
Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, ed in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii.
Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno».
Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere l'acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri.
E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m'avea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sia questa tua beatitudine».
Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia».
Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n'hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento».
Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partìo da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?».
E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.
XIX Avvenne poi che passando per uno cammino, lungo lo quale sen gìa uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch'io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine.
Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: "Donne ch'avete intelletto d'amore".
Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione.
La canzone comincia: "Donne ch'avete".
Donne ch'avete intelletto d'amore,
i' vo' con voi de la mia donna dire,
non perch'io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s'io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente:
E io non vo' parlar sì altamente,
ch'io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.
Angelo clama in divino intelletto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l'atto che procede
d'un'anima che 'nfin quassù risplende».
Lo cielo, che non have altro difetto
che d'aver lei, al suo segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola Pietà nostra parte difende,
ché parla Dio, che di madonna intende:
«Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto me piace
là ov' è alcun che perder lei s'attende,
e che dirà ne lo inferno: «O malnati,
io vidi la speranza de' beati».
Madonna è disiata in sommo cielo:
or vòi di sua virtù farvi savere.
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei, chè quando va per via,
gitta nei cor villani Amore un gelo,
per che onne lor pensero agghiaccia e père;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverria nobil cosa, o si morria;
E quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute,
ché li avvien ciò che li dona salute,
e sì l'umilia ch'ogni offesa oblia.
Ancor l'ha Dio per maggior grazia dato
che non pò mal finir chi l'ha parlato.
Dice di lei Amor: «Cosa mortale
come esser pò sì adorna e sì pura?»
Poi la reguarda, e fra se stesso giura
che Dio ne 'ntenda di far cosa nova.
Color di perle ha quasi in forma, quale
convene a donna aver, non for misura;
ella è quanto de ben pò far natura;
per esemplo di lei bieltà si prova.
De li occhi suoi, come ch'ella li mova,
escono spirti d'amore inflammati,
che fèron li occhi a qual che allor la guati,
e passan sì che 'l cor ciascun retrova:
voi le vedete Amor pinto nel viso,
là 've non pote alcun mirarla fiso.
Canzone, io so che tu girai parlando
a donne assai, quand'io t'avrò avanzata.
Or t'ammonisco, perch'io t'ho allevata
per figliuola d'Amor giovane e piana,
che là ove giugni tu dichi pregando:
«Insegnàtemi gir, ch'io son mandata
a quella di cui laude so' adornata».
E se non vuoli andar sì come vana,
non restare ove sia gente villana;
ingègnati, se puoi, d'esser palese
solo con donne o con omo cortese,
che ti merranno là per via tostana.
Tu troverai Amor con esso lei;
raccomàndami a lui come tu dei.
Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l'altre cose di sopra.
E però prima ne fo tre parti: la prima parte è proemio de le sequenti parole; la seconda è lo intento trattato; la terza è quasi una serviziale de le precedenti parole.
La seconda comincia quivi: "Angelo clama"; la terza quivi: "Canzone, io so che".
La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu' io dicer voglio de la mia donna, e perché io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand'io penso lo suo valore, e com'io direi s'io non perdessi l'ardimento; ne la terza dico come credo dire di lei, acciò ch'io non sia impedito da viltà; ne la quarta, ridicendo anche a cui ne intenda dire, dico la cagione per che dico a loro.
La seconda comincia quivi: "Io dico"; la terza quivi: "E io non vo' parlar"; la quarta: "donne e donzelle".
Poscia quando dico: "Angelo clama", comincio a trattare di questa donna.
E dividesi questa parte in due: ne la prima dico che di lei si comprende in cielo; ne la seconda dico che di lei si comprende in terra, quivi: "Madonna è disiata".
Questa seconda parte si divide in due; che ne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquanto de le sue vertudi effettive che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la parte de la nobilitade del suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, quivi: "Dice di lei Amor".
Questa seconda parte si divide in due: che ne la prima dico d'alquante bellezze che sono secondo tutta la persona; ne la seconda dico d'alquante bellezze che sono secondo diterminata parte de la persona, quivi: "De li occhi suoi".
Questa seconda parte si divide in due: che ne l'una dico deli occhi, li quali sono principio d'amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d'amore.
E acciò che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricòrdisi chi ci legge che di sopra è scritto che lo saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li miei desiderii mentre ch'io lo potei ricevere.
