VITA NUOVA, di Dante Alighieri - pagina 7
...
.
chi la mia donna tra le donne vede;
quelle che vanno con lei son tenute
di bella grazia a Dio render merzede.
E sua bieltate è di tanta vertute,
che nulla invidia a l'altre ne procede,
anzi le face andar seco vestute
di gentilezza d'amore e di fede.
La vista sua fa ogne cosa umile;
e non fa sola sé parer piacente,
ma ciascuna per lei riceve onore.
Ed è ne li atti suoi tanto gentile,
che nessun la si può recare a mente,
che non sospiri in dolcezza d'amore.
Questo sonetto ha tre parti: ne la prima dico tra che gente questa donna più mirabile parea; ne la seconda dico sì come era graziosa la sua compagnia; ne la terza dico di quelle cose che vertuosamente operava in altrui.
La seconda parte comincia quivi: "quelle che vanno"; la terza quivi: "E sua bieltate".
Questa ultima parte si divide in tre: ne la prima dico quello che operava ne le donne, cio è per loro medesime; ne la seconda dico quello che operava in loro per altrui; ne la terza dico come non solamente ne le donne, ma in tutte le persone, e non solamente ne la sua presenzia, ma ricordandosi di lei, mirabilmente operava.
La seconda comincia quivi: "La vista sua"; e la terza quivi: "Ed è ne li atti".
XXVII.
[XXVIII] Appresso ciò, cominciai a pensare uno giorno sopra quello che detto avea de la mia donna, cio è in questi due sonetti precedenti; e veggendo nel mio pensero che io non avea detto di quello che al presente tempo adoperava in me, pareami defettivamente avere parlato.
E però propuosi di dire parole ne le quali io dicesse come me parea essere disposto a la sua operazione, e come operava in me la sua vertude; e non credendo potere ciò narrare in brevitade di sonetto, cominciai allora una canzone, la quale comincia: "Sì lungiamente".
e costumato a la sua segnoria,
che sì com'elli m'era forte in pria,
così mi sta soave ora nel core.
Però quando mi tolle sì 'l valore
che li spiriti par che fuggan via,
allor sente la frale anima mia
tanta dolcezza, che 'l viso ne smore,
poi prende Amore in me tanta vertute,
che fa li miei sospiri gir parlando,
ed escon for chiamando
la donna mia, per darmi più salute.
Questo m'avene ovunque ella mi vede,
e sì è cosa umìl, che nol si crede.
XXVIII.
[XXIX] "Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium".
Io era nel proponimento ancora di questa canzone, e compiuta n'avea questa soprascritta stanzia, quando lo signore de la giustizia chiamòe questa gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata.
Tuttavia, però che molte volte lo numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare che sia non sanza ragione, e ne la sua partita cotale numero pare che avesse molto luogo, convènesi di dire quindi alcuna cosa, acciò che pare al proposito convenirsi.
Onde prima dicerò come ebbe luogo ne la sua partita, e poi n'assegnerò alcuna ragione, per che questo numero fue a lei cotanto amico.
XXIX.
[XXX] Io dico che, secondo l'usanza d'Arabia, l'anima sua nobilissima si partìo ne la prima ora del nono giorno del mese; e secondo l'usanza di Siria, ella si partìo nel nono mese de l'anno, però che lo primo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a noi è Ottobre; e secondo l'usanza nostra, ella si partìo in quello anno de la nostra indizione, cioè de li anni Domini, in cui lo perfetto numero nove volte era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue de li cristiani del terzodecimo centinaio.
Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione: con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e secondo comune opinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuso secondo la loro abitudine insieme, questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s'aveano insieme.
Questa è una ragione di ciò; ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così.
Lo numero del tre è la radice del nove, però che sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove.
Dunque se lo tre è fattore per sè medesimo del nove, e lo fattore per sè medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch'ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade.
Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch'io ne veggio, e che più mi piace.
XXX.
[XXXI] Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade; onde io, ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a li prìncipi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia profeta che dice: "Quomodo sedet sola civitas".
E questo dico, acciò che altri non si maravigli perché io l'abbia allegato di sopra, quasi come entrata de la nuova materia che appresso vene.