Poscia quando dico: "Canzone, io so che tu", aggiungo una stanza quasi come ancella de l'altre, ne la quale dico quello che di questa mia canzone desidero; e però che questa ultima parte è lieve a intendere, non mi travaglio di più divisioni.
Dico bene che, a più aprire lo intendimento di questa canzone, si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d'avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s'elli avvenisse che molti le potessero audire.
XX.
Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l'udisse, volontade lo mosse a pregare me che io li dovesse dire che è Amore, avendo forse per l'udite parole speranza di me oltre che degna.
Onde io pensando che appresso di cotale trattato, bello era trattare alquanto d'Amore, e pensando che l'amico era da servire, propuosi di dire parole ne le quali io trattassi d'Amore; e allora dissi questo sonetto, lo qual comincia: "Amore e 'l cor gentil".
Amore e 'l cor gentil sono una cosa,
sì come il saggio in suo dittare pone,
e così esser l'un sanza l'altro osa
com'alma razional sanza ragione.
Fàlli natura quand'è amorosa,
Amor per sire e 'l cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
tal volta poca e tal lunga stagione.
Bieltate appare in saggia donna pui,
che piace a gli occhi sì, che dentro al core
nasce un disio de la cosa piacente;
e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d'Amore.
E simil fàce in donna omo valente.
Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico di lui in quanto è in potenzia; ne la seconda dico di lui in quanto di potenzia si riduce in atto.
La seconda comincia quivi: "Bieltate appare".
La prima si divide in due: ne la prima dico in che suggetto sia questa potenzia; ne la seconda dico sì come questo suggetto e questa potenzia siano produtti in essere, e come l'uno guarda l'altro come forma materia.
La seconda comincia quivi: "Fàlli natura".
Poscia quando dico: "Bieltate appare", dico come questa potenzia si riduce in atto; e prima come si riduce in uomo, poi come si riduce in donna, quivi: "E simil fàce in donna".
XXI.
Poscia che trattai d'Amore ne la soprascritta rima, vènnemi volontade di volere dire, anche in loda di questa gentilissima, parole per le quali io mostrasse come per lei si sveglia questo Amore, e come non solamente si sveglia là ove dorme, ma là ove non è in potenzia, ella, mirabilemente operando, lo fa venire.
E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Negli occhi porta".
per che si fa gentil ciò ch'ella mira;
ov'ella passa, ogn'om vèr lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,
sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d'ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
Aiutatemi, donne, farle onore.
Ogne dolcezza, ogne pensero umile
nasce nel core a chi parlar la sente,
ond'è laudato chi prima la vide.
Quel ch'ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.
Questo sonetto sì ha tre parti.
Ne la prima dico sì come questa donna riduce questa potenzia in atto, secondo la nobilissima parte de li suoi occhi; e ne la terza dico questo medesimo, secondo la nobilissima parte de la sua bocca: e intra queste due parti è una particella, ch'è quasi domandatrice d'aiuto a la precedente parte ed a la sequente, e comincia quivi: "Aiutatemi, donne." La terza comincia quivi: "Ogne dolcezza".
La prima si divide in tre; che ne la prima parte dico sì come virtuosamente fae gentile tutto ciò che vede, e questo è tanto a dire quanto inducere Amore in potenzia là ove non è; ne la seconda dico come reduce in atto Amore ne li cuori di tutti coloro cui vede; ne la terza dico quello che poi virtuosamente adopera ne' loro cuori.
La seconda comincia quivi: "ov'ella passa"; la terza quivi: "e cui saluta".
Poscia quando dico: "Aiutatemi, donne," do a intendere a cui la mia intenzione è di parlare, chiamando le donne che m'aiutino onorare costei.
Poscia quando dico: "Ogne dolcezza," dico quello medesimo che detto è ne la prima parte, secondo due atti de la sua bocca; l'uno de li quali è lo suo dolcissimo parlare, e l'altro lo suo mirabile riso; salvo che non dico di questo ultimo come adopera ne li cuori altrui, però che la memoria non puote ritenere lui né sua operazione.
XXII.
Appresso ciò non molti dì passati, sì come piacque al glorioso sire lo quale non negòe la morte a sé, colui che era stato genitore di tanta maraviglia quanta si vedea ch'era questa nobilissima Beatrice, di questa vita uscendo, a la gloria eternale se ne gìo veracemente.