E se alcuno volesse me riprendere di ciò, ch'io non scrivo qui le parole che sèguitano a quelle allegate, escùsomene, però che lo intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare: onde, con ciò sia cosa che le parole che sèguitano a quelle che sono allegate siano tutte latine, sarebbe fuori del mio intendimento se le scrivessi.
E simile intenzione so ch'ebbe questo mio primo amico, a cui io ciò scrivo, cioè ch'io li scrivessi solamente volgare.
XXXI.
[XXXII] Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia trestizia, pensai di volere disfogarla con alquante parole dolorose; e però propuosi di fare una canzone, ne la quale piangendo ragionassi di lei, per cui tanto dolore era fatto distruggitore de l'anima mia; e cominciai allora una canzone, la quale comincia: "Li occhi dolenti per pietà del core".
E acciò che questa canzone paia rimanere più vedova dopo lo suo fine, la dividerò prima che io la scriva: e cotale modo terrò da qui innanzi.
Io dico che questa cattivella canzone ha tre parti: la prima è proemio; ne la seconda ragiono di lei; ne la terza parlo a la canzone pietosamente.
La seconda parte comincia quivi: "Ita n'è Beatrice"; la terza quivi: "Pietosa mia canzone".
La prima parte si divide in tre: ne la prima dico perché io mi muovo a dire; ne la seconda dico a cui io voglio dire; ne la terza dico di cui io voglio dire.
La seconda comincia quivi: "E perché me ricorda"; la terza quivi: "e dicerò".
Poscia quando dico: "Ita n'è Beatrice", ragiono di lei; e intorno a ciò foe due parti: prima dico la cagione per che tolta ne fue; appresso dico come altri si piange de la sua partita, e comincia questa parte quivi: "Partìssi de la sua".
Questa parte si divide in tre: ne la prima dico chi non la piange; ne la seconda dico chi la piange; ne la terza dico de la mia condizione.
La seconda comincia quivi: "ma ven trestizia e voglia"; la terza quivi: "Dànnomi angoscia".
Poscia quando dico: "Pietosa mia canzone", parlo a questa canzone, disegnandole a quali donne se ne vada, e stèasi con loro.
Li occhi dolenti per pietà del core
hanno di lagrimar sofferta pena,
sì che per vinti son remasi omai.
Ora, s'i' voglio sfogar lo dolore,
che a poco a poco a la morte mi mena,
convènemi parlar traendo guai.
E perché me ricorda ch'io parlai
de la mia donna, mentre che vivia,
donne gentili, volontier con vui,
non vòi parlare altrui,
se non a cor gentil che in donna sia;
e dicerò di lei piangendo, pui
che si n'è gita in ciel subitamente,
e ha lasciato Amor meco dolente.
nel reame ove li angeli hanno pace,
e sta con loro, e voi, donne, ha lassate:
no la ci tolse qualità di gelo
né di calore, come l'altre face,
ma solo fue sua gran benignitate;
ché luce de la sua umilitate
passò li cieli con tanta vertute,
che fé maravigliar l'etterno sire,
sì che dolce disire
lo giunse di chiamar tanta salute;
e félla di qua giù a sé venire,
perché vedea ch'esta vita noiosa
non era degna di sì gentil cosa.
Partìssi de la sua bella persona,
piena di grazia, l'anima gentile,
ed èssi gloriosa in loco degno.
Chi no la piange, quando ne ragiona,
core ha di pietra sì malvagio e vile,
ch'entrar no 'i puote spirito benegno.
Non è di cor villan sì alto ingegno,
che possa imaginar di lei alquanto,
e però no li ven di pianger doglia;
ma ven trestizia e voglia
di sospirare e di morir di pianto,
e d'onne consolar l'anima spoglia,
chi vede nel pensero alcuna volta
quale ella fue, e com'ella n'è tolta.
Dànnomi angoscia li sospiri forte,
quando 'l pensero ne la mente grave
mi reca quella che m'ha 'l cor diviso;
e spesse fiate pensando a la morte,
vènemene un disio tanto soave,
che mi tramuta lo color nel viso.
E quando 'l maginar mi ven ben fiso,
giùgnemi tanta pena d'ogne parte,
ch'io mi riscuoto per dolor ch'i' sento;
e sì fatto divento,
che da le genti vergogna mi parte.
Poscia piangendo, sol nel mio lamento
chiamo Beatrice, e dico: - Or se' tu morta? -;
e mentre ch'io la chiamo, me conforta.
Pianger di doglia e sospirar d'angoscia
mi strugge 'l core ovunque sol mi trovo,
sì che ne 'ncrescerebbe a chi m'audesse:
e quale è stata la mia vita, poscia
che la mia donna andò nel secol novo,
lingua non è che dicer lo sapesse.
E però, donne mie, pur ch'io volesse,
non vi saprei io dir ben quel ch'io sono,
sì mi fa travagliar l'acerba vita;
la quale è sì 'nvilita,
che ogn'om par che mi dica: - Io t'abbandono -,
veggendo la mia labbia tramortita.
Ma qual ch'io sia, la mia donna il si vede,
ed io ne spero ancor da lei merzede.
Pietosa mia canzone, or va piangendo,
e ritruova le donne e le donzelle,
a cui le tue sorelle
erano usate di portar letizia;
e tu, che se' figliuola di trestizia,
vatten disconsolata a star con elle.
XXXII.
[XXXIII] Poi che detta fue questa canzone, sì venne a me uno, lo quale, secondo li gradi de l'amistade, è amico a me immediatamente dopo lo primo; e questi fue tanto distretto di sanguinitade con questa gloriosa, che nullo più presso l'era.
E poi che fue meco a ragionare, mi pregòe ch'io li dovesse dire alcuna cosa per una donna che s'era morta; e simulava sue parole, acciò che paresse che dicesse d'un'altra, la quale morta era certamente.
Onde io accorgendomi che questi dicea solamente per questa benedetta, sì li dissi di fare ciò che mi domandava lo suo prego.
Onde poi pensando a ciò, propuosi di fare uno sonetto nel quale mi lamentasse alquanto, e di darlo a questo mio amico, acciò che paresse che per lui l'avessi fatto; e dissi allora questo sonetto, che comincia: "Venite a 'ntender li sospiri miei".
Lo quale ha due parti: ne la prima, chiamo li fedeli d'Amore che m' intendano; ne la seconda, narro de la mia misera condizione.
La seconda comincia quivi: "li quai disconsolati".
Venite a 'ntender li sospiri miei,
oi cor gentili, chè pietà 'l disia:
li quai disconsolati vanno via,
e s'e' non fosser, di dolor morrei;
però che gli occhi mi sarebber rei,
molte fiate più ch'io non vorria,
lasso! di pianger sì la donna mia,
che sfogasser lo cor, piangendo lei.
Voi udirete lor chiamar sovente
la mia donna gentil, che si n'è gita
al secol degno de la sua vertute;
e dispregiar talora questa vita
in persona de l'anima dolente
abbandonata de la sua salute.
XXXIII.
[XXXIV] Poi che detto èi questo sonetto, pensandomi chi questi era a cui lo intendea dare quasi come per lui fatto, vidi che povero mi parea lo servigio e nudo a così distretta persona di questa gloriosa.
E però anzi ch'io li dessi questo soprascritto sonetto, sì dissi due stanzie d'una canzone, l'una per costui veracemente, e l'altra per me, avvegna che paia l'una e l'altra per una persona detta, a chi non guarda sottilmente; ma chi sottilmente le mira, vede bene che diverse persone parlano, acciò che l'una non chiama sua donna costei, e l'altra sì, come appare manifestamente.
Questa canzone e questo soprascritto sonetto li diedi, dicendo io lui che per lui solo fatto l'avea.
La canzone comincia: "Quantunque volte," e ha due parti: ne l'una, cioè ne la prima stanzia, si lamenta questo mio caro e distretto a lei; ne la seconda mi lamento io, cioè ne l'altra stanzia si comincia: "E' si raccoglie ne li miei".
E così appare che in questa canzone si lamentano due persone, l'una de le quali si lamenta come frate, l'altra come servo.
Quantunque volte, lasso! , mi rimembra
ch'io non debbo giammai
veder la donna ond'io vo sì dolente,
tanto dolore intorno 'l cor m'assembra
la dolorosa mente,
ch'io dico: - Anima mia, chè non ten vai?
chè li tormenti che tu porterai
nel secol, che t'è già tanto noio,
mi fan pensoso di paura forte -.