Onde, con ciò sia cosa che cotale partire sia doloroso a coloro che rimangono e sono stati amici di colui che se ne va; e nulla sia sì intima amistade come da buon padre a buon figliuolo e da buon figliuolo a buon padre; e questa donna fosse in altissimo grado di bontade, e lo suo padre, sì come da molti si crede e vero è, fosse bono in alto grado; manifesto è che questa donna fue amarissimamente piena di dolore.
E con ciò sia cosa che, secondo l'usanza de la sopradetta cittade, donne con donne e uomini con uomini s'adunino a cotale tristizia, molte donne s'adunaro colà dove questa Beatrice piangea pietosamente: onde io veggendo ritornare alquante donne da lei, udio dicere loro parole di questa gentilissima, com'ella si lamentava; tra le quali parole udio che diceano: «Certo ella piange sì, che quale la mirasse doverebbe morire di pietade».
Allora trapassaro queste donne; ed io rimasi in tanta tristizia, che alcuna lagrima talora bagnava la mia faccia, onde io mi ricopria con porre le mani spesso a li miei occhi: e se non fosse ch'io attendea audire anche di lei, però ch'io era in luogo onde se ne gìano la maggior parte di quelle donne che da lei si partìano, io mi sarei nascoso incontanente che le lagrime m'aveano assalito.
E però dimorando ancora nel medesimo luogo, donne anche passaro presso di me, le quali andavano ragionando tra loro queste parole: «Chi dee mai essere lieta di noi, che avemo udita parlare questa donna così pietosamente?».
Appresso costoro passaro altre donne, che veniano dicendo: «Questi ch'è qui, piange né più né meno come se l'avesse veduta, come noi avemo».
Altre dipoi diceano di me: «Vedi questi che non pare esso, tal è divenuto».
E così passando queste donne, udio parole di lei e di me in questo modo che detto è.
Onde io poi, pensando, propuosi di dire parole, acciò che degnamente avea cagione di dire, ne le quali parole io conchiudesse tutto ciò che inteso avea da queste donne; e però che volentieri l'averei domandate, se non mi fosse stata riprensione, presi tanta matera di dire come s'io l'avesse domandate ed elle m'avessero risposto.
E feci due sonetti; che nel primo domando in quello modo che voglia mi giunse di domandare; ne l'altro dico la loro risponsione, pigliando ciò ch'io udio da loro sì come lo mi avessero detto rispondendo.
E comincia lo primo: "Voi che portate la sembianza umile", e l'altro: "Se' tu colui c'hai trattato sovente".
Voi, che portate la sembianza umile,
con li occhi bassi mostrando dolore,
onde venite che 'l vostro colore
par divenuto de pietà simile?
Vedeste voi nostra donna gentile
bagnar nel viso suo di pianto Amore?
Ditelmi, donne, che 'l mi dice il core,
perch'io vi veggio andar sanz'atto vile.
E se venite da tanta pietate,
piàcciavi di restar qui meco alquanto,
e qual che sia di lei no 'l mi celate.
Io veggio li occhi vostri c'hanno pianto,
e vèggiovi tornar sì sfigurate,
che 'l cor mi triema di vederne tanto.
Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima chiamo e domando queste donne se vegnono da lei, dicendo loro che io lo credo, però che tornano quasi ingentilite; ne la seconda le prego che mi dicano di lei.
La seconda comincia quivi: "E se venite".
Qui appresso è l'altro sonetto, sì come dinanzi avemo narrato.
Se' tu colui, c'hai trattato sovente
di nostra donna, sol parlando a nui?
Tu risomigli a la voce ben lui,
ma la figura ne par d'altra gente.
E perché piangi tu sì coralmente,
che fai di te pietà venire altrui?
Vedestù pianger lei, che tu non pui
punto celar la dolorosa mente?
Lascia pianger a noi e triste andare
(e fa peccato chi mai ne conforta),
che nel suo pianto l'udimmo parlare.
Ell'ha nel viso la pietà sì scorta,
che qual l'avesse voluta mirare
sarebbe innanzi lei piangendo morta.
Questo sonetto ha quattro parti, secondo che quattro modi di parlare ebbero in loro le donne per cui rispondo; e però che sono di sopra assai manifesti, non m'intrametto di narrare la sentenzia de le parti, e però le distinguo solamente.
La seconda comincia quivi: "E perché piangi"; la terza: "Lascia pianger a noi"; la quarta: "Ell'ha nel viso".
XXIII.