Ond'io chiamo la Morte,
come soave e dolce mio riposo;
e dico: - Vieni a me - con tanto amore,
che sono astioso di chiunque more.
E si raccoglie ne li miei sospiri
un sòno di pietate,
che va chiamando Morte tuttavia:
a lei si volser tutti i miei disiri,
quando la donna mia
fu giunta da la sua crudelitate;
perché 'l piacere de la sua bieltate,
partendo sé da la nostra veduta,
divenne spirital bellezza grande,
che per lo cielo spande
luce d'amor, che li angeli saluta
e lo intelletto loro alto, sottile
face maravigliar, sì v'è gentile.
XXXIV.
[XXXV] In quello giorno nel quale si compiea l'anno che questa donna era fatta de li cittadini di vita eterna, io mi sedea in parte ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette; e mentre io lo disegnava, volsi li occhi, e vidi lungo me uomini a li quali si convenia di fare onore.
E riguardavano quello che io facea; e secondo che me fu detto poi, elli erano stati già alquanto anzi che io me ne accorgesse.
Quando li vidi, mi levai, e salutando loro dissi: «Altri era testé meco, però pensava».
Onde partiti costoro, ritornàimi a la mia opera, cioè del disegnare figure d'angeli: e facendo ciò, mi venne uno pensero di dire parole, quasi per annovale, e scrivere a costoro li quali erano venuti a me; e dissi allora questo sonetto, lo quale comincia: "Era venuta".
Lo quale ha due cominciamenti, e però lo dividerò secondo l'uno e secondo l'altro.
Dico che secondo lo primo, questo sonetto ha tre parti: ne la prima, dico che questa donna era già ne la mia memoria; ne la seconda, dico quello che Amore però mi facea; ne la terza, dico de gli effetti d'Amore.
La seconda comincia quivi: "Amor che"; la terza quivi: "Piangendo uscivan for".
Questa parte si divide in due: ne l'una dico che tutti li miei sospiri uscivano parlando; ne la seconda dico che alquanti diceano certe parole diverse da gli altri.
La seconda comincia quivi: "Ma quei".
Per questo medesimo modo si divide secondo l'altro cominciamento, salvo che ne la prima parte dico quando questa donna era così venuta ne la mia memoria, e ciò non dico ne l'altro.
"Primo cominciamento"
Era venuta ne la mente mia
la gentil donna che per suo valore
fu posta da l'altissimo Signore
nel ciel de l'umiltate, ov'è Maria.
"Secondo cominciamento"
Era venuta ne la mente mia
quella donna gentil cui piange Amore.
Entro 'n quel punto che lo suo valore
vi trasse a riguardar quel ch'eo facia.
Amor che ne la mente la sentia,
s'era svegliato nel destrutto core,
e diceva a' sospiri: «Andate fore»;
per che ciascun dolente si partia.
Piangendo uscivan for de lo mio petto
con una voce che sovente mena
le lagrime dogliose a li occhi tristi.
Ma quei che n'uscian for con maggior pena,
venian dicendo: «Oi nobile intelletto,
oggi fa l'anno che nel ciel salisti».
XXXV.
[XXXVI] Poi per alquanto tempo, con ciò fosse cosa che io fosse in parte ne la quale mi ricordava del passato tempo, molto stava pensoso, e con dolorosi pensamenti tanto che mi faceano parere de fore una vista di terribile sbigottimento.
Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse.
Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta.
Onde, con ciò sia cosa che quando li miseri veggiono di loro compassione altrui, più tosto si muovono a lagrimare, quasi come di se stessi avendo pietade, io senti' allora cominciare li miei occhi a volere piangere; e però, temendo di non mostrare la mia vile vita, mi partio dinanzi da li occhi di questa gentile; e dicea poi fra me medesimo: «E' non puote essere che con quella pietosa donna non sia nobilissimo amore».
E però propuosi di dire uno sonetto, ne lo quale io parlasse a lei, e conchiudesse in esso tutto ciò che narrato è in questa ragione.
E però che per questa ragione è assai manifesto, sì nollo dividerò.
Lo sonetto comincia: " Videro li occhi miei."
Videro li occhi miei quanta pietate
era apparita in la vostra figura,
quando guardaste li atti e la statura
ch'io faccio per dolor molte fiate.
Allor m'accorsi che voi pensavate
la qualità de la mia vita oscura,
sì che mi giunse ne lo cor paura
di dimostrar con li occhi mia viltate.
E tòlsimi dinanzi a voi, sentendo
che si movean le lagrime dal core,
ch'era sommosso da la vostra vista.
Io dicea poscia ne l'anima trista:
«Ben è con quella donna quello Amore
lo qual mi face andar così piangendo».
XXXVI.
[XXXVII] Avvenne poi che là ovunque questa donna mi vedea, sì si facea d'una vista pietosa e d'un colore palido quasi come d'amore; onde molte fiate mi ricordava de la mia nobilissima donna, che di simile colore si mostrava tuttavia.
E certo molte volte non potendo lagrimare né disfogare la mia trestizia, io andava per vedere questa pietosa donna, la quale parea che tirasse le lagrime fuori de li miei occhi per la sua vista.
E però mi venne volontade di dire anche parole, parlando a lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Color d'amore"; ed è piano sanza dividerlo, per la sua precedente ragione.
Color d'amore e di pietà sembianti
non preser mai così mirabilmente
viso di donna, per veder sovente
occhi gentili o dolorosi pianti,
come lo vostro, qualora davanti
vedètevi la mia labbia dolente;
sì che per voi mi ven cosa a la mente,
ch'io temo forte no lo cor si schianti.
Eo non posso tener li occhi distrutti
che non reguardin voi spesse fiate,
per desiderio di pianger ch'elli hanno:
e voi crescete sì lor volontate,
che de la voglia si consuman tutti;
ma lagrimar dinanzi a voi non sanno.
XXXVII.
[XXXVIII] Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore, ed avèamene per vile assai.
Onde più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei, e dicea loro nel mio pensero: «Or voi solavate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa condizione, ed ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira; che non mira voi, se non in quanto le pesa de la gloriosa donna di cui piangere solete; ma quanto potete fate, ché io la vi pur rimembrerò molto spesso, maladetti occhi, ché mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime avere restate».
E quando così avea detto fra me medesimo a li miei occhi, e li sospiri m'assalivano grandissimi e angosciosi.
E acciò che questa battaglia che io avea meco non rimanesse saputa pur dal misero che la sentia, propuosi di fare un sonetto, e di comprendere in ello questa orribile condizione.
E dissi questo sonetto, lo quale comincia: "L'amaro lagrimar".
Ed hae due parti: ne la prima, parlo a li occhi miei sì come parlava lo mio cuore in me medesimo; ne la seconda, rimuovo alcuna dubitazione, manifestando chi è che così parla; e comincia questa parte quivi: "Così dice".
Potrebbe bene ancora ricevere più divisioni, ma sariano indarno, però che è manifesto per la precedente ragione.
«L'amaro lagrimar che voi faceste,
oi occhi miei, così lunga stagione,
facea lagrimar l'altre persone
de la pietate, come voi vedeste.
Ora mi par che voi l'obliereste,
s'io fosse dal mio lato sì fellone
ch'i' non ven disturbasse ogne cagione,
membrandovi colei cui voi piangeste.
La vostra vanità mi fa pensare,
e spavèntami sì, ch'io temo forte
del viso d'una donna che vi mira.
Voi non dovreste mai, se non per morte,
la vostra donna, ch'è morta, obliare».
Così dice 'l meo core, e poi sospira.
XXXVIII.
[XXXIX] Ricovròmi la vista di quella donna in sì nuova condizione, che molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse; e pensava di lei così: «Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, e apparita forse per volontade d'Amore, acciò che la mia vita si riposi».
E molte volte pensava più amorosamente, tanto che lo cuore consentiva in lui, cioè nel suo ragionare.
E quando io avea consentito ciò, e io mi ripensava sì come da la ragione mosso, e dicea fra me medesimo: «Deo, che pensero è questo, che in così vile modo vuole consolare me e non mi lascia quasi altro pensare?».
Poi si rilevava un altro pensero, e dicea a me: «Or tu se' stato in tanta tribulazione, perché non vuoli tu ritrarre te da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d'Amore, che ne reca li disiri d'amore dinanzi, ed è mosso da così gentil parte, com'è quella de li occhi de la donna che tanto pietosa ci s'hae mostrata».