Appresso ciò per pochi dì, avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere.
Io dico che ne lo nono giorno, sentendo me dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno pensero, lo quale era de la mia donna.
E quando èi pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria.
Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia».
E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo; che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne, m'apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se' morto».
Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch'io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch'elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l'aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti.
E maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo».
Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime.
Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d'angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima.
A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: "Osanna in excelsis;" ed altro non mi parea udire.
Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna».
E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d'umilitade che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace».
In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me, e non m'essere villana, però che tu dèi essere gentile, in tal parte se' stata! Or vieni a me, che molto ti desidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore».
E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le còrpora de li morti s'usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!».
E dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la Morte che venisse a me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo lo mio letto, credendo che lo mio piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere.
Onde altre donne che per la camera erano, s'accorsero di me, che io piangea, per lo pianto che vedeano fare a questa; onde faccendo lei partire da me, la quale era meco di propinquissima sanguinitade congiunta, elle si trassero verso me per isvegliarmi, credendo che io sognasse, e dicèanmi: «Non dormire più» e «Non ti sconfortare».
E parlandomi così, sì mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch'eo volea dicere: «O Beatrice, benedetta sie tu»; e già detto avea «O Beatrice», quando riscotendomi apersi li occhi, e vidi che io era ingannato.
E con tutto che io chiamasse questo nome, la mia voce era sì rotta dal singulto del piangere, che queste donne non mi potero intendere, secondo il mio parere; e avvegna che io vergognasse molto, tuttavia per alcuno ammonimento d'Amore mi rivolsi a loro.
E quando mi videro, cominciaro a dire: «Questi pare morto», e a dire tra loro: «Procuriamo di confortarlo»; onde molte parole mi diceano da confortarmi, e talora mi domandavano di che io avesse avuto paura.
Onde io essendo alquanto riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare, rispuosi a loro: «Io vi diròe quello ch'i' hoe avuto».
Allora, cominciandomi dal principio infino a la fine, dissi loro quello che veduto avea, tacendo lo nome di questa gentilissima.
Onde poi sanato di questa infermitade, propuosi di dire parole di questo che m'era addivenuto, però che mi parea che fosse amorosa cosa da udire; e però ne dissi questa canzone: "Donna pietosa, e di novella etate", ordinata sì come manifesta la infrascritta divisione.
Donna pietosa, e di novella etate,
adorna assai di gentilezze umane,
che era là 'v'io chiamava spesso Morte,
veggendo li occhi miei pien di pietate,
e ascoltando le parole vane,
si mosse con paura a pianger forte;
E altre donne, che si fuoro accorte
di me per quella che meco piangia,
fecer lei partir via,
e appressârsi per farmi sentire.
Qual dicea: «Non dormire»,
e qual dicea: «Perché sì ti sconforte?»
Allor lassai la nova fantasia,
chiamando il nome de la donna mia.
Era la voce mia sì dolorosa
e rotta sì da l'angoscia del pianto,
ch'io solo intesi il nome nel mio core;
e con tutta la vista vergognosa
ch'era nel viso mio giunta cotanto,
mi fece verso lor volgere Amore.
Elli era tale a veder mio colore,
che facea ragionar di morte altrui:
«Deh, consoliam costui,»
pregava l'una l'altra umilemente;
e dicevan sovente:
«Che vedestù, che tu non hai valore?»
E quando un poco confortato fui,
io dissi: «Donne, dicerollo a vui.
Mentr'io pensava la mia frale vita,
e vedea 'l suo durar com'è leggero,
piànsemi Amor nel core, ove dimora;
per che l'anima mia fu sì smarrita,
che sospirando dicea nel pensero:
- Ben converrà che la mia donna mora! -
Io presi tanto smarrimento allora,
ch'io chiusi li occhi vilmente gravati,
e furon sì smagati
li spirti miei, che ciascun giva errando;
e poscia imaginando,
di conoscenza e di verità fora,
visi di donne m'apparver crucciati,
che mi dicean pur: - Morràti, morràti -.
Poi vidi cose dubitose molte,
nel vano imaginare ov'io entrai;
ed esser mi parea non so in qual loco,
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando, e qual traendo guai,
che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco
turbar lo sole ed apparir la stella,
e pianger elli ed ella;
cader li augelli volando per l'âre,
e la terra tremare;
ed omo apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? Non sai novella?
morta è la d
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