Onde io avendo così più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole; e però che la battaglia de' pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Gentil pensero"; e dico 'gentile' in quanto ragionava di gentile donna, ché per altro era vilissimo.
In questo sonetto fo due parti di me, secondo che li miei pensieri erano divisi.
L'una parte chiamo 'cuore', cioè l'appetito; l'altra chiamo anima, cioè la ragione; e dico come l'uno dice con l'altro.
E che degno sia di chiamare l'appetito cuore, e la ragione anima, assai è manifesto a coloro a cui mi piace che ciò sia aperto.
Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella de li occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi de la gentilissima donna mia, che di vedere costei, avvegna che alcuno appetito n'avessi già, ma leggero parea: onde appare che l'uno detto non è contrario a l'altro.
Questo sonetto ha tre parti: ne la prima, comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; ne la seconda, dico come l'anima, cioè la ragione, dice al cuore, cioè a lo appetito; ne la terza dico come le risponde.
La seconda parte comincia quivi: "L'anima dice"; la terza quivi: "Ei le risponde".
Gentil pensero che parla di vui,
sen vene a dimorar meco sovente,
e ragiona d'amor sì dolcemente,
che face consentir lo core in lui.
L'anima dice al cor: «Chi è costui,
che vene a consolar la nostra mente
ed è la sua vertù tanto possente,
ch'altro penser non lascia star con nui?»
Ei le risponde: «Oi anima pensosa,
questi è uno spiritel novo d'amore,
che reca innanzi me li suoi desiri;
e la sua vita, e tutto 'l suo valore,
mosse de li occhi di quella pietosa
che si turbava de' nostri martìri».
XXXIX.[XL] Contra questo avversario de la ragione si levoe un die, quasi ne l'ora de la nona, una forte imaginazione in me; che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei; e pareami giovane in simile etade in quale io prima la vidi.
Allora cominciai a pensare di lei.
E ricordandomi di lei secondo l'ordine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentère de lo desiderio a cui sì vilmente s'avea lasciato possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione; e discacciato questo cotale malvagio desiderio, sì si rivolsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice.
E dico che d'allora innanzi cominciai a pensare di lei sì con tutto lo vergognoso cuore, che li sospiri manifestavano ciò molte volte; però che tutti quasi diceano nel loro uscire quello che nel cuore si ragionava, cioè lo nome di quella gentilissima, e come si partìo da noi.
E molte volte avvenia che tanto dolore avea in sé alcuno pensero, ch'io dimenticava lui e là dov'io era.
Per questo raccendimento de' sospiri si raccese lo sollenato lagrimare, in guisa che li miei occhi pareano due cose che desiderassero pur di piangere; e spesso avvenia che per lo lungo continuare del pianto, dintorno loro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva.
Onde appare che de la loro vanitade fuoro degnamente guiderdonati; sì che d'allora innanzi non potero mirare persona che li guardasse sì che loro potesse trarre a simile intendimento.
Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e vana tentazione paresse distrutto, sì che alcuno dubbio non potessero indùcere le rimate parole ch'io avea dette innanzi, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io comprendesse la sentenza di questa ragione.
E dissi allora: "Lasso! per forza di molti sospiri"; e dissi 'lasso' in quanto mi vergognava di ciò, che li miei occhi aveano così vaneggiato.
Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.
Lasso! per forza di molti sospiri
che nascon de' penser che son nel core,
li occhi son vinti, e non hanno valore
di riguardar persona che li miri.
E fatti son che paion due disiri
di lagrimare e di mostrar dolore,
e spesse volte piangon sì ch'Amore
li 'ncerchia di corona di martìri.
Questi penseri, e li sospir ch'eo gitto,
diventan ne lo cor sì angosciosi,
ch'Amor vi tramortisce, sì glien dole;
però ch'elli hanno in lor, li dolorosi,
quel dolce nome di madonna scritto,
e de la morte sua molte parole.
XL.
[XLI] Dopo questa tribulazione avvenne, in quello tempo che molta gente va per vedere quella imagine benedetta la quale Jesu Cristo lasciò a noi per esemplo de la sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente, che alquanti peregrini passavano per una via la quale è quasi mezzo de la cittade ove nacque e vivette e morìo la gentilissima donna.
Li quali peregrini andavano, secondo che mi parve, molto pensosi; ond'io pensando a loro, dissi fra me medesimo: «Questi peregrini mi paiono di lontana parte, e non credo che anche udissero parlare di questa donna, e non ne sanno neente; anzi li loro penseri sono d'altre cose che di queste qui, ché forse pensano de li loro amici lontani, li quali noi non conoscemo».
Poi dicea fra me medesimo: «Io so che s'elli fossero di propinquo paese, in alcuna vista parrebbero turbati passando per lo mezzo de la dolorosa cittade».
Poi dicea fra me medesimo: «Se io li potesse tenere alquanto, io li pur farei piangere anzi ch'elli uscissero di questa cittade, però che io direi parole le quali farebbero piangere chiunque le intendesse».
Onde, passati costoro da la mia veduta, propuosi di fare uno sonetto ne lo quale io manifestasse ciò che io avea detto fra me medesimo; e acciò che più paresse pietoso, propuosi di dire come se io avesse parlato a loro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Deh! peregrini che pensosi andate".
E dissi 'peregrini' secondo la larga significazione del vocabulo; ché peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria; in modo stretto, non s'intende peregrino se non chi va verso la casa di sa' Iacopo o riede.
E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de l'Altissimo: chiamansi "palmieri", in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi "peregrini", in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di sa' Iacopo fue più lontana de la sua patria che d'alcuno altro apostolo; chiamansi "romei", in quanto vanno a Roma, là ove questi cu' io chiamo "peregrini" andavano.
Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.
Deh! peregrini che pensosi andate,
forse di cosa che non v'è presente,
venite voi da sì lontana gente,
com'a la vista voi ne dimostrate,
che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che 'ntendesser la sua gravitate.
Se voi restaste per volerlo audire,
certo lo cor de' sospiri mi dice
che lagrimando n'uscireste pui.
Ell'ha perduta la sua beatrice;
e le parole ch'om di lei pò dire
hanno vertù di far piangere altrui.
XLI.
[XLII] Poi mandaro due donne gentili a me, pregando che io mandasse loro di queste mie parole rimate; onde io, pensando la loro nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova, la quale io mandasse a loro con esse, acciò che più onorevolemente adempiesse li loro prieghi.
E dissi allora uno sonetto lo quale narra del mio stato, e mandàlo a loro co lo precedente sonetto accompagnato, e con un altro che comincia: "Venite a intender".
Lo sonetto lo quale io feci allora, comincia: "Oltre la spera"; lo quale ha in sé cinque parti.
Ne la prima dico là ove va lo mio pensero, nominandolo per lo nome d'alcuno suo effetto.
Ne la seconda dico perché va là suso, cioè chi lo fa così andare.
Ne la terza dico quello che vide, cioè una donna onorata là suso; e chiamolo allora 'spirito peregrino', acciò che spiritualmente va là suso, e sì come peregrino lo quale è fuori de la sua patria, vi stae.
Ne la quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitade, che io non lo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale ne la qualitade di costei in grado che lo mio intelletto no lo puote comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intelletto s'abbia a quelle benedette anime, sì come l'occhio debole a lo sole: e ciò dice lo Filosofo nel secondo de la "Metafisica".
Ne la quinta dico che, avvegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, cioè a la sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, cioè che tutto è lo cotale pensare de la mia donna, però ch'io sento lo suo nome spesso nel mio pensero: e nel fine di questa quinta parte dico 'donne mie care', a dare ad intendere che sono donne coloro a cui io parlo.
La seconda parte comincia quivi: "intelligenza nova"; la terza quivi: "Quand'elli è giunto"; la quarta quivi: "Vedela tal"; la quinta quivi: "So io che parla".
Potrèbbesi più sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare intendere; ma puòtesi passare con questa divisa, e però non m'intrametto di più dividerlo.
Oltre la sfera che più larga gira,
passa 'l sospiro ch'esce del mio core:
intelligenza nova, che l'Amore
piangendo mette in lui, pur sù lo tira.
Quand'elli è giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore,
e luce sì che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando 'l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
XLII.
[XLIII] Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei.
E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com'ella sae veracemente.
Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna.
E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui "qui est per omnia secula benedictus".
...
[Pagina successiva]